Category Archives: Senza categoria

LA NUVOLA DI FUKSAS

“Quer pasticciaccio brutto del Nuovo Centro Congressi di Roma”

di Fabrizio Paolinelli

Il Nuovo Centro Congressi di Roma rappresenta un tipico pasticcio all’italiana. Pasticcio i cui ingredienti sono costituiti dal velleitarismo del ceto politico, dalla scarsa capacità di pianificazione della pubblica amministrazione, dai costi stratosferici a carico dei contribuenti, dalla voracità delle élite al potere e da errori tecnici nella realizzazione del progetto. Ma per fortuna c’è chi ancora pensa al bene comune e in tanti hanno criticato e criticano tutt’oggi la grande opera pubblica della capitale – per dimensioni la più importante mai realizzata da cinquant’anni a questa parte.

<<==Prof. Patrizio Paolinelli

Le contestazioni iniziano dalla scelta del sito: il quartiere Eur. Ritenuto da urbanisti, personalità della cultura e residenti carente di adeguate infrastrutture e inadatto ad ospitare un polo di tale portata. Oggi, a lavori ultimati, il Nuovo Centro Congressi ha una capienza complessiva di circa 8mila posti e occupa una superficie pari a 55mila mq ripartita in tre distinti elementi architettonici: 1) la Teca – un contenitore in acciaio e vetro che racchiude al suo interno la Nuvola – è alta 39 metri (48 dal livello interrato), larga 70 e lunga 175; 2) la Nuvola – costruita in fibra di vetro e silicone ignifugo – costituisce il fulcro del progetto; ha una sagoma che nelle intenzioni di Fuksas dovrebbe rappresentare una nube a forma di cumulo e al suo interno trova posto, tra l’altro, un auditorium da 1.800 posti; 3) il ciclopico Hotel di lusso La Lama – 17 piani, pari a 55 metri di altezza – comprende 439 stanze, sette suite, un centro benessere, un’area fitness, un bar, un ristorante e un parcheggio interrato per 600 posti auto. Per la costruzione dell’intero complesso sono state impiegate 37mila tonnellate di acciaio (pari a cinque volte la Tour Eiffel) e circa 58mila metri quadrati di vetro (pari a sette campi da calcio).

Gli ultimi due dati suggeriscono quanto poco fosse fattibile un’opera del genere. Infatti per la sua realizzazione tutte le programmazioni sono saltate. Ecco in breve la tormentata storia di un progetto che dall’idea alla sua realizzazione ci ha messo quasi vent’anni. Nel 1998 il Comune di Roma, guidato dal sindaco Rutelli, e l’allora Ente Eur indicono un concorso internazionale per la progettazione di un nuovo centro congressi. Il 16 febbraio del 2000 la giuria dichiara vincitore il progetto di Massimiliano Fuksas. Un mese dopo l’Ente Eur, proprietario dell’opera, diventa una Spa (90% Ministero dell’Economia e 10% Comune di Roma). La posa della prima pietra è programmata per la fine del 2001 e il costo del polo congressuale è stimato intorno a 260 miliardi di lire (corrispondenti a circa 135 milioni di euro). Nel 2002 la gara d’appalto è affidata a un consorzio di imprese, Centro Congressi Italia Spa, ma ci vogliono ben due anni per approvare il progetto definitivo. Tutto a posto? Macché. Nel dicembre 2005 Eur Spa e Centro Congressi Italia Spa risolvono consensualmente l’atto di concessione. Si torna così al punto di partenza. Stavolta si aggiudica la gara d’appalto Condotte Spa. Nel frattempo il costo stimato per il polo congressuale è salito a 277 milioni di euro.

Finalmente l’11 dicembre 2007, durante l’ultimo scorcio dell’amministrazione Veltroni, viene posata la prima pietra e l’inaugurazione è prevista per la fine del 2012. Il nuovo sindaco, Gianni Alemanno, sposta la data del lieto evento al 31 gennaio 2013. Ma le casse di Eur Spa sono ormai vuote mentre i costi, a differenza della Nuvola, salgono in alto nei cieli toccando 413,8 milioni di euro. I soldi però non ci sono. Allora ci mette una pezza il governo con la Legge di stabilità che destina 100 milioni di euro per la conclusione dell’opera (un prestito che a detta dei più non sarà mai restituito). L’obiettivo di fine lavori si sposta così a fine 2015, in concomitanza con l’Expo di Milano sognando una collaborazione tra l’Urbe e il capoluogo lombardo. Il sogno è di breve durata e si torna alla dura realtà. Fuksas litiga pesantemente con l’allora presidente di Eur Spa, Pierluigi Borghini, a cui dà pubblicamente dell’incompetente e del “Venditore di lampadine”.

Nel bel mezzo di questo gioco al massacro il cantiere rischia la chiusura per mancanza di fondi, l’albergo La Lama non trova acquirenti (sarà poi venduto nel dicembre 2017 con uno sconto di circa 20 milioni di euro rispetto a quanto preteso inizialmente), Eur Spa è a un passo dal fallimento (anche per altri azzardi immobiliari) e Fuksas minaccia di ritirare la firma dal progetto perché a suo parere le ditte subappaltanti svolgono male i lavori. Intanto i costi dell’opera continuano a salire. Il sottosegretario all’Economia, Paola De Micheli, parla di 467 milioni e sulla stampa si arriva a 500 milioni. Superficiale arrotondamento da parte dei giornalisti? Difficile dirlo perché è ancor più difficile ricostruire al centesimo la vera cifra di un progetto che ha subito dieci varianti nel corso degli anni. Infine il miracolo: il 29 ottobre 2016 si tiene l’inaugurazione del Nuovo Centro Congressi con tanto di diretta televisiva su Rai 1. Inaugurazione a cui Fuksas dichiara polemicamente di non essere sicuro di voler partecipare, ma poi si convince e presenzia all’evento. Giusto in tempo per assistere ai fischi indirizzati all’attuale sindaca di Roma, Virginia Raggi, rea di aver sommessamente fatto notare criticità e ritardi all’interno di un discorso peraltro elogiativo per le qualità estetiche della Nuvola e colmo di speranza per il futuro del polo congressuale.

Gli strascichi di questo enorme pasticcio continueranno a condizionare a lungo la vita del Nuovo Centro Congressi. Intanto c’è da dire che l’Hotel La Lama è talmente a ridosso della Teca da costituire un vero e proprio shock antiestetico (traduzione: è un pugno in un occhio). Sarà per questo motivo che Fuksas e Eur Spa precisano che l’hotel “è pensato come una struttura indipendente e autonoma”? Eppure la stretta vicinanza tra i due edifici suggerisce che un rapporto c’è, quantomeno per opposizione. La Nuvola è infatti collocata in una teca trasparente e di notte è illuminata come una scintillante vetrina che mette in mostra il suo manichino. La facciata dell’hotel invece è in vetrocamera di colore nero risultando impenetrabile allo sguardo. Dunque è assente dalla Lama lo stato di grazia che caratterizza ogni trasparenza. Per di più l’hotel, più alto della Teca, sembra un’ombra minacciosa che incombe sulla Nuvola. Un semplice calcolo di convenienze ad uso e consumo dello sguardo? O siamo dinanzi a un’architettura-spettacolo? Un’architettura intesa come gioco di immagini, la cui ultima preoccupazione è il contesto territoriale e l’umanità che lo abita?

Per quanto viviamo in una società smemorata la storia pesa sul presente. E lo storico pasticcio del nuovo polo congressuale di Roma emerge sotterraneamente nel rapporto tra il nome e la cosa.  Tant’è che ancor oggi si registrano parecchie differenze su come chiamare la struttura: “Roma Convention Center” (per Eur Spa), “Nuovo Centro Congressi Roma EUR e Hotel” (per lo Studio Fuksas), “La Nuvola di Fuksas” (per gran parte della stampa), più diversi mix a piacere di tali denominazioni e una serie di corrosivi nomignoli: “La Fuffas”, “Il Pillolone”, “Il Palloide”, “La scoreggia fritta” e così via. Nomignoli che suggeriscono quanto per molti osservatori la Nuvola di Fuksas non sia affatto percepita come tale. A me sembra un enorme baccello alieno, soprattutto di notte quando è attraversata da fasci di luce multicolore. E poi a vederla da vicino la Nuvola tutto è tranne che un inno alla leggerezza. Tornando ai nomi Fuksas era contrario a chiamare la sua opera La Nuvola preferendogli un titolo più trendy: The Floating Space, (Lo spazio fluttuante). In fondo gli è andata bene che sia stata fatta un’altra scelta perché il progetto preliminare è stato stravolto: prevedeva infatti che la Nuvola dovesse essere sospesa nel vuoto grazie a una serie di tiranti fissati alla Teca. Ma poi sembra che l’idea fosse irrealizzabile e così il vago cumulo di Fuksas è sceso dal cielo e ha piantato i piedi per terra.

Qual è stata la strategia che ha presieduto all’idea di costruire un nuovo polo congressuale nella capitale? In teoria l’architettura dovrebbe contribuire a far vivere meglio le persone e a favorire la socializzazione, mentre le grandi opere dovrebbero avere anche la funzione di trainare verso l’alto l’architettura corrente di un determinato territorio. Il Nuovo Centro Congressi di Roma è invece orientato verso il puro business. Così, vista l’attuale dittatura del profitto sulla società, non c’è alcun pudore nel rivelare la mission di un’opera volta esclusivamente a fare quattrini più che costituire un polo di attrazione per i residenti. Ha dichiarato il Presidente di Eur Spa, Roberto Diacetti: “A valle di un percorso complesso ed impegnativo realizziamo una grande opera, importante sia per la città di Roma, sia per il Paese. Tale realizzazione connoterà il quadrante Eur non solo come business district ma anche come attrattore del turismo congressuale, consentendo a Roma di posizionarsi al pari delle grandi capitali del mondo”.

Ma si faranno davvero i quattrini con il Nuovo Centro Congressi? Detto in parole meno povere, quali saranno le ricadute economiche su Roma e la sua area metropolitana? Nelle intenzioni di Eur Spa la nuova opera dovrebbe attrarre trai 200/300mila congressisti all’anno per un impatto economico sul territorio valutato tra i 300 e i 400 milioni di euro. Proiezioni che al momento sembrano un miraggio. Certo, si può registrare il recente successo di pubblico della Fiera della Piccola e Media Editoria “Più libri più liberi” tenuta in precedenza a due passi dalla Nuvola, nel Palazzo dei  Ricevimenti e dei Congressi progettato negli anni ’30 da Adalberto Libera. Ma in questo caso non sono occorse grandi strategie di marketing: si è semplicemente spostato quel che già esisteva. Il problema è inventare il futuro. Qualche segnale positivo c’è. Per il 2018 la Nuvola si è infatti  assicurata il congresso internazionale degli avvocati (6mila delegati) e laconferenza annuale dell’International Bar Association (altri 6mila delegati). Numeri importanti, ma insufficienti per raggiungere gli obiettivi prefissati.

Ovviamente, visto che non si può tornare indietro, speriamo che il Nuovo Centro Congressi si regga sulle sue gambe e non continui a mungere denaro pubblico. Tuttavia non ci si può esimere dall’interrogarsi sul senso dell’intera opera per non rifare pasticci del genere. Roma è già una meta del turismo congressuale con numeri di tutto rispetto. Aveva necessità di lanciare una sfida alle grandi e consolidate realtà italiane ed europee? E’ sufficiente il Nuovo Centro Congressi per fare la guerra a Milano, Parigi, Berlino, Barcellona e Amsterdam? Proprio la Nuvola ha dimostrato vergognosi problemi di governance fino all’umiliazione dello spostamento dell’intero complesso di circa due metri. Spostamento causato da una serie di clamorosi errori di cui nessuno si era accorto durante gli otto anni di costruzione provocando il restringimento di un’arteria molto importante per la città, viale Europa, una delle quattro strade che confinano con il Nuovo Centro Congressi. Appresa la notizia Fuksas dichiarò: “Sono scioccato”. In seguito lo stesso Fuksas ha definito Eur Spa, “La più insensata società-carrozzone d’Italia” e ha vivamente consigliato di far gestire la sua creatura ai tedeschi. Ma la frittata è fatta. E’ sotto gli occhi del mondo intero che i principali momenti del progetto Nuvola – fattibilità, costi, tempi, professionalità – sono stati uno per uno esempi di levantina approssimazione. Ed è con questo pesante discredito che lanciamo la sfida sul mercato internazionale del turismo congressuale.

Per farla breve, della Nuvola la capitale non aveva proprio bisogno. Roma è una delle città d’arte più importanti del mondo, forse la più importante, e così com’è è già satura di turisti. Non sarebbe stato meglio rimodellare gli spazi urbani in maniera più minuta, intervenendo ad esempio sulla viabilità, o ancor più semplicemente realizzando nuovi parcheggi (magari con qualche albero), riparare i dissestati marciapiedi del centro città e coprire le buche nelle strade? Astenendoci dall’affrontare l’annoso problema della riqualificazione delle periferie, per residenti e turisti non sarebbe stato meglio realizzare nuove aree pedonali e migliorare quella pena che sono i trasporti pubblici della capitale? Sul piano strategico non sarebbe stato più fruttuoso destinare i 400-500 milioni spesi per la Nuvola a favore del turismo storico-artistico rafforzando ancor più il primato della città eterna? E in tutta questa commedia dell’approssimazione che ne sarà del vecchio e glorioso Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi distante un tiro di schioppo dal nuovo polo congressuale?

Al di là delle opposte prese di posizione che quasi sempre accompagnano le grandi opere pubbliche italiane è l’idea di ingabbiare una nuvola all’interno di una teca che non ci è sembrata fino ad oggi discussa come invece meriterebbe. Sui motivi ispiratori occorre dare la parola a Fuksas: “Questo progetto viene da una riflessione che ha inizio negli anni ’90: la trasvolata dell’Atlantico che facevo ogni quindici giorni mi dava un senso di questo nuovo rapporto che c’è tra il sopra delle nuvole e il sotto delle nuvole. Cercare di realizzare una geometria che parta dalla natura, che sia complessa ma sia anche realizzabile, è stato quello che abbiamo fatto qui. … L’idea del progetto era quella di avere una specie di teca di vetro e all’interno avere un oggetto completamente privo di una geometria definita elementare, come si dice: euclidea” (Rai 3, La storia siamo noi, 5 gennaio 2013).

La prospettiva di Fuksas è più che legittima, comprensibile e per diversi esperti del tutto condivisibile (come per Achille Bonito Oliva, che ha definito la Nuvola “uno shock estetico”). Ma le nuvole possono essere osservate anche da altri punti di vista. Una pluralità interpretativa che esiste praticamente da sempre. Alcuni esempi. Nella Grecia classica Zeus è il dio della pioggia, il raccoglitore delle nubi e il dispensatore dei fulmini. Secondo antiche tradizioni indù le nuvole a forma di cumulo sono cugine spirituali degli elefanti. Nell’immaginario cristiano le nuvole costituiscono un simbolo che permette di distinguere il mondo umano da quello divino. Tant’è che Raffaello e Tiziano rappresentano quasi sempre la Madonna sospesa su verginali nuvole, mentre Bernini mostra Santa Teresa in estasi tra le pieghe di un cumulo scolpito nel travertino. E per Cartesio le nuvole costituiscono il “Trono di Dio” per il semplice fatto che per vederle dobbiamo alzare gli occhi al cielo.

Si potrebbe continuare a lungo, ma per chiudere la carrellata dei punti di vista sulle nuvole resta da dire che da alcuni secoli per gli scienziati queste vaporose creature costituiscono un fenomeno naturale e per i comuni mortali, grandi o piccini che siano, un irresistibile spettacolo o un motivo per sognare ad occhi aperti. Qualsiasi sia la prospettiva da cui le si osserva le nuvole presentano due caratteristiche distintive: 1) sono a disposizione di tutti in ogni angolo del mondo; 2) sono gratuite, laddove gratis non è un escamotage per vendere qualcosa. In virtù di queste due caratteristiche le nuvole rappresentano quanto di più democratico si possa immaginare. E che ha fatto Fuksas? Le ha messe in gabbia. In altre parole ha sublimato il carattere predatorio del neolibersimo. La conferma materiale ci viene dalla stratosferica parcella per la realizzazione della sua Nuvola: 24 milioni di euro. Un’offesa per chi lavora. Ma per completezza di informazione occorre dire che l’archistar respinge ogni critica dichiarando a mezza bocca che lui con la Nuvola alla fin fine ci ha rimesso perché è stato distolto da altri lavori tenendo conto che dei 24 milioni la metà se ne sono andati in spese per il team di specialisti che lavora con lui (ingegneri, geologi ecc.) e il resto è tassato al 50%.  Di diverso avviso è la Corte dei Conti. Secondo la quale Fuksas e i membri che hanno composto il consiglio di amministrazione di Eur Spa dal 2010 al 2012 devono restituire 3,5 milioni di euro per compensi ingiustificati. Vedremo come andrà a finire. Il pasticcio continua.

Patrizio Paolinelli, via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, 13 gennaio 2018. ( Per gentile concessione).


Era di Maggio …

di Nadia Gambilongo

… e i Giardini di Eva dopo un lungo inverno trascorso quasi sempre al chiuso, hanno potuto finalmente organizzare un incontro in presenza all’aperto

<<== dott.ssa Nadia Gambilongo, sociologa

I soci dell’associazione hanno scelto di radunarsi in uno spazio verde dalla grande valenza simbolica: il Cerchio delle querce salvato nel 2018 dai tagli e dalle ruspe. Si sono incontrati con le amiche e amici di sempre e i nuovi membri della fitta e diffusa rete di ambientalisti, attivisti che in questi mesi si sono riuniti a distanza, in video conferenza, intorno a temi importanti come la salute, l’ambiente;  ritenuti quest’ultimi assolutamente prioritari, visti i tempi difficili che stiamo attraversando a causa della pandemia.

L’iniziativa del 29 maggio è stata molto partecipata e ha cercato di raccogliere e esprimere nei migliori dei modi queste istanze, questi desideri, emersi nei numerosi incontri organizzati a distanza  sul rilancio del Progetto Donna e sulle politiche di genere. Un anno operoso fatto di un lavoro puntuale e costante che ha promosso  a tutti i livelli la cittadinanza attiva: nei forum, nelle alleanze, nelle reti territoriali, seppure dal chiuso delle nostre case collegate via internet.

Gli incontri a distanza sono serviti anche ad attutire gli effetti coercitivi dei lockdown, ma hanno contribuito a costruire le basi per una riflessione comune su un mondo arrivato, purtroppo, in un punto di non ritorno, per la sua evidente insostenibilità emersa ormai a tutti i livelli. La realtà  messa a nudo dalla pandemia  ci sollecita a cambiare il nostro modo di vivere e ci esorta a trasformare radicalmente il contesto in cui viviamo: se veramente vogliamo che il pianeta sopravviva all’impatto generato dai sapiens negli ultimi decenni!

Il cerchio delle querce: allestimento del campo

Con rinnovata speranza I giardini di Eva, insieme ai principali partner della rete si sono ritrovati nel Cerchio delle querce di Viale dei Giardini a Rende. Un centinaio di persone tra donne, uomini  e giovani,  per raccontarsi tutti insieme il contributo da dare al cambiamento, per tessere la trama di un nuovo tessuto sociale, culturale e ambientale.

Sostanzialmente, è emerso che è necessario migliorare la qualità delle relazioni tra i generi e le generazioni, che bisogna dare un segnale tangibile di cambiamento nella gestione dei beni comuni, nell’abitare i quartieri, nel vivere le piazze e gli spazi verdi. Soprattutto, bisogna dare buoni esempi, all’insegna della  concretezza: com’è possibile trasformare gli spazi comuni color cemento, per migliorarli e con il contributo di tutti renderli luoghi accoglienti, salutari, verdi?

Si tratta di un impegno concreto per il cambiamento a partire da sé, dalla propria esperienza, dal proprio quotidiano: questo il punto chiaro che è stato focalizzato come obiettivo principale dall’iniziativa di maggio.

Il quartiere di Viale dei Giardini, rappresenta un esempio virtuoso in questo senso, un’opportunità  per sperimentare concretamente questo nuovo modo di vivere, abitare e di interagire con una realtà sostanzialmente periferica che fino a qualche anno fa  era piuttosto malandata, e avviata verso un lento ma inesorabile declino.

La striscia di terra abbandonata e ripulita dai soci i “Giardini di Eva”: messa a dimora piante

Viale dei Giardini solo dieci anni fa era un quartiere dormitorio piuttosto decadente con tanti cartelli vendesi un po’ ovunque. Costruito nei primi anni ’90, le facciate delle case e delle palazzine realizzate in forma cooperativa, dopo appena un ventennio davano già i primi segni di decadenza tipici di costruzioni modeste,  fatte in economia. Crepe sui muri delle facciate ingrigite, cedimenti dei cornicioni a vista, le strade piene di buche con l’asfalto logoro, gli spazi verdi comuni erano incolti e spesso ingombri di rifiuti e di auto: era questo lo scenario desolante che si mostrava ai rari visitatori del quartiere. Inoltre, nei pressi del fiume Surdo, che confina con il lato sud del quartiere, c’era un lembo del letto del torrente, quasi sempre asciutto, che spesso si riempiva di rifiuti ingombranti, e diventava una specie discarica abusiva di rifiuti e di materiali di risulta a cielo aperto; si trattava in gran parte di scarti generati da piccole manutenzioni, mattonelle, cemento, qualche water, lasciati dagli operai, che magari a poco prezzo o in nero avevano riparato qualche bagno nel quartiere o nei dintorni. I bidoni della raccolta differenziata spesso venivano riempiti di rifiuti non conferiti correttamente  e l’indifferenziata diventava una sorta di ultima spiaggia per chochard e poveri immigrati  che di tanto in tanto si calavano nei  bidoni per raccogliere materiali da riutilizzare e riciclare in qualche modo. Uno scenario veramente desolante, si apriva agli occhi dei residenti e dei rari visitatori.

I bambini giocavano esclusivamente nei propri cortili, raramente si incontrava qualcuno camminare a piedi nell’anello stradale che circonda il quartiere.

Un ricordo personale va a quando mia figlia era piccola e passeggiavo con la carrozzina lungo il marciapiede  deserto. Incontravo di tanto in tanto solo qualche anziano, magari partiva un saluto e qualche chiacchiera, ma l’assenza di una piazza, di una panchina riduceva al minimo i contatti umani; rimanevano fortunatamente gli incontri con la flora e la fauna della zona piuttosto rigogliosa che nella bella stagione ci regalavano momenti di gioia e di sorpresa per me e la mia bambina.

La superstrada e l’autostrada circondano da sempre il quartiere come una ferita in mezzo al verde delle querce e delle acacie, che in primavera si riempiono di fiori odorosi bianchi e di un verde brillante. Ad Est l’Autostrada, ad Ovest la Superstrada,  mentre il fiume Surdo taglia naturalmente da Nord a Sud il quartiere completando i confini di una sorta di isola. Un’isola in mezzo al nulla che la porta ad essere fisicamente  tagliata fuori dal resto dell’area urbana, priva di servizi di base, ma fortunatamente verde  con una vegetazione incredibilmente lussureggiante. Certo, la costruzione di un ponte pedonale o carrabile avrebbe alleviato l’isolamento collegando il quartiere a Saporito, e in qualche modo al resto dell’area urbana; ma  questa richiesta accorata e del tutto  legittima di collegamento del quartiere non è stata ancora stata trasformata in realtà, anche se pare ci sia un progetto in comune.

Questo sostanzialmente il quadro della situazione prima del 2012. Ma ad un certo punto la storia del quartiere prende una strada diversa,  nasce l’associazione di volontariato I giardini di Eva. L’associazione interviene a partire dal quartiere e poi a livello regionale.

<<== Omaggio a Agitu Ideo Gudeta (di Gaia Landri)

Nella primavera dello stesso anno mette a dimora le prime piante del terrazzo di mia madre che senza le sue cure amorevoli avrebbero rischiato di morire. I grandi vasi rimasti orfani dell’accudimento di  Eva Greco, hanno trovato una nuova dimora vicino le nostre abitazioni, in modo che poterle curarle più facilmente e godere in qualche modo della loro presenza; ma incredibilmente e tristemente  un vicino ottuso e violento ha avvelenato alcune di queste piante, iniziando da quelle più vicine a casa sua, (sembrerebbe  per paura dei ladri che avrebbero potuto arrampicarsi su i piccoli alberelli)!

Le socie decisero allora di piantarne delle altre, e altre ancora per attutire il dolore della perdita …

Di fronte le loro abitazioni c’era una piccola striscia di terreno incolto e abbandonato, una sorta di terra di nessuno. Quella striscia di terra lunga un centinaio di metri e larga un paio di metri non era condominiale, per cui il giardiniere dello stabile, nonostante le sollecitazioni, non intendeva prendersene cura; ma quella terra di nessuno non era neppure pubblica, poiché apparteneva al vecchio proprietario del terreno, dove erano state costruite le palazzine, per questo motivo il giardiniere comunale riteneva che non fosse affare suo. Pertanto, erbacce, carte e rifiuti di ogni genere la facevano da padrone, e rimanevano in questo spazio per settimane e a volte mesi, in attesa di qualche persona di buona volontà che le raccogliesse, o di qualche colpo di vento che le trasportasse più in là; a farne le spese era il boschetto vicino di querce  confinante con la superstrada e le case.

Inizialmente, quando i vicini del quartiere osservavano le volontarie dei Giardini di Eva che ripulivano e piantavano alberi e piante in spazi pubblici si chiedevano meravigliati come mai. Perché lo facevamo, e quando rispondevamo loro che in attesa dell’intervento del comune preferivamo dare il buon esempio, rimanevano un po’ interdetti,  alcuni piuttosto scettici, ma c’era anche una piccola minoranza che ci ringraziava di cuore.

Alcuni addirittura sembravano sospettosi, “ma perché questi si prendono cura di uno spazio che non è loro?” Magari mirano ad appropriarsene! Era questa la domanda stampata sui loro volti. I più schietti lo dicevano apertamente, altri mostravano solo perplessità. Ma col passare degli anni avveniva sempre più spesso che ci ringraziavano sinceramente, e  magari ci davano anche consigli sulle essenze da piantare; ma quando gli suggerivamo che potevano prendere l’iniziativa anche loro si schermivano, ma col tempo il seme del buon esempio è germogliato.

Un giorno di primavera l’associazione dei Giardini di Eva decise di organizzare una prima iniziativa pubblica con i ragazzi dell’Istituto comprensivo Giovanni Falcone del quartiere vicino, insieme misero a dimora una cinquantina di piante tra alberi e arbusti, fu un’iniziativa bellissima, molto coinvolgente. Le bambine e i ragazzi erano entusiasti, le immagini scattate rimandano ad un’atmosfera gioiosa e divertente, di grande partecipazione. Con alcuni studenti ed insegnanti si è creato un legame duraturo nel tempo con le socie e insieme continuano a prendersi cura delle piante.

Nel quartiere come in un piccolo paese, la gente aveva preso a mormorare su questi accadimenti, molti erano contenti per le migliorie apportate al quartiere dall’Associazione I giardini di Eva: le piante, le panchine donate, la cura degli spazi comuni, gli eventi che animavano il circondario, e  anche gli amministratori del comune si erano fatti più attenti e disponibili alle esigenze degli abitanti della zona, e spesso prendevano parte anche loro alle iniziative pubbliche. Per un certo periodo nacque anche un Comitato di quartiere che realizzò un’agenda delle priorità per i cittadini residenti, al primo punto, ovviamente, il ponte sul fiume Surdo!  Il comitato partecipò anche alla pianificazione e alla progettazione di alcuni interventi di recupero e manutenzione delle piazzette e degli spazi comuni. Purtroppo, il comitato si è sciolto in occasione delle ultime elezioni comunali per evitare sovrapposizioni politiche e ambiguità, anche per questo i Giardini di Eva aderiscono alle buone pratiche politica di coprogettazione, ma sono lontani dalle logiche elettorali e dai partiti.

Negli ultimi dieci anni, I Giardini di Eva hanno messo a dimora più di 200 piante lungo il viale, sono state donate 4 panchine e vari cestini per i rifiuti. Inoltre, l’associazione insieme alla rete di organizzazioni ambientaliste ha protetto il fiume dal taglio periodico degli alberi per la cosiddetta “pulizia degli argini”,  ha vigilato sulla discarica abusiva in prossimità del torrente. Molte iniziative pubbliche sono state intraprese coinvolgendo i cittadini, le istituzioni, la scuola e altre organizzazioni di volontariato. Da allora anche  i singoli condomini hanno ripreso a fare più spesso la manutenzione ordinaria degli stabili e delle facciate,  la cura per il decoro urbano da parte dell’amministrazione è diventata più accurata. Nel tempo altre piante sono state vandalizzate, alcune anche rubate dopo la messa a dimora, ma sempre sono state sostituite dalle volontarie e dai soci dei Giardini di Eva con altri alberi e piante officinali. La battaglia più difficile la combattiamo ancora con il taglia erbe della Rende Servizi che negli anni ha mietuto numerose vittime. Nel frattempo, la raccolta differenziata porta a porta è divenuta una realtà, anche se per alcuni condomini è ancora in progress.

maggio 2021

Più recentemente, anche alcune persone anziane aiutate dai nipoti hanno preso a curare le piante e a mettere a dimora  qualche pianticella. Dunque,  il messaggio della cura e della valorizzazione del territorio a partire da sé è passato, il quartiere non è più terra di nessuno, le piazzette ripristinate dal comune ospitano a tutte le ore del giorno bambini, ragazzi e persone di ogni età del quartiere, ma anche delle zone vicine. Certo, l’associazione ambientalista I giardini di Eva non avrebbe voluto l’erba di plastica per il campetto di calcio, ma vederlo sempre pieno di ragazzi che giocano a pallone ad ogni ora è, comunque, una gioia!

Il quartiere adesso è animato, anche il valore delle abitazioni sembra essere aumentato, i cartelli vendesi non si vedono più, ma in compenso arrivano telefonate dalle agenzie che chiedono se si vende qualche appartamento, magari agli ultimi piani, e quelli più prestigiosi. Orami è diventato una consuetudine vedere persone anche degli altri quartieri passeggiare in Viale dei Giardini, corrono, fanno sport nel campetto di calcio, fanno jogging, ci sono tant* ragazz* che vanno in bicicletta; anche se ancora non c’è una pista ciclabile, prima o poi si spera che verrà costruita! All’ultima iniziativa di maggio promossa dai Giardini di Eva hanno partecipato numerosi componenti  della rete ambientalista: MEDiterranean MEDIA l’associazione Artemis di Grisolia, Fiab Cosenza Ciclabile, Lipu di Rende e Regionale,  la Bottega Sociale, AiParC, l’assessore Marta Petrusevicz e  anche tanti cittadini del quartiere e dell’area urbana.

Il giro in bici sui parchi fluviali con la Fiab, la scoperta della fauna selvatica del posto a cura della Lipu, la messa a dimora di due viti, due glicini, due susine, due pistacchi, un ligustro, un’acacia, donati da Artemis e dal CSV di Cosenza, gli stand curati da Gaia Landri  e da Mariarosaria Putignano hanno arricchito la giornata. L’evento di maggio divertente e riuscitissimo si è concluso con un momento conviviale, l’aperitivo realizzato con le prelibatezze calabresi e marocchine, le pizze rustiche preparate dagli amici e dalle socie ci ha visto sereni all’ombra del querce salvate nel 2018 dal taglio indiscriminato che abbiamo protetto armati solo di un filo di lana e di una penna per qualche denuncia.

E’ stato bello stare nuovamente insieme fianco a fianco in cerchio, sebbene a qualche metro di distanza, in serenità e condividendo esperienze, saperi e sapori genuini. La prossima iniziativa si terrà in autunno con le ragazze e i ragazzi dell’Istituto Comprensivo Giovanni Falcone di Rende, di stagione in stagione il mondo cambia e anche noi .

Il cerchio delle querce salvato dai tagli incauti dell’amministrazione lo abbiamo dedicato ad  Agitu Ideo Gudeta, sociologa, imprenditrice, attivista vittima di femminicidio lo scorso anno. Ci auguriamo che la sua bella anima ispiri le nostre azioni.

Nella prossima primavera 2022 ci auguriamo di poter mettere a dimora l’albero della pace che ci è stato donato dalla Fondazione “Green Legacy Hiroschima” aderente all’Unesco giapponese. Il bombardamento atomico del 6 Agosto 1945 uccise un terzo dei cittadini di Hiroshima. I sopravvissuti temevano che nella città in rovina per anni non sarebbe più cresciuto nulla per decenni; invece dopo qualche anno gli alberi hanno ripreso incredibilmente a germogliare, tra questi il Ginkgo biloba del Tempio Hosebo di Temarachi. Il nostro piccolo Ginkgo biloba è figlio di questi alberi sopravvissuti al bombardamento atomico e porta con sé un messaggio di speranza e di pace di cui ci onoriamo di portare il seme.


Dita danzanti. Il tatto e lo smartphone

di Patrizio Paolinelli

Il modo di utilizzare lo smartphone (telefono intelligente) è il risultato di studi di ergonomia cognitiva focalizzati intorno al concetto di usabilità. Concetto tramite il quale viene stabilito il grado di facilità e di soddisfazione con cui l’utente interagisce con l’interfaccia grafica . Ovviamente per il successo del telefono intelligente insieme all’ergonomia cognitiva intervengono anche altri fattori quali il business, il marketing, il design, l’innovazione tecnologia, la moda e così via.

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

A parte questi fattori sul piano dell’usabilità emergono alcuni aspetti distintivi dello smartphone: 1) costituisce uno strumento di successo planetario utilizzato nel 2015 da un miliardo e 300 milioni di persone; 2) ha comportato per gli utenti l’apprendimento di un nuovo saper fare delle mani caratterizzato da precisione e delicatezza; 3) per l’attenzione e la sensibilità richieste tale saper fare presenta una gestualità annoverabile tra le pratiche delle buone maniere. Riflettendo sugli ultimi due punti si può notare che già la tastiera del computer (e in precedenza quella delle macchine da scrivere) necessita di una forza fisica minima e di un trattamento assai garbato. Tuttavia, se è possibile “pestare sulla tastiera”, la stessa immagine non è pensabile per il touch-screen (schermo tattile). Per far funzionare lo smartphone è infatti sufficiente poggiare leggermente la punta delle dita sul display. Leggerezza peraltro obbligata perché è inutile e dannoso esercitare forti pressioni.

I gesti gentili e disciplinati richiesti dai device mobili non comportano automaticamente né nobiltà d’animo né buona creanza. Cellulari e smartphone hanno infatti facilitato il fenomeno dello stalking, possono provocare dipendenza e per molti è considerato poco educato parlare con qualcuno e allo stesso tempo inviare Sms. In altre parole, il tatto inteso come organo di senso col quale percepiamo il mondo esterno non implica di per sé il tatto inteso come senso dell’opportunità, ossia come un modo di agire e di parlare caratterizzati da accortezza, prudenza e riguardo nei confronti del prossimo. Ciononostante le operazioni compiute dalle mani sullo smartphone comprendono esclusivamente movimenti coordinati e aggraziati che appaiono come una danza delle dita sullo schermo. Danza che a un primo sguardo presenta tre aspetti qualificanti: 1) comporta le medesime modalità esecutive sia per gli adulti sia per i bambini e lo stesso vale nei luoghi di produzione e in quelli extraproduttivi, in pubblico e in privato; 2) è unisex e in tal modo viaggia a vele spiegate verso il superamento della divisione sessuale del lavoro; 3) si caratterizza per essere svolta in ogni momento del giorno.

La combinazione di questi tre aspetti ha contribuito a modificare le forme dell’interazione sociale nella vita quotidiana. Per le buone maniere di un tempo era infatti inconcepibile che una conversazione faccia a faccia fosse continuamente interrotta dagli squilli del telefono dei partecipanti. Di converso prima dell’avvento dello smartphone le quotazioni di un tocco lieve e gentile come quello di sfiorare erano in deciso ribasso nella borsa degli habitus corporei. Perdita causata tra l’altro della concomitanza di due fenomeni: 1) la disattenzione civile che ci permette di vivere nelle nostre città ignorando contatti fisici sotto soglia che avvengono casualmente in luoghi affollati; 2) l’attenzione incivile del grande pubblico il cui sguardo è addestrato da una parte consistente dell’industria culturale ad andare subito al sodo in fatto di vicinanze corporee.

Lo schermo tattile ha invece ridato slancio all’arte di sfiorare. Arte pratica, che non richiede saperi espliciti e si apprende con l’esperienza. Nel processo di incorporazione di oggetti e strumenti il touch-screen ha attivato una sensibilità del tatto che sul piano dell’immaginario evoca lo sfregare della lampada di Aladino e sul piano concreto trasforma il corpo rendendolo capace di funzionare in modo adeguato per i nuovi utensili. Smartphone, tablet, e-book e altri dispositivi elettronici hanno inaugurato una nuova stagione del tatto in cui le dita acquistano una sensibilità aggiuntiva per compiere operazioni quali digitare, cliccare, picchiettare, sfogliare, scorrere, zoomare e così via. Si tratta di un incremento percettivo oggi indispensabile per comunicare, studiare, lavorare, giocare. Sulla base di tale incremento si possono individuare diversi fenomeni che ci limitiamo a enumerare sotto forma di un elenco ragionato.

In primo luogo, il pollice e l’indice sono le dita maggiormente abilitate alla gestione dello schermo tattile confermando così il ruolo evolutivo del pollice opponibile. Tuttavia rispetto allo schermo la penna e la carta richiedono tutt’altro tipo di perizia, sensibilità e coinvolgimento degli altri sensi.

In secondo luogo, medio, anulare e mignolo sono quasi del tutto esclusi dalla nuova esperienza del tatto. Difatti solo occasionalmente vengono poggiati sul display. Nell’interazione con lo schermo tattile il mignolo – indispensabile per l’efficacia della stretta del pugno – risulta il reietto della società della mano.

Un terzo fenomeno consiste nel fatto che sul piano delle sensazioni le dita non provano alcun piacere fisico nel contatto con lo schermo. Motivo che tra l’altro concorre a rendere parecchio incerta la gara tra libri elettronici e libri cartacei.

Quarto fenomeno. A proposito di piacere l’operazione di sfiorare e di poggiare delicatamente i polpastrelli sullo schermo non costituisce neanche lontanamente il preludio alla carezza. La quale, anzi, è tassativamente vietata perché fonte di disordine. Se si vuol fare un dispetto a qualcuno che sta giocando con lo smartphone basta appunto accarezzargli il display.

In quinto luogo, soddisfazioni e insoddisfazioni che provengono dal touch-screen  rendono lo sguardo più tattile della mano e la mano più ottica dello sguardo. Detto in altre parole, davanti allo schermo si tocca con gli occhi e si guarda con le mani. Nota a margine: si tratta di una riconfigurazione sensoriale che ha effetti significativi sulla più complessiva percezione della realtà.

Sesto fenomeno. L’immagine dello schermo non ci tocca emotivamente allo stesso modo di quella tradizionale. Un tempo le fotografie e le lettere cartacee dell’amato o dell’amata potevano essere carezzate, baciate e portate al cuore, mentre l’olfatto giocava un intenso ruolo evocativo. Tutti gesti assai improbabili con lo smartphone per non parlare del fatto che lo schermo è inodore. Si può poi aggiungere che nel recente passato le ragazze talvolta sigillavano le loro lettere d’amore con l’impronta delle labbra caricate di rossetto. Manifestazione oggi sostituita dall’invio di emoticon. In definitiva: il contatto delle dita sullo schermo costituisce una sensazione tattile d’intensità prossima allo zero. Niente di paragonabile con la manualità meccanica dei vecchi telefoni a disco.

Settimo fenomeno. Se lo schermo tattile circoscrive enormemente le possibilità stesse del tatto è altrettanto vero che la nuova sensibilità delle punte delle dita dà luogo a inedite tecniche del corpo. Ad esempio, camminare per strada e allo stesso tempo messaggiare. Pratica diffusa che tuttavia genera un microconflitto. Per alcuni infatti è sconsigliata e andrebbe regolamentata se non addirittura vietata, mentre per la maggioranza dei possessori di smartphone non pare proprio porsi il problema.

Le interdizioni sociali costituiscono un altro argomento da approfondire. L’uso dello smartphone è infatti proibito in diversi spazi: al cinema, a teatro, in alcuni reparti ospedalieri, in aereo e così via. Mentre la sua confisca da parte dei genitori pare essere diventata per gli iperconnessi adolescenti di oggi una punizione molto più severa dell’antico divieto di uscire di casa. Appare come una vera e propria mutilazione perché lo smartphone è tutt’uno col suo possessore: fa parte del suo corpo.

Oltre all’apprendimento di un nuovo modo di coordinare vista e tatto lo smartphone sembra aver dato origine a quello che possiamo definire manual divide. Da un’osservazione empirica pare infatti che per scrivere gli immigrati digitali tengano il cellulare in posizione verticale con una mano e con l’altra utilizzino prevalentemente l’indice per comporre il testo. Mentre per eseguire la stessa operazione i nativi digitali tengono il cellulare in posizione orizzontale con entrambe le mani e utilizzano tutti e due i pollici. Per l’immigrato digitale significa una perdita di prestigio non gravosa solo a patto che sappia usare efficacemente le funzioni principali dello smartphone. Questa tolleranza deriva anche dal fatto che in società la comunicazione è un ambito nel quale le buone maniere sono vitali. Senza buone maniere la comunicazione torna indietro, involve.

Un ultimo fenomeno è costituito dal penetrante controllo sociale nei confronti della nuova abilità della mano. Ci riferiamo alla possibilità dello smartphone di registrare ogni tocco delle dita sullo schermo e soprattutto al riconoscimento dell’impronta digitale nei telefoni di ultima produzione. E’ evidente che se da un lato tale dispositivo tutela il proprietario dello smartphone da intrusioni provenienti dal mondo reale, dall’altro non garantisce affatto che la privacy sia rispettata da chi governa la telefonia mobile. In poche parole gli utenti consegnano volontariamente a un sorvegliante elettronico le proprie impronte digitali che entreranno a far parte di assai poco trasparenti Big Data a disposizione delle imprese. Dinamica in linea col sempre più oscuro trattamento delle informazioni e la dilagante affermazione del potere economico nella gestione della vita di relazione.

Da questo provvisorio elenco emerge quanto la danza delle dita sullo schermo tattile produca effetti sociali che vanno al di là della progettazione ergonomica. Sulla base di tali effetti il contegno e l’abilità della mano sul display rientra nel più generale processo di civilizzazione che investe la storia del corpo con il suo succedersi di regole in numerosi campi dell’esperienza quali l’alimentazione, l’abbigliamento, l’abitare, la sessualità e dunque la gestualità. Certo, i modi gentili e i disciplinati movimenti delle dita sullo schermo non significano ipso facto il rispetto della netiquette. Ma è necessario dare tempo al tempo perché l’interazione tra mano e schermo costituisce una storia appena iniziata.

Patrizio Paolinelli, via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro


Riflessioni sociologiche sul razzismo

di Giovanni Pellegrino e Mariangela Mangieri

In quest’articolo prenderemo in considerazine dal punto di vista sociologico il razzismo, un fenomeno sociale purtroppo sempre più presente nella società contemporanea. 

<<== Prof. Giovanni Pellegrino 

                                                                 

Tra i molteplici conflitti esistenti tra i gruppi sociali riteniamo opportuno occuparci dei conflitti tra gruppi etnici che sono alla base del fenomeno sociale del razzismo. A causa della globalizzazione ci troviamo a vivere in una società multietnica e multiculturale che mette a stretto contatto quotidiano individui appartenenti a diversi gruppi etnici. Questi individui possiedono un proprio patrimonio di credenze religiose, di valori ed una propria tradizione di tipo culturale. Il problema principale è costituito a nostro avviso dal fatto che la maggior parte degli individui non ha avuto il tempo di abituarsi a vivere in una società multietnica, fatta una debita eccezione per nazioni come la Francia e l’Inghilterra che avendo avuto imperi coloniali molto vasti avevano già avuto a che fare con  i problemi derivanti dalle società multietniche. Tuttavia anche in queste due nazioni il razzismo costituisce un grave problema, così come lo costituisce negli Stati Uniti, la prima società multietnica della storia contemporanea.Per quanto riguarda l’Italia dobbiamo dire che la globalizzazione si è affermata in maniera rapidissima dal momento che per molti decenni è stata paese di emigrazione, oggi, tuttavia, è diventata una nazione nella quale è molto difficile controllare i flussi migratori.                                                                                                                        

A nostro avviso la globalizzazione come tutti i fenomeni sociali presenta un lato positivo ed uno negativo, dei vantaggi e degli svantaggi, che vanno compresi e accettati. Dahrendolf afferma che dal momento che non è possibile arrestare la globalizzazione bisogna necessariamente accettare sia le nuove opportunità sia i nuovi rischi ad essa collegati. Comunque non è nostra intenzione in questa sede cercare di stabilire se siano maggiori le opportunità o i problemi collegati alla globalizzazione in quanto il discorso sarebbe troppo lungo e complicato. In questo articolo cercheremo invece di limitarci a stabilire quali sono le cause sociologiche e psico sociali del razzismo nella società contemporanea. In primo luogo dobbiamo mettere in evidenza che studi condotti da diversi psicologi sociali hanno messo in evidenza che il comportamento auto preferenziale nei confronti dei propri gruppi di appartenenza, ivi compreso il gruppo etnico sembra essere una costante del comportamento umano in tutte le epoche storiche.                                   

 Tale dato di fatto ha indotto psicologi sociali a formulare interessanti riflessioni. Infatti sembrerebbe che il comportamento auto preferenziale nei confronti del proprio gruppo etnico sia sempre esistito nella storia del genere umano cosicché ci sarebbe da pensare che tale comportamento sia scritto nel Dna della razza umana. In effetti esiste una forte polemica tra gi studiosi che pensano che il razzismo sia causato da fattori di tipo genetico e gli scenziati che ritengono che il  razzismo non abbia una base genetica ma sia dovuto a fattori storici e culturali. Tale gruppo di studiosi prende il nome di ambientalisti. Mentre gli studiosi che pensano che il razzismo abbia una base genetica prendono il nome di innatisti. Esiste poi un terzo gruppo di studiosi che pensano che il razzismo sia dovuto sia a fattori genetici, sia storici, sociali e culturali.                                                       

All’interno di questo terzo gruppo di studiosi ce ne sono alcuni che pensano che il razzismo sia soprattutto dovuto a fattori genetici e in parte minore a fattori sociali e storici e altri che ritengono che esso sia dovuto soprattutto a fattori ambientali e in misura minore  a fattori genetici. A nostro avviso il razzismo e molti altri comportamenti umani sono dovuti in parte a fattore di origine genetica ed in parte a fattori derivanti dall’ambiente socio- culturale nel quale gli individui si trovano a vivere. Nel caso specifico del razzismo se uno delle sue cause( il comportamento autopreferenziale nei confronti del proprio gruppo etnico) ha una base genetica, le altre cause del razzismo hanno chiaramente un’origine sociale.                                                                    

Nel fare un esempio concreto molti conflitti di tipo razziale nascono dal desiderio  dei gruppi etnici di accedere a terminate risorse materiali entrando in competizione con altri gruppi etnici. Ad esempio il razzismo che esiste in alcuni paesi nei confronti degli immigrati è in buona parte dovuto al fatto che essi svolgono una funzione sostitutiva nei confronti degli abitanti del  luogo.  In alcuni settori del mercato del lavoro caratterizzati da salari bassi o addirittura dal lavoro in nero, gli immigrati sostituiscono gli abitanti del luogo. Tale funzione sostitutiva resa possibile dal fatto che gli immigrati accettano salari più bassi degli altri lavoratori dà luogo a fenomeni di razzismo che altro non sono che una lotta tra poveri. Parliamo di lotta tra poveri perché gli immigrati possono entrare in competizione quasi esclusivamente con quei lavoratori che devono accontentarsi dei lavori meno pagati e più faticosi.                                                                         

 Anche un’altra causa del razzismo, ovvero i pregiudizi nei confronti dei rappresentanti di altre gruppi etnici non ha una causa genetica ma è dovuta alla mancanza di dati reali sul comportamento degli immigrati. Infatti se è vero che alcuni immigrati compiono reati di vario tipo è altrettanto vero che non bisogna fare di tutta l’erba un fascio. Molti dimenticano che la maggior parte  degli immigrati sono persone oneste che adottano comportamenti irreprensibili. Inoltre i pregiudizi che nascono dal pensiero stereotipo di tipo non neutrale determinano una alterata percezione della realtà. Tale percezione della realtà fa in modo che vengano attribuite ad immigrati appartenenti ad un dato gruppo etnico caratteristiche negative che sono proprie di altri gruppi di immigrati. Naturalmente molti pregiudizi nascono dalla cosiddetta paura del diverso che rende molto difficile esprimere giudizi oggettivi e motivati gli appartenenti ad altri gruppi etnici.  In effetti gestire rapporti interpersonali con individui  appartenenti ad altre razze e altre culture che siano in grado di  terminare vantaggi psicologici, richiede il superamento di una serie di barriere comunicative create dai pregiudizi e dalla paura di mettere in discussione  la propria identità culturale.                                

In sintesi noi crediamo che bisogna entrare nell’ordine di idee che esistono individui che conviene frequentare ed individui che conviene evitare sia nella razza bianca sia nelle altre razze che la globalizzazione ha portato nel mondo occidentale.  In altri termini non bisogna mai cadere in generalizzazioni immotivate che trovano la loro origine nel pensiero stereotipo di tipo non neutrale. Infine l’ultima causa del razzismo che niente ha a che vedere con i fattori genetici è la volontà di difendere le  proprie radici storiche e culturali, che secondo alcuni sarebbero messe in pericolo dalla creazione delle società multietniche e multiculturali. Tale tipo di razzismo viene denominato differenzialista in quanto ritiene che si debbano mantenere intatte le proprie radici culturali. Tale tipo di razzismo parte dal presupposto che i bianchi non avrebbero niente da imparare dagli altri gruppi etnici. Appare evidente che si tratta di un razzismo che si basa su una forte concezione etnocentrica. Noi riteniamo che non sia accettabile che i bianchi non abbiano niente da imparare dagli altri gruppi etnici e dalle altre culture dal momento che noi siamo convinti che gli scambi interetnici siano un’occasione di arricchimento per tutti i gruppi etnici esistenti sul nostro pianeta. Vogliamo concludere il nostro articolo mettendo in evidenza che il razzismo nei casi estremi determina anche episodi di inaudita e gratuita violenza nei confronti di individui appartenenti ad altri gruppi etnici.

Prof. Giovanni Pellegrino

Prof.ssa Mariangela Mangieri                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        


Cioran e il suicidio del logos

di Patrizio Paolinelli

Ultimatum all’esistenza” è un corposo libro di interviste rilasciate da Emil Cioran tra il 1949 e il 1994 (La scuola di Pitagora, Napoli, 2020, 475 pagg., 30,00 euro). Un testo che ha il vantaggio di presentare al lettore lo scrittore rumeno senza subire il fascino della sua prosa.  Non è poco. Perché nel parlato le risposte dell’intervistato hanno, per così dire, uno spazio di manovra limitato: è necessario andare subito al sodo senza troppi giri di parole. Nell’intervista il linguaggio è privato dell’attesa, è impaziente. Allo stesso tempo un’intervista non è un bignami. È un dialogo di qualità che ha lo scopo di fare il punto: sulla personalità dell’interpellato, il suo pensiero, gli eventi storici di cui è stato testimone.

Prof. Patrizio Paolinelli == >>

Trattandosi della raccolta di numerose interviste che coprono un arco di 45 anni, Ultimatum all’esistenzaha il merito di presentarci in un unico volume la personalità, il pensiero, l’epoca in cui è inserita la biografia di Cioran. Il fattore che ci sembra emerga maggiormente dalla lettura del libro è la pressoché totale coincidenza tra la psicologia dello scrittore e la sua Weltanschauung. Una coincidenza perseguita con estrema lucidità e senza il minimo tentennamento. Intervista dopo intervista Cioran snocciola i temi portanti della sua visione della vita e del mondo. Ecco un parziale elenco: il declino dell’Occidente, la fiera opposizione al progresso, la storia come processo distruttivo, l’elogio del tragico, il sentimento di provvisorietà, il disimpegno militante verso gli affanni del mondo, l’impossibilità di risolvere la questione sociale, la rivendicata irresponsabilità verso il prossimo, il sentimento dell’irreparabile, la disperazione assunta come posizione teorica, la sconfessione dell’homo faber, la scrittura come forma di terapia, il cinismo come attitudine teorica, la vita intesa come processo distruttivo, il dramma di essere nati, l’idea del suicidio. Si potrebbe continuare. Ma queste voci ci pare siano sufficienti a tratteggiare il profilo di uno scettico radicale, anzi, violento, come diceva Cioran di sé stesso. Ora, ogni punto dell’elenco che abbiamo proposto può essere oggetto di lunghe discussioni. Prendiamo, ad esempio, un’idea che ossessionò Cioran per tutta la vita: il suicidio.

Alla ripetuta richiesta dei suoi intervistatori sul perché non si fosse tolto la vita lo scrittore confessa: senza quell’idea mi sarei sicuramente ucciso. Il suicidio viene così trasformato in una risorsa, una possibilità, un anelito di libertà. Se proprio l’esistenza ti risulta insopportabile, ecco cosa puoi fare: ti ficchi una pallottola in testa e il tormento finisce. Ma puoi anche decidere altrimenti e questo ci rende liberi. Come si vede si tratta di una concezione ultra-soggettivistica della libertà e in quanto tale utilitarista. Il borghese si compra la libertà coi soldi, Cioran col pensiero. Sono la faccia della stessa medaglia: a entrambi non importa un bel niente della libertà degli altri. 

Come è noto Cioran non si suicidò. Morì a 84 anni in una casa di cura seguito dalla compagna di una vita, Simone Boué, a cui chiedeva di ucciderlo. Fino all’ultimo fu a suo modo coerente: parlare del suicidio senza praticarlo, neanche quando aveva un piede nella fossa. D’altra parte, per lui il fare era separato dall’essere. Il che è condivisibile. Ma il problema è a quale essere Cioran fa riferimento. Non all’essere sociale. Ma a un individuo divinizzato: ora dal fallimento, ora dalla scelta mistica, ora dalla marginalità. Fascino dell’esclusione e esasperazione dell’Io si combinano nello scrittore romeno senza lasciare spazio al prossimo. Il quale, tutt’al più, è funzione degli istinti e degli appetiti di chi vola in alto con la mente. Da qui l’esaltazione delle prostitute. Che Cioran frequentò a lungo finché servirono a soddisfare il suo smisurato egocentrismo.

È vero che l’opera va separata dall’autore. Ma nei suoi libri Cioran non ha parlato di astrazioni: ha parlato del suo tempo, dell’esistenza, a suo modo ha proposto una morale, nera quanto si vuole, ma pur sempre una morale. Alla prova della vita reale quanto ha retto questa morale? Non molto. Rilasciò interviste fino a pochi mesi prima della sua scomparsa. Cosa che per uno che predicava il distacco dal mondo lascia alquanto perplessi. E come si può spiegare la sua gelosia nei confronti di una giovane amante tedesca che in Germania va a letto col suo compagno perché “l’intelligenza non si può scopare”? Non c’è problema. Cioran trova sempre il modo di assolversi. Naturalmente non gli difettava la consapevolezza delle contraddizioni del proprio pensiero. Era un uomo troppo intelligente per non rendersene conto. Messo alle strette dalle incoerenze dei suoi ragionamenti trovava rifugio nella metafisica. Va bene suicidarsi, ma in termini metafisici. E quando la metafisica non bastava ecco arrivare in soccorso il Romanticismo con tutta la sfilza di coloro che si sono tolti la vita non riuscendo a sopportare il peso di un Io troppo grande in un mondo così piccolo.

Per sua natura l’incoerenza trova sempre coerenti formalismi per giustificarsi. Tanto più se i formalismi provengono da un erudito che ha fatto del paradosso la chiave di volta del suo pensiero. Scrivo sapendo che è perfettamente inutile scrivere, ci fa capire Cioran. Una scrittura in cui a suicidarsi è la parola. Da qui il privilegio dell’estasi, l’attrazione per i mistici, l’ammirazione per i grandi moralisti. Da qui l’allergia per ogni tipo di appartenenza. A chi lo incalza chiedendogli se è un nichilista, un ribelle o un disperato Cioran risponde: “non sono niente”.

Regge una filosofia del logos anti-logos, del libro anti-libro, dello scrittore anti-scrittore, dell’asociale immerso nella società? Fatica parecchio. Certo Cioran si fa forte di una lunga tradizione filosofica, a iniziare dai cinici greci. E quando un compiacente intervistatore gli offre un assist rilevando l’atto positivo di una scrittura che attacca l’esistenza stessa, Cioran non si lascia sfuggire l’occasione per uno dei suoi funambolismi: “Per me, scrivere è un ultimatum all’esistenza. Questo è il significato di tutti i miei libri. È così: una sorta di ultimatum reiterato all’esistenza. È un attacco liberatorio. Si può sopportare l’esistenza, demolendola. Ho un po’ un temperamento combattivo, sebbene io non faccia nulla. Non mi attivo nella vita. Ma in realtà, per temperamento sono un po’ aggressivo. Ma l’attacco per me, ha questa funzione, dal momento che non si può fare altro”.

Dinanzi a questa affermazione viene da chiedersi: un ultimatum reiterato non è un eterno penultimatum? Non è un modo del tutto illusorio di fermare il tempo? Una negazione del divenire che aiuta a comprendere la ridondanza delle posizioni di Cioran: sempre la stessa acqua pestata nello stesso mortaio, dal primo all’ultimo dei suoi libri. Con Cioran il logos muore per mancanza d’ossigeno. Oscillando tra rare estasi personali e tragedie collettive lo scrittore trova un equilibro per andare avanti nella vita. Ultimatum dopo ultimatum eccolo pubblicare un libro dopo l’altro. E al millesimo gorgo nero in cui tutto è risucchiato e annullato le sue pagine riescono persino a strappare un sorriso: dopo tanto penare Cioran approda al comico, o al grottesco, se la parola comico può offendere qualcuno.

Come prendere sul serio uno che passa la vita a guardarsi l’ombelico? Infatti, più di tanto non si dovrebbe. Ma i libri di Cioran non sono privi di ricadute culturali e politiche. Tutt’oggi hanno un pubblico, mentre la figura di questo grande scettico desta ancora interesse come dimostra la pubblicazione di “Ultimatum all’esistenza”. Perciò sono libri di cui tenere conto. Libri che non sono letti dallo “scarto dell’umanità” come Cioran sostenne una volta per darsi un tono dinanzi a un ammiratore. Sapeva bene che non era così. I suoi lavori finiscono nelle mani di persone istruite, spesso molto istruite. Generalmente appartenenti alla piccola e media borghesia. Classi sociali che, ieri come oggi, nelle taglienti pagine di Cioran trovano confermato il loro disprezzo per coloro che non sono raggiunti dall’illuminazione: e cioè che l’uomo è disperatamente solo, che l’unica cosa che conta nella vita è il culto del proprio Io e che tutto il resto è bieca necessità.    

Dunque Cioran è attuale, attualissimo. Come potrebbe non esserlo in un’epoca di narcisisti che vivono per il presente? Inoltre, in “Ultimatum all’esistenza” Cioran esprime, direttamente o indirettamente, le proprie opinioni politiche: terribilmente reazionarie. Ma soprattutto, lo scettico di ogni tempo non disturba il potere. L’uomo è quel che è, un’irrimediabile delusione, e non vi si può porre rimedio. La storia pure. Perciò, a che serve cercare di cambiare il mondo? È bene che tutto resti com’é. Fermo restando che a coltivare la terra e sturare le fogne devono pensarci gli altri.

Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, maggio 2021.


Mens sana in corpore sano

Durante il lockdown abbiamo assistito ad una graduale cessione di libertà, tra le prime forme era prevista la possibilità di fare attività fisica all’aperto, seppur nei dintorni della propria abitazione, per poi estendere il permesso anche al proprio quartiere e oltre.

<<=== dott.ssa Roberta Cavallaro -sociologa

La frase “fare sport fa bene alla salute” è rimasta confinata, invece, nella sua retorica nonostante fosse inserita tra i bisogni di prima necessità. Una necessità data per scontata, infatti l’enfasi sull’attività fisica non è mai stata ricercata tra i commenti dei nostri politici, eppure, è affare di tutti non bisognerebbe aspettarselo solo dal Ministro della salute, sembra incredibile come si riesca a parlare di sistema immunitario senza affiancare o dare fiducia al mezzo che è una delle vie principali per rinforzarlo. Non è un caso che le scienze motorie siano catalogate come “Scienza” poiché si nutrono di studi trasversali della medicina, della pedagogia, della psicologia, le quali sconfinano dalla didattica scolastica e penetrano la nostra vita quotidiana.

La “camminata veloce” però è riuscita a creare una moda superficiale ma efficace che ha coinvolto anche persone prima disinteressate all’attività fisica, costruendo in maniera naturale, una dinamica che non è stata volutamente a cuore ai media, dal momento che è mancato uno dei suoi presupposti fondamentali, ovvero la diffusione costante del messaggio. Questo tipo di attività si è diffusa velocemente diventando un nuovo modo di incontrarsi per strada, sentendosi accomunati da un obiettivo comune, quello di indossare una tuta per fare attività fisica e incrociare lo sguardo o il saluto di chi ha fatto la medesima scelta, pur di sentirsi parte di un sistema in una fase di crollo delle certezze.

In questo, come in altri casi, l’attività fisica ha svolto un ruolo socio-relazionale centrale. La sua centralità è stata però accantonata, non ha potuto mantenere la sua forma o progredire poiché non ha avuto gli elementi necessari per farlo. I valori in una società nascono in maniere imprescindibile dalle norme e si rinforzano con l’esperienza, in questo caso il percorso non è affatto tortuoso, infatti l’attività fisica è nata in risposta ad un’esperienza di vita comune, quale la pandemia, potenziandosi in maniera spontanea. Dal momento che i valori necessitano di un riscontro politico-normativo per consolidarsi, la previsione potrebbe essere quella di un crollo di un incosciente tentativo di esaltazione di un valore intrinseco quale “cura del benessere psico finisco attraverso lo sport”, non supportato al di là della concezione individuale.

Perché viene posta l’enfasi sullo sport solo per vendere prodotti? Conosciamo bene i tipi di acqua che depurano l’organismo, le bevande contenenti sali minerali amati da cellule e tessuti, o la vitamina C gradita dal nostro sistema immunitario ma non conosciamo allo stesso modo l’attività fisica come meccanismo di prevenzione che potrebbe bastare a sé stesso. In un periodo storico come questo il terreno è più che mai fertile per porre l’attenzione sull’importanza di una corretta alimentazione, sulla serietà dell’attività fisica, soprattutto in un Paese come l’Italia alla quale si riconosce il pregio delle primizie e del professionismo agonistico. Sembra l’ennesima azione incoerente in cui si decide di evidenziare l’importanza di un aspetto non investendo però sulla sua asserzione.

Credo che l’esempio calzante possa essere l’estrema cura mediatica nella pubblicizzazione di cosmetici antietà, raggirando il mezzo principe rappresentato in questo caso dallo sport e dall’attività fisica in generale. L’evidenza è ancora la politica del tutto subito, si preferiscono gli effetti immediati a quelli duraturi nel tempo raggiunti con più difficoltà. La moda, in questo caso purtroppo, passerà e non a tutte le persone rimarrà il desiderio di quelle “camminate veloci” tanto utili alla sopravvivenza psico-fisica durante il lockdown, sarebbe vantaggioso quindi inserirlo tra gli elementi contenuti nel bicchiere mezzo pieno della pandemia.

Porre l’accento su alcune questioni piuttosto che altre è solo una scelta che, chi ci governa, decide di prendere. Sembra assurdo non accorgersi di quanto sia fondamentale orientare le persone verso uno stile di vita sano ed è masochista accorgersene e scegliere di non dargli importanza.

Sociologa Roberta Cavallaro (Socia ASI)


Un paese di anziani ha bisogno degli immigrati

di Nausica Sbarra

La pandemia ha sconvolto il nostro modo di vivere: sono crollate tutte le nostre certezze, le aspirazioni, i nostri progetti di vita esponendoci a forme di disperazione anomica. Sono stati persi posti di lavoro, aumentate le diseguaglianze e la rabbia sociale. Le misure, tanto necessarie quanto rigide, per contenere il contagio, soprattutto nella seconda ondata di pandemia, sono state al centro della tensione che ha visto protagonisti cassintegrati, precari, inoccupati, piccoli imprenditori, operatori turistici e del commercio, le partite iva, i servizi alla persona, il mondo della scuola, le forze sociali e imprenditoriali. Il tutto, grazie a Dio, senza scadere in esplosioni di violenze come avvenne in altre epoche storiche del nostro Paese.

<<== Nausica Sbarra

La ripartenza è una necessità globale anche perché il mondo si trova a dover affrontare la pericolosa situazione ambientale che sta provocando gravi e irreversibili danni al nostro pianeta.  In Italia, Governo e Parlamento hanno già predisposto e inviato all’UE il Pnrr che, in sintonia con l’Agenda 2030 dell’ONU, intende affrontare, con azioni specifiche lo stato di salute di Terra-Patria, oltre a un dettagliato piano di riforme, di semplificazione burocratica per attrarre investimenti stranieri. La ripresa non può, assolutamente, avvenire tra distingui, veti e prese di posizione, ma con la consapevole necessità di riprendere il discorso occupazionale/salariale e non certo continuare ad affidarsi a bonus e reddito di cittadinanza; occorre, dunque, programmare interventi di sviluppo in grado di coinvolgere soprattutto i giovani.

Una recente fotografia dell’Istat mette in evidenza l’invecchiamento dell’Italia con la diminuzione delle nascite. Il nostro è un Paese di vecchi che per ripartire e raggiungere gli obiettivi di sviluppo indicati nel Pnrr e nell’Agenda 2030 ha un urgente bisogno di guardare in modo diverso al bacino del Mediterraneo. In questa regione della terra le povertà sono aumentale al pari delle illusioni di libertà, di giustizia sociale, di conquiste democratiche sognate durante le “primavere arabe”. Queste popolazioni continuano a guardare all’Occidente come terra di salvezza, ma davanti al dramma di milioni di disperati l’Europa si è chiusa all’interno di egoismi nazionalisti lasciando alla sola Italia il peso dell’accoglienza. Neanche gli effetti nefasti della pandemia hanno contribuito a cambiare la strategia UE sulla distribuzione dei profughi che sbarcano sulle nostre coste. Il pressing di questi giorni del Presidente del Consiglio Mario Draghi è la continuazione di un braccio di ferro che dura ormai da anni.

“E’ il momento della vergogna” ha ammonito Papa Francesco lo scorso 25 aprile dicendosi addolorato per “la tragedia, che ancora una volta si è consumata nel Mediterraneo. Quei 130 migranti morti in mare – ha sottolineato il Pontefice – sono vite umane che per due giorni interi hanno implorato invano aiuto”. Questo tipo di tragedie, purtroppo, oggi fanno appena notizia: i giornali le trattano con un titolo a piè di pagina e le tv in modo freddo e distaccato e, pertanto, scompaiono dietro fumose barriere di ipocrisia e di indifferenza. Il mondo occidentale guarda i cadaveri che si inabissano nei fondali del Mare Nostrum senza provare più quel sentimento di indignazione che, negli ultimi anni, aveva alimentato la speranza del popolo degli immigrati alla ricerca di libertà, di democrazia e di nuove occasioni di riscatto socio-economico.  L’Europa dalla memoria corta continua a dimenticare che, tra ‘800 e il primo dopoguerra (secondo conflitto mondiale), oltre 50 milioni di persone hanno lasciato il loro territorio di origine per cercare fortuna oltre Oceano.

Oggi l’indifferenza non risparmia il nostro Paese e il suo il Mezzogiorno: storico bacino di braccia e orfano anche di cervelli costretti a mettere la loro professionalità a beneficio delle regioni del Nord e di altri centri di eccellenza sparsi nel mondo. Questa indifferenza fa a pugni con i propositi di educazione alla cittadinanza globale: cioè sviluppare un senso di appartenenza ad una comune umanità. E ciò attraverso l’acquisizione di conoscenze, analisi e pensiero critico sulle questioni globali: nazionali, regionali, locali per favorire l’interazione e l’interdipendenza tra popoli di cultura diversa   e di differente condizione socio-economica. In un mondo sempre più globalizzato continuano ad emergere istanze sul senso di appartenenza ad una comunità più ampia, ad un’umanità condivisa: fatta di interdipendenza politica, economica, sociale, culturale e intreccio fra il locale, il nazionale e il globale. La grande rilevanza del progetto UNESCO appare quasi un’utopia in un mondo reale costretto a fare i conti con un sistema economico globalizzato, che – per quanto in affanno -rimane fonte inesauribile di ingiustizie, discriminazioni, nuove povertà, diritti negati.

Tutti noi siamo cittadini di un pianeta svilito e stretto tra interessi locali e poteri globali. Ciò significa che mentre la politica rimane locale, il potere economico non lo è più: con la prima ridotta ormai in stato di subalternità al capitalismo finanziario libero di muoversi a suo piacimento. Si consolida cosi un potere che rimane al di fuori del controllo politico, di quella rete sociale piena di buchi dove diventano liquide le conquiste sociali che si erano solidificate durante gran parte del Secolo breve.   Nella mia quotidianità sindacale sono presenti anche immigrati che operano all’interno della Cisl. Un impegno di grande dignità, il loro: ricco di esperienza e di cultura che li aiuta nel confronto e nello scambio culturale. Vorremmo fare di più per partecipare da attori sociali al dibattito sulle questioni globali contemporanee.  Fino ad oggi le risorse statali sono state esigue, ma confidiamo nel Pnrr per invertire la tendenza.            

L’immigrato è un cittadino del mondo.  Ma non la pensano così molti paesi dell’Ue, i cui egoismi tendono a negare l’amara realtà della crisi migratoria che ci rivela l’attuale stato del mondo e il destino comune dei suoi abitanti. Quali che siano le differenze culturali, sociali ed economiche occorre progettare una via maestra per agevolare una convivenza pacifica e vantaggiosa per tutti: collaborativa e solidale. Non ci sono alternative praticabili. L’europeizzazione della questione migratoria non sembra avere successo. Di contro, l’Italia continua a subire una vera a propria invasione che ha scatenato la dura reazione di forze politiche dall’anima nazionalista la cui propaganda contro il nemico straniero, quello che “ruba” (tra virgolate) il lavoro agli italiani, ha sferrato un forte attacco ai sentimenti della solidarietà e dell’accoglienza.

Non possiamo sottacere su certe bugie e affermiamo che se molti comparti produttivi – penso all’agricoltura e ai settori meno qualificati dell’edilizia – non si sono fermati solo grazie alla manodopera extracomunitaria. Certo tra quanti sono sbarcati e continuano ad approdare sulle nostre coste, in particolare a Lampedusa, troviamo anche persone poco raccomandabili. Il mantra continua ad essere “la sicurezza dei confini dell’Unione”, come se migliaia di disperati fossero nostri nemici, e i corpi di bambini finiti sulle spiagge piene di turisti l’effetto di un colpo di sole o un incubo notturno.  Quanti gli attacchi di “panico morale” abbiamo subito negli ultimi anni dalla cultura dell’Io che vede nell’altro, quello che fugge da guerre, persecuzione e mancanza di democrazia, un demone da scacciare e non già un nostro simile da accogliere, aiutare.

I migranti – come ho avuto modo di sottolineare in altre circostanze – possono diventare una risorsa. La mia non è un’utopia: basta ritrovare gli anticorpi della tolleranza e della solidarietà. Per questo abbiamo bisogno di laboratori sociali: innanzitutto la scuola, luogo dove noi tutti dobbiamo spenderci per inculcare il concetto di cittadinanza globale. Un traguardo assolutamente da raggiungere, anche con l’aiuto di milioni di immigrati che, nonostante vivono in Italia da decenni, stentano ad integrarsi perché ci limitiamo a guardarli da dietro i vetri delle nostre case; perché noi, assolutamente, riteniamo di non poterci confondere con loro.  

L’Italia della ricostruzione post Covid, lo ribadisco, ha bisogno anche degli immigrati: quelli già residenti e quanti entreranno nel nostro paese con un Piano che l’Europa ha il dovere di varare per non lasciarci soli in balia di immigrazioni non contingentate. Il Pnrr, gli interventi di transizione ecologica, l’agenda 2030 ONU hanno bisogno di particolare manodopera assente sul nostro mercato del lavoro. E per reclutarla potranno rivolgersi agli stati che si affacciano sul Mediterraneo attraverso accordi di cooperazione. Perché se i vecchi aumentano e i giovani lasciano questa terra, il futuro dell’Italia appare irrimediabilmente segnato.


Emergenza educativa e crisi dell’istituzione familiare nella liquidità dei processi della digital age

di Luca Raspi

Educazione e famiglia: un binomio umano

Quando si parla di educazione si fa riferimento ad una realtà di complessa definizione.

<< == Prof. Luca Raspi

Lo stesso potenziale semantico del termine rimanda ad una stratificazione concettuale, che storicamente evoca sia il processo di crescita, apprendimento, formazione, istruzione e socializzazione di un soggetto, sia gli ambienti strutturali ed istituzionali quali la famiglia, la scuola e le più svariate tipologie di gruppi: «Nell’uso quotidiano, quando si parla di educazione, s’intende anzitutto una particolare attività umana, connessa a determinate figure e ruoli particolari, come genitori, maestri, insegnanti, sacerdoti, istitutori, educatori all’interno di un rapporto interpersonale particolare, e rivolta a nutrire, curare, formare individui della generazione in crescita» (1).

L’educazione è qualcosa di prettamente umano, non consiste nel mero allevare, ma si dà come un sapere che consente ad una persona in crescita di poter essere pienamente inserito nel consorzio umano in cui si trova a vivere: «L’uomo ha prodotto una serie di conoscenze tramandabili per rispondere alle esigenze esistenziali legate alla crescita ed alla vita sociale e si è prodigato affinché quanto conquistato restasse vivo grazie alle dinamiche relazionali che legano gli individui nei complessi intrecci sociali. Questo agire non deve essere pensato in modo meccanicistico, ma come impegno dell’adulto nei confronti del giovane per aiutarlo a tirare fuori le proprie capacità, sostenendo una configurazione positiva dei propri talenti in fase di sviluppo. In questa logica di trasmissione del sapere acquisito, egli va oltre il mero allevamento dei suoi figli e, donando loro un bagaglio esperienziale frutto dell’elaborazione intellettuale, si impegna a far sì che venga appreso dai più giovani» (2).


Il sapere fondamentale che un soggetto in crescita riceve avviene nell’ambito familiare. La famiglia è la struttura fondamentale in cui la persona si struttura ed apprende gli elementi essenziali per porre in essere le condizioni necessarie della convivenza sociale. Si tratta del nucleo primario in cui l’esperienza di vita con l’altro è palestra per conoscere l’esserci nel gruppo. È il trampolino di lancio che precede l’inserimento nelle strutture istituzionali ed in senso più ampio nella società. La famiglia risulta, pertanto, la prima comunità umana, in cui la persona impara a vivere la relazione con i suoi simili. Nonostante i cambiamenti che le diverse epoche hanno caratterizzato questa istituzione, cellula del corpo sociale, essa è, comunque, ancor oggi costituita da un insieme più o meno ampio di persone unite fra loro da un rapporto di vita in comune, di parentela, di legami affettivi.

Uno sguardo alla contemporaneità tra emergenza educativa e crisi della genitorialità

Non cessa di essere l’elemento fondamentale di ogni società, essendo intrinsecamente tesa, nella sua propria dinaminicità, alla continuazione della vita della specie. La famiglia satura pertanto il fine biologico della perpetrazione del genere umano. Dal punto di vista antropologico e sociologico, si definisce come compagine di individui che condividono non solo uno spazio abitativo, ma che anche contribuiscono al proprio sostentamento economico e alla trasmissione dei saperi fondamentali della convivenza tra simili alla prole. È, quindi, produttrice di reddito e di consumi, luogo in cui prendono forma gli affetti fondamentali della persona e, non in ultimo, fulcro dell’educazione di base per i figli. Educazione e famiglia sono, dunque, intimamente connessi, tanto che l’attuale crisi educativa, di cui si è largamente parlato nell’ambito delle scienze umane, pare si sia mossa tout court con la crisi della famiglia.

All’inizio di questo nuovo millennio si è cominciato a parlare di emergenza educativa. A distanza di vent’anni l’emergenza ha assunto i tratti di una crisi, che può essere riletta a livello fenomenologico in una prospettiva di impasse, in cui pare essere emersa una nuova visione dell’educazione destrutturata e in continuo divenire. Si tratta di una visione che non ha un riferimento teoretico alle spalle, ma un insieme confuso di prassi che rispecchiano l’attuale società, che Bauman definì liquida. Una società questa che è in continuo divenire: la realtà muta prima ancora di essere esperita e di essere compresa e, mentre le antropologiche certezze acquisite nel corso della storia occidentale si sono frantumate e non hanno più assunto una solida ossatura, l’uomo vive in un ambiente saturo di informazioni smarrito dall’assenza di punti di riferimento etici.

Oggi si vive nel digitale e si respira la Rete senza sosta, non esiste più un tempo on line e off line, ma si è immersi nell’on-life, dove tutto è informazione: «Non ha più senso chiedere “sei online?” a una persona che ha uno smart phone in tasca, magari uno smart watch al polso, mentre sta parlando con noi attraverso il Bluetooth della propria autovettura, seguendo le istruzioni del navigatore per districarsi nelle strade di Roma»(3). Il terzo millennio ha dato vita ad una cultura liquida, basata su informazioni e procedure algoritmiche che hanno reso il sapere come un fluido che è impossibile afferrare, capace di infiltrarsi o scorrere ovunque, potenzialmente in grado di occupare tutti gli spazi oppure scorrere via lasciando il nulla, rendendolo, pertanto privo di ogni intenzionalità paidetica. L’intricata matassa di problematiche, che l’attuale cultura pone all’educazione, investe ogni agenzia educativa e tocca anzitutto la famiglia. Resta il fatto che la famiglia non è avulsa dal tempo e dallo spazio e anch’essa ha subito delle rapide trasformazioni: oggi non esiste più una definizione condivisa di che cosa sia famiglia.


Questa istituzione negli ultimi anni è stata soggetta a diversi cambiamenti rintracciabili in quell’assenza di stabilità dettata dall’onlife e dalla liquidità che lo sostanzia. Essa attualmente sussume una svariata gamma di possibili relazioni, spesso molto diverse, che pongono in essere complesse variabili sia della genitorialità che dell’educazione. In questa situazione in cui nulla è più per sempre ed ha carattere di solidità, si aggiunge la precarietà stessa della famiglia, in cui tutto è misurato sul qui ed ora emotivo: «La vita di coppia e la vita in famiglia sono buone se mi fanno star bene emotivamente. Il partner ideale è quello che soddisfa i miei bisogni emotivi»(4). I genitori di oggi, appartenenti alla Generazione X o ai Millenials tendono ad esprime nel proprio impegno educativo comportamenti dicotomici. Questi comportamenti si esprimono da una parte in cure affettuose e premurose e d’altra parte con atteggiamenti di distrazione e distanza.

I genitori di oggi sono molto affettuosi ed attenti ai bisogni emotivi dei figli, travisando spesso l’affetto in una sconfinata permissività, che annienta la capacità autonoma del soggetto in crescita di riconoscere i propri bisogni e di darsi i propri permessi. Nell’adolescenza i figli vogliono sentire i propri bisogni e non accettano più anticipazioni da parte dei genitori, così che la relazione educativa salta ed il dialogo scompare, spesso venendo affidato ad un messaggio istantaneo in rete. I genitori si ritrovano così smarriti e mettono da parte la loro pretesa educativa, lasciando i figli orfani dei primi educatori, e affidano ad altre agenzie educative il compito di formare i loro figli.


l contributo della sociologia dell’educazione per possibili prospettive future

Il quadro contemporaneo ci restituisce un’istantanea in cui la famiglia appare sempre di più in difficoltà e priva della propria prerogativa educativa, una peculiarità questa che la dovrebbe sostanziare in quell’essenza istituzionale che naturalmente le compete. In questo quadro può risultare importante l’apporto che può offrire la sociologia dell’educazione, poiché pone il suo fulcro di ricerca intorno al processo di socializzazione-educazione,attraverso il quale una società trasmette la propria cultura ai giovani, la fa loro interiorizzare e li aiuta a inserirsi nei gruppi e nelle istituzioni: «La sociologia dell’educazione accosta questo immenso campo di studio che interessa tutte le scienze dell’educazione secondo un’ottica specifica che è appunto quella sociologica. in altre parole tale approccio descrive e interpreta i comportamenti educativi in quanto uniformizzati e partecipati, cioè in quanto si ripetono con le stesse caratteristiche nel tempo e nello spazio; si può anche dire che essa si oc- cupa dei condizionamenti non individuali e degli effetti di vasto raggio che si riscontrano nel sistema sociale» (5).


Lo studio dei comportamenti sociali in ambito educativo, che in questa sede sono stati focalizzati sul ruolo sociale ed educativo della famiglia, non si può fermare solo alla ricerca ed alla constatazione del dato, ma è chiamata a fornire strumenti di riflessione per comprendere meglio la realtà e per offrire piste di impegno concreto per superare quegli elementi di difficoltà che segnano la contemporaneità.In questo orizzonte si passa dalla ricerca all’azione, offrendo contributi scientificamente fondati, mettendo in sordina opinioni distorte dal senso comune, al fine di fornire itinerari di senso alla sfida educativa che coinvolge la famiglia contemporanea nella sua fragilità.

Quale prospettiva si potrebbe delineare per aiutare i genitori a riscoprire il loro ruolo di educatori? Non è facile trovare una soluzione a questa importante domanda. Certo è che occorre prospettare un superamento della liquidità del tessuto familiare. Occorre riscoprire a livello culturale e sociale le potenzialità interne e conseguentemente esterne di una famiglia capace di ritrovare le sue profonde radici. Con ciò, si rende necessario che coloro i quali operano nell’arduo campo dell’educazione ritrovino un impegno condiviso, non solo per orientare le dinamiche sociali alla luce di un solido paradigma valoriale fondato sulla dignità della persona umana, ma anche per valorizzare la soggettività della famiglia e la sua capacità di essere la cellula vitale della società, fonte primaria dell’educazione.

NOTE:

[1] P. Gianola, Educazione, in J.M. Prezzello, G. Malizia, C. Nanni, Dizionario di scienze dell’educazione, LAS, Roma 2008, p. 370.

[2] L. Raspi, Educazione, Pedagogia e Irc, in L. Raspi (ed.), Pedagogia e didattica dell’insegnare religione, San Paolo, Milano 2020, p. 13.

[3] L. Floridi, L’era dell’Iperstoria, in https://tlon.it/luciano-floridi-lera-delliperstoria/

[4] P. Benanti, Digital age, San Paolo, Cinisello Balsamo 2020, p. 153.

[5] G. Malizia, Sociologia dell’educazione e della formazione, CNOS-FAP (Centro Nazionale Opere Salesiane – Formazione Aggiornamento Professionale), Roma 2012, p. 6.


IL DANNO ENDOFAMILIARE: CONDANNATO IL PADRE CHE ABBANDONA I FIGLI ADOTTIVI

di Martina Grassini

L’”illecito endofamiliare” si riferisce alle violazioni cha avvengono all’interno del nucleo familiare e che possono verificarsi, dunque, sia nel rapporto tra coniugi, sia tra i figli e i genitori.

<<=== avv. Martina Grassini

La Cassazione, con sentenza n. 9188/2021, ha riconosciuto ai figli adottivi il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente ad un illecito endofamiliare da parte del padre. Nel caso di specie il risarcimento viene determinato dalle condotte del padre che, responsabile della crisi coniugale, per le modalità “traumatiche” della rottura ha determinato una condizione di senso di abbandono dei figli adottivi, maggiormente fragili in quanto già segnati da un abbandono originario.

Il padre, infatti, a seguito della separazione dalla moglie, si allontanava geograficamente, trasferendosi in un’altra città ed ivi formando una nuova famiglia, facendo in tal modo mancare la figura genitoriale paterna ai figli adottivi. I Giudici, nel condannare l’uomo, rilevavano come tali condotte del padre avessero “riacutizzato nei minori il trauma dell’abbandono ponendo a grave rischio il loro futuro equilibrato sviluppo”.

Pertanto, nel caso in esame, il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale è connesso e conseguente alla lesione del diritto dei figli di essere cresciuti e da entrambi i genitori e dalla sofferenza causata dall’assenza del padre.



Tutto crolla affinché nulla cambi

di Emilia Urso Anfuso

Tomasi di Lampedusa, nel suo “Il Gattopardo” mise in bocca al personaggio di Tancredi, nipote del principe di Salina: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. Questa frase ha un chiaro significato: affinché il potere resti al suo posto, deve essere in grado di far pensare di adattarsi ai cambiamenti, anzi, di sostenerli.

dott/ssa Emilia Urso Anfuso ==>>

È ciò che avviene da molto tempo in Italia, anche se nel corso degli ultimi anni qualcosa è cambiato, o meglio, qualcosa di nuovo sembrava essere arrivati per cambiare. In realtà, l’ennesima rappresentazione del cambiamento serviva solo a calmare acque agitate, a metter buoni i cittadini, a sedare focolai di rabbia popolare.

L’avvento del M5S a molti fece sperare che la propagandata “Aria del cambiamento” avrebbe prodotto un reale ribaltamento della situazione politica, ritenuta – da molti elettori – ormai giunta a un insano distacco dalle esigenze della popolazione, e a un famelico attaccamento a poltrone, potere e denaro.

Al grido di “Apriremo il Parlamento come una scatola di sardine” i cinque stelle sedettero ai posti di comando per restarvi stabilmente incollati. Mentre il sistema Italia continuava a traballare, mentre le finanze nazionali invece di essere razionalizzate continuavano a essere sperperate e redistribuite in nuovi rivoli mai dedicati alle esigenze della popolazione meno ingente, si maturava l’idea che, prima o poi, il cambiamento promesso sarebbe giunto. “Diamogli tempo” e “Fateli lavorare” sono state le frasi di sottofondo di un periodo storico segnato da scaldali, omissioni, mala gestione della cosa pubblica,  misure scopiazzate da altre nazioni – come il reddito di cittadinanza – e adesione totale a quella politica che a parole dicevano di voler ribaltare.

Nel frattempo, però, l’Italia che già necessitava di robuste inoculazioni di consolidamento dei vari settori socio economici, crollava miseramente sotto il solito peso: quello della bulimia di potere. Unico elemento certo e stabile nella storia della Repubblica italiana.

Oggi, a fronte di una situazione resa anche schizofrenica dall’avvento dell’emergenza sanitaria, tutto sta crollando e nulla fa pensare a un risorgimento del sistema, sia esso politico, economico, sociale o strutturale.

È sufficiente verificare come ci siamo ridotti con l’obbligo della richiesta di prestiti che ci arriveranno dalla UE, e che ripagheremo con la cancellazione di garanzie di futuro, di diritti e di certezze. Le famose “riforme” non ammoderneranno il sistema paese, perché saranno atte solo a privare gli onesti cittadini di quelle conquiste civili collezionate nel corso dei secoli.

Che tutto crolli affinché nulla cambi. È questa la strategia messa in atto in questo terzo millennio che doveva rappresentare l’era della modernità, e ci ha invece riportati indietro di qualche secolo. D’altronde, in un paese come il nostro, sconquassato da decenni di mala politica e mala amministrazione, è bastata una spolverata di prospettiva di poter morire anzitempo a causa di un virus per tacitare qualsiasi velleità di rivolta contro un potere ormai smisurato. Tutto passa in secondo e terzo piano, se il rischio prioritario non è più quello di non avere diritti civili, bensì quello di ritrovarsi con un tubo ficcato in gola e lo spauracchio di non svegliarsi dalla sedazione farmacologica.

Qualcuno potrebbe dire: al primo posto la salute! Si, certo. Peccato che per anni si è perso tempo a colpevolizzare i governi precedenti, le amministrazioni precedenti, le corruzioni precedenti, in un infinito scarica barile che, oggi, ci fa subire la scarsità di posti letto negli ospedali, l’impossibilità di ottenere una cura a una malattia ancora per certi versi oscura, e una nazione che crolla a pezzi, un’infrastruttura dopo l’altra, perché tanto al nulla del sistema di gestione del paese eravamo abbastanza abituati.

È all’abitudine che bisognerebbe dar battaglia in questo paese popolato da persone di scarsa memoria, ma forse ogni singolo cittadino ritiene di averne in abbondanza per rammentare ciò che è prioritario per se stesso. La coesione scarseggia anch’essa, come la coerenza.


Cerca

Archivio