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LA PERCEZIONE INDIVIDUALE E SOCIALE DELLA REALTA’

di Giovanni Pellegrino

In questo articolo, prenderemo in considerazione uno degli oggetti di studio più importanti della sociologia e della psicologia sociale ovvero la percezione individuale e sociale della realtà.

<<==Prof. Giovanni Pellegrino

Dobbiamo per prima cosa mettere in evidenza che gli uomini sono influenzati, non tanto dalla realtà in sé stessa, ma dal modo in cui la percepiscono e la interpretano.

Col temine di percezione individuale della realtà intendiamo il modo in cui un individuo interpreta, definisce la realtà sociale. Per percezione sociale della realtà, intendiamo il modo in cui la maggioranza degli individui appartenenti a un dato sistema sociale interpreta la realtà. A sua volta Vallée afferma che gli uomini sono influenzati, non tanto dai fatti reali, quanto dalla loro interpretazione di tali fatti.

Per quanto riguarda la percezione individuale della realtà riveste grande importanza in sociologia il teorema di Thomas: “se gli uomini definiscono reali le situazioni, esse saranno reali nelle loro conseguenze”. Per fare un esempio se un individuo ritiene che una determinata situazione sociale sia pericolosa egli si comporterà in maniera conseguenziale anche se il pericolo non è reale. Blumer uno dei principali esponenti dell’interazionismo simbolico ha messo in evidenza che il comportamento degli individui dipende da due processi di tipo mentale: l’auto-indicazione e l’interpretazione della realtà sociale. Per mezzo dell’autenticazione il soggetto dà indicazioni a sé stesso riguardo ai fatti sociali, alle situazioni e cerca di valutare le informazioni e le prospettive nonché il significato collegato ai fatti sociali.

Alla fine del processo di auto indicazione l’individuo elabora la propria interpretazione della realtà. Essa tuttavia non è stabile e può andare incontro a modifiche nel corso del tempo. Sono infatti sempre possibili nuove reinterpretazioni dovute sia a fattori oggettivi (acquisizione di nuovi dati) sia a fattori soggettivi come ad esempio variazioni dello stato d’animo ,nuove motivazioni, irruzioni di passioni o stereotipi più violenti. Dobbiamo tenere presente che spesso gli individui interpretano la realtà tenendo conto più  delle loro emozioni che non delle loro capacità cognitive.

In ogni caso è quasi sempre vero che la realtà non è quella che veramente è ma quella che le persone pensano che sia (così è se vi pare diceva Pirandello).In altri termini esiste una realtà oggettiva ma quasi tutti gli individui la deformano in quanto esistono vari fattori psico sociali che rendono quasi impossibili giudizi imparziali sulla realtà sociale nella quale l’individuo vive. (Nemo iudex in causa propria).

Vediamo ora che cosa condiziona l’interpretazione individuale della realtà (ribadiamo che l’obiettività è un ideale regolativo quasi mai raggiungibile). In primo luogo, il modo in cui gli uomini interpretano la realtà è condizionato dal tipo di relazioni interpersonali che essi instaurano dal momento che la rete sociale di un individuo condiziona almeno in parte la “forma mentis” del soggetto. I rapporti interpersonali certamente non sono l’unico fattore in grado di condizionare il modo in cui l’individuo interpreta la realtà dal momento che grande importanza rivestono le norme sociali vigenti in un dato sistema sociale. Esse costituiscono un vero e proprio paradigma cognitivo ed emotivo che condiziona la percezione individuale della realtà, dal momento che solamente i devianti sfuggono al potere delle norme dominanti. Anche gli stereotipi condizionano la “forma mentis “degli individui soprattutto quando non sono “innocenti” ma di essi parleremo più avanti essendo essi di origine sociale.

Infine, l’interpretazione individuale della realtà può essere condizionata dagli interessi dell’individuo (percezione di tipo strumentale) che finisce per dare agli eventi la lettura più conveniente ai propri interessi accecato dal troppo amore per sé stesso.

Diversi fattori condizionano l’interpretazione sociale della realtà: imitazione sociale, fascino dei leaders carismatici, stato di effervescenza collettiva di ogni tipo presenza di stereotipi nonché fattori di tipo opportunistico. L’imitazione sociale e il contagio psichico condizionano molto la percezione sociale della realtà in quanto la maggior parte degli individui si fa condizionare da interpretazioni dominanti in un dato sistema sociale. Anche il potere carismatico esercitato da alcuni leaders condiziona il modo in cui grandi masse di individui percepiscono la realtà. Tali leaders riescono ad assumere un controllo così forte sulla mente delle folle che riescono a convincerle che l’unica interpretazione valida e convincente della realtà è quella da loro fornita .

Snaider afferma che essi riescono ad esercitare una specie di monopolio interpretativo dei fatti sociali. Anche alcuni eventi particolarmente forti e traumatizzanti che generano stati di effervescenza collettiva condizionano pesantemente la percezione sociale  della realtà. Col termine di effervescenza collettiva intendiamo un forte stato di alterazione cognitiva ed emotiva che interessa grandi masse di individui . Ad esempio, si parla di stato di effervescenza collettiva quando tutti gli abitanti di una città o di una nazione sono preda di un forte sentimento di rabbia e di delusione.

In questi casi viene fortemente condizionato il modo in cui grandi masse di individui percepiscono la realtà. Per fare un esempio particolarmente significativo l’attentato alle Torri Gemelle negli Stati Uniti è stato un avvenimento molto traumatico che ha determinato uno stato di effervescenza collettiva caratterizzato da un forte odio e risentimento di tutta la popolazione americana nei confronti fondamentalisti islamici. Anche il pensiero stereotipo condiziona l’interpretazione di massa degli eventi e dei fatti sociali : soprattutto gli stereotipi  neutrali sono fortemente condizionanti a livello della percezione sociale della realtà .

Definiamo neutrali gli stereotipi che hanno il solo scopo di mettere ordine nella complessità della realtà.

Si definiscono invece non neutrali quegli stereotipi che hanno lo scopo  di affermare la superiorità del proprio gruppo di appartenenza nonché l’inferiorità degli altri gruppi.  Infine, le motivazioni di carattere opportunistico possono a loro volta condizionare fortemente la percezione sociale della realtà . Per fare un esempio quando un gran numero di persone trae vantaggi di qualunque tipo interpretando in un certo modo gli avvenimenti, tale interpretazione sarà accettata a livello di massa e sarà rinforzata  dai meccanismi psicologici inconsci .Tali meccanismi hanno un forte potere sulla mente di moltissimi individui che vengono da essi influenzati anche se essendo meccanismi inconsci gli individui non si rendono minimamente conto di subire la loro influenza .

La percezione sociale della realtà è soggetta nella società contemporanea a frequenti e repentini mutamenti dal momento che i fattori che la condizionano sono essi stessi soggetti a frequenti mutamenti . Pertanto, dobbiamo dire che nelle società del passato l’interpretazione sociale della realtà era molto più stabile. Le persone che detengono il potere cercano in tutti i modi di avere un controllo sul modo in cui le masse interpretano la realtà  in quanto alcuni mutamenti del punto di vista dell’opinione pubblica potrebbero mettere in pericolo il loro potere. In effetti possiamo dire che controllare la percezione sociale della realtà è uno dei principali obiettivi di chi detiene qualsiasi tipo di potere.

Infine, volgiamo mettere in evidenza che anche le norme sociali sono molto condizionate dalla percezione sociale della realtà in quanto nel momento in cui in un dato sistema sociale si modifica l’interpretazione di ciò che è considerato normale, alcune norme perdono valore e vengono sostituite da altre  ( processo di saturazione delle norme sociali ). Di conseguenza anche la legittimazione sociale che è una variabile dipendente dal sistema delle norme sociali è condizionata dalla percezione sociale della realtà. Concludiamo tale articolo ribadendo che in tutti i sistemi sociali in tutte le epoche storiche la percezione sociale della realtà fa sentire la sua forte influenza in ogni settore della vita sociale.


L’idioma dei social network. Più che il medium poté il messaggio

di Patrizio Paolinelli

Nel 2015 Facebook ha registrato nel mondo un miliardo e 320 milioni di utenti. Segue Google Plus con 500 milioni, Instagram con 300 milioni e Twitter con 288 milioni. A questi risultati si può aggiungere il record di WhatsApp, che in solo giorno, il 1° febbraio 2016, ha contato un miliardo di utenti attivi nell’intero pianeta. Dinanzi a tali performance è quasi un luogo comune affermare che il successo dei social network e della messaggistica istantanea sta modificando il nostro modo di comunicare.

Prof. Patrizio Paolinelli ====^

Tendenza che trova conferma nella crisi generalizzata della carta stampata. Osservando i dati che riguardano il nostro Paese una recente indagine ha infatti rilevato che tra le prime cinque fonti di informazione degli italiani i quotidiani tradizionali sono assenti (Dodicesimo Rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione, 2015). Nell’insieme questa dinamica sembrerebbe dar ragione ad alcuni guru dei new media, secondo i quali i cambiamenti nel modo di comunicare tra le persone sono tali da modificare radicalmente il nostro modo di essere e di pensare. Ma è proprio così? Non del tutto.

A meno che non si voglia trasformare in un dogma la fortunata formula di McLuhan “Il medium è il messaggio“. Formula che pur avendo indubbi meriti euristici presenta due criticità. La prima è costituita non tanto dall’irrilevanza dell’oggetto di cui si discute così come accade nei litigiosi talk show quanto da ciò che il rumore della lite oscura, ossia l’oggetto stesso del dibattito.

<<== Marshal McLuhan

La cui irrilevanza costituisce l’obiettivo latente della spettacolarizzazione dell’informazione. La seconda criticità consiste nel subordinare all’apparato cognitivo tutte le altre qualità che contraddistinguono gli esseri umani nella loro veste di soggetti e oggetti della comunicazione: emozioni, desideri, volontà, spiritualità. Detto in altre parole i pur radicali mutamenti introdotti dai diversi medium nel modo di produrre, recepire e trasmettere messaggi – come ad esempio la comunicazione in tempo reale sui social network – non elimina affatto il problema dei contenuti dei messaggi stessi. Che io sia razzista a voce, sulla carta stampata, in Tv o su Twitter non cambia la sostanza del discorso pur avendo utilizzato medium differenti.

Sul piano dell’infosfera uno stop all’homo cognitivus che si staglia grazie alla formula “Il medium è il messaggio” giunge proprio dal Rapporto Censis-Ucsi sopra menzionato: nonostante il passo di carica del Web 2.0 la Tv resta la regina dei mediacontinuando ad avere una quota di spettatori che coincide sostanzialmente con la totalità della popolazione italiana, il 96,7%. Il che significa che ancora oggi è la Tv a determinare l’agenda degli argomenti da discutere nella sfera pubblica. E non basta la convergenza delle tecnologie mediatiche ad assicurare ad esempio un’informazione più libera e veritiera. La tanto efficiente quanto scandalosa manipolazione dell’opinione pubblica da parte degli “indipendenti” Tg occidentali pare più che sufficiente a ridimensionare l’esclusività del medium sul messaggio.

La domanda da porsi allora è: i social network fanno parte di un medium (Internet) autonomo rispetto a quello televisivo?

Il linguaggio dei social è stringato e diretto esattamente come il compulsivo ritmo di immagini televisive, proprio perché entrambi i codici devono fare i conti con l’istantaneità del tempo reale. E in questa circostanza il medium è davvero il messaggio perché comporta la riconfigurazione di un apparato cognitivo che deve adattarsi a una comunicazione ultrarapida nettamente differente da quella tipografica tipica del libro, della rivista, del quotidiano. Ma la comunicazione non si esaurisce certo nella grammatica delle immagini televisive o nel contratto lessico del Web 2.0. E in questo senso Umberto Eco, pur riconoscendo aspetti positivi dei social network, ha parlato di “legioni di imbecilli” che su Facebook fanno opinione quanto e più di un premio Nobel: “La televisione aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità”.

Intendendo con ciò il trionfo della superficialità sull’approfondimento. Tuttavia la superficialità, e per essere più precisi la superficialità del linguaggio pubblicitario, sembra essere la cifra della comunicazione d’oggi. Si tratta di un fenomeno trasversale a tutti i media. E così come la pubblicità offre al grande pubblico un linguaggio, un modo d’essere e di vivere allo stesso modo Facebook soddisfa nelle persone la voglia di apparire, di far parte di una tribù e di accrescere l’autostima. Insomma, più che il medium poté il messaggio. Questo perché gli esseri umani per loro natura attribuiscono un senso a ciò che fanno: dall’acquisto di prodotti per ridurre il girovita, anche se non ne hanno bisogno, a prese di posizione sulla politica internazionale, anche se ne sanno poco o nulla.

Un caso esemplare di attribuzione di senso tramite la superficialità è recentemente offerto dalle performance in rete di Martina Dell’Ombra. Si tratta di una giovane video-blogger venuta dal nulla che registra centinaia di migliaia di visualizzazioni su YouTube mentre su Facebook piace a 118.378 persone. I motivi del suo exploit sono dati da quel che dice e da come lo dice. Sul piano dei contenuti Martina Dell’Ombra spazia praticamente per ogni dove. Non c’è tema all’ordine del giorno del dibattito pubblico su cui non esprima un parere: dai problemi della scuola a quelli dell’immigrazione, dalle vicende politiche alle polemiche sul Gay pride e così via. Le sue opinioni sono un campionario di banalità piccolo-borghesi alimentate da decenni d’informazione mainstream: paura nei confronti degli immigrati, elogio dell’apparenza, superiorità della nostra civiltà. In un video propone addirittura di dividere Roma in due aree: la zona sud abbandonata agli immigrati e quella nord destinata ai nativi.

Un esodo interno necessario perché Roma sud è “svantaggiosa” per diversi motivi. Ad esempio, la metro di Roma nord “è più figa” di quella di Roma sud, zona povera della città invasa da stranieri e in cui si vedono in giro persone malvestite che per di più puzzano. Certo, gli stranieri sono presenti anche a Roma nord. Ma stanno “rintanati nei loro negozietti” e non occupano la capitale. Non basta. A Roma sud ci sono le prostitute di strada, mentre a Roma nord “Le prostitute si chiamano escort e sono persone rispettabilissime che potete trovare su Facebook, su Twitter eccetera, che magari spesso a volte lavorano anche in televisione e tutto. Cioè, comunque una cosa più de classe diversa”.

Perorazioni di questo tipo trasmesse con un italiano incerto la giovane video-blogger ne dispensa a iosa senza ricorrere alla rabbia gridata dei leghisti. Martina Dell’Ombra dispensa i suoi consigli con un tono da svampita ottenendo un tale successo di pubblico da destare l’attenzione della Tv. Sky TG24 le ha infatti dedicato una lunga intervista in quanto fenomeno del Web e presentandola col suo cognome per esteso, Dell’Ombra de Broggi de Sassi. In quell’occasione Martina ha ribadito col tono disarmante dell’oca giuliva il suo interesse per la politica senza trascurare l’importanza dei fatti di costume. Ma c’è una sorpresa. E che sorpresa. Martina Dell’Ombra de Broggi de Sassi è una finzione, un personaggio costruito ad arte. In realtà la video-blogger è un’attrice teatrale siciliana il cui vero nome è Federica Caccioli.Insomma, l’attrice ha preso in giro l’intera infosfera e un’armata mediatica come Sky TG24 c’è cascata in pieno confermando sia la superficialità di molta informazione televisiva sia l’ingenuità di tanti frequentatori dei social network. La celebrità raggiunta da Martina Dell’Ombra dimostra che l’inganno, la genericità e la cultura piccolo-borghese dilaganti nella società dello spettacolo permettono sempre meno di distinguere tra dramma e farsa pur essendo tutti noi perennemente connessi grazie alle tecnologie digitali. I libri sono un buon antidoto per discernere il vero dal falso e tuttavia né la Tv né il Web 2.0 vanno demonizzati. Semmai maggiormente democratizzati.

Per gentile concessione dell’autore, in precedenza pubblicato su “Via Po cultura”


Pilato e Biles: l’etica della sconfitta

di Giampaolo Latella

Due storie al femminile ci raccontano il “lato oscuro della luna”, per dirla con i Pink Floyd. Le protagoniste sono Benedetta Pilato e Simone Biles: la  primatista mondiale dei 50 rana di nuoto e la ginnasta dei record che, giovanissima, stupì il mondo conquistando a Rio quattro ori olimpici e, poi, cinque titoli iridati.

<< == Giampaolo Latella

Soggiogate al loro talento e schiacciate dal peso delle aspettative, entrambe a Tokyo hanno fallito. Squalificata l’italiana – appena sedicenne – al termine di una gara che ha definito “orribile”; ritirata l’americana nella finale a squadre che ha fatto sfuggire il gradino più alto del podio alla nazionale Usa. I fallimenti di Benedetta e Simone impressionano per le tante analogie. Arrivate in Giappone con i favori del pronostico e la pressione dell’opinione pubblica in patria, non sono riuscite a nascondere il motivo della loro sconfitta che è da ascrivere soprattutto a un crollo psicologico.

” I DEMONI NELLA TESTA”

Pilato ha fatto autocritica, in lacrime, davanti alle telecamere. Biles, dopo un primo tentativo di far passare il ritiro come la conseguenza di un infortunio, ha ammesso la complessità del momento che vive: “Ho i demoni nella testa”. Non è certo l’elemento agonistico a interessare in questa sede, quanto il fattore emotivo che ha frenato il rendimento delle due atlete, svelandoci la loro fragilità, drammatica e umana.

Benedetta e Simone sono rimaste in ostaggio della loro fama, divorate dalle dinamiche di uno “star system” sportivo cinico e spietato, che non perdona e trasforma le gratificazioni in una prigione dorata: una torre eburnea di solitudine, di paura, di emozioni soffocate e represse. Non sono certo le prime né le ultime sportive a vivere una crisi. E certamente non saranno le prime, né le ultime a sopravvivere dopo aver bevuto il calice del fallimento.

Ma deve far riflettere la loro condizione: diversa nelle proporzioni, ma non nelle potenziali conseguenze, da quella di tanti giovanissimi che non riescono a far fronte alla “condanna”, alla riprovazione sociale, al marchio indelebile che sente addosso chi non raggiunge un traguardo, non solo sportivo.

La società dell’immagine nella quale siamo immersi impone canoni insostenibili e irrealizzabili, nell’idolatria del successo, dell’ammirazione e dell’accettazione altrui, del facile arricchimento, della spasmodica ricerca di follower sui social, dell’inseguimento di modelli estetici di una bellezza asettica e innaturale, conformistica, di plastica.

Esempi che rischiano di minare le fondamenta del nucleo della personalità dei ragazzi, oggi peraltro ancora più a rischio, dopo un anno e mezzo di pandemia (e di dad) che li ha privati della forma tradizionale ed essenziale di socialità tra coetanei: la scuola.

Tutto questo si aggiunge al già pesante carico che il Covid-19 ha comportato sul piano didattico. Secondo Save the children, si stima che nel mondo siano stati persi 112 miliardi di giorni dedicati all’istruzione, con i bambini più poveri ad essere maggiormente colpiti. In particolare, si ipotizzano una perdita di apprendimento equivalente a 0,6 anni di scuola e un aumento del 25% della quota di bambini e bambine della scuola secondaria inferiore al di sotto del livello minimo di competenze.

Ma torniamo allo sport, che nel mondo pre-Covid era una delle principali agenzie educative. I drammi, tecnici e umani, di Benedetta Pilato e Simone Biles non possono lasciarci indifferenti. Anzi, devono trasformarsi in un monito e in una sollecitazione a un impegno collettivo per una nuova pedagogia che punti a rafforzare il senso di sé e la personalità dei giovani. In particolare dei bambini e degli adolescenti, oggi vittime del bombardamento mediatico che si auto-infliggono a causa della solitudine, della mancanza di stimoli, dell’assenza di luoghi e di momenti di aggregazione reali.

C’è da interrogarsi su quale modello di società stia nascendo in questi anni. Una società di monadi tristi e prive di vitalità, di ragazze e ragazzi “condannati” a eccellere, a conformarsi a mode, trend topic e challenge, a credere che il fine ultimo della nostra esistenza consista un pugno di dollari e di like, in un palmares di successi e conquiste.

Il rischio è che si perda di vista il senso della vita, che si smarrisca il contatto con la realtà, quella vera, non filtrata dallo smartphone.

Ben vengano, dunque, le sconfitte, necessarie per la maieutica delle emozioni, per la catarsi che passa dal pianto e, soprattutto, per accettare se stessi. Ma questo processo rischia di non concludersi mai se non sarà diffusa a tutti i livelli sociali un’educazione verso modelli meno sfrenatamente ambiziosi e, più semplicemente, umani.

Soccorrono così le parole di Nelson Mandela, presidente sudafricano e premio Nobel per la pace che anche attraverso il rugby contribuì a cambiare la storia del Novecento: “Non perdo mai. O vinco o imparo”. È l’etica della sconfitta. Di gran lunga più importante dell’ebbrezza della vittoria.


LA MORTE, LA SALUTE, LA MALATTIA E LA QUALITÀ DI VITA

di Simonetta Vernocchi

La morte e il lutto

L’educazione alla morte deve far parte «della educazione» e non demanderei alla scuola o ad altri un compito proprio della famiglia. Il compito di accompagnare la persona giunta al termine del proprio cammino non può essere solo una «mansione» sanitaria, ancor meno la missione del medico o dell’infermiere. Forse un tempo era il sacerdote a farsi carico del conforto del morente e del supporto alla famiglia, ma oggi non è più così.

<<== dott./ssa Simonetta Vernocchi

Aiutare nel bilancio di vita chi disperato si trova impreparato ad andarsene spetta davvero ai sanitari? E sostenere nel lutto la famiglia?

Personalmente lo vedo come un compito dei genitori quando educano i propri figli, della famiglia in toto di fronte ad un anziano o un malato, della Chiesa o per chi vede una vita oltre la morte, forse in parte anche della scuola.

E poi?

La sociologia, la psicologia e la filosofia devono avere come obiettivo anche quello di educare alla morte, ciascuna per la parte che compete.

Ciascuno dovrebbe imparare nel corso della vita ad accogliere la fine come parte del proprio percorso terreno, prepararsi alla morte. Invece si usano le perifrasi, è venuto a mancare, è dipartito, si è sottratto all’affetto dei suoi cari, è scomparso precocemente, è accaduto l’imprevedibile, è venuto meno e non si cita la parola morte.

Sla

La vita umana ha un suo esordio ed una sua fine, e se la fine non avviene a causa di un trauma o di suicidio, avviene necessariamente per malattia: morire di malattia è un evento naturale. È la norma. Allora perché è così difficile parlarne? Spesso il medico è l’unico interlocutore per le persone giunte a fine vita, come se la morte altro non fosse che il fallimento della medicina, come fosse il risultato di un errore nel processo decisionale o terapeutico di qualcuno. La comunicazione con la persona morente e con la sua famiglia deve tener conto delle caratteristiche dell’individuo, della sua storia, del suo contesto sociale e colturale, dello stato emotivo, del bisogno di sapere o del rifiuto della verità che viene proposta.

Il lutto ha un valore personale nell’espressione del dolore, sociale nella condivisione dello stesso, talvolta agiamo il lutto anticipatorio per cercare di esorcizzare il dolore. E quando il dolore della perdita non se ne va? Anche dopo 30 o 40 anni ancora sembra riviverlo? Ecco il lutto patologico.

Trovare le parole giuste, il contesto contenitivo, l’empatia necessaria ci aiuta a svolgere al meglio uno dei compiti più importanti e difficili: aiutare a congedare i nostri cari da questo mondo, trovare un modo per sentirli comunque vicini, riuscire a voltare pagina.  La modalità di comunicazione “corretta” rispetto al lutto si può apprendere, sia facendo tesoro degli studi scientifici in materia, sia condividendo le proprie esperienze. In contesti particolari come i reparti di pediatria, neonatologia, ostetricia, o di area critica come terapia intensiva, pronto soccorso, la comunicazione della morte è più difficile perché la morte stessa qui davvero pare fuori luogo, non è mai attesa.

Di grande attualità sono i temi delle direttive anticipate e del testamento biologico, definendo le condizioni di malato terminale, di stato vegetativo, di stati di minima coscienza e la condizione definita locked-in syndrome si possono fare delle distinzioni e definire i campi di applicazione dell’eutanasia e della sospensione delle cure per astensione terapeutica. Consideriamo infine la condizione di malattia terminale oncologica piuttosto conosciuta e la non oncologica di fatto più frequente. In questo cammino di consapevolezza e di accompagnamento la figura del medico non può essere la sola, lo spazio per figure professionali della tradizione come l’infermiere, il sacerdote o lo psicologo sono gradite ma spesso poco reperibili. Figure nuove come il counselor socio-olistico possono essere preziose.

Definizione dello stato di salute e di qualità di vita

Se chiediamo ad un gruppo di studenti di una qualsiasi scuola superiore se hanno idea sia la salute tutti risponderanno di certo con una di queste definizioni: «l’assenza di malattia», «lo sta bene con sé stessi» «la capacità di adattarsi» e cosa sia la malattia lo si definisce in negativo. Nei libri di testo un po’ datati di scienze mediche troviamo definizioni simili un po’ più elaborate: «la mancanza di impedimenti alle funzioni dell’organismo o alla sua sopravvivenza», «salute come condizione o qualità dell’organismo umano che consente un funzionamento adeguato in date condizioni genetiche o ambientali», «capacità di efficiente esecuzione delle funzioni biologiche corporee, in una vasta gamma di condizioni ambientali mutevoli». La definizione di salute secondo la Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, 2004) stato di benessere in cui l’individuo indirizza le proprie abilità, è in grado di gestire le normali situazioni di stress, di lavorare produttivamente e fruttuosamente, e di dare un contributo alla propria comunità”. La parola malattia non viene neppure menzionata. La salute ha a che fare con il lavoro, con la produttività con la comunità.

La definizione di qualità di vita secondo la Organizzazione Mondiale della Sanità è stata messa a punto dal gruppo di studio definito WHOQOL o WHO Quality of Life nel 1995, come “la percezione da parte degli individui della posizione che occupano nella propria vita, all’interno della cultura e del sistema di valori in cui vivono, ed in relazione ai propri obiettivi, aspettative e parametri di riferimento ed interessi”. Anche per la qualità di vita non si parla di dolore, di sofferenza, di malattia, ma di valori, di cultura, di obiettivi. Queste sono sicuramente definizioni pre-pandemiche. Non possiamo non considerare il dolore, la morte, la malattia, la sofferenza e per contro tutto ciò che procura gioia, felicità, soddisfazione

Se chiediamo al solito gruppo di studenti di una scuola superiore cosa procura a loro gioia, felicità, soddisfazione risponderanno secondo le affermazioni riportate di seguito.

  • Star bene con sé stessi.
  • Successo sportivo.
  • Fare volontariato.
  • L’indipendenza.
  • Trovare l’anima gemella con cui condividere piccole gioie famigliari, fare focolare.
  • Acquisire autostima.
  • Riuscire ad avere anima e corpo indivisi.

Adulti, bambini e anziani valutano la qualità di vita in modo è diverso, negli anziani il dolore e la malattia occupano un posto abbastanza costante. Nell’anziano ammalato si parla di piccole gioie anche nella malattia, di riacquisire indipendenza, di essere nuovamente autonomo. Inoltre, il lutto e il distacco possono condizionare le condizioni di ciascuno. Nel post-covid ciascuno dovrebbe aver appreso la bellezza delle cose semplici, importanza del tempo.

La maggior parte delle persone, indipendentemente da età e sesso, identifica come stato di gioia, felicità le esperienze riportate di seguito.

  • Ritrovare, ricongiungersi con una persona cara dopo un certo tempo.
  • Le relazioni sessuali soddisfacenti danno sicuramente emozioni complesse: bramosia, desiderio, eccitazione fino al sollievo dopo l’orgasmo.
  • La nascita di un figlio che comprende: eccitazione, lo stupore, il sollievo, la gratitudine, la fierezza è considerata dai più la più grande gioia.
  • Lo stare insieme alla persona amata (partner).
  • Relazioni famigliari amorevoli (siano esse reali, ricordate, immaginate, sublimate).
  • Godere di salute buona ed assenza di dolore.

Strumenti di misurazione della qualità di vita e buona salute

I criteri dell’WHO Quality of Life, stabiliti dal gruppo di studio 1995 poi modificati nel 2010, per renderli più oggettivi ed applicabili a tutti gli individui, li ritroviamo anche nella «psicologia della salute» (La psicologia della salute Antonella delle Fave e Marta Bassi ed. Utet, 2013).

Tali criteri considerano una visione integrata (olistica) dell’individuo in cui lo stato di benessere, piuttosto che l’assenza o la presenza di malattia, è stimabile nei sei ambiti (definiti anche domini) di: salute fisica, area psicologica, indipendenza, relazioni sociali, ambiente, religione e credenze personali. Questi ambiti rappresentano un tentativo di misurazione transculturale della qualità della vita.

Dominio 1 Salute fisica
  Dolore e disagio
  Energia e stanchezza
  Sonno e riposo
Dominio 2 Area psicologica
  Sentimenti positivi
  Pensiero, apprendimento, memoria, concentrazione
  Autostima
  Immagine corporea ed aspetto fisico
  Sentimenti negativi
Dominio 3 Indipendenza
  Abilità della vita quotidiana
  Dipendenza da farmaci e trattamenti
  Capacità lavorativa
Dominio 4 Relazioni sociali
  Relazioni personali
  Sostegno sociale
  Attività sessuale
Dominio 5 Ambiente
  Senso di sicurezza e incolumità fisica
  Ambiente domestico
  Risorse finanziarie
  Assistenza sanitaria e sociale: disponibilità e qualità
  Opportunità di acquisire nuove conoscenze e abilità
  Partecipazione e nuove opportunità di ricreazione e di svago
  Ambiente fisico
  Trasporti
Dominio 6 Spiritualità, religione e credenze personali
  Senso di connessione con un essere o forza spirituali
  Significato della vita
  Reverenza suggestione
  Utilità e integrazione tra mente, corpo ed anima
  Forza spirituale
  Pace, serenità, armonia interiori
  Speranza ed ottimismo
  Fede
  Qualità di vita generale
Ad ogni dominio viene attribuito un punteggio  
La somma dei punteggi identifica lo stato di salute  

I risultati dell’applicazione di questa tabella hanno “limiti” dati dalle caratteristiche personali dell’individuo, in particolare il peso dell’esperienza religiosa che riesce a condizionare gli altri ambiti. Pertanto, nella valutazione dei risultati occorre specificare se si tratti di persona religiosa o meno.

Webinar dell’ ASI -Associazione Sociologi Italiani dello scorso 17 luglio 2021

Valutazioni e contenuti oggettivi e soggettivi

Nella valutazione della salute dell’individuo si devono distinguere criteri oggettivi intesi come salute fisica misurabile e soggettivi intesi come salute percepita dall’individuo circa il proprio stato. Si distingue anche un contenuto oggettivo ed uno soggettivo. Il contenuto oggettivo è misurabile e consiste nella diagnosi medica di patologia. Il contenuto soggettivo è la variabile di soddisfazione e di felicità di un individuo.

Se incrociamo i 4 criteri otteniamo una tabella

Contenuto Valutazione Valutazione
  Oggettiva Soggettiva
Oggettivo I II
Soggettivo III IV

I gruppo: contenuto oggettivo e valutazione oggettiva: valutiamo una persona sulla base del fatto che sia felice e con esami medici perfetti. Si sente felice, si sente bene ed oggettivamente si sente bene.

II gruppo: contenuto oggettivo, valutazione soggettiva: valutiamo una persona sana ma depressa. Gli esami medici non rilevano alcun problema fisico, né disturbo psichiatrico, ma la persona non è felice, si sente depressa. Certo chi ha subito un lutto, una perdita grave sia in termini di affetti, che di lavoro, o di altra delusione ha ragione di non essere felice, pur non soffrendo di alcuna patologia psichiatrica.

III gruppo: contenuto soggettivo e valutazione oggettiva: valutiamo la felicità di una popolazione in base al tasso di suicidio. È un dato significativo e difficilmente confutabile anche se in certi contesti può essere camuffato da incidente domestico per esempio. Nel «Health for the world’s adolescents» l’OMS evidenzia come nei giovani di tutto il mondo, di età compresa tra i 10 e i 19 anni, il suicidio sia la terza causa di morte dopo gli incidenti stradali e l’Aids. A livello mondiale si colloca fra le tre principali cause di morte per le persone di età compresa tra i 15 e i 44 anni e i tentativi di suicidio sono fino a 20 volte più frequenti dei suicidi effettivi e, se a quelli riusciti aggiungiamo i tentativi non riusciti, allora diventa la prima. Nelle nazioni industrializzate il suicidio arriva a essere la seconda o la terza causa di morte tra gli adolescenti e i giovani adulti.

IV gruppo: contenuto soggettivo e valutazione soggettiva: valutiamo la felicità con schede di autovalutazione. Sicuramente molto di questa indagine può essere manipolata o semplicemente può risentire del tipo di campione. Mi sembra quindi evidente che non è assolutamente facile né scontato utilizzare scale per valutare lo stato di salute di un individuo e molto in ogni caso, deve essere lasciato alla sensibilità del valutatore.

Diritto alla salute e diritto alle cure

Il diritto alla salute e la libertà di scelta terapeutica sono sanciti dall’art. 32 della Costituzione italiana:

«La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

Sorgono alcune domande che riportiamo di seguito. Il diritto è alla salute o il diritto è alla cura? E se la terapia fallisce, ho diritto al risarcimento? Posso imporre un trattamento sanitario obbligatorio? Posso imporre un accertamento sanitario obbligatorio? Negli intenti del legislatore questo articolo tutelava gli indigenti, mirava a fornire cure gratuite ed un livello minimo di assistenza. Oggi però abbiamo assistito ad un cambiamento: la salute è un diritto e la morte è il fallimento delle pratiche di cura. Si cerca immediatamente il colpevole.

Era prevenibile, era una morte evitabile? Chi ha sbagliato dovrà pagare! Certo siamo 7 miliardi, a tutti prima o poi toccherà di morire, nei prossimi 100 anni avremo 7 miliardi di morti, saranno 7 miliardi di errori medici? Di fallimenti terapeutici? Grazie alla pandemia abbiamo capito che se non proprio la morte, la malattia può colpire chiunque senza preavviso, ricchi, poveri, potenti, diseredati, colti, ignoranti, bimbi ed anziani, e proprio i detentori del «sapere medico» sono i primi ad andarsene, nonostante l’accesso alle migliori cure.

La pandemia ha messo a nudo i limiti del nostro sapere medico, ha mostrato che la cura del paziente è qualcosa di più e di differente rispetto alla semplice terapia farmacologica.

Ha evidenziato le fragilità del nostro sistema sanitario e ci ha obbligato ad operare scelte in aperta contraddizione con alcuni assiomi dell’articolo 32 della nostra costituzione: siamo stati privati della nostra libertà, siamo stati obbligati alle cure.

Credo che dovremo parlare di modalità di cure pre-pandemia e post-pandemia.

Modifichiamo il nostro approccio al paziente, cerchiamo di essere più umili e più disponibili al confronto.

Dott. Simonetta Vernocchi – Medico e Sociologa ASI


La teoria dei tratti intorno alla leadership

di Giovanni Pellegrino e Mariangela Mangieri

Non esiste alcun dubbio che il fenomeno più importante della dinamica di gruppo è la presenza in tutti i gruppi formali e informali di un leader. In questo articolo prenderemo in considerazione la teoria dei tratti, una delle teorie formulate per spiegare e comprendere il complicato fenomeno della leadership. Si può definire il leader in maniera molto sintetica dicendo che egli è la persona che esercita più influenza in un dato gruppo.  

<<== Prof. Giovanni Pellegrino       

            

La prima teoria dal punto di vista temporale formulata sulla leadership è proprio la teoria dei tratti.  I primi approcci teorici alla comprensione del fenomeno della leadership hanno tentato di evidenziare un insieme di caratteristiche della personalità che darebbero all’individuo la possibilità di diventare un leader. L’idea sottostante all’approccio ti tipo individualistico alla teori dei tratti  è che leader si nasce non si diventa, ovvero esistono degli individui che possiedono delle propensioni naturali ad esercitare il potere ai vari livelli. Tale idea dell’esistenza dei  leader naturali è talmente semplice e affascinante che ha da sempre avuto un notevole seguito e conserva anche oggi un certo fascino. Infatti basta leggere settimanali e quotidiani per cogliere sistematicamente dei riferimenti a qualche leader descritto come naturalmente portato al comando o dotato di carisma naturale. Il tentativo di spiegare il fenomeno della leadership in tale modo prende il nome di teoria dei tratti dal momento che cerca di individuare i tratti psicologici.

Gli psicologi sociali e i sociologi hanno elencato una lunga serie di caratteristiche psicologiche che dovrebbe possedere un individuo per diventare: l’intelligenza, l’intuizione, la socievolezza, l’abilità nell’influenzare il comportamento degli altri, la tanacia nel perseguimento degli obiettivi, la rapidità, l’originalità nel risolvere le situazioni problematiche nonché il desiderio di comandare. Anche se la teoria dei tratti ha avuto l’innegabile merito di mettere in evidenza che i leader devono avere una serie di caratteristiche psicologiche che li differenziano tra gli altri individui, presenta tuttavia alcuni punti deboli che ora metteremo in evidenza. La prima di tali debolezze è quella di prendere in considerazione solo uno degli elementi del processo della leadership, cioè il leader, tralasciando gli altri elementi di tale processo, ovvero i seguaci del leader e le situazioni sociali i contesti nei quali si afferma un deteminato leader. Dobbiamo mettere in evidenza che le caratteristiche dei potenziali seguaci del leader rivestono una grande importanza nel processo della leadership (ci riferiferiamo alle caratteristiche psicologiche e socioculturali degli individui).                      

Appare infatti evidente che un individuo può diventare leader di un gruppo solo se i tratti della sua personalità attirano l’ammirazione dei membri del gruppo. Supponiamo che le caratteristiche psicologiche dei membri del gruppo li rendano insensibili ai tratti che egli usa per conquistare la leadership, l’individuo in questione non diventerà mai leader del gruppo.Per fare un esempio ipotizziamo che un aspirante leader possieda tratti come l’intelligenza, la fiducia in se stesso e la capacità di influenzare gli altri ma non brilli nelle attività sportive. Ipotizziamo anche che i membri del gruppo siano fortemente attratti dalle attività sportive e di conseguenza siano portati ad idealizzare gli individui che brillano in tali attività.  Appare evidente che in questo caso le caratteristiche psicologiche dominanti dei membri del gruppo impediranno all’ aspirante leader di conquistare la leadership, dal momento che egli non brilla in quelle attività sportive che vengono idealizzate ed esaltate al massimon grado dai membri del gruppo in questione.                                             

 La teoria dei tratti sottovaluta anche l’importanza delle situazioni sociali nel processo della leadership, dal momento che persone che possiedono determinate qualità possono diventare leader in certe situazioni sociali ma non in altre. Prenderemo ora un esempio dalla storia contemporanea al fine di chiarire meglio tale concetto. Hitler riuscì a conquistare il potere in Germania e a spingere i tedeschi ad accettare la sua idea di sterminare gli ebrei non solamente perché aveva le caratteristiche del leader ma anche perché il popolo tedesco si trovava in una determinata situazione politica, economica e psicologica che facilitò notevolmente la conquista del potere da parte di Hitler.                                                                                                    

Non dobbiamo infatti dimenticare che la Germania è uscita sconfitta e umiliata dalla prima guerra mondiale e che si trovava in una situazione economica disastrosa ed inoltre veniva fuori dal fallimentare periodo della Repubblica di Weimar.Di conseguenza la grandissima maggioranza dei tedeschi aveva accumulato una fortissima dose di frustrazione e una notevole quantità di aggressività e di rabbia che aveva bisogno di scaricare su qualche capro espiatorio. Inoltre il popolo tedesco aveva una forte necessità di cancellare l’onta subita con la sconfitta nella prima guerra mondiale mettendo in atto una poitica estera fortemente imperialista al fine di tornare ad essere una potenza di livello mondiale. In una situazione storica e sociale di questo tipo Hitler apparve ai tedeschi il leader ideale per fare uscire la Germania da quella situazione frustrante in quanto praticò una politica estera estremamente imperialista che ridiede forza all’orgoglio nazionale tedesco ferito dalla sconfitta.                                                                                           

Hitler utilizzò l’ideologia della razza ariana per provocare una forte esaltazione del popolo tedesco e offrì un capro espiatorio sul quale scaricare le loro frustrazioni e la loro aggressività. Appare evidente ai sociologi e agli storici sociali che se la Germania non fosse uscita sconfitta dalla prima guerra mondiale e se i sentimenti dominanti nel popolo tedesco non fossero stati in quel periodo storico la rabbia, la frustrazione, il desiderio di vendetta nonché il desiderio di riacquistare potere a livello mondiale, Hitler non sarebbe mai riuscito a conquistare il potere. A maggior ragione Hitler non sarebbe mai riuscito a convincere la maggior parte del popolo tedsco a rendersi colpevole di crimini così abominevoli nei confronti degli ebrei.                                                                                                                                                               

In conclusione sebbene nessuno può negare che Hitler avesse i tratti psicologici del leader ed un forte carisma appare evidente che egli poteva diventare leader del popolo tedesco solamente in quella particolare situazione storica, sociologica psicologica.La forte frustrazione e l’altrettanta forte rabbia che dominavano incontrastate nel popolo tedesco in quel periodo storico causarono un’alterata percezione sociale collettiva della realtà che fece in modo che il popolo tedesco accettasse passivamente e con molto entusiasmo le deliranti e folli idee di Hitler a cominciare da quella che gli ebrei avevano ordito un complotto contro la Germania.  In questo modo noi possiamo spiegare perché un popolo come quello tedesco abbia potuto rendersi colpevole di tanti crimini nonostante si tratti di un popolo che ha rivestito un ruolo importantissimo a livello storico, scentifico e culturale come tutti quelli che conoscono la storia politica e la storia delle idee sanno benissimo.   Nella parte finale di quest’articolo prenderemo in considerazione un altro punto debole di fondamentale importanza della teoria dei tratti. Tale punto debole è rappresentato dal fatto che questa teoria non si interessa minimamente di studiare quali caratteristiche permettono ad un individuo che riesce a diventare leader di mantenere tale ruolo per molto tempo.                                                 

Gli studiosi che hanno messo in evidenza questo punto debole della teoria dei tratti affermano che una qualsiasi toria che si propone di fornire informazioni sul processo della teadership deve anche cercare di spiegare per quali motivi alcuni  leader conservano il potere per poco tempo mentre altri riescono a conservarlo per moltissimo tempo. In effetti dobbiamo dire che la teoria dei tratti non riesce a dare nessuna risposta a tale domanda di fondamentale importanza. A nostro avviso il fatto che la teoria dei tratti presenti i punti deboli che abbiamo messo in evidenza in tale articolo dipende dal fatto che essa trascura un dato oggettivo di fondamentale importanza e cioè che la leadership è un processo interattivo nel quale il leader non è l’unico attore.Proprio l’insoddisfazione derivante dai punti deboli presenti nella teoria dei tratti ha indotto gli studiosi ad elaborare altre teorie che fossero in grado di spiegare in maniera più soddisfacente il processo della leadership.  Appare quindi evidente che un processo sociale complicato come quello della leadership non può essere spiegato da un approccio unilaterale come quello proposto dalla teoria dei tratti.

Prof. Giovanni Pellegrino – Prof.ssa  Mariangela Mangieri                

                                                                 


La questione del branco di pecore

di Emilia Urso Anfuso

Bei tempi quando si dibatteva sulla questione morale. Certo, erano altri tempi, si respiravano ventate di vera politica, di cultura, di voglia di crescere, soprattutto parlo della popolazione. D’altronde se hai esempi eccellenti, teste piene di intelletto e non di scarne e sterili nozioni, come fai a non voler, almeno, somigliarvi un poco?

<<== dott./ssa Emilia Urso Anfuso

Eccoci qua, invece, a dibattere sul nulla, a contorcerci noi biechi intellettuali dell’era moderna, in infinite diatribe con eccellenti sconosciuti che, dalle loro postazioni di comando dietro ai PC di casa, in mutande o coi bigodini in testa, sciorinano corbellerie un tanto al chilo, certi di evidenziare un qualche neurone degno di nota.

La realtà, ovviamente, non è questa. Si è creata una società di sopiti neuronali grazie a una dirigenza presa un po’ ovunque. Il sistema del popolo al governo ha molto alimentato questo andazzo, ammettiamolo. Non che io sia contraria al popolo al governo, ci mancherebbe, ma se questo popolo mastica male persino la lingua madre, per non parlare di tutto il resto, allora siamo persi. Sotterrati sotto una coltre di ignoranza, che non sta facendo altro che alimentare false convinzioni, opinioni paradossali sventolate al pari del risultato di una ricerca degna di un Nobel.

Osservo basita l’andamento sociale, che invece di procedere verso il punto estremo di civilizzazione, si sta imbarbarendo, procedendo a passo di aragosta: all’indietro. Si tratta di un processo di involuzione sociale che, in special modo in questa nazione, afflitta dalla più alta percentuale di persone affette da analfabetismo funzionale, non è in grado di svilupparsi, migliorarsi, andare oltre il punto di massimo splendore di cui, ormai, non vediamo nemmeno gli ultimi brillii.

E quindi giù con l’incoerenza, con l’arroganza tipica di chi non sa ma pretende di insegnare a chi sa. Giù con la mancanza di rispetto nei confronti di chi passa la propria esistenza a studiare, e a pensare, anche per gli altri. E giù a sorbire inqualificabili srafalcioni, che non sono solo quelli – ormai tristemente troppo diffusi – compiuti contro la lingua madre, bensì di ragionamento, che non più sostenuto dalla razionalità e dalla coerenza, capacità tipiche delle persone fornite di intelletto, non permette alla maggioranza di questo paese di rendersi conto della realtà dei fatti.

Provo sgomento ogni qualvolta che, di fronte a dati concreti, a documenti ufficiali, a dichiarazioni realmente rilasciate da questo o quel politico, ricercatore, scienziato, o immunologo, che confermano alcune questioni legate all’avvento del SarsCov2 e alle teorie relative ai farmaci che in questo momento storico sono propinati in massa per tentare di combattere gli effetti della malattia, o della contagiosità, si battano strenuamente persino contro costoro. Non si rendono conto, gli ignoranti, di non essere  in grado di decodificare ciò che leggono o ascoltano. Acciecati dalla paura, che fa sempre 90, non si tratta nemmeno più del livello sociale o culturale di cui fai parte. Quando ti mettono in testa che il tuo cervello, al massimo, funziona al 20% delle sue capacità, e si continua a dirlo come un mantra, evidentemente alle persone incapaci di uscire dal branco fa meno paura di utilizzare al massimo della loro potenza, quelle meravigliose cose che sono i neuroni.

Buona fortuna a tutti. La questione del branco di pecore ha sovrastato, di molto, quella morale.


LA TEORIA SITUAZIONISTA SULLA LEADERSHIP

di Giovanni Pellegrino

In quest’articolo prenderemo in considerazione la teoria situazionista intorno alla leadership, una delle teorie formulate per cercare di comprendere il complesso e affascinante fenomeno della leadership.

<< == Prof. Giovanni Pellegrino

Anche questo approccio allo studio della leadership  nasce per superare i limiti della teoria dei tratti psicologici, la prima teoria formulata per comprendere la leadership. Mentre tale teoria cercava di stabilire quali dovessero essere i tratti psicologici di un leader ,non attribuendo nessuna importanza alle situazioni sociali ,nelle quali si trovava ad agire una persona che voleva diventare  leader .  La teoria situazionista partiva da un diverso presupposto.

Tale teoria cerca di definire che cosa venga richiesto ad un leader per ottenere la leadership  nella situazione sociale nella quale egli si trova ad agire. In sintesi il problema non è quello di accertare quali tratti psicologici deve possedere un leader , ma quali sono le caratteristiche che una ben determinata situazione sociale richiede ad un  individuo che vuole  diventare leader  in tale situazione sociale. Per dirla in altro modo mentre nella teoria dei tratti l’attenzione degli studiosi era concentrata sulla persona del leader , nella teoria situazionista l’attenzione degli studiosi si concentra sulle circostanze ambientali, sui problemi che una ben determinata situazione pone ad una persona che desidera rivestire il ruolo di leader. Esistono diversi tipi di fattori situazionali ai quali dedicheremo ora la nostra attenzione.

Uno dei fattori situazionali più  importanti è la natura del compito che il gruppo  deve portare a termine o per meglio dire i fini che il gruppo si propone di raggiungere . Appare evidente che se un individuo dotato di notevolissime qualità non possiede le competenze e le conoscenze necessarie per guidare il gruppo nel raggiungimento degli obiettivi previsti , tale persona non diventerà mai leader in tale gruppo, anche se fosse dotato di un carisma eccezionale. A nostro avviso non esiste un leader assoluto , ovvero una persona che possa esercitare il ruolo di leader in qualsiasi gruppo e qualsiasi situazione.

Un altro importante fattore situazionale è rappresentato dalla storia del gruppo . Alfine di chiarire l’importanza di tale fattore ci serviremo di un esempio . Supponiamo che un dato gruppo formale che ha  alle sue spalle una lunga storia sia stato sempre guidato da leader democratici . Ipotizziamo che un individuo dotato di grande carisma personale voglia istituire in tale gruppo una leadership di tipo dittatoriale non tenendo conto della storia del gruppo .Tale individuo non riuscirà mai a diventare leader di tale gruppo perché i membri sono abituati da sempre a esser guidati da un leader democratico ragion per cui giudicherebbero insostenibile e assurda una leadership dittatoriale.

Un altro fattore situazionale che influenza in maniera decisiva il processo di leadership  è l’ ampiezza del gruppo dal momento che in un gruppo molto numeroso le relazioni tra il leader e i membri sono molto  depersonalizzate  .

Al contrario in un gruppo costituito da pochi componenti tali relazioni sono molto diverse essendo molto più dirette e frequenti. Dobbiamo mettere in evidenza il fatto che esistono individui che riescono a ricoprire il ruolo di leader molto bene nei gruppi di piccole dimensioni dal momento che danno il meglio di loro stessi nei contatti diretti , faccia a faccia con i membri del gruppo. Tali leader sono in grado di costituire un rapporto personalizzato e particolare con ognuno dei membri del gruppo. Al contrario tali leader quando si trovano in presenza di un gruppo molto numeroso perdono facilmente il controllo della situazione dal momento che sono condizionati negativamente dal carattere  interpersonale che le relazioni tra il leader e i componenti del gruppo assumono in questi casi.

Sneider afferma che può accadere che alcuni individui siano in grado di rivestire il ruolo del leader solamente a livello micro sociale ovvero nei piccoli gruppi mentre altri solamente a livello macro sociale ovvero nei gruppi numerosi. Alcuni individui riescono ad esercitare molto bene il potere nei gruppi molto numerosi dal momento che il carattere impersonale che le relazioni tra il leader e i membri del gruppo assumono in questi casi permette al leader di mantenere un atteggiamento impersonale.

Tale atteggiamento impersonale crea una distanza sociale tra il leader e quasi tutti i membri che rende più facile al leader dare inizio e portare a termine il processo di mitizzazione della sua persona. Tale processo non può avvenire nei piccoli gruppi, dove i rapporti tra il leader e i membri del gruppo sono troppo diretti e confidenziali. Anche i fattori situazionali esterni al gruppo possono influenzare il processo di leadership e la scelta del leader. Per fare degli esempi che chiariscano che cosa intendiamo per fattori situazionali esterni citeremo il grado di stabilità o d’instabilità dell’ambiente esterno e la presenza di conflitti con altri gruppi che si trovano ad agire nello stesso habitat sociale del gruppo considerato. Potrebbe ad es. accadere che un gruppo che si trovi in conflitto con un altro gruppo affidi, il ruolo di leader a una persona che non sarebbe mai stato nominata se non fosse in corso il conflitto con l’altro gruppo .

Tale fatto è spiegabile dal punto di vista psicosociale tenendo presente che quando esiste una situazione di conflitto intergruppi viene scelto come leader non la persona più adatta a guidare il gruppo nel raggiungimento dei fini perseguiti dal gruppo mq la persona che viene considerata più adatta ad assicurare al gruppo la vittoria nella situazione conflittuale in corso. Dobbiamo dire che molte volte i leader adatti in tempo di pace non sono adatti a guidare un dato  gruppo in tempo di guerra. Al contrario molti leader adatti a gestire un gruppo nelle situazioni di guerra con altri gruppi vengono subito messi da parte quando il conflitto è finito per la semplice ragione che non hanno le competenze e le conoscenze adatte per permettere al gruppo di raggiungere i fini per i quali è stato istituito e formato. Ciò che abbiamo detto vale sia al livello microsociologico che a livello macrosociologico.

Dopo aver messo in evidenza ciò possiamo chiudere tale articolo dicendo che la teoria situazionale può fornire importanti spiegazioni e importanti risposte sul fenomeno più importante della dinamica di gruppo ovvero l’inevitabile affermazione in tutti i gruppi formali ed informali di un leader.


La vacanza nel XXI secolo. Un’evoluzione del lavoro domestico

Sta arrivando l’estate e si respira aria di vacanze. Il corpo si libera degli abiti pesanti pregustando i piaceri della spiaggia, la vita si fa più leggera e le preoccupazioni sono rimandate a settembre.

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

Per quanto le ferie retribuite siano soggettivamente vissute come una parentesi fatta prevalentemente di relax, divertimento e trasgressione, il loro significato sociale è in stretta relazione con le dinamiche dell’occupazione. Tale relazione poggia su due basi: 1) il tempo di lavoro determina la quantità e la qualità del tempo libero; 2) le modificazioni all’interno del mondo produttivo connotano l’immagine, il senso e la narrazione della vacanza. Pertanto il modo in cui viviamo oggi l’estate non è più quello di dieci o vent’anni fa perché con l’avanzare della globalizzazione sta volgendo al termine la struttura del ciclo di vita basata sulla sequenza infanzia, scuola, lavoro, tempo libero, pensione. Insomma, sta volgendo al termine l’epoca del lavoro salariato con i conflitti e le certezze che ne conseguivano e ci stiamo addentrando sempre più nell’era del lavoratore flessibile, così come illustrato sin dal 1988 da Richard Sennett. E se il lavoratore diventa flessibile, anche il turista cambia pelle, ovvero muta il proprio habitus mentale.

Per comprendere il nuovo senso della vacanza non possiamo non fare i conti col ripetersi senza fine di crisi economiche, con la diffusione del precariato, con le minacce al posto fisso e al sistema pensionistico. Eppure oggi le ferie sono vissute sempre meno come una sorta di risarcimento per l’inverno trascorso al lavoro. Al contrario prevale una funzione produttiva della vacanza centrata sui valori della seduzione, dell’apparenza e della forma fisica. La vacanza richiede ormai dal turista così tanti saperi e così tante prestazioni da rendere tutt’uno il corpo energetico della forma-lavoro e il corpo pulsionale assediato dai piaceri primari. Se così stanno le cose, e per quanto possa apparire paradossale, la vacanza non è più in netta discontinuità col mondo della produzione, ma ne costituisce il prolungamento in una società dove la disoccupazione ha raggiunto percentuali drammatiche e dove le disuguaglianze aumentano di anno in anno. E sebbene la vacanza sembri un tema futile, da relegare nella storia del costume, in realtà è sul fronte del tempo libero che si sta giocando una partita decisiva per il futuro del lavoro. Il motivo è semplice: nella modernità liquida il ruolo sociale del consumatore si trova ormai sullo stesso piano di quello del lavoratore.

I due tempi, consumo e produzione, tendono a sovrapporsi perché per gli individui il prestigio personale costituisce la principale posta in gioco della vita sociale. E il prestigio può essere raggiunto sia attraverso il reddito monetario generato dalla professione svolta, che dal reddito identitario, generato da una competente messa in pratica dei valori che caratterizzano il tempo libero.

Che le vacanze abbiano avuto una funzione prevalentemente produttiva non è una novità. Per i ceti dominanti da sempre la vacanza è anche e forse soprattutto un modo per tessere rapporti d’interesse con propri pari all’interno di resort esclusivi e panfili da sogno. Per le élite il party, il golf, la regata non sono solo momenti per la rappresentazione del consumo vistoso, ma costituiscono anche modi informali per accrescere il proprio capitale sociale, ossia visibilità, relazioni, prestigio, fiducia. Con peculiarità proprie questa tendenza sta scendendo dal vertice della piramide sociale verso la base, diciamo verso la massa dei vacanzieri appartenenti ai ceti medi e medio-bassi. Tuttavia non si tratta di un processo di democratizzazione come ad esempio il passaggio della crociera da viaggio per pochi a viaggio per tutti. Perché se per il jet-set la tendenza produttiva della vacanza ha come obiettivo ultimo il profitto per la maggior parte dei turisti l’obiettivo della produzione è tutt’altro. E il motivo è semplice: questa maggioranza non possiede le stesse risorse per aumentare il proprio capitale sociale. Pertanto dirige altrove il suo investimento. Dove? Sul corpo.

Il corpo è ormai l’unico bene di cui possiamo avere una qualche certezza. Il resto ci è stato tolto in tutto o in parte: la speranza nel futuro, un welfare-state efficiente, rapporti umani degni di questo nome, l’aria pulita, l’ambiente naturale. Persino l’acqua da bere dobbiamo comprarla imbottigliata, mentre alcuni futurologi prevedono che a causa della sua scarsità prima o poi scoppieranno nuove guerre. E il lavoro? Anche quello ci viene progressivamente tolto. C’è e non c’è. La possibilità di non trovarlo o di perderlo è una delle paure collettive dei nostri tempi così come lo era la peste durante il medioevo. Di converso, nel ricco Occidente la fame è scomparsa da oltre mezzo secolo, i lavori di fatica investono ormai una minoranza della popolazione attiva, abitiamo in città cablate e dalle vetrine scintillanti, viviamo più a lungo rispetto al passato, curiamo malattie che fino a pochi decenni fa compivano stragi, l’adolescenza si spinge oltre i trent’anni e la vecchiaia si sposta sempre più in avanti.

Quest’insieme di fattori ha prodotto una vita meno fragile e meno passeggera conducendo Hervé Juvin a ipotizzare che stiamo assistendo a un passaggio di civiltà il cui esito sarà dato dal risultato del conflitto tra l’identità fondata corpo e l’identità fondata sulla storia. Per sottolineare quanto il corpo sia al centro degli interessi del mondo della produzione vale la pena ricordare che Juvin è un economista e che il suo libro, “Il corpo” è stato pubblicato nel 2006 in Italia da Egea, casa editrice dell’Università Commerciale “Luigi Bocconi”, nella collana Cultura d’impresa.

La tesi di Juvin è molto interessante soprattutto perché ha il merito di inquadrare molto bene un problema socialmente trasversale. Per l’economista francese il corpo che abbiamo ereditato nel XX secolo è vicino a mutare natura: “Cambiando il suo tempo e il suo spazio, il corpo ha trasformato il nostro rapporto con il tempo e lo spazio, ha cambiato persino il suo rapporto con se stesso e con ciò che non è lui – gli altri corpi, la mente, l’anima, la natura, l’ambiente, il potere e l’autorità, il desiderio e la proprietà – e questo cambiamento è al centro di molti cambiamenti futuri, alcuni già presenti, talmente presenti che ci abbagliano e ci impediscono di vedere ciò che stiamo diventando, ciò che siamo già diventati. È l’ospite inaspettato di un secolo che cerca la sua storia. E ne è il padrone”.

Se si esce da un approccio soggettivista possiamo tranquillamente affermare che Juvin si lascia prendere un po’ la mano dalla sua prosa, soprattutto quando afferma che il corpo è il padrone della sua storia o che addirittura “ha preso il potere”. Semmai è vero il contrario: è il potere che ha preso il corpo come mai prima nella storia. E proprio per questo motivo il corpo è oggi uno dei principali bersagli dell’attività economica. Pubblicità, moda, cosmesi, chirurgia estetica, wellness, sport, design, architettura, comunicazione e turismo costituiscono una filiera di industrie che possiamo denominare “fabbriche della felicità” in quanto il loro obiettivo è soddisfare il piacere dei sensi. Tali fabbriche si sono spontaneamente integrate permettendo a industrie dei sogni come il cinema di generare pratiche quotidiane tanto che oggi è l’immagine a creare la realtà e non viceversa. Le fabbriche della felicità producono e incentivano un corpo particolare: il corpo glamour. Ossia un corpo attraente, conturbante, dotato di forte sex-appeal e in grado di presentarsi sempre sull’onda dell’ultima moda. Insomma un corpo perennemente in cerca di riflettori, di un pubblico e di un applauso.

Come si costruisce questo corpo spettacolare? Passando attraverso l’esperienza mentale ed emotiva degli individui in modo che vivano il desiderio del corpo glamour come un preciso atto della propria volontà. Le fabbriche della felicità rispondono a questa domanda di identità producendo e promuovendo stili di vita al cui centro risiedono fascino e apparenze, sensualità e disinvoltura, benessere e protagonismo. In poche parole, nelle realtà economicamente avanzate il glamour è il principale modo d’essere, di sentire e di esibire il proprio sé. L’angosciante prova costume in vista dell’estate costituisce una preoccupazione che tocca tutti, ormai a qualsiasi età. E se il tuo corpo non incanta sei un outsider. E se sei un outsider hai il dovere di metterti al lavoro per tornare insider. Come? Con la chirurgia estetica, l’esercizio fisico, il make-up, la pettinatura, l’abbigliamento.

L’istituzione che ha permesso l’affermazione planetaria del corpo glamour è il mercato delle immagini. Meglio, il suo inarrestabile ampliamento, anche durante una crisi economica prolungata come l’attuale. Stampa fotografia, cinema, televisione e Internet offrono quotidianamente allo sguardo del grande pubblico un diluvio di corpi giovani, belli, in salute e in smagliante forma fisica. Cosa hanno di particolare queste immagini? Sono in gran parte gratuite.

E, come noto, l’offerta gratuita è una tecnica di vendita applicata dal marketing per catturare clienti. Tecnica che nel caso del corpo glamour ha funzionato egregiamente monopolizzando l’immaginario collettivo dell’Occidente in tema di rappresentazione fisica del sé. Di più: il corpo glamour è un prodotto di esportazione in ogni angolo del pianeta. Le immagini e i gesti dei divi del cinema, della televisione e della musica pop sfruttano l’incontenibile forza dell’eros in nome della liberazione del corpo dai vincoli della tradizione. Il loro effetto è travolgente: il grande pubblico non vede l’ora di adeguare la propria immagine interna alle immagini esterne di star e starlette che ammiccano invitanti da ogni dove: stampa, pubblicità, videoclip, varietà televisivi e così via. Questo rispecchiarsi nei corpi glamour trasmessi dai media è cruciale perché l’adesione incondizionata a tali immagini è un lavoro quotidiano che gli individui fanno sul proprio aspetto fisico e sulle proprie emozioni. Un lavoro che va dalla culla alla tomba.

Un lavoro complesso perché è allo stesso tempo cognitivo (selezione dell’immagine), creativo (interiorizzazione dell’immagine), relazionale (proiezione dell’immagine). E allora eccoci passare dallo schermo allo specchio alle prese con i dilemmi dell’estate che incombe: monokini o bikini? Abbronzatura integrale o parziale? Più tatuati o più palestrati? E lo sguardo? Indifferente o di sfida? E il piercing? Discreto o indiscreto? Tutte decisioni che possono essere prese solo in base alla narrazione della propria immagine personale. Narrazione che aspira al corpo perfetto di attori e top model. Un corpo che ha nell’età e nella bilancia due giudici implacabili. Su quest’attività di cura del corpo-immagine si è soffermato con magistrale profondità analitica Jean-Claude Kaufmann in una ricerca sociologica del 2007 sul seno nudo nelle spiagge francesi (“Corpi di donna, sguardi di uomo”, edizioni Cortina). La ricerca ha dimostrato quanto un gesto apparentemente semplice come togliersi il reggiseno al mare non sia affatto naturale, ma frutto di una lunga elaborazione storica (nuovo ascolto del corpo), di continue negoziazioni (con gli sguardi maschili) e persino di micro-conflittualità (il seno più bello della spiaggia rischia l’accusa di esibizionismo, mentre le donne anziane e quelle grasse mandano in crisi la norma morfologica e si ritrovano sottoposte a una mormorata censura estetica).

Tra le conseguenze più visibili della frenetica attività per apparire come cover girl, star hollywoodiane e sex symbol c’è il forte abbassamento della soglia del senso del pudore. Nel XXI secolo non ci si vergogna di esporre il proprio corpo più o meno denudato. Ci si vergogna degli anni che passano, degli inestetismi della pelle, del grasso superfluo, dei difetti fisici e di non vestire alla moda – fosse pure l’abito un ridotto costume da bagno. Su questa nuova vergogna, sul senso di inadeguatezza che ne segue e sull’allargamento dello spazio sociale concesso alla vanità prosperano il turismo e le altre fabbriche della felicità. Fabbriche che chiedono al consumatore di icone dello spettacolo e della moda di cooperare alla costruzione della propria immagine così come Ikea chiede ai propri clienti di farsi carico del montaggio dei mobili. Il prodotto è un corpo favoloso, ossia un corpo plasmato come un oggetto di design e in grado di raccontare una storia fatta di aspirazioni: al desiderio, all’eterna giovinezza, al piacere-dovere di essere ammirati.

L’attuale culto del corpo ha nell’estate la sua prova del fuoco. È soprattutto durante le vacanze che gli individui devono dimostrare di essere assunti a tempo indeterminato dal mercato delle immagini. Essere espulsi da quel mondo significa ritrovarsi ai margini della società esattamente come capita a chi è espulso dal mercato del lavoro. A causa di quest’ansia il turista si sottopone a un duro lavoro manuale fatto di dieta e palestra, make-up e acconciature. L’obiettivo è presentarsi in spiaggia o in discoteca con un corpo estetico o erotico. Meglio ancora, con un mix tra i due corpi. L’importante è non offrire al pubblico un corpo banale, ossia un corpo che è visto ma non guardato. Perché l’anonimato è un’altra grande paura collettiva dei nostri tempi. Occorre allora esibire un corpo favoloso ispirato in qualche maniera dalle offerte del mercato delle immagini. Si tratta di una mossa soggettiva per aggirare l’impossibilità dell’ascesa sociale e ancor più spesso l’impossibilità di avere un lavoro garantito. Questi deficit hanno nello strenuo lavoro sul look la loro compensazione: dimostrano che se anche si è precari, disoccupati e con poche speranze per il futuro si è comunque in attività e pronti alla competizione.

Per provarlo al mondo ecco che durante l’estate i social network pullulano di fotografie di turisti in pose da divi dello spettacolo. Possiamo inquadrare tale attività come un’evoluzione del lavoro domestico. Che resta non pagato, ma risponde all’esigenza di mostrare un’identità capace di reggere ai continui cambiamenti delle mode e dei consumi, capace di navigare in un flusso perenne di immagini.

Patrizio Paolinelli, Via Po, inserto culturale del quotidiano Conquiste del Lavoro


Stop all’autostop

di Fabrizio Paolinelli

autostop

Durante gli anni ’60 e ’70 del ’900 l’autostop era praticato da molti giovani. Furono gli hippy a diffondere questo modo di viaggiare e presto diventò un fenomeno di costume ben tollerato. Faceva parte della quotidianità e parecchi ragazzi giravano l’Italia e l’Europa sollevando il pollice.

Il fenomeno inizia a declinare negli anni ’80 e da tempo non esiste praticamente più. Se oggi qualcuno fa l’autostop è per un’emergenza o perché poverissimo. Ma il problema non si pone più di tanto perché è quasi impossibile trovare chi sia disposto a caricarti in macchina.

Per capire i motivi dell’estinzione di questa pratica giovanile occorre innanzitutto ricordare che l’autostop era molto più di una moda. Andava al di là della cultura hippy e rifletteva il generalizzato spirito di cambiamento di un’intera generazione. Spirito di cui si è persa memoria. Ai giorni nostri i cambiamenti sono pilotati dall’alto e se qualcosa di spontaneo nasce dai giovani viene commercializzato o neutralizzato nel caso non produca profitti.

Quali erano le caratteristiche dell’autostop? Essenzialmente tre: gratuità per chi riceveva il passaggio, dono da parte del conducente, fiducia reciproca. L’autostoppista sapeva che difficilmente incorreva in pericoli e generalmente l’autista era ben disposto nei confronti del prossimo.

Gratuità, dono, fiducia. Tre parole-chiave che sempre meno fanno parte della nostra quotidianità. E perché sempre meno? Perché non rientrano nella logica del dare e dell’avere. Tutto si deve comprare, tutto si deve vendere, mentre l’autostoppista non paga il trasporto, incidendo negativamente sui consumi. Pertanto va eliminato. E così è stato.

Per stoppare l’autostop andava demolita l’apertura verso il prossimo che un tempo circolava nella società. Quarant’anni di neoliberismo e gli altri sono stati trasformati in potenziali nemici, in estranei, in concorrenti. Qualcuno di cui diffidare. Perciò, cari ragazzi, compratevi la macchina, sennò andate a piedi. Il mercato lo vuole!

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

Conquiste del Lavoro (maggio 2021)


RICERCA SUL BENESSERE DEGLI STUDENTI DELLE SCUOLE SECONDARIE 1 GRADO DELL’OVEST VICENTINO

di Mattia Dall’Asta

Il campione degli intervistati per il progetto “Reti di comunità”, residenti nei comuni della ULSS8 Berica, è di 1786 studenti delle scuole secondarie di primo grado con un’età compresa tra gli 11 e i 15 anni.

<<== Dott. Mattia Dall’Asta

Il progetto nasce nel 2013 come risposta alla preoccupante diffusione di droga sempre più presente tra i giovani e giovanissimi di questo territorio e per superare la cultura individualista e consumistica diffusa anche nelle piccole comunità ed il rischio di parlarne solo quando accade il fatto di cronaca eclatante che riaccende brevemente le luci attivando emotività pubblica per poi non riuscire a far crescere l’opinione pubblica. Il progetto Reti di Comunità vuole promuovere un percorso di presa di coscienza e di vicinanza, ognuno per le sue funzioni, ai nostri figli, coltivando noi stessi il cuore e la mente.

La seguente indagine promossa dal progetto “Reti di Comunità” per l’A.S. 2020 – 2021 va ad esplorare il benessere psico-sociale degli studenti delle scuole secondarie di I grado dei 13 comuni aderenti al progetto, in questo momento in cui perdura l’emergenza sanitaria da Covid-19. L’88,2% dei compilanti è di nazionalità italiana. A livello di genere il campione è ben bilanciato, il 52,4% è di genere femminile e il 47,6% di genere maschile. Lo stress, che significa propriamente “sforzo”, designa la risposta funzionale con la quale l’organismo reagisce a uno stimolo, più o meno violento, di qualsiasi natura. Ogni persona, nella sua individualità, darà un peso soggettivo agli eventi e agli stimoli interni ed esterni.

Possono essere individuate tre fasi nella risposta di adattamento o GAS (sindrome generale di adattamento):

  • Fase di allarme, in cui sono presenti modificazioni biochimiche;
  • Fase di resistenza, nella quale avviene un’organizzazione funzionale in senso difensivo;
  • Fase di esaurimento caratterizzata dal collassamento delle difese e l’impossibilità di adattarsi ulteriormente;

La preoccupazione degli alunni di contrarre il covid-19 risulta alta, il 64,7% si sente abbastanza o molto preoccupato/preoccupato di contrarre il covid mentre la metà del campione della ricerca, il 51,4%, si sente stressato nel periodo dell’emergenza. Le situazioni che hanno generato più stress risultano essere la mascherina per il 43,9% dei ragazzi, l’impossibilità di vedere gli amici per il 43,5% e la limitazione alle uscite per il 30,7%

Una parte da non sottovalutare di adolescenti, il 12,9%, ha sperimentato un’ansia “intensa” e “molto intensa” mentre il 36,1% un’ansia “moderata”. Rilevanti sono pure i dati sui disturbi del sonno che hanno coinvolto il 24,9% dei ragazzi.

Un terzo degli adolescenti da settembre 2020 a marzo/aprile 2021 hanno sperimentato stati di nervosismo più volte alla settimana (36,8%), momenti di irritabilità anche qui più volte alla settimana (36,0%) e si è sentito giù di morale in modo frequente (34,2%). Il mal di testa, non collegato a patologie è stato sperimentato più volte alla settimana per 2 alunni su 10.

La famiglia è stata colpita da questa situazione di emergenza. Lo stravolgimento della routine quotidiana ha portato ad una clausura forzata all’interno dell’ambiente familiare e l’emergere di una nuova quotidianità. Genitori e figli, assieme, si sono trovati immersi in un nuovo modo di vivere e percepire la famiglia e i propri spazi, facendo anche i conti con tensioni e angoscia. Gli adolescenti dichiarano come questa emergenza abbia generato un aumento delle tensioni familiari da settembre 2020 (48,8%). Dai dati relativi al clima in famiglia però emerge come sia sereno (70,2%), tranquillo (72,3%) e anche rispettoso (74,2%).

Il ritorno in classe in piena pandemia, nel rispetto delle normative sanitarie, ha permesso lo svilupparsi di nuove dinamiche e relazioni all’interno della classe, il gruppo classe si è ricostituito dopo la prima ondata in modalità differenti, con più distanziamento e meno contatto con l’ambiente esterno. Gli insegnanti hanno rafforzato il loro ruolo di riferimento per i ragazzi e hanno dovuto cogliere la sfida dell’integrazione tecnologica mantenendo il loro ruolo di educatori.

A livello scolastico gli alunni hanno un buon rapporto con i propri insegnanti (92,3%), il 56,8% si sente ben integrato con la classe e il 62,6% partecipa volentieri alle attività di gruppo. Dai dati relativi al clima in classe emerge come vi sia un clima di rispetto (55,3%), sereno e disteso (54,5%) anche se talvolta il clima è spesso agitato (44,6%).

Il bullismo rappresenta una forma specifica di aggressività, caratterizzata da una prevalente dimensione proattiva: la condotta prepotente non rappresenta una reazione ad un’aggressione reale o presunta (aggressività reattiva), bensì un sistematico abuso di potere, motivato dal desiderio di predominare sull’altro con attacchi pianificati e reiterati nel tempo.

Il 26,4% degli alunni del campione è classificato come vittima di bullismo mentre il 10,0% è un autore di prepotenze. Il confronto con la ricerca del 2016 evidenzia una lieve diminuzione dei fenomeno anche se il confronto dei dati riporta come le vittime subiscano un corollario di prepotenze subite più ampio. Allo stesso modo il confronto suggerisce come gli autori agiscano uno spettro di prepotenze più ampio. L’81,0% del campione riporta come gli spettatori siano proattivi nel difendere la vittima di prepotenze e ad isolare il prepotente (67,3%) nonostante 4 alunni su 10 riportino indifferenza nei confronti delle prepotenze.

La tecnologia emerge come fattore sempre più significativo per la vita dei ragazzi. È un luogo che viene sempre più frequentato e vissuto, appresenta un fattore di socialità molto importante e denso di significati, specialmente in un contesto di emergenza sanitaria da Covid-19. Nove alunni su 10 passano almeno 2 ore al giorno con un dispositivo tecnologico e l’utilizzo preferito dai ragazzi è per chattare con amici/compagni (64,0%) e per guardare serie tv (60,1%).  Lo smartphone si rivela come strumento tecnologico utilizzato da quasi tutti gli adolescenti, secondo l’84,1%, seguito a stretto giro dal computer per il 73,5%.

Solo il 9,4% dei genitori è presente nei gruppi chat creati autonomamente dai ragazzi (88,7%). Questi luoghi digitali hanno spesso un utilizzo molto pratico da parte ragazzi che li utilizzano in prevalenza per chiedere aiuto per i compiti. Tuttavia, questi luoghi digitali possono essere un ambiente in cui si sviluppano litigi a causa di malintesi (31,7%) o offese (28,3%). L’utilizzo dei videogames è di poco aumentato da settembre 2020 (21,7%), con una prevalenza maschile di utilizzo, e il tempo giornaliero dedicato al gioco è di circa 1 o 2 ore per 7 alunni su 10

Il bullismo è un fenomeno che si manifesta in vari modi ma, con l’avanzamento delle nuove tecnologie, il suo modo di manifestarsi si è evoluto facendosi strada attraverso i mezzi di comunicazione ed è per questo che oggi si parla anche di cyber-bullying, cioè cyber-bullismo. Infatti, viene considerato un’evoluzione del bullismo tradizionale ma, pur condividendo con esso alcune caratteristiche, se ne differenzia in molti aspetti. Il 13,3% del campione riporta di essere vittima di prepotenze digitali mentre solo il 3,7% del campione è autore di prepotenze digitali attraverso le nuove tecnologie.

Il termine “sexting” deriva dall’unione delle parole inglesi “sex” (sesso) e “texting” (pubblicare testo). Si può definire sexting l’invio e/o la ricezione e/o la condivisione di testi, video o immagini sessualmente esplicite/inerenti la sessualità. Spesso sono realizzate con lo smartphone e vengono diffuse attraverso siti, e-mail, chat.

Spesso tali immagini o video, anche se inviate ad una stretta cerchia di persone, si diffondono in modo incontrollabile e possono creare seri problemi, sia personali che legali, alla persona ritratta. L’invio di foto che ritraggono minorenni al di sotto dei 18 anni in pose sessualmente esplicite configura, infatti, il reato di distribuzione di materiale pedopornografico. In riferimento al fenomeno del sexting 2 ragazzi su 10 hanno ricevuto materiale (immagini o video) esplicito o con riferimenti sessuali mentre solo l’1,6% dichiara di aver prodotto e inviato del materiale di questo tipo.

La pandemia di COVID-19 ha cambiato notevolmente le abitudini dei ragazzi facendoli stare in casa più a lungo, tutto ciò può peggiorare un disturbo alimentare preesistente perché comporta condizioni di isolamento, di facilità di accesso al cibo e la percezione di una situazione fuori controllo. Inoltre, si aggiunge spesso il problema di una convivenza forzata che può essere molto difficile da gestire a livello familiare.

I comportamenti alimentari degli alunni del campione segnano una variazione in negativo rispetto alla ricerca del 2016. Tutti gli indicatori del rapporto con il cibo sono aumentati, il 28,0% mangia per noia e il 22,3% mangia quando si sente depresso. Il 26,3% mangia anche quando non è veramente affamato e l’11,9% lo fa anche se è sazio. Non emergono differenze di genere significative in questo ambito. Il 23,1% salta la prima colazione (il pasto più importante della giornata in età di sviluppo) e preferisce dei piccoli spuntini anziché dei pasti completi (22,1%)

In adolescenza con il termine “comportamenti a rischio” si intendono tutte le condotte che possono, in modo diretto e indiretto, mettere in pericolo la salute e il benessere fisico e psicologico degli individui, sia nel presente che nel futuro. L’elenco è numeroso e comprende: l’assunzione di sostanze psicoattive, i comportamenti aggressivi, devianti o illeciti, il comportamento sessuale precoce e non protetto, la guida pericolosa, il gioco d’azzardo, i disturbi alimentari e soprattutto le condotte autolesive.

Due ragazzi su 10 pensano siano aumentati gli stati depressivi tra i pari, secondo il 22,4%. L’11,8% pensa siano aumentati i disturbi alimentari e l’11,3% ha la percezione di un aumento dell’autolesionismo tra i pari. Aumenti nella percezione degni di nota risultano essere relativi all0utilzzo delle sigarette elettroniche (9,6%) e al consumo di tabacco (9,9%). Gli alunni di genere femminile sembrano avere una percezione più marcata di questi fenomeni rispetto ai ragazzi.


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