L’accademia non ha mai amato la Scuola di Francoforte. L’ha subita molto malvolentieri durante gli anni ’70 del secolo scorso quando i libri di Adorno, Horkheimer, Marcuse e Fromm si vendevano come il pane e gli studenti universitari erano in rivolta. Se ne è sbarazzata con gran sollievo non appena ha iniziato a soffiare il vento della grande normalizzazione avviata negli anni ‘80 dal neoliberismo.
Poi sono arrivati gli anni ’90, dopo siamo entrati nel nuovo
millennio e più passava il tempo, più i francofortesi venivano dimenticati,
bollati come superati e le loro tesi considerate inutilizzabili per decifrare la
nuova società post Muro di Berlino. Una società formata culturalmente all’insegna
della filosofia post-moderna, della sociologia della complessità e di nuove
scuole di pensiero in una maniera o in un’altra allineate con i valori delle
società avanzate. Gli stessi che la Scuola di Francoforte aveva aspramente criticato
tanto da prospettarne il superamento.
Come è noto è avvenuto l’esatto contrario e il neoliberismo ha
trionfato. Tuttavia, almeno formalmente la Scuola di Francoforte non è scomparsa.
Infatti, alla prima generazione ne sono succedute altre tre. A presentarle è il
libro di Giorgio Fazio intitolato, “Ritorno a Francoforte. Le avventure
della nuova teoria critica” (Castelvecchi, Roma, 2020, 410 pagg., 34,00
euro). In questo ponderoso volume Fazio illustra i percorsi intellettuali di
coloro che hanno raccolto il testimone della prima generazione di francofortesi:
Jürgen Habermas, Axel Honneth, Nancy Fraser, Wolfgang Streeck, Rahel Jaggi e Hartmut
Rosa.
Dopo aver letto l’ampio commento di Fazio si ha la netta
sensazione che dell’eredità della prima generazione di francofortesi sia
rimasto ben poco, per non dire nulla. A dilapidarla ha iniziato Habermas con la
sua svolta politicamente socialdemocratica e teoricamente compatibile col
sistema sociale dominante. A ruota hanno proseguito le generazioni successive.
Chi più chi meno ovviamente. Il dato di fatto è che oggi la teoria critica non
gioca quasi alcun ruolo nel dibattito pubblico e ancor meno nella società. A stroncarla
è stata sicuramente l’offensiva culturale neoliberista. Che, tanto per dirne
una, ha normalizzato l’università e messo all’angolo ogni forma di dissenso nei
confronti delle idee dominanti e delle teorie che le sostengono. Ma il colpo di
grazia lo hanno inferto le successive generazioni di francofortesi.
Adorno, Horkheimer, Marcuse e Fromm parlavano alla società, alla politica, ai giovani. La loro critica demoliva lo stato di cose presenti e di fatto chiamava alla rivolta contro il totalitarismo democratico. Tant’è che nella prassi la loro critica si saldò con un poderoso movimento di contestazione di quella che allora veniva chiamata la società borghese. Le successive generazioni di francofortesi parlano prevalentemente al mondo universitario, discutono tra accademici, confutano le tesi dei colleghi, rivedono le proprie e così via. Il più delle volte con un linguaggio comprensibile a pochi e segnando anche nello stile una presa di distanza dalla prima generazione.
Va riconosciuto che il ’68 è passato e così pure gli anni ’70.
Momenti storici che favorirono la costruzione e il successo della teoria critica.
Ma dalla rassegna di Fazio emerge, pagina dopo pagina, l’abbattimento delle
idee più forti della prima teoria critica e la contemporanea integrazione della
successiva con proposte filosofiche che certo non turbano i sonni delle classi
dominanti. Chiusi nelle loro torri d’avorio Habermas e successori discettano sulla
modernità, la razionalità, la tecnica, l’etica, la morale e si dilungano su
questioni epistemologiche mettendo a punto una nuova teoria critica che non
rifiuta la società così com’è, né tantomeno intendono ipotizzarne un’altra. L’utopia
non li riguarda.
Al netto delle incertezze e dei ripensamenti di alcuni
esponenti della prima teoria critica, la stella polare che li guidava era comunque
l’emancipazione degli individui e della società dal sistema di produzione e di
riproduzione capitalistico. Rinunciando a questa emancipazione si rinuncia alla
teoria critica. Honnet, dopo una vita di
studi, torna a Hegel. Un bel passo indietro. La stessa Jaeggi, pur affrontando
un tema tipicamente francofortese come l’alienazione si perde poi in un
relativismo psicologico che di fatto giustifica l’ordine sociale esistente. Hartmut
Rosa costruisce un edificio teorico di sconcertante fragilità (si pensi che secondo
questo autore il principio fondamentale della modernità è l’accelerazione
sociale). Wolfgang Streeck si distingue forse come l’esponente più di sinistra,
ma non esce dalla ragnatela del dibattito accademico. Un dibattito talmente
lungo e senza possibilità di uscita che diventa fine a sé stesso e soprattutto
non offre chiavi di lettura per rovesciare i rapporti di dominio. Dagli autori presentati
da Fazio emerge soprattutto una cultura libresca, autoreferenziale, che anziché
ritornare a Francoforte se ne allontana pubblicazione dopo pubblicazione.
Uno spettro si aggira tra le pagine della nuova teoria critica: lo spettro di Marx. Da Habermas in poi i francofortesi cercano in tutte le maniere escludere l’impatto che il filosofo di Treviri ha avuto sulla formazione della prima teoria critica. I cui fondatori erano neomarxisti, in rotta col dogmatismo sovietico e considerati tra i padri della Nuova Sinistra. Le successive generazioni di francofortesi sono soprattutto in rotta col marxismo e attingono a filosofi e pensatori che non mettono in discussione la società capitalistica. Da qui la debolezza delle loro riflessioni.
“Ritorno a Francoforte” è un testo didattico il cui autore converge col moderato realismo della nuova teoria critica e così scrive: “Nei percorsi di riflessione più avvertiti che animano la teoria critica contemporanea, in effetti non si tratta mai di riproporre sic et simpliciter la lezione di Adorno, Horkheimer e Marcuse, saltando a piè pari le critiche formulate da Habermas e da Honneth nei confronti delle premesse filosofiche dei loro approcci, delle posture funzionaliste delle loro teorie sociali, dei tratti di autoritarismo epistemologico ed etico scovabili nelle diagnosi epocali di una “società totalmente amministrata” o di un mondo a “una dimensione”.
Il brano riportato rappresenta una pietra tombale sulla teoria critica della prima generazione di francofortesi. Non basta occupare istituti e cattedre che gli appartenevano per dirsi loro continuatori. Non è una questione di fedeltà o di ortodossia. È una questione politica e culturale. Marcuse, Adorno, Horkheimer erano dei filosofi radicali: tutt’altro si può dire di chi ha preso il loro posto all’università. Fazio non solo non dà conto del progressivo svuotamento della teoria critica, ma lo sostiene. In tal senso il suo libro può essere letto come un esempio della normalizzazione della filosofia e della sociologia nel mondo universitario.
Che fare dunque per ritornare a Francoforte? Evitare gli
epigoni o presunti tali e tornare a leggere direttamente Adorno, Marcuse, Fromm,
Pollock e così via. Si scoprirà quanto i concetti che elaborarono sono ancora
oggi utili e necessari.
Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, settembre 2021
La maternità è stata fino ad oggi molto poco indagata dal punto di vista sociologico. Considerare l’esperienza della maternità come un fatto sociale significa considerarlo, secondo la metodologia durkheimiana, come un fatto esterno all’individuo, coercitivo e causa di un altro fatto sociale. La maternità, quindi, non più concepita né come un mero vissuto interiore (seppur stereotipizzato) né come un fatto totalmente neutro nell’ottica medico-scientifica che tende a oggettivizzare il corpo della gestante e a sfuggire al condizionamento storico-sociale. Come sociologi consideriamo la maternità un fatto sociale esterno influenzato da fattori storici e politici, senza i quali non sarebbe sociologicamente inquadrabile. La sociologia, quindi, va ad inquadrare l’esperienza della maternità in un contesto socio-culturale e simbolico.
Riprendendo anche il concetto di campo di Bourdieu, la maternità si configura in una rete di relazioni oggettive tra posizioni differenti. Per dirla in parole semplici, esiste un cosmo sociale fatto da tanti microcosmi sociali relativamente autonomi che costituiscono degli spazi di relazioni soggettive (i campi, per l’appunto) Ogni campo ha logiche e necessità specifiche diverse dagli altri campi. Ogni posizione assunta dai diversi soggetti nel campo, mira sia a conservare sia a trasformare la struttura di relazioni del campo stesso. Nello studio della maternità, il campo ha la funzione principale di permettere di costruire scientificamente gli oggetti sociali.
Nel campo della maternità assistiamo a diverse fasi: dal processo di medicalizzazione del corpo e del parto alla violenza ostetrica, dalla depressione post-partum alla conciliazione lavoro e maternità. Sullo sfondo, assistiamo alla nascita di una nuova maternità, quella surrogata.
La medicalizzazione del corpo
e del parto è riconducibile essenzialmente a una sorta di colonizzazione da
parte della cultura patriarcale dell’immaginario medico-scientifico. Alle donne
non si concede la possibilità di vivere liberamente l’esperienza del parto e
della gravidanza perché continuamente sottoposte a controllo e dominio in un
sistema che espropria la donna della sua capacità di sentire.
La violenza ostetrica è il paradigma attraverso cui leggere tutta la violenza agita nei confronti delle donne. Essa è una violenza che legittima le pratiche di inferiorizzazione e sopraffazione della donna, una logica figlia del patriarcato che ragionava, appunto, in termini di sesso dominante e sesso subordinato.
La depressione post partum non è solo il frutto di uno squilibrio ormonale, ma ha radici profonde nel sistema medico e nei ruoli di genere. La fase del post partum è una fase delicata in cui le donne vengono spesso lasciate sole ad affrontare le difficoltà connesse alla gestione di un neonato. UN lavoro di cura molto impegnativo, estenuante dopo un parto de-umanizzato, un lavoro di cura che assorbe molto sia sotto il profilo emotivo e sia sotto il profilo pratico-fisico. Il supporto della comunità e della famiglia è fondamentale. Come aiutare le donne? Innanzitutto, agendo sia nel campo delle POLITICHE SANITARIE attraverso la promozione di un parto de-medicalizzato, sia nel campo delle POLITICHE DI GENERE dando, ad esempio, impulso alla genitorialità condivisa (concedendo il congedo di paternità), alla creazione di nidi sui posti di lavoro, incentivando lo smart-working per entrambi i genitori, rafforzando le reti di sostegno familiari e professionali.
Per quanto concerne la conciliazione lavoro maternità, nel nostro Paese che si definisce avanzato e sviluppato, abbiamo assistito nel corso degli anni ad uno smantellamento del Welfare senza che si sia provveduto contemporaneamente a soluzioni alternative. Il risultato è stato quello di basare sul lavoro di cura delle donne tutta la assistenza rivolta a bambini ed anziani. A fronte della mancanza di servizi pubblici, le donne si ritrovano a dover scegliere se sacrificare la propria vita affettiva o rinunciare al proprio lavoro, una scelta che non dovrebbe neanche porsi e che, spesso, capita sia rivolta direttamente con meccanismi ricattatori dai datori di lavoro alle donne lavoratrici (pratiche illegali di dimissioni in bianco, richiesta brutale di test di gravidanza nei periodi di rinnovo dei contratti). Il risultato di questa regressione sul piano dei diritti sociali è ancora una volta una divisione sessuale del lavoro senza un’equa distribuzione delle responsabilità familiari (la donna a casa appiattita nel suo ruolo esclusivo di madre, l’uomo fuori a lavorare) e una maternità che rallenta, barcolla, stenta a partire pur in presenza di un desiderio di maternità. Ci si ritrova a sostenere rette di asili privati, a dover fare i conti con mense scolastiche che partono in notevole ritardo e orari scolastici ridotti. Un sistema chiaramente sessista che non opera più le evidenti discriminazioni del patriarcato classico, ma attua le subdole e ambigue maniere del neo patriarcato moderno e liberale.
L’ideologia maternal-naturalista tende, ad esempio, a relegare nuovamente le donne nella sfera privata/domestica (allattamenti lunghissimi, rinuncia a lavori fuori casa). La madre italiana, in tutto questo, è la madre equilibrista: una caregiver instancabile che, contemporaneamente, cerca di offrire le migliori performance lavorative. Un suicidio, insomma, un equilibrio costantemente precario tra lavoro, famiglia e cura di anziani. Proprio in Italia, in cui il culto della maternità è potentissimo, il Welfare è decisamente scadente e si tende a dare contentini (bonus bebè, bonus primo figlio), senza agire strutturalmente sulle politiche sociali (congedi remunerati, assegni di cura, servizi all’infanzia, congedi lunghi anche per i padri). Precariet , insicurezza, latitanza dello Stato, mancanza di reti solidali sono i freni all’esperienza della maternità. Non stupisce che l’Italia sia tra i Paesi più vecchi d’Europa e registri un notevole declino demografico.
LA MEDICALIZZAZIONE DEL PARTO
La tendenza a medicalizzare il parto si avvia dall’oggettivazione dei corpi. Cosa significa? Ridurre il corpo ad un oggetto privato della sua dimensione soggettiva. La società post-moderna esalta solo l’immediata materialità fisica, riducendo la possibilità di conoscersi e riconoscersi in un mix di processi biologici complessi, relazioni con l’ambiente e rapporti con altri esseri umani. Gli effetti di questa tendenza sono: INDIVIDUALIZZAZIONE, CLASSIFICAZIONE E CONTROLLO. La maternità è completamente immersa nei processi culturali e nelle relazioni sociali, pertanto tranciare dal corpo questi collegamenti, influisce pesantemente sull’esperienza della maternità, la quale non può ridursi solo a un problema medico, ma richiede l’inclusione di variabili sociali, culturali e politiche.
Per medicalizzazione intendiamo
lo sconfinamento della scienza e della medicina nella dimensione sociale.
Medicalizzare significa creare consenso intorno all’oggettivazione dei corpi.
Un’altra definizione indica la medicalizzazione come: degenerazione della
fisiologia in patologia e il ricorso a trattamenti tecnologicamente avanzati,
una farmacologizzazione aggressiva ed un eccesso di intervento medico.
Nella medicina classica, l’oggetto principale era la
narrazione: si prestava attenzione al racconto di coloro che necessitavano di
aiuto e il medico provava ad immedesimarsi nel paziente per addentrarsi nel
disordine del suo stato d’animo. Il compito del medico (fino al 1700) era
interpretare il racconto doloroso del paziente. La nuova medicina ha, invece,
costruito una forma di sapere gerarchizzata e stabilito un controllo sui corpi.
Assistiamo a una rottura radicale col passato in cui il medico diventa uno
specialista e le biografie individuali delle identità personali dei pazienti
non contano più. È imperante l’omogeneizzazione e il riduzionismo biologico.
Per questo oggi si parla tanto di medicina narrativa per rieducare il personale
sanitario all’ascolto.
La malattia non può essere vista solo in termini biomedici, ma sono necessari saperi antropologici, sociologici e filosofici per poterne cogliere meglio le cause. È tutto il sistema sanitario che richiede una ristrutturazione. Non a caso gli ospedali che un tempo erano luoghi di cura e di carità per bisognosi ed emarginati, oggi sono fabbriche di prestazione di servizi che devono rispondere a requisiti di produttività ed efficienza (catene di montaggio che devono eliminare tempi morti con la lean production rischiando di dimenticare la funzione precipua dell’ospedale quale luogo di guarigione. La medicina è business e il processo dia medicalizzazione è una delle sue facce. Nell’ambito della maternità, l’ecografia ostetrica ad esempio, strumento diagnostico utilissimo, è divenuta una pratica abusata (eco in 3D, in 4D, scansioni in tempo reale, immagini ricordo in DVD). La medicina si configura come puro business e come tecnica che muta gli elementi fisiologici in minaccia. La gravidanza, ad esempio, è sempre più vista non come un evento naturale, ma come evento che minaccia la salute di donna e bambino. L’emergenza associata alla sicurezza del parto ha trasformato interventi raccomandabili solo in particolari circostanze di necessità, in misure di routine.
La letteratura ci dice che il parto oggi viene concepito come un evento pieno di pericoli da cui solo la ginecologia può proteggerci. Le madri si sentono, dunque, dipendenti totalmente dalla medicina (continui prelievi di sangue, amniocentesi, diete, esercizi fisici) e opporsi a questa dipendenza medica in gravidanza porta a forti sensi di colpa. Da sottolineare la totale responsabilità individuale; in passato la responsabilità dei mali e delle disgrazie veniva perlopiù attribuita a organizzazioni, istituzioni e sistemi complessi (l’ipertrofia del sociale aveva inghiottito la responsabilità individuale): la colpa era della società, del sistema, ecc… Oggi, invece con l’emergere dell’ideologia liberista e dell’iniziativa privata, la responsabilità personale dei singoli ha un forte peso. Una individualizzazione spinta che acuisce lo stato ansioso del singolo dietro le retoriche della prevenzione: non fai gli esami? Ti assumi tu tutte le conseguenze e le colpe che ne derivano. È una forma di controllo dei corpi delle donne nel caso della gravidanza.
La medicina post industriale è iperspecializzata e tecnicamente avanzata, ma anche fortemente de-personalizzata che tende a ridurre il corpo, il paziente ad organo e, quindi, a distanziarlo.
Sebbene la gestazione sia considerata solitamente un periodo di beatitudine che si interrompe con quella che Freud chiama “lacerazione ordinaria”, cioè il trauma della nascita da cui deriva la nascita del trauma ovvero la separazione tra madre e bambino, l’eccessiva medicalizzazione del parto, rende questa lacerazione ancora più dolorosa. Quando, ad esempio, questa separazione avviene col cesareo le donne la percepiscono in maniera più violenta. In Italia 1 donna su 3 subisce il taglio ed è una pratica sempre più diffusa nella cultura umana. Dagli anni ’40 ci fu un’ascesa del taglio cesareo e non diventa più frequente perché si ampliano le indicazioni patologiche all’intervento, ma si tende a sostituire la via naturale al parto. Basti pensare che l’OMS ha appurato che a un tasso più alto del 10% di tagli cesarei, non corrisponde una inferiore mortalità neonatale. È stato anche appurato nel 2015 che l’ascesa globale dei parti cesarei non è guidata da necessità mediche, ma dalla crescita della ricchezza dei Paesi in cui viene applicato e dagli incentivi predisposti per i medici (The Economist, 2015)
Il taglio cesareo storicamente ha origini lontane: ne abbiamo testimonianze già dal ‘600 quando si introdusse il forcipe ostetrico e il parto cominciò a diventare strumentale e tecnologicamente assistito; l’ostetrico sostituì l’ostetrica…fu proprio re Luigi XIV nel 1663 che fece intervenire per la prima volta un uomo, un chirurgo, per un parto fisiologico, medicalizzando l’evento naturale e estromettendo la figura femminile dell’ostetrica dall’evento. L’egemonia maschile che si instaura con prepotenza sulla gestante e sulle figure femminili accudenti. Ma c’è anche un altro motivo che incentiva il parto cesareo. Il parto naturale richiede un’assistenza one to one, dunque la presenza di un’ostetrica per ogni partoriente; questo significa un aumento del personale e delle turnazioni. Il cesareo e l’epidurale abbattono questi costi di gestione e per ogni taglio cesareo si percepiscono delle speciali indennità in quanto intervento chirurgico.
Anche l’episiotomia, ovvero l’incisione atta ad aumentare lo spazio dell’anello vulvare dovrebbe essere discussa con la partoriente. Le donne possono chiedere che non sia praticata, anche se molte non lo sanno, a meno che la vita di donna e bambino non sia in serio pericolo….eppure ad oggi è l’intervento ginecologico più praticato nel mondo. In Italia 3 partorienti su 10 dichiarano di non aver fornito il consenso informato per autorizzare tale intervento. L’episiotomia, invece, dovrebbe essere un atto chirurgico di emergenza, da effettuarsi cioè nei casi in cui è assolutamente indispensabile. Così l’episiotomia si trasforma in un tributo gratuito alla sofferenza e al dolore, una violazione del rispetto della natura umana. Quando si attua un intervento chirurgico, infatti, bisogna rispettare non solo principi medici ma anche etici.
Taglio cesareo e episiotomia sono die esempi molto eclatanti di come si tenda ad oggettivizzare il corpo della donna (considerare il corpo femminile come un oggetto violandone l’integrità attraverso interventi non necessari), a medicalizzare eccessivamente il parto e a far vivere alla partoriente un ruolo passivo nella nascita del proprio bambino.
Indubbiamente la medicalizzazione del parto ha portato a una diminuzione netta dei tassi di mortalità sia di bambino e sia della madre, ma l’ospedalizzazione della nascita ha portato anche a uno straniamento della madre dal suo contesto intimo. Ciò che un tempo era monitorato dal sentire materno, oggi è oggettivato.
Fino al 1700 l’esperienza della gravidanza era contraddistinta da incertezza riguardo a inizio, durata ed esito. Il bambino finchè non nasceva era una speranza, mai una certezza. Col tempo si è diventati maniaci del controllo del futuro e si tende a misurare la gravidanza guardando alla donna come contenitore dello sviluppo fetale. Non solo, bisogna contestualizzare gravidanza e parto nelle diverse culture. Ad esempio, in alcune tribù il dolore del parto viene socializzato, cioè condiviso con altre figure della comunità. Questo accadeva anche da noi fino a qualche anno fa (circa 50 anni fa): il parto era un evento sociale che coinvolgeva non solo la donna, ma anche il marito, l’ostetrica, i parenti. La società si stringeva intorno alla partoriente e al suo bisogno di aiuto. Anche riguardo alla posizione del parto questa è cambiata nel tempo: in passato la donna era libera di assumere la posizione che voleva.
Nella seconda metà del ‘500 subentra la figura del barbiere-chirurgo che in virtù dello strumentario che possedeva, tornava utile nel caso ci fossero difficoltà ad estrarre il bambino dal canale del parto. Da quel momento in poi, la donna fu costretta alla posizione supina a gambe divaricate per favorire l’intervento medico. Il parto cominciò a diventare strumentale e medico, soppiantando la tradizione dell’ostetrica che fu mandata nelle scuole per ostetriche gestite dai medici. Questa è la riduzione del parto ad evento biologico e la trasformazione della del corpo della donna in contenitore.
Bisognerebbe deospedalizzare la
gravidanza e raccogliere le positività precedenti per coniugarle alle
conoscenze di oggi. Perché? Perché all’ospedalizzazione del parto corrisponde
l’oggettivazione del corpo femminile e la svalutazione del sentire e del sapere
materno. Con l’invasione della tecno-medicina, la soggettività dell’esperienza
interna della donna diventa irrilevante ai fini medico-scientifici. La
percezione integrata, olistica della persona, si perde nella concezione
meccanicistica del corpo. La visione meccanicistica concepisce il corpo umano
come una macchina fatta di pezzi che funzionano e lì dove non funzionano, si
interviene sul singolo pezzo dimenticando che è parte di un ingranaggio non
solo fisico, ma anche mentale, emozionale, sociale.
In questo contesto di medicalizzazione,
si distingue la figura dell’ostetrica che da sempre ha agito empaticamente al
parto, assumendo come dato principale che la nascita di un bambino non dovrebbe
essere considerata alla stregua un mero intervento medico, ma un evento al quale
due donne agiscono insieme, un’assistenza al parto permeata di fiducia. Tant’è
che fino al 1800 alle partorienti era concesso di scegliere la propria
levatrice di fiducia. Questo passaggio diretto tra donne ha urtato l’ideologia
patriarcale al punto di far subentrare una figura maschile nell’assistenza al
parto. Oggi la competitività tra gli specialisti, in ostetricia e in
ginecologia, ha progressivamente eroso anche l’autonomia dell’ostetricia che
oggi ha scarsa autonomia ed è sempre più sostituita dall’infermiera. Eppure il
valore dell’ostetrica è immenso perché p in grado di gestire tutte le
problematiche relative alla gravidanza, non solo mediche, quindi, ma anche
umane, psicologiche, emotive, familiari, territoriali, tutto ciò che
l’ospedalizzazione della maternità nega alle partorienti.
LA VIOLENZA OSTETRICA
Nel 1972 viene promossa a Ferrara da alcuni collettivi femministi, la campagna “BASTA TACERE” a cui aderirono diverse donne, raccontando storie di abusi e maltrattamenti subiti durante il parto e la gravidanza. Quei racconti furono raccolti in un opuscolo poi stampato.
Nel 2016 la stessa campagna di sensibilizzazione è stata rilanciata dai media con il sostegno di decine di associazioni femminili. “basta tacere: le madri hanno voce” è stato lo slogan lanciato sui social network per offrire alle madri la possibilità di raccontarsi. Come? Scrivendo la loro esperienza su un foglio anonimo senza rifermenti a persone e luoghi precisi, e facendo un autoscatto con il foglio davanti al viso e postando la foto su fb con l’hashtag #bastatacere. È stato l’ennesimo invito a far emergere il fenomeno della violenza ostetrica. IN 15 giorni la campagna #bastatacere ha raccolto oltre 1300 testimonianze e ha coinvolto oltre 700.000 utenti al giorno.
Grazie a questa campagna è nato sempre nel 2016 in Italia l’OSSRVATORIO SULLA VIOLENZA OSTETRICA, un ente multidisciplinare gestito da un comitato etico di madri che ha lo scopo di monitorare l’incidenza delle pratiche agite contro le donne durante il percorso della maternità. Attualmente in Italia non esiste un monitoraggio ufficiale.
Nel 2017 è stata pubblicata la prima ricerca nazionale condotta su un campione rappresentativo di 5 milioni di donne italiane di età compresa tra i 20 e i 60 anni, denominata: “LE DONNE E IL PARTO” che ha permesso di stimare l’entità del fenomeno della violenza ostetrica. Son stati analizzati i vissuti delle madri durante le fasi del travaglio e del parto, i rapporti con gli operatori sanitari, i trattamenti praticati, la comunicazione usata dallo staff medico, il coinvolgimento della partoriente nelle decisioni relative al parto. I risultati son stati i seguenti: circa 1 milione di madri italiane (il 21% del totale) ha subito qualche forma di violenza ostetrica (fisica o psicologica) alla loro prima esperienza di maternità. UN’esperienza così traumatica da aver spinto il 6% delle donne a scegliere di non affrontare una seconda gravidanza.
Per violenza ostetrica nella ricerca in questione si intende: l’appropriazione dei processi riproduttivi della donna da parte del personale medico, costringere la donna a subire un cesareo non necessario, costringere la donna a subire una episiotomia non necessaria, costringere la donna a partorire sdraiata con le gambe sulle staffe, esporre la donna nuda di fronte ad una molteplicità di soggetti, separare la madre dal bambino senza una ragione medica, non coinvolgere la donna nei processi decisionali che riguardano il proprio corpo e il proprio parto, umiliare la donna verbalmente prima, dopo e durante il parto. Il 56% risponde no; il 23% risponde “credo di no”; il 21% risponde decisamente sì.
L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha rilevato come questi abusi fisici e maltrattamenti psicologici aumentino in presenza di donne appartenenti a minoranze etniche, in adolescenti, in donne che non hanno un compagno o un marito o in donne affette da HIV. Dal 2014 l’OMS invita ad abolire tali pratiche lesive della salute psico-fisica femminile, prevedendo una collaborazione tra Stati per la ricerca sul fenomeno e per avviare programmi rivolti ad un miglioramento dei servizi offerti dai sistemi sanitari.
IN Italia, l’11 marzo 2016 è stata depositata una proposta di legge per la tutela dei diritti della partoriente e del neonato e per la promozione del parto fisiologico in risposta all’appello dell’OMS. La proposta di legge mira anche a punire gli atti di violenza con la reclusione da 2 a 4 anni. Nel 2017, dopo i risultati della ricerca dell’Osservatorio di cui abbiamo parlato pocanzi, viene avviata una indagine ministeriale sui tassi di episiotomia e sui casi di abusi, coercizioni e umiliazioni verbali durante il parto.
A livello internazionale il
Brasile (che era uno dei Paesi ad aver raggiunto un livello di medicalizzazione
del parto altissimo, fino a toccare ad esempio tassi di parti cesarei dell’80%
in alcuni ospedali) è stato poi il primo Paese ad aprire un dibattito sulla
violenza ostetrica e ad istituire nel 1993 la Rete per l’Umanizzazione del
Lavoro e della Nascita. L’Argentina, invece, è stato il primo paese ad aver
legiferato in materia di violenza ostetrica, stabilendo i diritti della
partoriente.
Ma fu il Venezuela ad aver menzionato per la prima volta la violenza ostetrica e ad averla definita giuridicamente nel 2007 con una legge composta da ben 123 articoli. La violenza ostetrica in Venezuela viene intesa precisamente come “appropriazione del corpo e dei processi riproduttivi femminili da parte del personale medico sanitario, che si esprime in un trattamento disumano, nell’abuso della medicalizzazione e nella patologizzazione dei processi naturali, avendo come conseguenza la perdita dell’autonomia e di capacità di decisione sul proprio corpo e sulla propria sessualità, impattando negativamente sulla qualità di vita delle donne”.
In Italia ad oggi le donne non si trovano di fronte ad un sistema sanitario che le consideri partecipanti attive. Le donne con vissuti traumatici si esprimono sui social perché molto pochi sono i luoghi di ascolto dedicati alla violenza ostetrica. Certo non ci si aspetta questa indifferenza da un Paese avanzato e democratico come l’Italia.
Come andare verso una umanizzazione del parto e della maternità?
La violenza ostetrica è espressione di un sistema sanitario rigido che si concentra solo sulla patologia non prevedendo piani personalizzati. Il personale in Italia è quasi sempre sottodimensionato e ciò favorisce il burn out del personale che diventa sempre meno attento alle esigenze delle partorienti. In merito ai diritti delle donne è intervenuto anche il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, stabilendo la necessità di operare una riforma del sistema sanitario in cui gli operatori sanitari siano ben istruiti nel comprendere cosa si intenda per maltrattamento, sviluppando al contempo interventi e politiche efficaci per contrastare la violenza ostetrica in tutte le sue forme. Il personale sanitario deve essere sufficientemente formato e abilitato a soddisfare le esigenze fisiche, emotive e mediche di ogni donna, di incentivare la partecipazione attiva e consapevole delle donne senza alimentare quell’asimmetria informativa che pone la medicina su un piedistallo e lontano dal paziente.
Progetti formativi in tal senso in alcuni Paesi dell’America Latina hanno dato già i loro risultati: miglioramento delle relazioni interpersonali, incremento dei parti pur rimanendo invariato il numero del personale sanitario che si ritrovava, però, ad essere più collaborativo. Solo in questo modo si potrà andare nella direzione di una MATERNITA’ UMANIZZATA ovvero: appagante e responsabilizzante, sia per le donne che per i fornitori di cure e che promuova la partecipazione attiva della donna al processo decisionale.
Perché si è restii a parlare di violenza ostetrica? Solitamente sono gli stessi professionisti della salute che resistono all’uso del concetto di violenza. Spesso si preferisce parlare in termini positivi usando espressioni come “umanizzazione del parto” e “promozione dei diritti umani delle donne”. Tuttavia è stato solo introducendo e riconoscendo come un problema reale il termine VIOLENZA che il dibattito ha prodotto cambiamenti significativi. La violenza ostetrica è un fenomeno complesso che richiede un approccio multidimensionale, dal piano culturale a quello legislativo. Ogni Paese dovrebbe sviluppare una normativa adeguata e pertinente. Sarebbe utile anche implementare sistemi di segnalazione che consentano a donne e operatori sanitari di denunciare casi di violenza ostetrica. Anche dal punto di vista della vittima, è interessante osservare come le donne non siano in grado di definire bene cosa accade in ospedale al momento della nascita del loro bambino. Molte riferiscono di avvertire un malessere dopo il parto, uno stato a cui non sanno dare un nome.
È solo parlandone che prendono atto di aver subito una sorta di tradimento emotivo. Infatti, come afferma la vicepresidente dell’associazione “Dall’ostetrica”, il bisogno delle partorienti è principalmente quello di sentirsi al sicuro, di essere messe nelle condizioni di far prevalere il loro “sentire” durante il parto per poter connettersi con questo evento miracoloso che si appella ad istinti primordiali e di natura. L’abuso di medicalizzazione e la patologizzazione dei processi naturali, non fa altro che allontanare le donne da questa dimensione arcaica, facendole perdere la libertà di decidere liberamente del proprio corpo.
Dott.ssa Sonia Angelisi – sociologa e counselor sociolistico
La Sociologia e la Psicologia hanno una pregnanza comune: la Filosofia
di Tommaso Francesco Anastasio
I genitori della Sociologia
La Sociologia che per Durkheim ha per oggetto lo studio dei “fatti sociali” trova le sue origini, per lo stesso sociologo, nell’Antica Grecia, come dichiarò durante la sua lezione di apertura a Bordeaux nell’anno accademico 1887-1888: “I fenomeni studiati dalla filosofia sono fondamentalmente di due tipi, gli uni relativi alla coscienza dell’individuo, gli altri alla coscienza della società(…) La filosofia è in procinto di frazionarsi in due gruppi di scienze positive: la psicologia da una parte e la sociologia dall’altra (…)”. Si legge in un altro suo scritto pubblicato nel 1900 su una rivista politico-letteraria: “Le teorie di Platone e di Aristotele sulle diverse forme dell’organizzazione politica potrebbero essere considerato come un primo studio di scienza sociale (…)”(1)
Sulla paternità della Sociologia, come sappiamo, ci sono diverse pretese. Per alcuni è di Montesquieu con la sua opera “Lo spirito delle leggi” attraverso cui avvia un discorso comparativo, basato sull’osservazione, a proposito delle leggi che governano gli uomini in diverse società. I sociologi arabi propendono per Ibn Khaldoun, uno storico del XIV secolo che analizzò in modo molto moderno i rapporti fra tribù nomadi e città arabe nell’Africa Settentrionale. Pacificamente è stato assegnato il ruolo di padre “putativo” del termine “sociologia” ad August Comte intorno alla metà dell’Ottocento.(2)
I genitori della Psicologia
Nel caso della Psicologia troviamo nuovamente una maternità nell’Antica Grecia. Il termine “psicologia” deriva difatti dal greco psyché che significa anima e da logos ossia discorso, letteralmente ad indicare quindi lo studio dell’anima. Il termine psyché è sovente simboleggiato dalla Farfalla: molte decorazioni di antichi vasi greci raffigurano con l’immagine di una farfalla l’anima che esala nell’istante della morte. Un altro “ritrovamento” è presente nel modello cognitivo di Beck che trova le sue basi nello stoicismo di Epitteto: “Gli uomini non sono turbati dagli eventi in sé, ma dalle interpretazioni che danno di essi”.(3)Si possono citare altri approcci, come quello esistenzialista, in cui la Filosofia ancora oggi esercita un’influenza sulla psicologia applicata.
Ma anche in questo caso troviamo difficoltà a trovare il padre della Psicologia, sembrerebbe che il termine fosse già introdotto intorno al Cinquecento dall’Umanista Filippo Melantone anche se nei suoi scritti non pare comparire, così nel corso della genesi della Psicologia si attribuisce il ruolo di padre della “psicologia sperimentale” al tedesco Wilhelm Wundt, intorno all’Ottocento.
Il rapporto
Come suole
in diverse famiglie, anche le nostre due sorellastre nel corso degli anni si
sono spesso preoccupate di avere l’esclusiva sull’eredità della Madre Filosofa
impoverendosi a vicenda e trascurando la “ricchezza” che si potrebbe avere dal
dialogo. Ed è ciò che ha dimostrato la Scuola
di Palo Alto avendo al suo interno psichiatri, psicologi, sociologi,
filosofi e antropologi. L’afflato di questi studiosi ha comportato la nascita
dell’approccio sistemico – familiare:
secondo questo modello la famiglia è un sistema, l’identità di ciascuno dei
suoi membri si costituisce e si mantiene
nelle interazioni comunicative che si stabiliscono fra tutti i suoi
componenti.
Gli studiosi
di Palo Alto rintracciavano la genesi delle malattie mentali in queste
dinamiche comunicative. Si pensi alla teoria del doppio legame attraverso cui
Bateson ha messo in evidenza i rischi di una comunicazione patogena e
contraddittoria. Il contributo della Scuola di Palo Alto nella terapia
psicologica ha dato strumenti preziosissimi di lavoro e ha comportato la
nascita di ulteriori approcci di intervento. Si pensi ad esempio all’approccio
strategico che trova la sua genesi proprio nella Scuola di Palo Alto. Oppure al
contributo dato con la pubblicazione de la “Pragmatica della comunicazione
umana”.
Come vediamo sociologia e psicologia hanno giovato di rapporti più che fecondi che negli anni si sono affievoliti e arrugginiti. In Italia la figura dello psicologo è riconosciuta e disciplinata dalla legge 56/89 di cui si riporta l’articolo 1: “La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito.”(4)
La figura del sociologo in Italia, oggi, è un po’ meno “nitida” in quanto rientra tra le professioni non regolamentate pertanto mentre la sociologia accademica gode di lauti riconoscimenti attraverso la ricerca e i corsi universitari, la sociologia applicata ha dovuto fare i conti con alcune “barriere” che in parte sono state abbattute grazie alle associazioni professionali e a laboratori (anche on line) che si impegnano quotidianamente sul territorio per promuovere il lavoro e l’importanza della figura del sociologo prendendo come “memento” le parole di Durkheim: “Il solo mezzo per provare il movimento è camminare. Il solo mezzo per dimostrare che la sociologia è possibile, è di fare vedere che essa esiste e vive.”(5)
La sociologia clinica, nata intorno agli anni 20 del Novecento con la Scuola di Chicago e la psicologia applicata oggi potrebbero trovare uno spazio di confronto e condivisione per fare da “trigger” su nuove prospettive nella “cura” dei fatti sociali e psichici. Secondo Durkheim lo scopo della ricerca in sociologia è solo conoscere senza avere un fine prestabilito, ma sorge la seguente riflessione: anche la “sola” conoscenza dei fatti sociali non collabora a promuovere la “consapevolezza” come previsto dall’art. 3 del codice deontologico degli Psicologi?
“Lo psicologo considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed utilizzarle per promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità. In ogni ambito professionale opera per migliorare la capacità delle persone di comprendere se stessi e gli altri e di comportarsi in maniera consapevole, congrua ed efficace”(6)La “cura” dell’anomia secondo Durkheim avviene attraverso il corporativismo, ossia nello sviluppo di associazioni intermedie tra i singoli e la società basate sull’associazione professionale e con il potenziamento dei processi educativi. Il disagio può essere causato sia da “fatti psichici” che da “fatti sociali” e sovente i due “fatti” coesistono. Perchè non collaborare per avere una chiave di lettura più ampia dei fenomeni psichici e sociali?
Scrivendo nella duplice veste di sociologo e psicologo[7), l’auspicio è che la sociologia applicata e la psicologia possano nuovamente dialogare tra loro per promuovere il Ben-Essere psico-sociale degli utenti. E’ chiaro che i perimetri delle due figure esiste e ha una sua ratio, si pensi ad esempio agli strumenti diagnostici che ha lo psicologo e alla mancanza di essi nella figura del sociologo, oppure alla lente sociologica attraverso cui osservare la società, o per dirla con Durkheim, “le società”, in possesso dei sociologi e non degli psicologi, ma esiste una linea di confine sulla quale le due sorellastre, anzi sorelle, possono e devono incontrarsi per far sì che si crei nuovamente una sinergia e magari una “nuova” Palo Alto.
NOTE
[1] E. Durkheim, La scienza sociale e l’azione, Il Saggiatore,
1972
[2] cfr. P. Jedlowski, Il mondo in questione, Carocci Editore, 2012
[3] cfr. J.S. Beck, La Terapia cognitivo-comportamentale, Astrolabio Ubaldini, 2013
In questo articolo prenderemo in considerazione il sistema di status esistente nei gruppi.
Prof. Giovanni Pellegrino ===>>
Il gruppo deve essere considerato alla stregua di un organismo vivente in quanto esso è qualcosa di più della somma degli individui che ne fanno parte. La vita del gruppo è in ogni caso caratterizzato da alcuni fenomeni dinamici che possono essere notati da un osservatore esterno. Reimann afferma che la vita di un gruppo è scandita da alcuni fenomeni ricorrenti che permettono la sua strutturazione e il suo funzionamento nel tempo. Quindi i membri di un gruppo possiedono uno status sociale diverso l’uno dagli altri. Possiamo definire lo status di gruppo la posizione che un individuo occupa in un determinato gruppo ovvero il livello che il soggetto occupa nella scala di potere e di prestigio del gruppo.
Gli psicologi sociali e i sociologi hanno individuato alcuni indicatori che ci permettono di capire qual’ è lo status di gruppo di un individuo. Noi prenderemo in considerazione in questo articolo due indicatori : la tendenza a prendere iniziative e la valutazione consensuale del prestigio posseduto da un dato membro del gruppo. Per quanto riguarda la tendenza a prendere iniziative appare evidente che chi ha uno status di gruppo più elevato ha più potere di promuovere iniziative che vengono accettate dal gruppo rispetto a chi ha uno status di gruppo meno elevato.
Un altro importante indicatore dello status di gruppo è la valutazione consensuale del grado di prestigio posseduto dai vari membri. In genere questo consenso non esiste solamente per le posizioni estreme ma anche per quelle intermedie. In genere nei gruppi i cambiamenti di status non sono clamorosi e imprevedibili ma seguono una logica posizionale .Alcune volte accade che il cambiamento delle attività di gruppo determini delle modifiche nel sistema di status del gruppo. Riguardo al modo in cui si forma il sistema di status di gruppo la maggioranza degli autori ritiene che esso si formi col passare del tempo attraverso alcuni comportamenti quali aiutare il gruppo a raggiungere i propri obiettivi , conformarsi alle regole interne, sacrificarsi in favore del gruppo.
Secondo Berger il sistema di status può basarsi anche su caratteristiche percettive particolarmente ammirate e idealizzate. Vogliamo anche mettere in evidenza il fatto che nei gruppi devianti o criminali il sistema di status nel gruppo si basa su criteri molto diversi da quelli vigenti in altri gruppi. Per fare un esempio in questo tipo di gruppo ottengono status elevati gli elementi più violenti e più patologici oppure quelli dotati di maggiore forza fisica. Dobbiamo anche dire che nelle bande di adolescenti i fenomeni di emulazione e di contagio psichico amplificano l’innata tendenza alla violenza presente nei singoli membri del gruppo. Pertanto, si istituisce la nota e perversa “ logica del branco” che porta spesso gli individui a compiere azioni non degne di esseri umani ma molto simile a quelle compiute dagli animali più violenti.
A questo punto continueremo il nostro discorso intorno al sistema di status di gruppo dicendo qualcosa su una interessante teoria detta degli “ stati di aspettativa” che cerca di spiegare il rapido sviluppo del sistema di status nei piccoli gruppi. Tale teoria parte dal presupposto che i membri di un gruppo formano fin dai primi incontri un sistema di aspettative concernenti i contributi che ciascun soggetto potrà fornire a raggiungimento degli obiettivi che il gruppo si propone di raggiungere . Le caratteristiche personali che verranno giudicate più adatte al raggiungimento degli scopi in questione avranno maggior forza di impatto sulla formazione delle aspettative. Di conseguenza gli individui che possiedono le caratteristiche più funzionali agli scopi del gruppo avranno il privilegio di vedersi assegnate le posizioni più elevate nel sistema di status di gruppo.
Tuttavia, queste assegnazioni di status non sono definitive ma solamente provvisorie in quanto diverranno stabili solamente le aspettative formulate nei primi incontri che verranno confermate dai dati di fatto. Di conseguenza quei membri che con il loro comportamento deluderanno le aspettative che si sono formate nei primi incontri subiranno un declassamento nel sistema di status. Al contrario quei componenti del gruppo ai quali erano stati attribuiti status bassi se dimostreranno col loro comportamento di valere più di quando si pensava si vedranno attribuire status più elevati. Tuttavia, essi dovranno faticare più del necessario per dimostrare il loro valore dal momento che non è facile vincere la forza dei pregiudizi derivanti dalle aspettative maturate nei primi incontri.
Quindi il sistema di status di gruppo è continuamente modificabile alla luce della prova dei fatti. Anche il confronto con gruppi che condividono lo stesso habitat sociale può contribuire a modificare il sistema di status di gruppo in tempi anche brevi. Se la formazione del sistema di status del gruppo è un fenomeno sempre presente nella dinamica di gruppo deve avere delle funzioni importanti , deve servire a qualcosa . Ed in effetti esso crea ordine e prevedibilità all’interno del gruppo coordina le varie forze in vista del raggiungimento degli obiettivi del gruppo. Inoltre, il sistema di status del gruppo è funzionale all’ auto valutazione di ogni membro tanto che chi ha uno status elevato possiede un’autostima maggiore di chi ha uno status basso .
Palmonari afferma che a parità di prestazioni chi ha uno status alto viene giudicato più positivamente di chi possiede uno status inferiore il ché contribuisce ad aumentare l’autostima di quanti hanno uno status elevato. Non dobbiamo infatti dimenticare che il grado di autostima di un individuo dipende in gran parte dai risultati che riesce ad ottenere nella vita sociale. Infatti, un individuo che continuasse ad avere un forte grado di autostima anche se condiziona una serie di sconfitte nei vari settori della vita sociale dimostrerebbe di aver perso il contatto con la realtà. Appare infatti chiaro che se qualche sconfitta e qualche risultato negativo possono essere attribuiti ad eventi sfortunati una lunga serie di sconfitte deve far pensare che l’individuo non è dotato di grandi qualità oppure ha una personalità fragile che non gli permette di sfruttare pienamente le sue qualità.
A nostro avviso per ottenere risultati positivi nella vita sociale occorrono vari fattori quali adeguate qualità e risorse personali , una personalità forte e ben strutturata , una ben motivata fiducia in sé stessi. Naturalmente se a tutte queste condizioni si aggiunge una certa dose di fortuna tutto sarà più facile anche se vogliamo mettere in evidenza che la fortuna da sola non può permettere una lunga serie di successi ma al massimo qualche vittoria nei vari settori della vita sociale. A questo punto riteniamo concluso il nostro discorso sul sistema di status nel gruppo.
In questo articolo prenderemo in considerazione la concezione dello Stato di Machiavelli. Tale concezione è pesantemente condizionata dal fortissimo pessimismo di Machiavelli che pensava che gli uomini fossero per natura malvagi. Ma proprio da questo pessimismo scaturisce per Machiavelli la necessità dello Stato, considerato il solo rimedio con cui si poteva vincere la crudeltà pericolosa degli individui.
<<=== Prof. Giovanni Pellegrino
Nei capitoli centrali del Principe il concetto sul quale Machiavelli insiste continuamente per giustificare i consigli crudeli che egli dà al suo principe è che solo operando duramente contro chiunque lo minacci egli salverà lo Stato e con esso la possibilità stessa del vivere civile. Secondo Machiavelli per mantenere lo Stato occorrono alcune virtù e soprattutto tre istituzioni: religione, leggi, milizia, mancando le quali non può esservi che estremo disordine estrema rovina.
Per questo Machiavelli discute spesso della religione, insiste sulle leggi e pone al centro del suo pensiero le milizie. Per Machiavelli la religione non è un sentimento individuale ma un fatto sociale che obblighi al rispetto della parola data e leghi l’individuo allo Stato. Machiavelli è estremamente duro con la Chiesa cattolica che viene accusata apertamente di aver causato la rovina dell’Italia. Spesso Machiavelli estende l’accusa dalla Chiesa alla stessa religione cristiana accusata in confronto con la religione pagana di essere troppo tendente a richiamare l’attenzione degli uomini dalla terra al cielo.
Lo Stato per l’autore fiorentino accentra in sé tutta la vita civile e la stessa vita interiore dell’uomo cosicché nel pensiero di Machiavelli pare esservi poco spazio per altri valori fuori dallo Stato. Rimossi o subordinati questi valori non resta che lo Stato e non resta che il cittadino giudicato secondo il suo grado di socialità e la forza delle sue virtù civiche. Da ciò l’insistenza del Machiavelli sul termine di virtù una parola che deriva dal latino vir. La virtù si arricchisce di una nuova carica morale e sentimentale e diventa la virtù per eccellenza ovvero quello che distingue il vero cittadino dall’uomo privo di socialità.
L’opera del Machiavelli è tutta piena di eroi caratterizzati dal massimo grado della virtù. Questi personaggi si mettono in evidenza per la loro abilità di fondare e mantenere in vita gli Stati grazie alla loro eccezionale virtù. Tuttavia, il Machiavelli figlio anche in questo del suo tempo constata l’esistenza di limiti all’agire umano che è condizionato dalla situazione in cui opera. È ciò che Machiavelli chiama “occasione” e che noi con una parola moderna possiamo definire situazione condizionante. Per Machiavelli l’uomo anche geniale e “virtuoso”. Al massimo grado per poter esprimere interamente le sue qualità deve trovarsi in situazioni che gli permettano di mettere in atto le sue doti potenziali. Ma se” l’occasione” condiziona l’agire politico anche degli uomini più virtuosi vi è fuori dalla portata delle capacità umane una forza che può limitarle.
Machiavelli chiama tale forza col termine Fortuna. La Fortuna è per lui ciò che è estraneo al volere dell’uomo e alla sua capacità di previsione. La Fortuna è altresì il caso brutale che può intervenire e distruggere i disegni meglio architettati, l’avvenimento fortuito che può annientare l’uomo più virtuoso. In questa concezione del mondo e dello Stato di Machiavelli era implicita anche una morale. Infatti, l’accentuazione del valore dello Stato, come unica istituzione che assicuri una vita civile, dovevano portare logicamente Machiavelli a fissare per le nostre azioni un criterio di giudizio meramente politico. Machiavelli non poteva accettare pertanto una legge morale dettata da Dio che fosse fuori dal potere dello Stato.
Machiavelli fondò un nuovo criterio di giudizio morale fondato solo sulla “verità effettuale “cioè sulla realtà qual essa effettivamente è. Possiamo dire che col concetto di verità effettuale elaborato da Machiavelli la politica diventava davvero un’attività autonoma dotata di una morale sua propria che le permetteva di trovare una sua piena autonomia. Nel pensiero di Machiavelli l’uomo politico va giudicato e condannato o esaltato solo per la congruenza delle sue azioni ai suoi fini. Le pagine fondamentali per capire questo aspetto del pensiero di Machiavelli sono i capitoli centrali del Principe là dove egli tratta delle virtù che il principe deve possedere.
In tali pagine del Principe egli cerca di dimostrare come certe azioni buone secondo la morale dell’uomo privato siano cattive in politica inquanto danneggiano lo stato e con esso la comunità. Al contrario altre azioni cattive, se commesse dal privato, sono buone in politica in quanto aiutano a mantenere in vita lo Stato e pertanto aiutano la comunità. Vi è dunque in Machiavelli una distinzione tra morale privata e morale politica e le infrazioni che Machiavelli consiglia nei riguardi della morale corrente, sono consigliate solo per il politico e solo in quanto utili allo Stato.
D’altra parte, Machiavelli fa una distinzione tra principi e tiranni considerando tiranno chi governi a suo vantaggio, principe che agisce nell’interesse dello Stato cioè della collettività. A mettere insieme i tanti passi del Principe nei quali egli consiglia la violenza la crudeltà ma solo quando sono necessarie, verrebbe voglia di dire che il principe sia concepito dal Machiavelli come una vittima della sua posizione, un uomo costretto dalla malvagità altrui ad essere anche crudele. Il Principe per Machiavelli è una specie di asceta della politica disposto a giocarsi anche l’anima pur di adempiere al proprio dovere e mantenere in vita lo Stato.
D’altra parte, è evidente in Machiavelli la preoccupazione nei riguardi del popolo oggetto di una cura alla quale si deve sacrificare tutto dal buon nome all’anima. In estrema sintesi si può dire che Machiavelli considera il suo Principe uno strumento il solo possibile allora a servizio dei sudditi; pertanto, la morale crudele che egli consiglia solo quando sia necessaria è vista appunto in funzione di quel benessere dei sudditi che è conseguente all’esistenza di una Stato ordinato e tranquillo, sicuro da nemici esterni e non condizionato dai disordini provocati dai nemici interni.
Secondo Machiavelli contro i nemici interni vi è il riparo della severità ragionata del Principe, mentre contro quelli esterni vi sono le milizie, uno dei problemi che più preoccuparono il Machiavelli e che egli risolse in un modo che è veramente caratteristico per comprendere il suo pensiero. Egli nella sua vita pubblica ebbe modo di constatare il disordine che regnava quando lo Stato si serviva di milizie mercenarie. Pertanto, Machiavelli fu indotto a consigliare la costituzione di milizie cittadine, che essendo costituite appunto da cittadini non creassero quei problemi propri delle milizie mercenarie. Pertanto, Machiavelli aveva chiara la visione di uno Stato che pur essendo tutto accentrato nelle mani di un principe fosse però costruito in modo tale da garantire il benessere e la tranquillità dei sudditi.
I sudditi quindi dovevano essere interessati alla difesa dello Stato in modo tale che esso non doveva utilizzare milizie mercenarie . Machiavelli appunto perché era mosso da interessi politici vivi e passionali non si accontenta di analizzare e descrivere ma è portato continuamente a sottoporre ai risultati della sua analisi le esigenze della sua passione . Molto importanti sono anche le opere storiche del Machiavelli che possono essere considerate un complemento degli scritti politici nel senso che con esse il Machiavelli intendeva dimostrare ,attraverso lo studio del passato, la validità delle sue tesi.
Lo scritto storico più importante sono le Storie fiorentine .Il fine di tale opera è indicato chiaramente nel proemio dove il Machiavelli rimprovera gli storici umanistici di essersi limitati a raccontare gli avvenimenti di politica estera tralasciando le discordie interne . Machiavelli al contrario degli storici umanistici insiste proprio sulla storia interna di Firenze convinto che tale storia può essere di ammaestramento ai contemporanei e insegnar loro le virtù e i vizi che hanno condotto alla situazione presente.
Concludiamo tale articolo dicendo qualcosa sul giudizio formulato sul Machiavelli dopo la sua morte . Per capire la fortuna di Machiavelli bisogna pensare che subito dopo la sua morte ebbe inizio l’età della Controriforma durante la quale il mondo cattolico fu impegnato a difendersi dalla Riforma Luterana . Inoltre, il mondo cattolico fu costretto a combattere con gli aspetti del Rinascimento in contrasto con la sua concezione della vita .La nuova generazione perciò respinse i rimproveri del Machiavelli alla Chiesa cattolica accusata di avere impedito l’ Unità d’ Italia . La nuova generazione cattolica respinse altresì i rimproveri ancora più gravi al cristianesimo accusato di aver infiacchito gli animi .
Per queste ragioni Machiavelli divenne il bersaglio maggiore dei teorici della Controriforma tanto che il termine di Machiavellismo fu usato dai cattolici per indicare una dottrina eretica e immorale . A difenderlo da queste condanne provenienti dal mondo cattolico alcuni scrittori elaborarono già nel 600 la tesi ripresa anche dal Foscolo, di un Machiavelli che avrebbe finto di consigliare il principe per poterne invece svelare le malefatte e denunziarle al popolo . Questa è una tesi che contravviene alla realtà storica . Altri autori infine hanno esaltato il Machiavelli presentandolo quale campione del pensiero laicista e apostolo dell’ Unità italiana ( basti pensare al De Sanctis). Detto ciò, riteniamo concluso il nostro articolo sulla Concezione dello Stato di Machiavelli .
Da quando la pandemia condiziona le nostre vite, le parole sono diventate il conduttore del malessere sociale.
<<=== Antonio Latella
Il mondo è frastornato dalla babele di messaggi talmente veloci da rendere impossibile qualsiasi tentativo di decodifica. Un bombardamento che offusca le nostre capacità cognitive fino a farci diventare eterodiretti. Populismo, negazionismo, fake news sono un micidiale arsenale in mano a gruppi di persuasori occulti che dalle paure e dai bisogni della gente traggono grandi vantaggi: consenso, potere, business.
Siffatti comportamenti insinuano in noi il sospetto che il mondo sia alle prese con due conflitti globali: quello contro la pandemia e l’altro, non dichiarato, che vede la scesa in campo delle multinazionali del farmaco e di altri gruppi di interesse funzionali alla società consumistica. Guerre dagli esiti incerti: per il futuro dell’uomo innanzitutto e per il pianeta violentato dall’indiscriminato sfruttamento delle risorse naturali.
Siamo giunti ad un punto di non ritorno: o si cambia oppure il destino del mondo è segnato. In guerra – osserviamo – è importante una comune strategia: comportamenti unitari, condivisione per resistere alle difficoltà dell’oggi e all’incertezza del domani. Bisogna “cambiare strada”: nuove regole di condotta, comuni responsabilità per assicurarci una rigenerazione della politica, nuovi modelli di protezione del pianeta e l’umanizzazione della società. In Italia, invece, siamo alle prese con un preoccupante quanto pericoloso deficit di responsabilità. Anche perché, ampliando ad libitum il concetto di libertà, individui e gruppi danno vita ad episodi di disobbedienza, di anarchia, di protesta che sono alla base di un conflitto difficile da gestire.
È vero, la
metamorfosi del “Vascello Terra” (Edgar Morin) ci mette di fronte ai
cambiamenti legati all’attuale società tecnico – scientifica e all’affascinante,
quanto pericoloso, strapotere della comunicazione globale. Strumenti che, da un
lato, hanno spalancato grandi orizzonti di democrazia e di partecipazione, e, dall’altro,
ci rendono sempre più disorientati, quasi impotenti, rispetto alla velocità dei
messaggi che provoca l’istintività dei nostri comportamenti che alimentano
forme di litigiosità e di disagio sociale. Si formano così quelle legioni di imbecilli (Umberto
Eco) che brillano nell’uso di linguaggi da bar dello sport.
Il mondo sembra aver perso il senso di responsabilità, nei comportamenti come nel linguaggio che tutti siamo chiamati a modificare. Invece ci troviamo di fronte a una preoccupante e pericolosa spinta anarcoide. La rete, la più grande influencer della postmodernità, è diventata l’arengario di milioni di follower che affollano le piazze virtuali. A volte basta un breve messaggio, una parola, un like, un’emòticon per scatenare malcontento, disagio e inquietudine: sentimenti difficilmente gestibili. Deficit di responsabilità che, in questi due anni di guerra contro il Covid-19, coinvolge numerose categorie sociali e professionali: che non solo disobbediscono alle norme di tutela della salute, ma quando nei loro confronti viene applicata una qualsiasi sanzione attuano tentativi estremi come il ricorso alle giurisdizioni penali e amministrative.
Il deficit di
responsabilità non ha confini. È un fenomeno globale che si allarga a macchio
d’olio in tutti quei contesti nazionali dove i governi, presi dal timore di
diventare impopolari con la conseguente perdita di consensi, tentennano prima di
assumere provvedimenti di interesse generale. A volte succede, come nel caso
del rave party del viterbese, con migliaia di persone che sfuggono a qualsiasi
controllo preventivo del territorio. E quando, finalmente, viene scoperta la
loro illegale presenza, gli apparati di sicurezza dimostrano la loro totale
debolezza.
Deficit di responsabilità
è anche quando un’amministrazione pubblica programma concerti di piazza e avvia
un braccio di ferro con le autorità sanitarie che sconsigliano manifestazioni
del genere. E per difendere una scelta pericolosa per la salute pubblica
chiedono la mediazione dell’autorità prefettizia. Boh!
Un medico che rifiuta di vaccinarsi, non perché dubiti dell’efficacia scientifica del vaccino ma per una semplice questione di “principio” o “ideologica”, diventa un portatore di deficit di responsabilità. La stessa irresponsabilità in capo agli esponenti della politica la cui coerenza diventa un optional dal momento che, da un lato, sostengono le decisioni assunte dal governo e, dall’altro, le criticano in nome di un comportamento cerchiobottista.
Un modo qualunquista per affrontare i problemi, come quello riconducile al disimpegno dell’occidente in Afghanistan legato alla gestione dei profughi in fuga verso l’Europa, per sfuggire alle vendette dei talebani. E sull’accoglienza dei profughi, l’Europa mostra altri preoccupanti segnali di divisione.
Toh! Si riparla di impresentabili. Una patente più “politica” che eminentemente giuridica. Tant’è che di questa categoria non vi è traccia né nel codice penale, né in quello di procedura e, soprattutto, nella Costituzione che fissa il principio della presunzione di innocenza di ogni cittadino fino a sentenza passata in giudicato.
<<== Antonio Latella
Tutto questo è suffragato dal fatto che alla pubblicazione dell’elenco degli “impresentabili” non segua una sanzione di incandidabilità o di ineleggibilità. Tuttavia non vi è alcun dubbio che il candidato cui viene rilasciata la patente di “impresentabile” venga colpito da una sorta di stigma che sovente ne danneggia l’immagine e probabilmente anche il risultato elettorale. Anche in considerazione della tempistica di pubblicazione dell’elenco degli impresentabili che, fino alle ultime elezioni, avveniva in prossimità del voto, quando sarebbe stato più logico farlo prima della presentazione delle liste. Una soluzione in tal senso è stata decisa di recente dalla stessa Commissione parlamentare antimafia.
Nonostante la non obbligatorietà della procedura, numerose liste di candidati che parteciperanno al voto in autunno hanno richiesto all’Antimafia una verifica preventiva.
A questo punto diventa difficile ipotizzare quali saranno i criteri di valutazione e, soprattutto, se le decisioni saranno condivise o assunte a maggioranza. Non si escludono sedute infuocate. Certo, non si può non tenere conto della precedente condotta dei candidati, di eventuali condanne, di riabilitazioni o di sopraggiunte prescrizioni che non hanno lasciato traccia sulla fedina penale. Ben altra cosa sono l’avviso di garanzia o uno spiffero investigativo.
Insistiamo. La semplice patente di “impresentabile”, così come fino ad oggi strutturata, finisce per tramutarsi, forse involontariamente, in un potenziale strumento di lotta politica. Anche perché ad emanare l’elenco è un organismo bicamerale composto da politici appartenenti a partiti e movimenti che partecipano alle varie competizioni elettorali che si svolgono in Italia.
Leggendo i giornali abbiamo la sensazione che esista di fatto una scuola di pensiero che pare voglia dividere il Paese in mafia e antimafia. La prima esiste, come dimostra la variante ‘ndrangheta (una delle più potenti organizzazioni criminali globali), la seconda, riconducibile alla cosiddetta società civile, funziona come l’alta marea: compare e scompare. Sull’altro versante la metamorfosi criminale continua a conquistare spazi vitali sia nell’economia che nel settore finanziario dove vengono riciclati i proventi del traffico di droga e delle estorsioni.
Tramontata l’era dell’antimafia dei canti, dei balli e delle infiorate, oggi assistiamo al protagonismo di alcuni segmenti di questo movimento che continuano a fare incetta di beni sequestrati e confiscati, ma non si conosce il numero degli occupati prodotto da questa ricchezza a beneficio del Paese e delle zone dove la pervasività dell’antistato pare sia in grado di attingere manovalanza dal grande bacino di disoccupati.
Alla luce di queste considerazioni crediamo che la Commissione parlamentare antimafia necessiti di un restyling legislativo per fronteggiare un fenomeno criminale sempre più diffuso che non risparmia né l’economia né la politica. Anche perché, come avvenuto in un recente passato, la patente di impresentabile ha riguardato anche cittadini che, come poi dimostrato, non meritavano questo tipo di trattamento a tutto vantaggio dei tanti sepolcri imbiancati della politica.
In questo articolo prenderemo in considerazione i fenomeni di imitazione sociale e del contagio psichico che rivestono grandissima importanza nella società contemporanea.
Prof. Giovanni Pellegrino ==>>
Quando gli individui entrano a far parte di gruppi o altri tipi di agglomerati umani accade spesso che subiscano il contagio psichico che li induce ad imitare i comportamenti ed assumere la visione del mondo di coloro con i quali entrano in relazione. Molto frequenti sono i fenomeni di imitazione sociale nei gruppi di amici negli stadi e nei cortei .Vallèe mette in evidenza che in molti gruppi metropolitani i membri vestono in maniera molto simile , usano un linguaggio molto stereotipato e percepiscono la realtà sociale allo stesso modo. Accade anche spesso che vengono messe in secondo piano le differenze di carattere psicologico che esistono tra i membri dei gruppi di amici tanto che viene a formarsi una specie di IO collettivo che costituisce l’anima dei gruppi di amici .
Molto interessanti sono i fenomeni di contagio psichico che si verificano negli stadi di calcio tra i tifosi di una squadra che agiscono come se costituissero un IO collettivo fortemente suggestionabile ed instabile nelle idee e nei comportamenti . Le Bon afferma che uno dei caratteri generali degli agglomerati umani è la straordinaria suggestionabilità che è fortemente contagiosa . Anche l’agglomerato umano dei tifosi presenti in uno stadio è fortemente suggestionabile .Ad esempio, è sufficiente che un piccolo numero di tifosi entri in contatto fisico coi tifosi dell’altra squadra per dare inizio a uno scontro fisico che coinvolge un grandissimo numero di tifosi. Nell’agglomerato umano dei tifosi esiste uno stato di effervescenza collettiva in grado di alterare la percezione sociale della realtà ragion per cui i tifosi di una squadra di calcio non sono quasi mai obiettivi nei loro giudizi e nelle loro valutazioni .
I fenomeni di contagio psichico sono molto importanti ed evidenti anche nei cortei nei quali basta una piccola scintilla per scatenare violentissimi scontri fisici tra manifestanti e polizia. Ciò accade perché negli agglomerati umani la prima suggestione che nasce ,anche per fatti casuali , impone immediatamente il fenomeno di contagio psichico in tutti gli individui e li spinge ad assumere comportamenti spesso irrazionali .Il carattere irrazionale di molti comportamenti delle masse dipende dall’estrema credulità presente negli agglomerati umani e dalla tendenza insita in essi a deformare gli avvenimenti reali . Proprio la tendenza a deformare la realtà è lo scarso senso critico che caratterizzano gli agglomerati umani ( dovuti al contagio psichico ) sono alla base di molte psicosi collettive ed una fortissima ansia sociale dalla quale derivano spesso comportamenti violenti e crudeli del tutto privi di motivazioni razionali.
Per fare un esempio tratto dalla storia ricordiamo la caccia agli untori accusati di diffondere la peste a Milano utilizzando unguenti e polverine. Alla base di tutte le psicosi collettive della storia troviamo il contagio psichico che non crea “ex novo” i fatti sociali ma li ingigantisce e li deforma. Dobbiamo tuttavia mettere in evidenza che il contagio psichico e l’imitazione sociale non possono realizzarsi senza la presenza di leader carismatici in grado di condizionare le masse . Le Bon afferma che non appena un certo numero di individui si riuniscono ricercano per istinto l’autorità di un capo ,di un trascinatore .Nella maggior parte dei casi il capo è stato in un primo momento un gregario dell’ideale, di cui un secondo momento è diventato leaders ( per fare un es. così accadde nell’ambito della rivoluzione francese a Robespierre) .
Creare delle forti fedi è una caratteristica del leader sia che si tratti di fedi religiose , politiche , sociali o di qualunque altro tipo. Vogliamo mettere in evidenza che i sociologi sanno che la fede è una delle più potenti molle delle azioni degli uomini. Dare agli uomini degli ideali nei quali credere significa decuplicarne la forza e metterli in grado di raggiungere degli obiettivi che sembrerebbero impossibili . Riguardo i leader dobbiamo dire che essi devono possedere una forte volontà tuttavia i leader possono essere divisi in due gruppi fondamentali : il primo è costituito da uomini dotati di volontà forte ma incostante, mentre il secondo da leader che possiedono una volontà forte e duratura .Tali leader sono molto più rari dei primi e riescono a esercitare un’influenza maggiore degli altri leader.
Fondamentalmente tre sono le strategie sociali con le quali i leader esercitano il loro dominio sugli altri individui : le affermazioni , la ripetizione e la genesi del contagio psichico .
L’affermazione pura e semplice svincolata da ogni ragionamento logico e da ogni prova costituisce una strategia utilizzata molto spesso dai leader. Paradossalmente quando più l’affermazione di un leader è sprovvista di prove, tanto maggiore è l’influenza sulle masse . Tuttavia, la ripetizione delle affermazioni amplifica il potere manipolatorio dei leader. Quello che i leader affermano finisce per mezzo della ripetizione col penetrare nelle menti degli individui al punto da essere accettato come un vero e proprio dogma di fede . In effetti l’affermazione ripetuta molte volte riesce a penetrare nelle regioni profonde dell’inconscio dando luogo a un’azione subliminale che condiziona il modo di pensare degli individui. Il potere del leader si basa anche sulla loro capacità di generare fenomeni di contagio psichico molto forti .
In sintesi, il leader è colui che dà inizio ai fenomeni di contagio psichico : egli contagia un certo numero di seguaci, i quali a loro volta contagiano altri individui con i quali entrano in relazione . I fenomeni di contagio psichico seguono spesso un andamento di tipo esponenziale sovvertendo in poco tempo l’ordine costituito e dando origine a nuovi paradigmi . A volte il contagio psichico assume la forma di una “ Pandemia psicologica” . Le idee dei leader hanno il potere di modificare la percezione sociale della realtà in maniera molto evidente .I leader riescono a fare ciò perché acquistano molto prestigio .Difficile definire che cosa è il prestigio. Potremmo dire che esso è una sorta di fascino che un individuo , un’idea o una dottrina esercitano sulle persone . Tale fascino paralizza spesso il senso critico degli individui rendendoli facilmente manipolabili .
A nostro avviso solamente gli individui che sono dotati di capacità critiche e forte personalità possono sfuggire a tutte le forme di contagio psichico. Vogliamo chiarire che esistono fenomeni di contagio psichico che avvengono a livello microsociologico e altri che avvengono a livello macrosociologico. Nella società contemporanea la maggior parte dei fenomeni di contagio psichico di livello macrosociologico sono dovuti al potere dei mass media . Tuttavia, dobbiamo mettere in evidenza che anche la realtà virtuale sta diventando una fonte di contagio psichico in quanto aumenta sempre più il numero di persone che sono condizionati dal potere di internet.
Infine, anche la pubblicità utilizza tecniche sempre più raffinate per determinare fenomeni di contagio psichico finalizzata alla vendita di un determinato prodotto. In sintesi, il contagio psichico e la conseguente imitazione sociale hanno sempre giocato un ruolo importante in tutte le epoche storiche, tuttavia nella società contemporanea le persone che vogliono generare il contagio psichico hanno a disposizione mezzi derivanti dal progresso scientifico e tecnologico che i “manipolatori” del passato non possedevano .
Leggendo le storie di Sacks nel suo saggio “l’uomo che scambio’ sua moglie per un cappello”. Mi sono emozionata e al tempo stesso ho avuto la sensazione che le malattie e le persone sono insieme. Sacks il medico sognato e mai incontrato, quell’uomo che appartiene insieme alla Scienza e alla malattia, che sa far parlare la malattia, che la vive ogni volta in tutta la sua pena e la trasforma in un intrattenimento da Mille e una notte.
<<== Dott./ssa Carmela Cioffi
Molti critici cosi hanno definito le sue storie: “un intrattenimento da Mille e una notte”, casi clinici che vengono da pensarle semplici storie di persone particolari descritte con un tono romanzesco ma pur riferenti la condizione umana più friabile che è quella della sofferenza .Sacks nelle sue storie racconta il dramma ponendo in risalto i vantaggi e la peculiarità attraverso un processo di convivenza al disagio sociale. La sua abilità è che lo fa con grande competenza professionale e più di tutto con grande umanità oltre che con sensibilità di narratore cogliendo le più sottili sfumature di ogni singolo individuo. Mi ha dato di chiedere com’era in generale il suo mondo ,quello di Martin. Era piccolo, cattivo e buio. Il mondo di un ritardato ed emarginato da bambino e rilegato con disprezzo da adulto, il mondo di uno che non si considerava ne veniva considerato come tutti gli altri.
In un’altra delle sue storie ,ho notato la profondità dei gemelli si poté esplorare solo nel momento in cui si smise di sottoporli a continui Test e di vederli come soggetti da studiare , solo vedendole come persone, osservandole apertamente senza preconcetti , guardandole mentre vivono , pensano si poté scoprire ciò che possedevano di cosi misterioso . La cosa più entusiasta che in nessun caso ho mai avuto la percezione che queste persone “anormali” fossero pazze, ma sempre persone speciali, non si scorge il dramma ma sempre e solo il lato positivo perché speciali sono agli occhi di chi li racconta. È la sua accattivante umanità, la sua capacità affabulatoria e insieme divulgativa che rende esemplare questo medico, il suo rigore scientifico difronte alle patologie che nei casi descritti nel suo saggio trova sempre la diagnosi. Non è la malattia mentale vista come biologica in sé a fare stimolare il mio pensiero ma le acute e profonde riflessioni verso le quali sa condurmi l’abile medico .Come in ognuno di noi possa emergere un talento che può farci sentire speciali nonostante la malattia .In esso non ho mai intravisto casi ,ma persone e non esistono ostacoli che non possano essere superati se sappiamo vedere oltre la disabilità e la malattia .Come se ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto ,un racconto interiore la cui continuità ,il cui senso è la nostra vita ,ognuno di noi costruisce e vive un racconto.
E che questo racconto è noi stessi, la nostra identità. Abbiamo bisogno di questo racconto ,di un racconto interiore per costruire la continua sua identità .Mi ha entusiasmato che ogni qualvolta il nostro dottore è chiamato ad esaminare una persona diversa , una persona più bizzarra dell’altra e ogni volta a sperimentare soluzioni azzardate e geniali per porvi rimedio. Il metodo deduttivo di Dr House lo abbia reso non meno affascinante di Sherlock Holmes. Per concludere posso dire che il mondo dei semplici , i cosiddetti ritardati ma sempre e solo persone e non casi, vivono in un mondo che è semplice perché è concreto. Le stimolazioni del sistema del cervello permettono all’immaginazione e alla memoria di trasportare altrove una persona . Il merito non ultimo ,del dottore Sacks è che non usa mai una lente pietosa ma sempre curiosa trasformando le sue storie in storie per tutti , sia per gli addetti ai lavori che non. In definitiva, il dottore che tutti hanno sognato è mai incontrato, questo è Sacks.
Il lutto non è mai una condizione personale, psicologica e sociale facile da affrontare. Com’è trattato questo passaggio da parte di chi “resta”?
<<==dott.ssa Enrica Froio
Analizzando le parole di Sofocle: ”Ma se devo morire prima del tempo, io lo dichiaro un guadagno: chi, come me, vive immerso in tanti dolori, non ricava forse un guadagno a morire? Affrontare questa fine è quindi per me un dolore da nulla; dolore avrei sofferto invece, se avessi lasciato insepolto il corpo di un figlio di mia madre; ma di questa mia sorte dolore non ho. E se ti sembrava che mi comporto come una pazza, forse è pazzo chi di pazzia mi accusa”.
Questi versi descrivono il cordoglio di Antigone cui è negato di seppellire il fratello Polinice, per comando del re Creonte, dolore che lo porta a desiderare la sua stessa fine. Queste parole, oggi, sono molto attuali. Quanti hanno dovuto superare il dolore durante il periodo del Covid-19 di non poter celebrare neanche un rito religioso, di saluto ai propri cari? Il rito del funerale è decisivo per chi resta, perché segna l’inizio dell’elaborazione del lutto. Il trauma psicologico e sociale che l’individuo vive, è un dolore mentale, che può divenire talmente forte da trasformarsi nel desiderio di fine anche della propria esistenza. L’elaborazione del lutto avviene tramite una prima fase di allarme generale, seguita da una reazione di shock, confusione che porta a impatti emozionali ed emotivi completamente diversi da individuo a individuo. In seguito avviene il coping.
L’individuo affronta il dolore, lo comprende, lo elabora e infine lo accetta e modifica anche l’idea di sé in funzione dell’accaduto traumatico. È ovvio comunque, che la vulnerabilità dell’individuo e le sue reazioni siano differenti in base anche all’assetto psicologico e alle reti sociali di cui fa parte. Tutto questo è stato quindi molto difficile da affrontare durante la pandemia, dove gli aiuti psicologici e le reti sociali erano puramente virtuali e la base della quotidianità di ogni individuo era l’isolamento. Non c’era vicinanza, non c’era gruppo sociale, non c’era condivisione di emozioni comprese. Ecco perché d’importanza assoluta di tutto ciò che è cultura, anche se differente per ogni società, come, il rito funebre, l’accompagnare il feretro nella sua sepoltura e nell’’insieme mettere “in scena” il rituale del funerale. I lutti avvenuti in periodo pandemico, purtroppo, sono stati conseguenza di tanti lutti “irrisolti”. Dolore, alternato a rabbia, susseguirsi di depressione che hanno portato al rivoluzionarsi della vita dell’individuo.
Oggi sembra essere tornati alla normalità, ma lo strascico di chi oggi perde una persona a sé cara, riporta alla mente il periodo che tutto il mondo ha vissuto. La frase “almeno si è potuto fare il funerale” sembra essere la prima consolazione al dolore. Così non deve essere, bisogna sempre stare attenti all’elaborazione del lutto, ascoltare il proprio essere, le proprie emozioni e possibilmente farsi aiutare per affrontare questa elaborazione senza traumi e ripercussioni sulla vita personale e sociale di ogni individuo.