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Pandemia e dilemmi dell’economia

di Patrizio Paolinelli

Emergenza sanitaria e emergenza economica sono sempre andate di pari passo. Storicamente l’una non si dà senza l’altra. L’abbiamo imparato a nostre spese noi contemporanei, colpiti come siamo da un anno a questa parte dal Covid-19. Un dramma mondiale che non ha risparmiato nessun angolo del mondo.

<<= prof. Patrizio Paolinelli

Come chiamare con una sola parola l’intreccio tra emergenza sanitaria e emergenza economica? La risposta ci giunge direttamente dal titolo di un piccolo tascabile scritto dal sociologo Tonino Perna: “Pandeconomia. Le alternative possibili”, (Castelvecchi, Roma, 2020, 69 pagg., 8,00 euro). Ma, innanzitutto, che cosa si intende con pandeconomia? Molto semplice: si tratta della “trasformazione dell’economia dei singoli Paesi come del mercato mondiale al tempo della pandemia”.

Se la definizione è netta, le cose diventano assai più complicate quando si entra nel merito. Ossia quando si cerca la via d’uscita dalla destabilizzazione del sistema economico provocata dal Coronavirus: caduta del Pil, aumento esponenziale del debito pubblico, crollo del mercato internazionale, ulteriore impoverimento di chi vive di precariato e lavori informali. Bisogna riconoscere che Perna affronta l’argomento con rigore e allo stesso tempo in maniera molto chiara. Perciò il suo intervento ha il merito di parlare a tutti, addetti e non addetti ai lavori.

Pandeconomia” si divide in tre agili capitoli: “Breve storia della pandeconomia”, dove a volo d’uccello sono presentate alcune epidemie che hanno investito l’Europa nei secoli scorsi; “La pandeconomia al tempo del Coronavirus”, dove in rapida successione sono affrontati in termini critici gli effetti economici, sociali, politici, emotivi e ambientali scatenati dal Covid-19; infine, “Oltre la pandeconomia: gli scenari possibili”, dove sono ipotizzate le alternative che la stessa pandemia ha messo in moto.

Perna avvia la propria riflessione partendo dal concetto di catastrofe elaborato dal matematico René Thom. Il quale considera la catastrofe (un terremoto, una guerra, un’epidemia) come un punto di svolta, ossia come l’interruzione improvvisa di una continuità, di un processo strutturalmente stabile. Calando la catastrofe pandemica dei nostri giorni nella realtà sociale, le elaborazioni teoriche a cui fare riferimento sono, secondo Perna, quelle di due economisti: Walther Rathenau e John Maynard Keynes.

Rathenau fu il primo economista del ‘900 a occuparsi delle conseguenze economiche della guerra. Conseguenze che si ripresentano pari pari oggi con l’esplosione della pandemia. Esse sono: la messa in discussione della globalizzazione, l’inevitabile processo di deglobalizzazione, la rivalutazione del mercato interno, il rafforzamento delle istituzioni statali, l’accelerazione dei processi sociali. A ben vedere si tratta di una serie di fattori che già premevano sulle società ben prima della pandemia. Ma a cui la pandemia ha dato una spinta impressionante.

L’altro economista che ha offerto un importante contributo nell’analisi sull’economia di guerra è stato John Maynard Keynes. Il quale spiegò che lo sforzo bellico dovevano pagarlo tutte le fasce sociali. Ma per le classi lavoratrici era necessario prevedere un “salario differito”, ossia la restituzione di una parte di quanto tali classi avevano versato una volta terminato il conflitto. In tutta evidenza si tratta di una soluzione le cui intenzioni erano quelle di conciliare la ripresa dell’economia con la giustizia sociale dopo la catastrofe bellica.

La pandemia in corso non è una guerra, né, come lo stesso Perna precisa, l’attuale emergenza economica può essere definita un’economia di guerra. Eppure ha innescato effetti simili a quelli di una guerra. Per diversi aspetti la società non sarà più come prima e tuttavia il rischio maggiore è che sia peggio di prima. Proprio per evitare questa involuzione la conciliazione tra economia e giustizia sociale proposta da Keynes all’indomani del Secondo conflitto mondiale vale anche per l’oggi visti gli ottimi risultati che diede allora. E tale conciliazione costituisce l’aspetto principale della riflessione di Tonino Perna. È vero: la pandemia in corso rappresenta un punto di svolta nella storia, “Ma senza una redistribuzione dei redditi, senza giustizia sociale, la guerra contro il Coronavirus la vinceranno ancora una volta gli speculatori di Borsa, i rentiers, i privilegiati di questo modo di produzione”. Uno snodo decisivo del libro che ne spiega il sottotitolo: “Le alternative possibili”.

Quali sono le alternative di cui parla Perna? Possono riassumersi in una parola: equonomy. Che cos’è? “Si definisce equonomy un’economia che ritrova l’equilibrio nel nome dell’equità”. Su cosa si fonda? Sulla valorizzazione dei cambiamenti positivi emersi durante l’anno del Covid. Tali cambiamenti sono: il maggior uso dello smart working; il recupero dell’economia di prossimità (piccola agricoltura, piccoli negozi, vita di quartiere); il riequilibrio tra città e campagna; la riscoperta della solidarietà; il rilancio della cooperazione internazionale; infine, l’importanza di riconsiderare l’economia fondamentale secondo quanto sostenuto dalla scuola di Manchester (cioè il ritorno all’economia dei beni essenziali come il cibo, l’acqua, la casa, l’elettricità). Da questo insieme di cambiamenti è possibile secondo Perna un’altraeconomia, “che, in prima istanza come mero esercizio teorico, ma non sganciato dalla realtà, chiamiamo equonomy. L’equonomy come un modo di produzione che punta a un rinnovato equilibrio tra l’attività umana e il patrimonio naturale che abbiamo ereditato.”

Ora, non solo sul piano teorico l’equonomy è una prospettiva desiderabile. Ci chiediamo però quanto sia realizzabile su larga scala. Intanto presenta qualche intrinseco elemento di debolezza. Per esempio, chi l’ha detto che l’incremento massiccio dello smart working sia solo un fatto positivo? Indubbiamente dà luogo a delle positività (riduzione del traffico automobilistico e del pendolarismo), ma anche a delle negatività (rischi di isolamento sociale, di indebolimento dei legami tra lavoratori e sindacati, di indistinzione tra vita lavorativa e vita privata e così via). Tralasciamo gli altri punti che secondo Perna caratterizzerebbero un nuovo modo di produzione perché il nocciolo della questione non risiede nelle criticità dei singoli fattori che compongono l’equonomy, ma nel pensare di superare il neoliberismo con delle buone idee e delle buone pratiche.

Il neoliberismo non ha conquistato il potere perché rappresenta una teoria migliore di un’altra, ma perché è più violenta di ogni altra (comprese quelle che rientrano nell’alveo del liberismo). E poi con la pandemia i neoliberisti non si sono fatti da parte. Sono più che mai saldamente al potere. Un potere totale, che controlla tutto: parlamenti, governi, Unione Europea, mass-media, università, tecnologia, finanza, industria, risorse statali e chi più ne ha più ne metta. Sarà l’élite economica a gestire il dopo-Coronavirus. E non lo farà certo nell’interesse dei lavoratori e dei cittadini. In poche parole, il futuro dell’equonomy si gioca sulla sua capacità di passare da movimento di idee e di pratiche a forza politica.


I processi di socializzazione di gruppo

di Giovanni Pellegrino e Mariangela Mangieri

Una volta che un individuo è riuscito ad entrare in un gruppo è necessario che impari a rimanervi. I processi di socializzazione danno la possibilità agli individui di rimanere in un dato gruppo.

Prof.. Prof. Giovanni Pellegrino

La Speltivi afferma che il processo di socializzazione è un processo attraverso il quale gli individui acquisiscono le conoscenze, le abilità, le disposizioni che li rendono in grado di restare in gruppo assumendo al suo interno un ruolo ben preciso. Infatti affinché un individuo resti in un dato gruppo deve acquisire uno o più ruoli che diano un senso ed un significato alla presenza di un gruppo. E’ innegabile come tutti i sociologi sanno il carattere bidirezionale di qualunque processo di socializzazione tuttavia è vero che nella realtà dei piccoli e dei grandi gruppi il neofita si trova in una condizione di maggiore dipendenza. Egli è nella necessità di dover capire cosa debba fare in quel gruppo.                        

Palmonari mette in evidenza che un individuo che entra in un gruppo deve capire cosa il gruppo si aspetti da lui, quali siano le norme e i regolamenti dominanti e quale sia la struttura gerarchica formale e informale esistente nel gruppo.  Quando un individuo entra in un gruppo deve immergersi nella cultura particolare di quel gruppo che include modi condivisi di percepire e di interpretare la realtà nonché costumi comuni che sono l’espressione comportamentale di una data cultura. Essi includono routine, resoconti, parole e gesti comprensibili solo dai componenti del gruppo nonché simboli ovvero oggetti che hanno un significato speciale per i membri del gruppo. Come ha messo in evidenza Lewin la percezione sociale della realtà condiziona in maniera evidentissima il comportamento di tutti gli individui ivi compresi i membri di un determinato gruppo sociale che leggono la realtà utilizzando un codice condiviso.

Quei gruppi che adottano comportamenti devianti avranno alla loro base dei veri e propri codici devianti che condizioneranno anche i processi di socializzazione di gruppo come ha messo in evidenza D’Agostino. Esistono vari modelli teorici che cercano di individuare le fasi della socializzazione di gruppo, tuttavia noi prenderemo in considerazione solo quello di Lewin che si basa sulla individuazione dei tre processi psicologici ognuno dei quali può essere visto sia dalla prospettiva del gruppo, sia da quello dell’individuo. I tre processi psicologici in questione sono la valutazione, l’impegno e la transizione di ruolo.    Per quanto riguarda la valutazione dobbiamo dire che ogni gruppo ha degli scopi da raggiungere e per tale ragione valuta gli individui in base a quanto possono contribuire al raggiungimento di questi scopi. Nello stesso tempo ogni membro del gruppo ha dei bisogni personali da soddisfare e di conseguenza valuta il gruppo nei termini di quanto esso potrà contribuire a soddisfare i suoi bisogni.

Per quanto riguarda l’impegno dobbiamo dire che esso produce sia nel gruppo sia nell’individuo l’accettazione dei reciproci scopi e bisogni. Inoltre induce sia il gruppo sia i singoli membri ad impegnarsi al massimo delle proprie possibilità per soddisfare le reciproche aspettative. Infine col termine transizione di ruolo Lewin indica il mutamento delle aspettative reciproche. Riguardo il processo di socializzazione Lewin applica a tale processo la famosa teoria del campo che indica le modalità con le quali a livello energetico gli individui interagiscono tra di loro. Lewin ha mutuato dalla fisica il concetto di campo di forza volendo far presente che nel processo di socializzazione gli individui si influenzano a vicenda come i vettori nel campo di forza si condizionano a vicenda.

Per quanto riguarda la durata temporale del processo di socializzazione di gruppo dobbiamo dire che essa dipende da vari fattori tra i quali ci limiteremo a prendere in considerazione la complessità della cultura di gruppo, la durata temporale del gruppo ed il tempo di permanenza dell’individuo all’interno del gruppo.( Per quanto riguarda tale fattore dobbiamo dire che esso è una delle cause e dei meccanismi che determinano l’uscita di un individuo dal gruppo). Per quel che concerne la complessità e il grado di strutturazione della cultura di gruppo appare evidente che quanto più complessi e numerosi sono i costumi comuni e i modi condivisi di interpretare la realtà, tanto più lungo e complicato sarà per il nuovo arrivato il processo di socializzazione. Infatti in alcuni gruppi il modo di interpretare e leggere la realtà è condizionato da numerosi fattori cosicché i nuovi arrivati vanno incontro a notevoli problemi per accettare e fare propri il modo in cui i membri del gruppo interpretano e leggono      la realtà sociale. Anche la durata temporale dell’esistenza del gruppo condiziona la durata del processo di socializzazione.

Infatti appare chiaro che se il gruppo si scioglie dopo poche settimane dall’ingresso del neofita, la durata del processo di socializzazione del nuovo venuto sarà molto limitata dal punto di vista temporale. Vogliamo mettere in evidenza che la durata della vita di un gruppo dipende dalle caratteristiche che assume il processo di sviluppo di gruppo che comprende cinque stadi: lo stadio di formazione, lo stadio di conflitto, lo stadio normativo, lo stadio di prestazione, lo stadio di sospensione. Per quanto riguarda il primo stadio i membri sono piuttosto ansiosi ed incerti rispetto alla loro appartenenza di gruppo ragion per cui sono disposti ad investire poco dal punto di vista psicologico nelle attività del gruppo. Nello stadio di conflitto i membri del gruppo diventano più attivi e cercano di modificare il gruppo secondo i propri bisogni. Come conseguenza in tale comportamento scoppiano ostilità e risentimenti all’interno del gruppo dal momento che il bisogno dei vari individui sono diversi ed entrano in conflitto tra loro.

Nel terzo stadio i membri risolvono i conflitti che erano scoppiati nel precedente stadio e di conseguenza aumenta il grado di coesione interna del gruppo. In tale stadio aumenta di molto la conformità dei membri alle regole e alle norme di gruppo. Nel quarto stadio tutti i membri del gruppo lavorano attivamente e si impegnano notevolmente per raggiungere gli scopi comuni.   Infine nell’ultimo stadio della vita di un gruppo la maggior parte dei componenti di esso va incontro a processi di demotivazione dovuti a diverse ragioni.  Pertanto il gruppo perde gran parte della sua importanza per quasi tutti i membri. Infatti essi si danno da fare per cercare di stabilire nuovi rapporti interpersonali in modo da evitare di restare isolati nel momento in cui il gruppo si scioglie.                            

   In genere quando un gruppo sta per sciogliersi esiste un piccolo numero di membri che cerca di evitare lo scioglimento del gruppo ma il loro tentativo è destinato a fallire poiché il malcontento e la demotivazione esistenti in quasi tutti i componenti del gruppo rende vano il loro tentativo. Palmonari mette in evidenza che nell’ultima fase dello sviluppo di gruppo scoppia “la guerra di tutti contro tutti” cosicché il valore del gruppo è messo in dubbio e negato, viene criticato il comportamento del leader ed inoltre si mettono in evidenza i fallimenti del gruppo, dimenticando completamente i successi ottenuti e gli obiettivi raggiunti.   In tale fase si cercano i capri   espiatori sui quali scaricare l’aggressività e le frustrazioni e si diffonde l’inerzia sociale e l’apatia. Prima dello scioglimento del gruppo sono anche possibili una serie di comportamenti violenti che funzionano da valvola di sfogo della collera di alcuni membri del gruppo.

Prof. Giovanni Pellegrino // Prof.ssa Mariangela Mangieri


Territori resilienti, coscienza e conoscenza del presente

di Domenico Stragapede

La crisi non è solo uno stato psicologico, un disincanto del carattere eccezionale dell’uomo, ma una manifestazione cronica del disagio della struttura sociale, disintegrazione della sfera adattiva dei processi di previsione e programmazione strategica delle policy, in grado di poter combinare le diversi livelli territoriali (sociale, economico, istituzionale, naturale).

Dott. Domenico Stragapede (sociologo)

La realizzazione di una governance, caratterizzata da uno strumento che permette la definizione efficace del benessere nella forma sostanziale di equità e sostenibilità attraverso la ricerca di nuove dinamiche sociali e istituzionali, è la base per calcolare l’impatto delle risorse a propria disposizione.

 Il principio dinamico dell’interpretazione del carattere sostenibile e innovativo risiede nell’ adattamento che privilegia la Rigenerazione sostenibile dei territori, mobilità e coesione territoriale, transizione energetica, qualità della vita, economia circolare sono le cinque macroaree in cui si sviluppano le sue linee programmatiche. La comunità con al centro la persona, promuove stili di vita sani, definizione delle tempistiche di vita, progettazione di condizioni di vita eque, alla definizione di azioni che mettono in moto lo sviluppo del Capitale sociale attraverso formazione continua, principio creativo della società del futuro.

La volontà e la consapevolezza della coscienza dei territori, caratterizzata dal voler avviare un cambio di rotta alle imminenti o future problematiche, si concretizza nella emergente società del rischio o crisi globale dell’ecosistema mondo, in cui la pervasività umana è motivo di sfruttamento intensivo delle risorse presenti.

Il giudizio sociale si esprime attraverso il ripensamento dei luoghi enfatizzando la dimensione dell’habitat comunitario. La difficoltà, lo stallo nel realizzare e portare a termine gli obbiettivi dei vari bilanci/agende è segno della mancanza di interconnessione nella rete inter/intra comunitaria dove non viene esalta la possibilità, necessità di adeguamento sociale delle strutture di esercizio delle policy top down e bottom up.

 La forma resiliente di comunità si esprime armonicamente riflettendo il collante che definisce e bilancia la partecipazione, per mezzo dell’attività delle istituzioni/società civile le quali attraverso la combinazione, condivisione e cooperazione creano un circolo virtuoso (middle circle).

Gli elementi che meglio definisco il circolo virtuoso di accrescimento e bilanciamento del carattere resiliente della comunità è da collegarsi al sistema dello sviluppo economico(innovazione sostenibile), di capitale sociale, informazione/comunicazione e alla competenza di comunità, elementi che enfatizzati rafforzano i legami dei sistemi macro, meso e micro ambientali, riferiti alla connessione materiale/immateriale della” struttura della struttura” dei legami deboli e forti in ambito sociale.

In conclusione la realizzazione della comunità resiliente prescrive la messa in atto di un flusso circolare tra sistema politico e forze civiche, una dimensione intermedia fra i sistemi top down e botton up, in cui si realizzi il circolo virtuoso (middle circle), lo sviluppo economico, l’informazione/comunicazione, la competenza di comunità e per ultimo, ma non meno importante il capitale sociale che genera fiducia e, quindi, legittimazione che a sua volta alimenta il sistema dell’habitat che produce, in ultima analisi, nuovi spazi sociali di ragione e azione etica, morale e funzionale adattiva dando luogo alla prassi della sostenibilità ambientale.

Il presente in cui viviamo, con l’avvento della crisi pandemica prima, e della guerra dell’Ucraina dopo, rappresenta un fattore di coscienza e conoscenza potenziale della “Transizione”, non solo del sistema ambiente, ma dei suoi sottosistemi, in cui la società si combina ( “tradizione”/”natura”, “scienza/tecnologia”) affermando la migliore soluzione, per mitigare, adeguare ed equilibrare l’idea di resilienza all’interno dell’idealità di società sostenibile.

BIBLIOGRAFIA

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Giddens, A. (1991), Modernity and Self-Identity. Self and Society in the Late Modern Age. Cambridge: Polity  Giddens A. (1999b), Risk an


L’accettazione del sistema sociale da parte dei gruppi

Uno dei problemi che più hanno attirato l’interesse dei sociologi e degli psicologi sociali è la necessità di spiegare le ragioni che spingono quasi tutti i gruppi sociali ad accettare l’ordine sociale esistente. Solamente i gruppi criminali o sovversivi non accettano l’ordine sociale ivi compresi quei gruppi marginali privi di potere e privilegiati in quanto dotati di un basso livello di considerazione sociale.  

<<== Prof. Giovanni Pellegrino                              

Per quanto riguarda l’accettazione del sistema sociale da parte dei gruppi deprivilegiati molto interessanti sono gli studi di Jost. La domanda dalla quale il lavoro di Jost parte è più o meno questa: come può accadere che i gruppi senza privilegi considerano naturale ed accettabile il sistema sociale dove sono inseriti occupando una posizione di completa subordinazione? Jost sostiene che tale fatto è spiegabile se si tiene conto dell’importante ruolo rivestito dalla falsa coscienza nella giustificazione dell’ordine sociale. Jost definisce col termine di falsa coscienza tutte quelle false credenze che sono presenti nella visione del mondo dei componenti dei gruppi privi di privilegi. Tale falsa coscienza fa in modo che essi accettino come naturale il loro stato di subordinazione e di sottomissione nei confronti dei gruppi dominanti.

Per dirla in altro modo a causa delle credenze false i gruppi sottoprivilegiati pur essendo danneggiati dalla situazione sociale nella quale si trovano a vivere considerano tale situazione come qualcosa di innaturale e perciò immodificabile e non un prodotto sociale. Appare evidente che per modificare tale situazione sociale che li vede svantaggiati i gruppi sociali dovrebbero considerare l’ordine sociale una costruzione dell’uomo che per definizione può sempre essere modificata e non un fatto naturale che non può essere messo in discussione.  Il punto debole della teoria di Jost secondo Palmonari consiste nel fatto che egli non spiega come si producono quei fenomeni di falsa coscienza che inducono chi è privo di potere aconsiderare normale e non modificabile tale dato di fatto.  

A nostro avviso non è possibile neppure tentare di spiegare la genesi dei fenomeni di falsa coscienza chiamando in causa gli stereotipi non neutrali che sono alla base della nascita dei pregiudizi. Infatti tutti i sociologi sanno che la funzione principale degli stereotipi non neutrali è quella di difendere la visione del mondo del gruppo nonché i suoi comportamenti nei confronti degli altri gruppi.Inoltre gli stereotipi non neutrali hanno anche la funzione di giustificare i privilegi di cui gode il gruppo nel caso della falsa coscienza. I gruppi sotto privilegiati non elaborano stereotipi finalizzati a difendere i propri interessi ma elaborano una specie di contro stereotipi. Essi sono finalizzati a danneggiare interessi di tali gruppi dal momento che considerano il loro stato di sottomissione un fatto naturale e non un’ingiustizia sociale. Per quanto riguarda i gruppi privilegiati e dominanti è normale che essi giustifichino ed accettino l’ordine sociale vigente per il semplice motivo che esso attribuisce loro dei poteri sugli altri gruppi.

Naturalmente i gruppi dominanti devono spiegare le motivazioni per le quali il sistema sociale attribuisce loro determinati poteri e privilegi. In sostanza i gruppi dominanti devono dimostrare che i loro privilegi non derivano da degli abusi di potere ma legittimamente possono vantare determinati privilegi. Ma in che modo le differenze di potere possono venire giustificate in maniera convincente? In genere la differenza di potere può essere giustificata e legittimata in vari modi. In primo luogo essa può essere considerata un fatto normale se i gruppi dominanti riescono a convincere gli altri attori sociali di avere delle competenze non in possesso dei gruppi deprivilegiati. In altri termini chi detiene il potere deve convincere i soggetti dominati del fatto che esercitano il potere nell’interesse dell’intero sistema sociale.

Per dirla in altro modo chi detiene il potere sostiene spesso che se il potere fosse affidato ai gruppi  subalterni l’intera società sarebbe danneggiata poiché tali gruppi non hanno le competenze per gestire il potere in maniera adeguata. In secondo luogo i gruppi dominanti possono giustificare il fatto che detengono il potere facendo riferimento alla tradizione di famiglia. Naturalmente possono utilizzare tale giustificazione quelle persone che provengono da famiglie i cui membri hanno da lungo tempo gestito il potere.  In terzo luogo i componenti dei gruppi dotati di status superiore possono legittimare il fatto che esercitano il potere sostenendo che sono dotati di un carisma così evidente da non poter in nessun modo rinunciare a gestire il potere stesso.                              

 Per dirla in altro modo tali persone sostengono di essere nati per svolgere il ruolo di leader. Riguardo il carisma vogliamo ricordare che Weber ha compiuto importanti studi e ha definito il carisma come un qualcosa che va al di là della vita ordinaria, una qualità che permette a chi lo possiede di esercitare un forte fascino sugli altri individui. Alcune volte accade che una persona o un gruppo di persone conquistano il potere con un colpo di stato ed instaurano con la violenza un regime dittatoriale. In caso di questo genere non è facile giustificare il potere acquisito con la forza.  I gruppi che hanno conquistato in questo modo il potere giustificano il loro comportamento sostenendo che era necessario acquisire il potere utilizzando metodi violenti perché bisognava salvare la nazione dalla rovina.                                              

Secondo tali individui il precedente gruppo che gestiva il potere era composto da individui incapaci o addirittura privi di amore nei confronti della nazione. Pertanto tale gruppo aveva portato la nazione sull’orlo del baratro economico, politico, morale anche se i cittadini non erano consapevoli di tale stato di fatto. Non dobbiamo dimenticare che coloro che esercitano qualsiasi tipo di potere sostengono sempre e comunque e utilizzano tale potere non per difendere i loro interessi ma per fare gli interessi del sistema sociale e delle persone che hanno affidato loro il potere. In effetti esistono due concezioni del potere: una positiva e una negativa o per meglio dire una ottimistica ed una pessimistica.                                              

La concezione ottimistica è sostenuta da alcune scuole sociologiche come ad esempio il funzionalismo americano. Tale concezione fatta propria dai detentori di tutti i tipi di potere parte dal presupposto che chi esercita il potere si propone come fine quello di fare gli interessi della collettività. Per quanto riguarda la concezione pessimistica del potere citeremo le teorie del sociologo americano Mills.  Secondo Mills il potere è sempre manipolazione e coercizione nonchè predominio di alcuni su altri. Mills sostiene che coloro che esercitano il potere non sono interessati al bene comune ma a difendere gli interessi di una ristretta elite. Pertanto secondo il sociologo americano per coloro che detengono il potere il mondo è un oggetto da manipolare. A nostro avviso nella grande maggioranza dei casi è da considerare realistica la concezione pessimistica del potere. Infatti le teorie ottimistiche di Rousseau sulla natura umana purtroppo non sono da considerare realistiche ed attendibili.

Infatti accade spesso che coloro che detengono il potere sono inclini a fare i loro interessi e gli interessi di quanti possono dare una mano a mantenere e a consolidare il potere. Pertanto spesso quelli che gestiscono il potere non danno nessun peso agli interessi legittimi della collettività ed inoltre sono persone che pur di aumentare il loro status economico si lasciano abbastanza facilmente corrompere. Esistono poi alcuni individui che esercitano il potere non tanto per accumulare denaro ma per il puro piacere di dominare gli altri. Tuttavia esiste una ristrettissima minoranza di persone che gestiscono il potere in maniera disinteressata e che pertanto non sono assolutamente corruttibili.  Purtroppo tali persone sono difficili da trovare cosicché nella maggior parte dei casi sono da considerare realistiche le affermazioni di Hobbes sul potere e sulla natura umana. Concludiamo tale articolo ricordando che molti individui subiscono l’inebriante fascino del potere che riesce a far dimenticare loro i doveri nei riguardi della collettività che ha affidato loro il compito di gestire il potere.

Prof. Giovanni Pellegrino // Prof.ssa Mariangela Mangieri


L’Avvocatura a favore di soggetti svantaggiati a cui la guerra ha strappato la vita

Il Consiglio Nazionale Forense di concerto con le Avvocature Europee aderenti CCBE, Consiglio degli Ordini Forensi Europei, ha deciso di intraprendere un’azione concreta a sostegno dei profughi mediante l’individuazione di “Contact Point” presso gli Ordini che possano offrire un servizio di supporto ai cittadini ucraini che intendono rifugiarsi in Italia sulla base della competenza territoriale.

A questa iniziativa è seguita quella personale di noi avvocati appartenenti a diversi Ordini Forensi di Italia di costituire una rete di legali pro bono per i rifugiati sulla base di una competenza territoriale, cittadina e per diverse esigenze: pratiche di immigrazione, richieste di interpreti, veterinari per gli animali domestici portati in Italia e assistenza per la applicazione della normativa sanitaria , applicazione delle normative vaccinali, coordinamento con le Associazioni per accogliere i profughi, ecc. Abbiamo aderito in tantissimi quasi un’ottantina e dopo un primo confronto stiamo organizzando gruppi di riferimento per ogni regione di tutta Italia. Capitanata dall’Avvocato Cathy La Torre l’iniziativa ha trovato in me una pronta adesione perché da sempre mi occupo di immigrazione e di tutela degli animali d’affezione e ritengo fondamentale per tutti noi avvocati mettere a disposizione le nostre competenze gratuitamente per promuovere un ecosistema culturale e giuridico per la tutela dei diritti umani. L’Avvocatura finalmente a favore di soggetti svantaggiati a cui la guerra ha strappato la vita.

Avv. Valentina Pillosio

Studio Legale Avv. Valentina Pillosio

Via Napo Torriani, 33 – 22100 Como

               031 278923 

        


“La società siamo noi”, un nodo di rete sociale e maglie di sportelli “Socio Donna”

INIZIATIVE DELL’ASI- ASSOCIAZIONE SOCIOLOGI ITALIANI

Nel programma sociale 2022 , l’ASI – Associazione Sociologi Italiani ha posto al centro della sua progettualità una serie di iniziative per incentivare la cultura del rispetto verso l’universo femminile. Un cambiamento con al centro lo slogan “la società̀ siamo noi” inteso come un nodo della rete sociale in cui ogni maglia può e deve fare la sua parte. Da qui nasce l’idea di istituire lo sportello “Socio Donna” con l’obiettivo di creare una rete di ascolto per le donne, non solo per le vittime accertate di violenza, ma di coloro che si trovano nella fase precedente alla violenza fisica vera e propria: vittime inconsapevoli di narcisisti, oggetto di persistenti svalutazioni, prede di condizionamenti che non sanno come uscirne. L’intento di base è coniugare una forma di ascolto empatico con un aiuto fattivo, sia dal punto di vista del sostegno emotivo, che pratico e legale.

di Maria Gaia Pensieri e Flavia Munafò

GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA DONNA

L’8 marzo, comunemente identificato come la “festa della donna”, sarebbe in realtà più corretto chiamarla la: “giornata internazionale delle donna”, un momento di riflessione per osservare qual è il percorso compiuto fin qui dal genere femminile per il riconoscimento sociale, politico ed economico. *Nella foto a sinistra la sociologa dott.ssa Maria Gaia Pensieri

Una giornata di commemorazione al femminile venne istituita all’inizio del ‘900,  per ricordare le operaie morte nell’incendio di un’industria tessile di New York nel 1908 e di un altro avvenuto nel 1911 in cui morirono 146 donne sempre nella stessa città. A parte queste due tragedie, la giornata richiamava  l’attenzione sul fermento  dei movimenti femminili dell’inizio del secolo scorso, che hanno portato le donne a rivendicare i loro diritti come in occasione del congresso di Stoccarda del 1907 in cui chiesero di ottenere il  diritto di voto.

La giornata venne fissata  definitivamente per l’8 marzo, e ricordare la manifestazione delle donne di San Pietroburgo dell’8 marzo del 1917, che chiedevano a gran voce di porre fine al conflitto mondiale. Nel settembre del 1944 in Italia venne istituito l’UDI (Unione Donne Italiane) che l’8 marzo dell’anno successivo,  festeggiò le donne nelle zone liberate del nostro Paese. Nel 1946 come simbolo di questa festa venne introdotta la mimosa, un fiore  a buon mercato e disponibile durante questa stagione. Nonostante i festeggiamenti e i diritti che alcune volte sembrano esistere solo sulla carta, siamo giunti al primo ventennio del nuovo secolo, costretti a ricordare la violenza ancora esercitata sul genere femminile

La violenza sulle donne è la conseguenza di una cultura patriarcale ereditata dalla notte dei tempi e nonostante le battaglie descritte fin qui è di difficile eradicazione. * Nella foto a destra la sociologa dott.ssa Flavia Munafò

Oggi per tentare di costruire una società sana è indispensabile, che la figura femminile abbia la giusta considerazione e riceva il pieno rispetto che merita in tutti gli ambiti, così ha sottolineato lo scorso 25 novembre il nostro Presidente della Repubblica in occasione della “Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”. Per far questo dobbiamo essere consapevoli di dover intraprendere un percorso di cambiamento culturale che sappiamo essere iniziato, ma è ben lungi dall’essere giunto a compimento.

L’80% delle vittime di femminicidio quelle che avevano trovato il coraggio di denunciare, avevano dichiarato  prima di morire di temere per la propria vita, questo purtroppo sottolinea ancora una volta quanto gli  attuali strumenti di prevenzione e contrasto siano insufficienti. Quindi non solo una festa o una giornata di commemorazione, le donne hanno bisogno di essere riconosciute e rispettate sempre.

Il maschilismo è la piaga da annientare, mentre gli uomini sono i veri alleati da ricercare, per combattere insieme questa battaglia contro il dominio di quei maschi che si affermano solo con l’uso della violenza e ambiscono ad esercitare il potere sugli altri e affermare il loro io fragile, e spesso gli altri, sono le compagne.

La società può pensare di modificare gli stereotipi e i pregiudizi ed educare alla parità di genere partendo dalle nuove generazioni, inserendo nei programmi scolastici fin dalle scuole dell’infanzia, delle lezioni di empatia che aumentano la capacità di rapportarsi con l’altro attraverso la comprensione delle emozioni.

L’ermeneutica dell’alterità presuppone l’esistenza e l’indipendenza di ciò che viene osservato, l’altro esiste oltre me ed è persona come me. Ogni relazione rivela delle differenze generando una tensione che però non esclude la comprensione e a questa dobbiamo anelare, non alla riduzione dell’esistenza dell’altro piegata al nostro volere; solo dal confronto e dall’accoglienza dell’altro si va verso la crescita di tutta la società.

Dello sportello “Socio Donna” fanno parte le sociologhe Flavia Munafò, Patrizia Di Nella, Viorica Bunduc, Laura Sensi, e l’ Avvocato e sociologo Andrea Autelitano – CONTATTI: tel. 3331980212

a.l./


Invasione dell’Ucraina: “Uomini che si uccidono senza conoscersi”

Bandiera Ucraina

Il fronte della solidarietà verso il popolo ucraino si allarga e coinvolge il mondo dei sociologi. La più quotata associazione di questa categoria di professionisti, l’ASI- Associazione Sociologi Italiani, ha inteso offrire la disponibilità della sede della Macro Deputazione “Italia Nordest” di via Federico Borromeo di Rho Milano, dove è stato istituito un centro di ascolto e di raccolta di generi di prima necessità. 

A coordinatore le attività il presidente della Delegazione lombarda, Dott.  Sabino Cipriano, il quale si avvale anche della disponibilità logistica messa a disposizione dal dott. Pietro Prudente, socio della stessa delegazione.

Molto spesso – dichiara il vicepresidente nazionale ASI, Avv. Prof. Michele Miccoli- “non si riesce a discernere se stiamo vivendo in un mondo surreale o in una tragica realtà. Purtroppo, si tratta della seconda e mi sia consentito affermare che la storia ad alcuni personaggi nulla ha insegnato”. 

Prof. Avv. Michele Miccoli ==>>

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia sta mettendo a dura prova la pace mondiale. Per questo – sottolinea il prof.  Michele Miccoli – “l’Associazione sociologi italiani non solo prende le distanze, ma stigmatizza il comportamento del Premier russo, il quale ha trascinato in guerra una nazione sovrana con devastanti conseguenze che peggiorano di giorno in giorno”.

Le immagini dell’occupazione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin lasciano spazio al dubbio sul futuro della pace in Europa. E mettono sul banco degli imputati non solo il capo del Cremlino, ma anche l’attendismo del mondo occidentale che non è stato in grado di completare il nuovo assetto geopolitico dopo la fine del comunismo e la conseguente dissoluzione delle Repubbliche socialiste sovietiche. Sostiene, da parte sua, il presidente nazionale Antonio Latella ( nella foto a sinistra)

Di fronte all’eroica resistenza degli ucraini, alle sanzioni dell’UE e USA e, soprattutto, alla condanna di gran parte delle democrazie sparse per il mondo, c’è da chiedersi – scrive Latella -quanto durerà questo fronte anti Russia.  Non ci riferiamo al coraggio dell’Ucraina di fronte alle bombe, ai razzi, ai bombardamenti degli insediamenti civili, ai morti, alla colonna di blindati putiniani (lunga 65 chilometri) pronta all’attacco finale, ma su quando influiranno gli egoismi nazionali degli Stati europei sulla durata di questo fronte anti Putin.  Non dimentichiamo   che gran parte dell’Europa, con in testa l’Italia, dipende dalle fonti energetiche russe e che il nostro Parlamento oltre ad approvare le sanzioni economiche ha deciso di inviare armi all’Ucraina.

Risoluzione che è stata approvata sia dalla maggioranza che dall’opposizione, ma che non ha mancato di provocare piccoli mal di pancia costringendo qualche leader nostrano a fare un distinguo tra la necessità di fermare le colonne che stanno marciando su Kiev e gli eventuali sacrifici degli italiani per la crisi energetica. I soliti populisti, alfieri della politica cerchiobottista: gli stessi che in questi anni sono andati in processione al Cremlino. Contro le armi servono dispositivi di difesa, come ha deciso il nostro Parlamento, con buona pace di quanti fingono di non capire che oggi è toccato all’Ucraina e domani chissà a qualche altra nazione sovrana del nostro continente. / a.l.


L’importanza dello sport nella società

dott/ssa Barbara Conti

Lo sport ha da sempre rivestito un ruolo di fondamentale importanza all’interno della società ma mai come oggi ha acquisito un valore fondante, soprattutto in un contesto come quello attuale, dove è in aumento la sedentarietà, in particolare tra i giovani, poiché favorita dall’uso incontrollato nei giovani, delle tecnologie informatiche,  videogames smartphone e tablet; è evidente come l’attività fisica in generale sia l’unico strumento che possa contrastare questi comportamenti sedentari e contribuire al miglioramento del benessere non solo fisico ma anche e soprattutto mentale, oltreché favorire la socializzazione e l’inclusione sociale.

Questo Benessere fisico e mentale si esprimeva già nell’antica Grecia, dove filosofia e sport erano strettamente uniti. Basti pensare che Platone e Socrate praticavano sport. Lo sport nell’antica Grecia si praticava nel Ginnasio, allo scopo di perfezionare se stessi e dare vigore sia al corpo che alla mente. Più di recente L’antropologo Marcel Mauss ha definito lo sport come un fatto sociale totale, cioè un insieme di attività che comprende ambiti diversi, nel senso che lo sport mostra implicazioni di carattere economico, politico, culturale e giuridico in grado di trasmettere modelli di vita e corrette pratiche di comportamento. Questa definizione dà allo sport un grande valore sociale.

In questa direzione Nelson Mandela sosteneva che “Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di suscitare emozioni, ha il potere di ricongiungere le persone come poche altre cose, ha il potere di risvegliare la speranza dove prima c’era disperazione”.

Prendendo spunto da queste accezioni si può affermare che lo sport è oggi radicato nel tessuto economico e sociale e oltre ad avere una funzione sociale ha anche un ruolo importante dal punto di vista educativo. Attraverso l’attività sportiva, infatti, si educano le giovani generazioni, si educano al rispetto dei valori e ai sani principi. Lo sport, infatti, ha il potere di trasmettere ai giovani i valori della solidarietà, della lealtà, del rispetto delle regole e del rispetto dell’altro. Questi sono i principi fondanti di ogni società sana. Il Consiglio dell’Unione Europea ha sottolineato come lo sport sia fonte e motore di inclusione sociale e viene riconosciuto come strumento eccellente per l’integrazione delle minoranze e dei gruppi a rischio di emarginazione sociale.

Lo sport infatti insegna valori quali il rispetto,  la collaborazione, l’orientamento al risultato, la competizione, il sacrificio, la disciplina e la costanza, l’integrazione e l’appartenenza e suscita anche emozioni in chi lo pratica. Ma nella società odierna, basta fare sport per crescere bene? Purtroppo ciò non è sufficiente; è evidente che lo sport da solo non basta ma sicuramente costituisce un fattore importante per contribuire a migliorare i comportamenti e la crescita dei giovani, aiutandoli a controllare il proprio carattere, rispettare l’impegno preso ed essere più responsabili e maggiormente capaci di strutturare il proprio tempo. Per i bambini deve rappresentare un momento di gioco e di divertimento ma con la consapevolezza che la disciplina è alla base di ogni attività sportiva.

Se per i bambini l’attività sportiva va intesa in senso ludico-ricreativo, come un gioco senza pretese, al fine di favorire la socializzazione e fare sì che imparino ad ascoltare, osservare e rispettare le regole e i compagni, per gli adolescenti invece l’attenzione si sposta più sul fisico e sugli obiettivi da raggiungere. Lo sport mette i ragazzi alla prova aiutandoli a superare limiti ben precisi e a realizzare degli obiettivi. Ecco quindi che lo sport è inteso come strumento educativo perché a prescindere dall’obiettivo che ogni singolo atleta raggiunge, attraverso lo sport, comunque, si formano in primis le persone in quanto tali. In questa valenza educativa, fondamentale importanza riveste anche l’allenatore che, oltre ad essere una guida sportiva, deve essere principalmente un buon educatore, capace di trasmettere ai giovani i valori dello sport, incoraggiare l’autostima, renderli autonomi e responsabili.

L’allenatore, quindi, assume un ruolo centrale nella vita di ogni giovane e, unitamente alla scuola e alla famiglia, costituisce la terza istituzione sociale che, con il suo lavoro quotidiano e costante, contribuisce alla crescita sana dei giovani. Nella società odierna, dove sono venuti meno molti valori, dove prevale l’individualismo, l’egocentrismo, l’apparenza, dove vi è la fluidità di tutti i valori, ecco che allora lo sport, a qualsiasi livello venga praticato, può essere un punto di partenza per poter ri-affermare all’interno della società valori e principi sani e fare spazio a comportamenti etici, al fine di favorire  l’affermazione delle relazioni sociali, che col tempo si sono andate sempre più indebolendo.

Dottoressa Barbara Conti – (sociologa e analista di fenomeni sociali e politici – Giornalista pubblicista- Istruttrice FIDAL)


VIOLENZA ADOLESCENZIALE, IL RUOLO FONDAMENTALE DI SCUOLA E FAMIGLIA

di Antonio Latella *

Gazzetta del Sud 26 febbraio 2022

I due recenti fatti di cronaca avvenuti a Reggio Calabria (l’accoltellamento di piazza Camagna e l’aggressione di uno studente dell’istituto superiore “Panella – Vallauri”) non sono soltanto il frutto della violenza adolescenziale che caratterizza il nostro Paese. Su questo versante non esiste un “caso Reggio”, ma i due episodi fanno parte di un fenomeno molto più ampio e in continuo aumento in una società sempre più litigiosa nel linguaggio e nei comportamenti. Litigiosità che si trasforma spesso in violenza, come dimostrano le varie vicende, dai femminicidi all’imperversare delle baby gang, che quotidianamente vengono veicolate dai media.

La civiltà – mondo è alle prese con nuovi paradigmi socioculturali che continuano a produrre un profondo stato di crisi tra e all’interno delle principali agenzie educative: famiglia e scuola in particolare. Una crisi che registra l’impotenza dello Stato e della sua fondamentale azione pedagogica. Anche per questo scuola e famiglia hanno perso l’autorevolezza delle gerarchie nel rapporto genitori-figli e nella relazione docenti–discenti. Entrambe, scuola e famiglia, hanno l’obbligo di cancellare l’attuale rapporto conflittuale e dare vita ad un nuovo patto di collaborazione con al centro una marcata autonomia dell’attività didattica, sempre più caratterizzata dall’intrusione, spesso sfociata in reazioni inaccettabili di violenza verbale e fisica, dei genitori nei confronti del corpo docente.

Il raggiungimento di questo auspicabile equilibrio passa dall’azione delle istituzioni e, soprattutto, dall’impegno della politica ad attuare una nuova rivoluzione culturale, che non frustri le aspettative dei giovani ma sappia veicolarne positivamente le energie. Non basta dirsi indignati o denunciare “un vuoto etico e morale” – come segnalato dalla maggioranza di Palazzo San Giorgio, sede del comune di Reggio Calabria – per declinare ogni responsabilità sulla frantumazione della coesione sociale. L’individualismo è la più grande negazione di un modello di società responsabile, solidaristica e rispettosa del diritto degli altri.

 Nell’era della comunicazione globale, in cui tutti hanno diritto di parola, il linguaggio senza regole proietta il cittadino in una vera e propria giunga dove si combatte una guerra di tutti contro tutti. Oggi assistiamo a continui regolamenti di conti notificati tramite social: quasi dei “flashmob” della violenza, rituali usati, in prevalenza, da bande di adolescenti che si danno appuntamento per affrontarsi nelle piazze. Questi strumenti di democrazia e di partecipazione, da parte di adolescenti e adulti, spesso vengono usati in modo improprio e scorretto. Ed è su questo aspetto che lo Stato, le istituzioni, la politica e la società civile sono chiamati a mettere in atto azioni mirate per riportare il vivere associato dei giovani nell’alveo dello sviluppo sociale, culturale ed economico della società postmoderna.

*presidente nazionale dell’Associazione Sociologi Italiani

Nella foto l’intervento pubblicato dal quotidiano Gazzetta del Sud


Il riscaldamento globale nella società dell’indifferenza

di Patrizio Paolinelli

Il mite inverno che stiamo attraversando riporta alla ribalta il tema del cambiamento climatico e con esso il problema dell’agire umano. A prima vista sembra davvero irrazionale che società autoproclamatesi evolute stiano segando il ramo su cui sono sedute, ossia l’ambiente naturale. Eppure il riscaldamento globale sembra confermare tale tendenza. Se così è una qualche forma di razionalità all’interno di un processo che teoricamente potrebbe portare all’estinzione della specie umana ci deve pur essere. Tale forma di razionalità va cercata nelle dinamiche del potere.

Prof. Patrizio Paolinelli

Per farla breve, all’interno del rapporto uomo-natura l’uomo è diventato sempre più dominante e man mano che è cresciuto il suo dominio ne ha approfittato senza alcuno scrupolo. Una logica predatoria che ci ha condotti a quello che oggi a molti appare come un punto di non ritorno: o si attenua sensibilmente l’effetto provocato dall’emissione dei gas serra o ci aspettano terribili disastri ambientali. Basti solo pensare all’innalzamento dei livelli dei mari dovuto tra l’altro allo scioglimento dei ghiacci perenni e al riscaldamento degli oceani. Un fenomeno che se non sarà seriamente contenuto provocherà l’inondazione di vaste zone costiere con conseguenze planetarie sconvolgenti in termini di migrazioni di massa e crisi economiche.

Per restare a casa nostra, a parere di Legambiente il dissesto idrogeologico investe oltre seimila comuni italiani su un totale di poco più di ottomila. E altri dati ci dicono che nel Belpaese ogni cinque mesi viene cementificata una superficie pari al comune di Napoli. Serie storiche ci informano poi che dal 1994 al 2012 i costi per frane e inondazioni sono stati pari a 61,5 miliardi di euro. Ne occorrerebbero 40 per la messa in sicurezza del territorio, mentre nella legge di stabilità 2014-2016 approvata del Governo la quota destinata al dissesto idrogeologico è di appena 180 milioni di euro. Indifferenza della politica? Anche in questo caso a prima vista sembrerebbe di sì. Certo nelle nostre società l’indifferenza conta molto e su questo stato dell’animo umano Gramsci ha scritto parole memorabili. Tuttavia ad essa si affianca una realtà storica in cui la politica ha un ruolo sempre più secondario rispetto alle grandi decisioni economiche. Le quali vengono prese al di fuori dei parlamenti calandoci in quella che il sociologo Colin Crouch ha definito post-democrazia. Ossia un sistema politico che pur mantenendo formalmente le regole della democrazia è in realtà governato da multinazionali e mass-media.

E’ appunto nei termini dell’indifferenza e della post-democrazia che si può interpretare l’incertezza della politica nel prendere decisioni dirimenti rispetto ad esempio all’allarme smog dei grandi centri urbani italiani durante lo scorso periodo natalizio. Solo per citare il caso di Milano l’Arpa ha segnalato che nel capoluogo lombardo le concentrazioni di PM10 avevano superato i limiti consentiti per 31 giorni consecutivi e che dall’inizio del 2015 tali limiti erano stati oltrepassati per ben 96 giorni, mentre il limite previsto dalle norme è di non più di 35 giorni all’anno. Dinanzi a una situazione che ormai era impossibile sottacere il ministro dell’ambiente ha convocato in fretta e furia sindaci e governatori delle Regioni partorendo sostanzialmente il topolino delle targhe alterne. Naturalmente la discussione tra partiti, associazioni dei consumatori e verdi sugli effetti delle decisioni prese è stata accesa occupando le pagine dei quotidiani per un paio di giorni e confermando che in tema di problemi ambientali si parla molto più di quanto si faccia.

A scanso di equivoci va da sé che parlare dei problemi ambientali è estremamente positivo. Guai se così non fosse. E un’occasione importante di dibattito è stata offerta dalla recente Conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici tenutasi nella capitale francese dal 30 novembre al 12 dicembre 2015 sotto l’egida dell’ONU. La convenzione delle Nazioni Unite costituisce il principale trattato internazionale sul clima riconoscendo l’esistenza del cambiamento climatico causato dall’attività umana e attribuendo ai paesi industrializzati la responsabilità principale nella lotta contro tale fenomeno. L’appuntamento di Parigi è stato preceduto da accorate prese di posizione da parte di diversi esponenti politici. Il presidente degli USA, Barack Obama, ha dichiarato: “Siamo l’ultima generazione a poter fare qualcosa”; gli ha fatto eco il nostro Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, il quale ha invitato alla concretezza i delegati alla conferenza: “Spero che l’accordo sia più vincolante possibile, altrimenti si rischia un impegno scritto sulla sabbia”. E alla fine l’accordo è stato raggiunto. Forse la sintesi migliore l’ha offerta il giornalista del Guardian specializzato in questioni ambientali, George Monbiot, che ha scritto: “Rispetto a quello che avrebbe potuto essere, è un miracolo. Rispetto a quello che avrebbe dovuto essere, è un disastro.” Miracolo, perché finalmente è stato fissato un tetto per il riscaldamento globale, pur al di sotto dei 2 gradi centigradi. Disastro perché la conferenza si è concentrata esclusivamente sul consumo di combustibili fossili senza tener conto della loro produzione, che costituisce in realtà il vero problema. Addirittura, in base alla legge sulle infrastrutture del 2015, si è imposto l’obbligo di “sfruttare al massimo il petrolio e il gas del Regno Unito”. Dello stesso tenore e anche più pesanti le critiche di numerosi scienziati e ambientalisti: James Hansen, l’astrofisico statunitense padre della consapevolezza del cambiamento climatico di origine antropica, ha definito le trattative di Parigi “Una frode”. Mentre per altri, pur riconoscendo che l’accordo non basterà a fermare il surriscaldamento globale, stiamo comunque andando nella direzione giusta.

E l’opinione pubblica? Nonostante in molte parti del mondo – in particolare negli USA – esponenti politici di destra neghino, minimizzino o ridicolizzino la tesi secondo cui l’attività umana è largamente responsabile dei mutamenti climatici, imputabili a sentir loro a uno schema naturale, la consapevolezza dei rischi ambientali provocati dai gas serra è fortemente cresciuta praticamente ovunque sul pianeta. Su questo cambio di mentalità Manuel Castells si è soffermato a lungo nel suo libro Comunicazione e potere (Università Bocconi Editore, Milano, 2009). Dalla ricerca del sociologo spagnolo emerge che sono stati gruppi di scienziati, movimenti ecologisti e personaggi celebri (appartenenti soprattutto al mondo dello spettacolo) i soggetti che hanno maggiormente contribuito a formare una coscienza collettiva globale sui danni provocati dall’aumento medio della temperatura terrestre. Internet e i mass-media sono stati i vettori decisivi per la diffusione di tale coscienza. Il Web ha permesso la costituzione di una rete ambientalista globale senza la quale forse l’attenzione del grande pubblico e della politica non sarebbe stata così alta com’è oggi. Mentre l’interesse dei media tradizionali si è concentrato sulla vendibilità della notizia. E come noto la cattiva notizia è la vera notizia perché facendo leva sulla paura permette di conquistare maggiore audience con conseguente aumento delle inserzioni pubblicitarie. Uragani, frane e alluvioni hanno così trovato largo spazio nell’informazione suscitando soprattutto un dibattito pubblico sulle sue cause. Tutto bene allora? Per niente, perché è ormai chiaro che la soluzione del problema riscaldamento globale dipende dal modello di sviluppo economico.

Giunti a questo punto ci si scontra col neoliberismo. Dottrina che impone con ogni tipo di violenza uno stile di vita orientato sul consumo dissennato di qualsiasi cosa, ambiente naturale compreso. Per il cittadino medio la domanda chiave allora è: sono disposto a ridurre i consumi e modificare il mio modo di vivere? E’ difficile rispondere a questo interrogativo perché l’egemonia economica neoliberista comporta anche un’egemonia culturale talmente efficace da non lasciare che spazi residuali a stili di vita basati sullo sviluppo sostenibile. E’ evidente allora che occorre una radicale trasformazione del sistema dei valori. Occorre un nuovo umanesimo. E in questa direzione una pietra miliare l’ha posta Papa Bergoglio con l’Enciclica Laudato si’. Documento che propone l’ecologia integrale di San Francesco come modello virtuoso per sconfiggere il degrado ambientale. Scrive Papa Bergoglio: “La sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale, poiché sappiamo che le cose possono cambiare”.

Patrizio Paolinelli, via Po economia, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro.


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