Category Archives: Senza categoria

Le responsabilità del potere e il potere della responsabilità

di Patrizio Paolinelli

Dinanzi al continuo susseguirsi di scandali che investono la pubblica amministrazione, il mondo politico e quello imprenditoriale si sente spesso dire che “In Italia nessuno si assume le proprie responsabilità”.

<<= Prof. Patrizio Paolinelli

In genere con questa affermazione si intendono diverse cose: 1) gli attori coinvolti nello scandalo faranno di tutto per sottrarsi alla punizione; 2) la tecnica dello scaricabarile impedirà di individuare i colpevoli; 3) dei maggiori responsabili nessuno pagherà; 4) nel nostro Paese esiste una sorta di impunità delle classi dirigenti in virtù della quale le persone coinvolte nello scandalo se la caveranno, al massimo si troverà un capro espiatorio che coinciderà quasi sempre con un pesce piccolo.

Questa elaborazione del senso comune contiene parecchi elementi di verità ma non tiene conto, da un lato, che l’emergere della corruzione è di per sé un fatto positivo anche se estremamente preoccupante date le sue dimensioni, e, dall’altro, che la responsabilità a cui fa riferimento è di tipo giuridico, cioè deriva da una norma che impone un dovere. Su questo piano l’ordinamento giuridico è assai complesso e suddivide la responsabilità in civile, penale, patrimoniale e così via. Dunque sarebbe più opportuno affermare che nessuno in Italia si assume la responsabilità giuridica. Anzi, il ginepraio di leggi e norme è utilizzato proprio per farla franca. In proposito basti pensare all’uso spregiudicato dell’istituto della prescrizione.

Raramente e per lo più di sfuggita nelle chiacchiere dei bar e dei talk-show si sente parlare di responsabilità morale. Probabilmente perché è la più difficile da cogliere in quanto strettamente connessa con la dimensione culturale dove il criterio di imputabilità per la mancanza di responsabilità si intreccia col portato storico di un Paese coinvolgendo interi gruppi sociali e in particolare i ceti dominanti. Eppure la riflessione sul concetto di responsabilità è andata molto avanti fino a implicare con Hans Jonas l’estensione di tale concetto alle conseguenze future delle azioni umane. Insieme alla bioetica la questione ambientale era una di quelle che stavano maggiormente a cuore al filosofo tedesco. Jonas esortò la tecnologia a prendere consapevolezza dei suoi effetti deleteri sulla biosfera sostenendo con forza il criterio di responsabilità umana nei confronti della natura.

Il precetto che formulò non ammetteva equivoci: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza della vita umana sulla terra”. Jonas scrisse queste parole nel 1979 e il suo libro, “Il principio di responsabilità“, ebbe grande risonanza e continua a esercitare la sua influenza ancora oggi. Ma, come è sotto gli occhi di tutti, non sembra abbia convinto le élite al potere, o se non altro non la sua maggioranza. E proprio il potere – la sua conquista, detenzione e diffusione – pare costituire oggi il fattore maggiormente critico in rapporto all’idea di responsabilità. Si tratta allora di stabilire, se non la natura, quantomeno alcune caratteristiche determinanti del potere nella nostra società.

Gli ultimi tre decenni hanno sancito un passaggio storico: la politica sta diventando sempre più l’ancella dell’economia. In parole povere i Consigli di Amministrazione delle grandi imprese, delle banche, delle assicurazioni e le organizzazioni degli imprenditori condizionano pesantemente le decisioni dei partiti e dei parlamenti in diverse materie. La vulgata giornalistica e alcuni osservatori sociali sostengono che si tratta di un fenomeno tipico delle democrazie mature e che non c’è nulla di cui preoccuparsi. È così negli USA e dunque deve essere così ovunque. Francamente pensiamo l’esatto contrario perché da quando il mercato domina incontrastato sulla società la responsabilità nei confronti del prossimo, dell’ambiente e del futuro sembra arretrare più che avanzare.

Tant’è che la politica cerca di correre ai ripari. L’Unione Europea ad esempio ha da tempo istituito tutta una serie di norme finalizzate a incentivare la responsabilità sociale dell’impresa. Per ottenere determinate certificazioni le aziende si confrontano con le implicazioni etiche del loro agire impegnandosi a rispettare determinati standard a tutela dei lavoratori e del territorio. La discussione sull’efficacia delle raccomandazioni da parte dell’Unione Europea è aperta e tra gli economisti c’è chi sostiene che la corporate social responsibility sia più un fatto di immagine che di sostanza. Senza entrare nel merito del dibattito di certo la questione ambientale è ormai un’emergenza planetaria: consumiamo più risorse di quante il pianeta ne produca e il riscaldamento globale sta generando pesanti sconvolgimenti climatici.

Papa Francesco con la pubblicazione dell’Enciclica sulla cura della casa comune, “Laudato sì‘”, ha assunto una posizione molto ferma: occorre cambiare stile di vita, occorre maggior senso di responsabilità da parte di tutti. Quanto Papa Francesco abbia colto nel segno lo dimostra la tiepidissima accoglienza della stampa mainstream rispetto alla sua proposta di uno “sviluppo sostenibile integrale”.

Un secondo fattore che caratterizza il potere nelle nostre società è costituito dal primato del consumatore sul cittadino. Zygmunt Bauman è senz’altro uno dei sociologi che maggiormente hanno insistito su questo punto ritenendolo centrale nella sua elaborazione della modernità liquida, dove nulla è permanente e non ci sono valori di riferimento. L’homo consumens è funzionale al ridimensionamento dei diritti sociali rivendicati dal cittadino. Anzi si può dire che è il tipo umano prodotto da trent’anni di neoliberismo. L’homo consumens è libero di comprare ogni cosa, di scegliere ad esempio tra una gamma sempre rinnovata di automobili ma è facilmente percepibile quanto questa libertà sia in realtà una costrizione a comprare.

Non è più il bisogno a muovere il consumatore ma il desiderio. Il bisogno è finito, caratterizza cioè una mancanza che può essere soddisfatta (se ho fame mangio e una volta sazio mi occupo d’altro). A differenza del bisogno il desiderio invece è infinito e non può mai essere soddisfatto. In gran parte i desideri dell’homo consumens sono determinati dalla pubblicità. La quale è una branca del marketing e ha tra i suoi scopi quello di far nascere nel consumatore un senso di frustrazione: il tuo corpo non è abbastanza tonico? Compra questa crema e ringiovanirai. Sempre in crisi con se stesso e sempre pronto ad acquistare le soluzioni offerte dal mercato l’homo consumens se ne infischia della responsabilità verso il mondo. Anche volendo non ha tempo, preso com’è dalla spirale produzione-consumo.

Il neoliberismo sta costruendo un mondo a sua immagine e somiglianza. Un mondo dove tutto è quantificabile e mercificabile e dove la qualità della vita si misura col conto in banca. L’ideologia che lo muove non teme di provocare guerre o catastrofi naturali. Al contrario, le calamità sono trasformate in business. Dopo i disastri si dovrà pur ricostruire. Insomma su un piano meramente affaristico l’irresponsabilità conviene quanto e talvolta più della responsabilità. Il dissesto idrogeologico del nostro Paese sta lì a dimostrarlo. D’altra parte il neolibersimo ha trovato in Italia un terreno fertile perché ben concimato dal familismo amorale. Ci rendiamo conto che questa categoria sociologica presenta aspetti critici e non è immune dallo sguardo del conquistatore. Tuttavia un nocciolo di verità lo contiene. E’ innegabile che tra gli italiani ci sia la tendenza a massimizzare nel breve termine i vantaggi materiali della propria famiglia ritenendo che anche gli altri si comportino allo stesso modo. Quest’atteggiamento è un invito alla deresponsabilizzazione nei confronti della società.

Atteggiamento che, solo per fare un esempio, possiamo constatare nel fenomeno delle discariche abusive. Si può invertire questa rotta? Si può passare dall’irresponsabilità sostenuta dal neoliberismo alla cittadinanza responsabile? Sì, si può, anche se la strada da percorrere è tutta in salita. I movimenti ambientalisti, il consumo critico, le proposte di Papa Francesco sono tutte realtà che lasciano sperare di passare dalla mancanza di responsabilità del potere al potere della responsabilità.


Dal collocamento diretto alle politiche attive del lavoro. Quale futuro per un servizio fondamentale?

di Barbara Lattanzi

Alla fine dello scorso secolo nascono, dalle ceneri del sistema del collocamento, i centri per l’impiego come presidi territoriali volti a tutelare, in maniera nuova e più complessa, il diritto di tutti a partecipare al mercato del lavoro. Il mondo e il sistema produttivo erano mutati, le tecnologie si avviavano a una sempre maggiore informatizzazione e le telecomunicazioni lasciavano intravedere un futuro oltre le aspettative di Marshall MacLuhan. 

<<== Dott.ssa Barbara Lattanzi

La produzione, i servizi, le amministrazioni sarebbero mutati: tecnologie e nuove macchine, sempre più governate dalla cibernetica e l’informatica necessitavano di altre forme di gestione, di lavoratori nuovi e con competenze sempre più specifiche. Sarebbero nati infatti nuovi istituti professionali e di lì a poco gli stessi programmi scolastici avrebbero dovuto adeguarsi alle nuove materie di insegnamento. Il sistema di produzione fordista, che un tempo aveva spinto l’efficienza delle fabbriche al punto da avviare l’inizio dell’epoca dei grandi consumi pian piano veniva sostituito da nuovi metodi organizzativi e gestionali. Nel 2000 l’operaio non era più il lavoratore manuale poco istruito, ma un esperto governatore di macchinari con competenze informatiche. Uno solo di questi lavoratori produceva, gestendo le manovre di robot, quanto 15 addetti alla catena di montaggio. Nel ventesimo secolo l’uomo non è più parte della macchina ma suo conducente.

Nel frattempo si modificavano flussi migratori, cambiavano le valute e, insieme ad essi,  i valori, le aspirazioni, i bisogni, i diritti.

Il secolo scorso attuava il diritto al lavoro secondo un sistema di collocamento generico per mezzo di graduatorie, ma nel ventesimo secolo non esisteva più il lavoro in quanto tale, sostituito sempre più dalle competenze professionali specifiche, trasversali e specialistiche. Il diritto quindi si è trasformato dal diritto ad essere incluso in una lista da collocare presso una qualsiasi posizione non qualificata, al diritto ad ottenere i servizi necessari per sviluppare una propria professionalità seguendo le inclinazioni personali e i fabbisogni del tessuto produttivo, e ottenendo tutte le informazioni e l’accompagnamento per orientarsi nella giungla del mercato del lavoro.

L’abolizione delle province con Legge 56/2014 ha travasato la governance dei centri per l’impiego verso le Regioni, secondo un modello di competenze concorrenti sancito nel titolo V della Costituzione, laddove le politiche passive del lavoro sono di competenza del welfare dello Stato per mezzo di Inps, mentre le politiche attive del lavoro – l’inclusione occupazionale vera e propria – sono in carico alle Regioni.

Sia lo Stato che le Regioni possono accreditare servizi privati di formazione e di intermediazione per il recruiting. Queste agenzie private  possono entrare in gioco per alcune mansioni (essenzialmente erogazione di singoli servizi mirati). La formazione professionale breve, sempre più importante, è spesso erogata da enti privati con finanziamenti regionali

Come si può intuire questo modello territoriale, ereditato dagli uffici di collocamento del secolo scorso, è ormai completamente sorpassato dagli sviluppi delle modalità di produzione e dalle innovazioni del lavoro  nel secolo dello smart working, del telelavoro e delle nuove frontiere dei mezzi di comunicazione e trasporto.

La mancata riforma delle politiche attive del lavoro secondo le reali esigenze e gli sviluppi tecnologici dei servizi e del tessuto produttivo tende a rendere le procedure troppo burocratiche e farraginose, poco personalizzate e a rischio di risultare inconcludenti. A fronte dei molti piani e programmi – alcuni con finanziamenti europei come Youth Guarantee – i servizi sembrano irrigiditi su norme che rispondono a criteri astratti più che a reali fabbisogni. Distanza che si cerca di ricuperare con metodi di valutazione dei percorsi degli utenti quali la profilazione quantitativa, che dà luogo a indici di occupabilità individuali; e qualitativa, che misura la distanza dai servizi per l’impiego e dalle strategie di ricerca di lavoro. Recentemente, anche grazie al PNRR, si sono introdotti programmi focalizzati sulla formazione, aggiornamento e perfezionamento delle competenze, al fine di colmare eventuali lacune che generano disoccupazione strutturale dovuta alla velocità di mutamento tecnologico e produttivo.

La Legge 28/2019 – nota come Reddito di Cittadinanza – ha inoltre modificato i criteri per la definizione della disoccupazione amministrativa, che può ora riferirsi anche a chi possiede un contratto di lavoro o partita iva se non raggiunge una soglia di reddito corrispondente alla soglia di esenzione fiscale (per la distinzione tra disoccupazione statistica e amministrativa rimando a un mio breve saggio elencato sotto, tra i testi consigliati). Questa innovazione nel concetto di disoccupazione è spesso stata sottovalutata, anche a causa della forte lotta politica che si è scatenata intorno a questa misura, identificata spesso con un mero sussidio che potrebbe essere facilmente elargito a degli immeritevoli (personalmente giudico questo tipo di affermazioni con particolare severità). In realtà è proprio questo punto, il criterio di autonomia economica, a suscitare importanti riflessioni sul diritto ai servizi, il rapporto tra povertà e lavoro, dumping salariale tipico degli ultimi anni, strumenti metodologici di rilevazione dei fabbisogni e di ideazione e pianificazione di strategie di intervento.

Questa è una delle tante sfide che il nostro paese, stremato da emergenze e decisioni dolorose – forse a volte anche discutibili – si appresta ad affrontare, mentre l’inflazione morde il potere d’acquisto e l’Unione Europea vara una direttiva sul salario minimo orario ancora troppo vaga e poco incisiva.

Barbara G.V. Lattanzi – sociologa

Testi consigliati per approfondimenti

A.A.V.V., In-work poverty in Italy – European Social Policy Network (ESPN) – European Commission on Employment, Social Affairs & Inclusion 2018

A.A.V.V., Rapporto nazionale dell’Eurobarometro 94; Eurobarometro, 2021

A.A.V.V., Le politiche attive del lavoro in Italia. Primo rapporto annuale congiunto; Agenzia Nazionale per le Politiche attive del Lavoro, 2019

A.A.V.V., Navigator a vista. Storia e storie del reddito di cittadinanza; Mimesis 2021

De Masi Domenico, Smart working. La rivoluzione del lavoro intelligente; Marsilio editore, 2020

Lattanzi Barbara G.V., Lavoro e inclusione sociale per vincere disoccupazione e povertà; Edizioni HB, 2020

Tridico P. e Pariboni, R. (2017b), Structural Change, Aggregate Demand and the Decline of Labour Productivity: A Comparative Perspective, (Working Paper 221), Dipartimento di Economia Roma Tre


Decostruire il potere della comunicazione

di Patrizio Paolinelli

All’età di 96 anni Franco Ferrarotti non smette di riflettere sulla società contemporanea e ha dato alle stampe un tascabile intitolato “La comunicazione come strumento di potere”, (Edizioni di Comunità, Roma, 2021, 109 pagg. 12,00 euro).

Il libro è composto da nove brevi saggi e da un’Appendice che ne contiene altri due. Scorrendo l’Indice del volume troviamo, da un lato, riflessioni sull’informazione, Marshall McLuhan, Harold Adam Innis (in linea col titolo del tascabile); dall’altro, interventi che spaziano da Pierre Bourdieu al tempo, lo spazio, la scienza, la tecnica, la religione e gli intellettuali. Abbiamo quindi tra le mani una classica miscellanea in cui l’autore riflette su una serie di temi di rilevanza sociale selezionati in base a un criterio, una logica, una scala d’importanza.

È proprio questo criterio, questa logica e questa scala d’importanza che ci fa ritenere “La comunicazione come strumento di potere” qualcosa di più di una miscellanea. Qualcosa di più perché la comunicazione non è osservata da Ferrarotti come un fenomeno sociale tra altri fenomeni sociali. È ovviamente un’istituzione a sé stante composta da aziende, prodotti, professioni ed effetti sociali specifici. Ma è anche un’istituzione che attraversa tutte le altre.

Il linguaggio infatti dà senso alle categorie di spazio, di tempo e consente di raccontare storie di vita; le religioni fondano il loro credo su testi sacri; la scienza e la tecnica permettono il perfezionamento dei mezzi di comunicazione; gli intellettuali trasmettono le loro idee attraverso la scrittura e i libri. Tuttavia, per quanto sia importante, la trasversalità della comunicazione non esaurisce le differenti scelte tematiche all’interno di uno stesso volume. Ferrarotti analizza più istituzioni per offrire al lettore una serie di concetti da combinare autonomamente individuando così il senso globale dei fenomeni sociali. 

Nel suo libro Ferrarotti esordisce con un’affermazione forte: l’informazione è “oggi il vincolo che tiene unita la società.” Un primato raggiunto attraverso una serie di passaggi. Per esempio: la nostra è una società in cui la logica della scrittura e della lettura è ridimensionata a favore dell’audiovisivo; la scrittura non muore, ma tramonta il prestigio sociale degli intellettuali; il libro sacro non si estingue, ma le religioni devono fare i conti col weberiano “disincanto del mondo” e condividere la loro presa sulla coscienza individuale con la tecnoscienza.

Questo modo di analizzare la società presenta un doppio vantaggio: permette di uscire sia dai domini dell’iperspecialismo, tipico dell’accademia, sia dai domini dell’ipersemplificazione, tipico del dibattito pubblico. Permette cioè di evadere dalla forma-pensiero burocratica e dalla forma-pensiero postmoderna restituendo alla sociologia la sua funzione critica.

Prof. Patrizio Paolinelli

La mobilità geografica nella società contemporanea

di Giovanni Pellegrino e Mariangela Mangieri

Uno dei miti più importanti nella società contemporanea è la forte propensione alla mobilità geografica presente in molti individui. Col termine mobilità geografica si intende in sociologia sia la tendenza a compiere frequenti viaggi  per ragioni di lavoro o per turismo e sia la tendenza a cambiare abbastanza frequentemente il proprio luogo geografico di residenza soprattutto per ragioni di lavoro..

<<== prof. Giovanni Pellegrino

Prenderemo prima in considerazione la tendenza di molti individui a cambiare città o addirittura nazione per ragioni di  lavoro

Dahrendorf afferma che nel mondo contemporaneo accade frequentemente che gli individui abbandonino il luogo nel quale sono nati per cercare di migliorare la propria condizione economica e sociale. Pur di ottenere tali scopi molti non esitano a rompere i vincoli affettivi che li legano a un determinato luogo geografico pagando così un pesante prezzo psicologico. In effetti la necessità di trovare un lavoro in luoghi lontani costringe gli individui a lasciarsi alle spalle importanti legami interpersonali ivi compresi quelli familiari e a costruirsi nuovi rapporti interpersonali nel nuovo luogo in cui lavorano.                             

Tuttavia non è sempre facile costruire nuove relazioni interpersonali soddisfacenti in altre città o in altre nazioni cosicchè può anche capitare che quanti si trasferiscono in altri luoghi si trovino ad affrontare non solo il problema della nostalgia ma anche quello della solitudine esistenziale che è un problema importantissimo. A tale riguardo Dahrendorf afferma che il bisogno di appartenenza è molto forte nella società contemporanea dal momento che anche a causa della notevolissima mobilitè geografica gli individui sono minacciati dalla solitudine esistenziale.                                  

Certamente nelle società del passato la solitudine era un problema molto meno importante dal momento che era abbastanza facile costruire e mantenere una rete di rapporti soddisfacenti.  Ma che cosa si intende in sociologia per bisogno di appartenenza? Con tale espressione si intende nelle scienze sociali la volontà di entrare a far parte di gruppi al fine di non rischiare di essere soli (A volte per i nuovi arrivati riesce difficile trovare i gruppi in cui inserirsi). Dobbiamo mettere in evidenza che alcuni individui che già sono inseriti nel mercato del lavoro nella città in cui sono nati decidono di trasferirsi in altre città sperando di trovare lavori più adatti alle loro caratteristiche o meglio pagati. Dobbiamo anche dire che la mobilità geografica è diventata anche un mito che spesso induce gli individui a non valutare con adeguato senso critico le situazioni contingenti.

Ricordiamo che il processo di mitizzazione altera la percezione individuale e collettiva della realtà. Di conseguenza accade spesso che gli individui che si trasferiscono in altra città restino delusi per almeno due ragioni. In primo luogo essi potrebbero essere costretti ad accettare un lavoro che non è migliore di quello che hanno lasciato. Ciò può accadere soprattutto nei momenti in cui nel luogo di arrivo esiste un momento di recessione economica. In secondo luogo anche ammesso che trovino un lavoro più soddisfscente dal punto di vista dello status sociale o della remunerazione economica può accadere che le spese che devono affrontare nel luogo di arrivo per affrontare i bisogni fondamentali siano così ingenti da fare in modo che finiscano per trovarsi in una condizione economica peggiore di quella che avevano nella loro città di origine.

Non dobbiamo dimenticare infatti che nelle grandi città le spese per soddisfare i bisogni fondamentali e per trovare un alloggio sono ingentissime. Prenderemo ora in considerazione quelle persone che pur risiedendo nella città in cui sono nati compiono frequenti viaggi o per ragione di lavoro o per turismo. Per quanto riguarda il primo caso ci sono degli individui che svolgono lavori che li costringono a compiere frequenti viaggi come ad esempio commessi viaggiatori, rappresentanti, cantanti, attori, animatori di villaggi turistici, conferenzieri etc..Tali categorie di persone devono volenti o nolenti abituarsi alla mobilità geografica. Tuttavia dobbiamo dire che molti essi.  Tuttavia dobbiamo dire che molti di essi considerano la mobilità geografica un fatto positivo ed ecciitante perché permette loro di conoscere nuove realtà geografiche.

Inoltre c’è da considerare che essendo la mobiltà geografica è stata mitizzata le persone che viaggiano molto sono invidiate e fatte oggetto di ammirazione. Per dirla in altro modo la desiderabilità sociale della mobiltà geografica è molto elevata nel mondo contemporaneo. Ben diverso è il caso di quelle persone che praticano la mobiltà geografica per motivi turistici in quanto scelgono di viaggiare volontariamente e per ragioni di piacere. Alberoni afferma intorno al turismo ch il viaggio del turista è una forza positiva attraverso cui l’individuo costruisce se stesso, la sua identità e nello stesso tempo instaura nuovi rapporti umani. Come si vede Alberoni attribuisce una valenza molto positiva al turismo affermando che il turista addirittura costruisce la sua identità personale viaggiando e instaurando nuove relazioni interpersonali con individui che presentano spesso caratteristiche personali molto diverse da quelle del turista.

Appare infatti evidente che entrare in contatto con individui che appartengono arealtà geografiche molto lontane è un notevole arricchiento. Per quanto riguarda i viaggi turistici dobbiamo dire chr c’è un turismo avventuroso nel quale gli individui partono all’avventura senza a vere come punto di riferimento nessuna agenzia di viaggio. Esistono poi i viaggi organizzati nei quali esiste uno spostamento fisico ma il rischio, il disagio, il contatto con la diversità e lo sradicamento vengono ridotti al minimo. Anzi nei villaggi vacanze anche situati in altri continenti la gente fisce per trovare la sua civiltà, i suoi cmfort, le sue abitudini. Esistono poi persone che preferiscono compiere viaggi in zone non troppo lontane dalla loro cttà di origine in moda restare lontani dal proprio habitat abituale per pochi giorni. Tali persone non vogliono accettare un radicale dalla propria casa e dalle costanti certezze delle relazioni quotidiane.

Dal punto di vista sociologico una questione molto interessante per comprendere se viaggiare in luoghi dove il livello scientifico, tecnologico e culturale è inferiore a quello del mondo occidentale possono modificare in positivo o in negativo la concezione che l’individuo aveva dei popoli che abitano in quei luoghi. In ogni caso esiste una fondamentale differenza tra quelli che emigrano per cercare lavoro e quelli che viaggiano per motivi turistici. Infatti per il turista qualunque sia l’impatto psicologico che riceve dai luoghi nei quali si reca, qualunque sia il giudizio che egli formula degli abitanti, degli usi e dei costumi che egli incontra in quei luoghi. Certamente tutte queste cose non cambieranno la sua situazione sociale, economica e psicologica. Infatti il soggiorno turistico lascerà il tempo che trova quando l’individuo tornerà a casa.

Al contrario per l’emigrante l’impatto psicologico che riceve tra i luogo nei quali è emigrato nonché il tipo di relazioni sociali e lavorative che riuscirà ad instaurare risulteranno determinanti per stabilire se egli diventerà un uomo realizzato o un uomo frustratu, In estrema sintesi per il turista la mobilità geografica è un gioco nel quale egli detta le regole del gioco, mentre per l’emigrante la mobilità geografica è la dura realtà nella quale egli subisce le regole dettate da altri attori sociali.

Prof. Giovanni Pellegrino —- Prof.ssa Mariangela Mangieri


La civile indiscrezione dei fratelli Goncourt

di Patrizio Paolinelli

Prof. Patrizio Paolinelli

“Un’altra nostra forza, forza assai rara, è lo spirito d’osservazione, lo squadrare le persone, una scienza e una costituzione di fisiognomi morali che ci fa denudare i caratteri a prima vista, penetrare nell’intimo di tutti quelli con cui ci strusciamo, toccare tutte le molle delle marionette, presagire e dedurre l’umanità di ciascuno.”

Queste parole rappresentano come meglio non si potrebbe il tipo di sguardo con cui i fratelli Goncourt radiografavano la personalità altrui. Vennero scritte il 3 maggio 1859 e pubblicate nel celeberrimo Journal. Di cui oggi abbiamo una preziosa antologia, curata da uno specialista dei due fratelli, Vito Sorbello, intitolata “La civile indiscrezione”, (Aragno editore, Torino, 499 pagg., 30,00 euro). In Italia l’edizione integrale di queste memorie è stata pubblicata, sempre da Aragno, tra il 2007 e il 2009.

Le cronache del Journal coprono un arco di tempo che va dal 1851 al 1896. Un periodo lunghissimo in cui i Goncourt compilano a quattro mani un diario dell’anticonformista vita letteraria parigina (dal 1870 resterà solo Edmond a portare avanti l’impresa a causa della prematura scomparsa del fratello). I loro ritratti dipingono una lunga serie di personaggi che popolano il mondo culturale dell’epoca. Un mondo abitato da intellettuali in corsa per affermarsi sulla scena sociale e che si ritrovano negli spazi della convivialità borghese: noti ristoranti, caffè alla moda, teatri, esclusivi salotti letterari come quello della Principessa Mathilde, cugina dell’Imperatore Napoleone III.

Nei confronti del nascente ceto medio che bene o male riusciva a vivere grazie alla penna, le parole e i toni utilizzati dai Goncourt sono acidi, veri e propri lanci di vetriolo a cui seguono impietosi giudizi. Ai loro occhi nessuno si salva, perlomeno mai del tutto. Nel loro mondo la competizione, l’esibizionismo e l’autocelebrazione sono di casa. Perciò Flaubert è apostrofato come un provinciale, ipocrita e arrivista: “ha un animo grossolano e pesante, come il suo corpo. … Manca di charme la sua allegrezza di bove.” Sainte-Beuve è presentato come un abile venditore: il suo è “un ruolo di origliante di bidè, di confessore di discordie, di patrocinante di riconciliazioni, sempre strisciante nei segreti delle donne.” Ingres? “era nato per essere pittore, così come Newton era nato per essere cantante!” Renan? “Da quest’uomo, malsano, mal congegnato, brutto a vedersi, d’una bruttezza morale, esce una vocina stridula e in falsetto.” Taine? “ha l’arte ammirevole di insegnare oggi agli altri quello che ieri ignorava.” Hugo? “il Titano del luogo comune, e il banditore del sublime.” Zola? Un “grosso ragazzo, pieno di candore infantile, di esigenze da corrotta puttana, d’invidia un po’ socialista.” Baudelaire? “non è affatto, lo ripeto, un prosatore originale. Traduce sempre Poe, anche quando non è più il suo traduttore e aspira a fare del Baudelaire.” E così di seguito per ognuna delle personalità prese di mira dai Goncourt.

In un mondo prevalentemente maschile non mancano le donne, anche perché “ordinario oggetto di conversazione” delle infinite serate mondane a cui partecipavano i due fratelli. I quali, si sa, erano misogini, vivevano sotto lo stesso tetto e condividevano la medesima amante. Sul Journal tutti o quasi vengono smascherati e fatti a pezzi. Ma nei confronti delle donne si aggiunge un pizzico di cattiveria in più: “Le donne non hanno mai fatto niente di ragguardevole se non andando a letto con molti uomini, succhiando loro il midollo spinale: Mme Sand, Mme de Staël. Credo che mai si troverà una donna virtuosa che valga due soldi d’intelligenza. Mai una vergine ha prodotto qualcosa.” Posizione che, per essere indulgenti, oggi qualificheremmo come politicamente scorretta. Eppure, per quanto corrosivi, i due fratelli sono sottili, attenti alle distinzioni ed eccoli ritornare parzialmente sui propri passi: “Solo tre donne intelligenti con differenti disposizioni ho incontrato sinora. Tutte e tre grasse e amanti del maschio: la Principessa, la Lagier e Grisette.”

Va aggiunto che i Goncourt non saranno sempre irriverenti e mal disposti nei confronti dell’altro sesso. Prova ne sia, per esempio, quel capolavoro del naturalismo che è La donna nel XVIII secolo (Sellerio, 2010). Ma il Journal non è un gentile ricamo. È la pubblica esposizione dei panni sporchi altrui. Una sorta di telecamera nascosta puntata su quella che Goffman ha definito l’interazione strategica tra individui la cui preoccupazione principale è salvaguardare, rafforzare, promuovere la propria reputazione. Mai perdere la faccia, dimostrare sempre di essere conversatori brillanti, avere la battuta pronta, fare buona impressione. Ogni incontro è l’occasione per affermare il proprio personaggio, per esibire il proprio status. E immancabilmente i Goncourt colgono falle nella rappresentazione che ognuno offre del proprio Sé.

Il Journal può essere considerato il diario di due scettici pronti a cogliere ogni minima contraddizione del circuito sociale a cui appartengono e dal quale non intendono affatto affrancarsi. Criticano tutti e con tutti o quasi sono in buoni rapporti. Assistono con civile indiscrezione alla perpetua commedia degli inganni rappresentata sotto i loro occhi nella vita di società. Due raffinatissimi uomini di cultura spiano altri uomini di cultura, li deridono e li dileggiano mettendo a nudo le incoerenze tra parole e fatti, tra immagine pubblica e immagine privata, tra scena e retroscena della loro esistenza.

Ci sarebbe da chiedersi il motivo di così tanta acredine. Non certo per denunciare i mali del loro ambiente: da ricchi borghesi qual erano i Goncourt credevano solo in sé stessi. Più semplicemente perché: “Dire male degli altri, soprattutto di amici e parenti, è la più grande ricreazione mai scoperta dall’uomo sociale. Cos’è la società? Un’associazione di maldicenza”. E ancora: “Niente lega due persone quanto il dir male di una terza: forse il più grande vincolo della società.” Conclusioni assai riduttive verrebbe da dire, e non ci addentriamo oltre. Ma in effetti la forte rivalità tra scrittori per affermarsi nel mercato editoriale alimentava la maldicenza e costituiva un dispositivo linguistico abituale nell’universo di discorso che animava la loro vita notturna. Cene, serate, feste, ricevimenti, occasioni mondane sono tra i momenti in cui i Goncourt raccolgono le battute, gli sfoghi, le schermaglie, le confidenze, le preoccupazioni, i pettegolezzi dei partecipanti. Rientrati a casa li riportano nel loro Journal. Ovviamente non disdegnano di raccontare gli incontri diurni. In cui descrivono l’arredo delle case di chi li ospita, l’abbigliamento dei proprietari, il più delle volte gli stessi della bohème letteraria, facendone lo specchio delle singole personalità.  

Svelare manie, preferenze sessuali, calcoli personali e meschinità che agitavano le interazioni tra i rappresentanti della vita letteraria pagina dell’Ottocento serviva forse a rinsaldare l’indissolubile legame tra i due fratelli. I quali erano infatti un corpo e un’anima. Condividevano ogni cosa. Della scrittura, del tetto e dell’amante abbiamo già detto. Si può aggiungere la visione del mondo, gli orientamenti culturali, i desideri, i viaggi, i rancori, le paure e le idee reazionarie. La loro simbiosi era unica, perfetta e in quanto tale immune alla critica che riservavano unicamente al prossimo. “Gemelli in tutto e per tutto” i Goncourt del Journal sono stati soprattutto testimoni di un’epoca che non amavano e come altri naturalisti nulla fecero per cambiarla. Il valore del loro Journal resta tuttavia intatto in quanto documento sulla formazione dello spirito borghese.

Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro


Essere performanti

di Patrizio Paolinelli

Ecco un repertorio linguistico diventato familiare: capitale umano, imprenditori di sé stessi, meritocrazia, management del sé, leadership, coaching, empowerment, concorrenza. Proprio in quanto ordine discorsivo tale repertorio è portatore della Weltanschauung neoliberista oggi imperante e viene analizzato in chiave sociologica da Federico Chicchi e Anna Simone in un libro intitolato “La società della prestazione”, (Ediesse, Roma, 2017, pagg., 12,00 euro).

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

Il principio di prestazione è un noto concetto elaborato da Herbert Marcuse in “Eros e civiltà”.  Nella riflessione del pensatore tedesco tale concetto rappresenta “la forma storica prevalente del principio di realtà”. In soldoni significa che costituisce una delle forme repressive della società capitalistica avanzata e si fonda sull’adattamento dell’individuo al ruolo che la divisione in classi e divisione del lavoro gli impongono. Prendendo le mosse da Marcuse, Chicchi e Simone sviluppano il concetto di prestazione a tal punto da presentarlo come un passe-partout in grado di interpretare e definire la società contemporanea. In virtù di questa estensione compiono un primo passo che li allontana dall’esponente della Scuola di Francoforte, per il quale invece la prestazione costituisce un elemento di un sistema di dominio assai più complesso. Ma ciò che li separa del tutto da Marcuse è il collegamento della prestazione al desiderio anziché al lavoro. Ipotesi sorprendente e che viene a lungo motivata nel corso del libro.

Per spiegarla Chicchi e Simone abbracciano la tesi secondo la quale il postfordismo ha messo in crisi l’idea novecentesca del lavoro. Il presupposto di tale tesi è che le frontiere tra lavoro e non lavoro siano evaporate: in pratica si lavora sempre. La centralità sociale è dunque assunta dalla prestazione: in ogni momento del vivere occorre essere performanti. Ossia: sapersi proporre, riuscire a vendersi, vincere sugli altri, non arrendersi mai. In poche parole, la società della prestazione non fa altro che creare, alimentare e sfruttare queste disposizioni rendendole commerciabili. Per sostenere la propria intuizione Chicchi e Simone fanno riferimento all’idea di società del rischio di Ulrich Beck, alla critica di Christopher Lasch nei confronti della cultura del narcisismo e all’idea di società della stanchezza sostenuta da Byung-Chul Han.

A differenza di Marcuse questi tre autori non hanno contribuito a stimolare il rifiuto del sistema sociale in cui viviamo né hanno prospettato, anche solo in linea teorica, il superamento del capitalismo. Si tratta di limiti che comportano una disamina tutta intellettuale della società. Ciò non toglie che Chicchi e Simone non denuncino problemi, ingiustizie e contraddizioni della società neoliberista. Per esempio quando affrontano le psicopatologie della prestazione: l’obbligo ad avere sempre successo genera eserciti di depressi e di disturbati mentali. Altro esempio: il condizionamento mentale effettuato dai cosiddetti coacher: i quali addestrano i clienti non a vivere meglio ma a ottenere risultati come se dovessero sempre vincere una gara.

Essere sempre “prestanti” ha un costo soggettivo e sociale enorme. Genera una sofferenza diffusa e un mondo di squilibrati. Esperienza che ognuno di noi fa quotidianamente. E a proposito di squilibri   per Chicchi e Simone due film rappresentano le polarità della società della prestazione: il Lupo di Wall Street, di Martin Scorsese, e Daniel Blake, di Ken Loach. Nella prima pellicola uno spregiudicato broker, dedito all’alcol e alla droga nella vita privata e alla truffa e all’imbonimento in quella pubblica, imbroglia una quantità enorme di ingenui risparmiatori. Alla fine il suo castello crolla, ma pur caduto in disgrazia se la cava. Il protagonista del film di Kean Loach non è un vincente che perde, è uno che ha perso in partenza: un carpentiere infartuato. Danielnon può più lavorare e lotta con un welfare ormai aziendalizzato per ottenere l’assistenza necessaria per sopravvivere. Il giorno prima del processo di ricorso per ottenere l’indennità per malattia Daniel muore. Entrambi i personaggi sono vittime dell’insicurezza in cui il neoliberismo ha gettato le vite di tutti. E naturalmente il meno performante ci lascia la pelle.

Come si resiste alla società della prestazione? In tre modi suggeriscono Chicchi e Simone: attraverso la misura, il desiderio e l’arte. La misura si può tradurre in un reddito di base a difesa dei soggetti sociali più vulnerabili; il desiderio va sottratto alla tirannia della performance e inteso come rigenerazione del sé in rapporto agli altri; l’arte dovrebbe liberare l’individuo facendolo diventare un soggetto in grado di affrontare l’imprevisto in maniera imprevedibile.

Col rispetto dovuto ci sembra di poter dire che la ricetta di Chicchi e Simone è debolissima. E lo è perché debolissimi sono i pilastri su cui si fonda la loro teoria, a iniziare dal concetto di società del rischio. Come è ormai tipico della sociologia accademica quello che manca nel loro libro è un’analisi dei rapporti di forza tra le classi, tra politica e mercato, tra sapere e spettacolo. Invocare “una via etica all’umano” è ammirevole ma inefficace. Appoggiarsi a Foucault, Lacan e Castel (quest’ultimo parecchio sopravvalutato da Chicchi e Simone) è stimolante ma intellettualistico. Un intellettualismo che paradossalmente non comprende la natura del capitalismo e del suo attuale volto, il neoliberismo. Il quale persegue il proprio progetto sociale e lo perseguirà a costo di commettere qualsiasi violenza nei confronti della società. Lo sta già facendo da decenni e non basteranno certo le buone intenzioni a fermarlo.

Per chiudere, resta da dire che oggi contiamo almeno una ventina di definizioni diverse della nostra società. Una vera e propria babele. È utile che Chicchi e Simone ne abbiano aggiunta un’altra? Lasciamo aperta la domanda. E tuttavia non possiamo esimerci dal ricordare che la nostra era ed è una società capitalistica. Capiamo che ciò dispiaccia perché l’accademia ha sete di continue novità per alimentare dibattiti, convegni, pubblicazioni, carriere e così via. Ma è da un’analisi del capitalismo che bisogna partire. Altrimenti, sul piano della conoscenza si perde la rotta e sul piano sociale si perde la battaglia.


LA GUERRA IN UCRAINA E LA SOLIDARIETA’ DEI SOCIOLOGI ASI

Come tutte le guerre anche quella che si sta combattendo Ucraina registra distruzione, migliaia di morti, violenze e milioni di profughi. Le armi convenzionali – dai carri armati ai missili, dai droni ai bombardamenti aerei, fino alla minaccia nucleare – sono posizionate su due versanti contrapposti: quello che mira alla cancellazione e l’altro che si batte per difendere i valori dell’Occidente. Una guerra che, paradossalmente, vede uno scontro tra cristiani che si stanno uccidendo a vicenda.

Lo schieramento del Primate russo Kirill, che difende l’intervento armato, continua a creare fratture e malcontento all’interno del mondo cristiano ortodosso. Al punto da vanificare gli accorati appelli alla pace di Papa Francesco e la costante e sapiente attività della diplomazia vaticana. Ad alimentare il pericolo di una guerra mondiale stanno contribuendo anche le cosiddette “armi improprie”: le fake new, una classe politica che nell’attuare strategia di pace presta grande attenzione al consenso popolare, lo strana posizione di intellettuali schierati, l’azione incessante di gruppi di persuasi occulti che contribuiscono alla formazione di un’opinione pubblica eterodiretta.

Chi fermerà questo massacro? Non certo l’ONU che ha superato l’inutilità e l’impotenza della vecchia Società delle Nazioni. Al momento l’unica forza di interposizione sembra essere l’esercito della solidarietà che taglia trasversalmente la società- mondo.

IL VOLONTARIATO DEI SOCIOLOGI ASI DELLA LOMBARDIA

Prof. Avv. Michele Miccoli vicepresidente nazionale ASI

Un plotoncino di volontari fa parte dell’Associazione Sociologi Italiani di stanza in Lombardia (sede dalla macro-deputazione ASI “Nordest”, presieduta dall’Avv. Prof. Michele Miccoli) coordinato da sociologo Sabino Cipriano il quale si sta distinguendo nell’attività di supporto ai profughi provenienti dell’Ucraina.

lavori per arredare uno degli appartamenti

 Il dott. Cipriano, che da due mesi conferisce in una delle tante strutture Caritas generi di prima necessità (vestiario, giocattoli, alimentari), sempre per conto dell’ASI è riuscito ad ottenere in comodato d’uso gradito tre appartamenti per ospitare altrettante famiglie di profughi. Le unità abitative fanno parte di un complesso che sorge in un’area industriale di Arese dove insiste un insediamento produttivo il cui titolare ha messo a disposizione i tre alloggi. Il tempo di arredarli e finalmente donne e bambini avranno di nuovo una casa.

Altro locale dove fervono i lavori di arredamento

Il mito della società dell’informazione

di Patrizio Paolinelli

Nel 1971 il governo giapponese diede il via a un piano che avrebbe dovuto realizzare la società dell’informazione entro il 2000. Nel recente passato l’Onu ha organizzato due Vertici mondiali sulla società dell’informazione e sullo stesso tema da circa trent’anni l’Unione Europea ha sviluppato una complessa macchina amministrativa a sostegno dell’ICT (Information and Communications Technology).

Prof. Patrizio Paolinelli

L’interesse del mondo politico, gli investimenti degli Stati e dei privati sono dunque concentrati su un nuovo modello socio-produttivo in cui il sapere, la conoscenza, la formazione, l’informazione e le tecnologie digitali costituiscono risorse strategiche. Per Manuel Castells il mondo di oggi è caratterizzato dall’avvento del “capitalismo informazionale” in cui la produzione di ricchezza è sempre più intrecciata con la capacità di comunicare. Corona il sogno della società dell’informazione la sua vocazione universalista e a-ideologica.

E’ interessante osservare quanto il paradigma dell’informazione sia accompagnato dalla logica del progetto sociale pensato a tavolino e calato poi nella realtà. Progetto di illuministica memoria dato per morto e sepolto. Ed è altrettanto interessante notare quanto tale logica sia vituperata dalla stessa società dell’informazione – nella veste della stampa mainstream – quando qualcuno propone di realizzare un mondo più giusto avanzando modelli alternativi di produzione e consumo. Tali proposte sono immediatamente bollate come ideologiche, novecentesche, anacronistiche, utopistiche e così via. Ma c’è anche chi, come  David Hesmondhalgh – di cui nel 2008 per i tipi di Egea è uscito il ponderoso volume “Le industrie culturali” – ritiene che sia improprio parlare di economia della conoscenza o di età dell’informazione a causa dei minori volumi d’affari delle industrie creative e culturali rispetto ad esempio a quelli delle industrie energetiche. E tuttavia sono proprio i prodotti delle industrie creative e culturali a costituire la seconda voce di esportazione degli USA.

Per non perdersi in discussioni a questo punto la domanda da farsi è: siamo o non siamo la società dell’informazione? Purtroppo non si può rispondere con un sì o con un no. Basti pensare al fatto che quasi nessun consumatore sa quanto costano all’origine gli abiti che indossa o la frutta che compra al supermercato e allo stesso tempo è quotidianamente informato su eventi che accadono nei quattro angoli del mondo. Dinanzi a questa ambivalenza una cosa è certa: la società dell’informazione è funzionale alle pratiche del laissez-faire ed esclude le periferie economiche come dimostra il digital divide. Attualmente la società dell’informazione è in tumultuoso sviluppo e tuttavia molto resta ancora da fare. Per come l’hanno immaginata i suoi teorici (un luogo di pace e di democrazia computerizzata) è di là da venire, eppure ha già modificato radicalmente il nostro modo di produrre e interagire. D’altra parte la vita quotidiana è circondata da schermi di ogni dimensione i cui testi e le cui immagini ci lasciano solo quando dormiamo e forse si insinuano nei nostri sogni. Ogni giorno siamo bersagliati da centinaia di messaggi pubblicitari e ci teniamo costantemente informati sui fatti del giorno. Per di più la maggioranza della forza-lavoro svolge un’attività mentale manipolando simboli e producendo messaggi. Attività che si estende anche nella vita quotidiana e per esperienza diretta ognuno di noi sa quanto tempo si spende per risolvere problemi che hanno a che fare con l’informazione: reperirla, selezionarla, organizzarla, trasmetterla, tutelarla.

Indubbiamente tutte queste pratiche depongono a favore del concetto di società dell’informazione. La sua forza è effettuale e risiede nelle ricadute pratiche che si esplicitano in notizie a mezzo stampa, telefoni cellulari, Web Tv, proliferare di blog, finanziamenti dell’Unione Europea e così via. Tant’è che in un libro curato da Jérôme Garcin e intitolato “Nuovi miti d’oggi. Da Barthes alla Smart” (Isbn Edizioni, Milano, 2008) delle 57 voci che compongono il volume ben 20 riguardano l’informazione e un suo stretto parente, lo spettacolo. Sia l’una che l’altro hanno conosciuto un’enorme fortuna in termini di speculazione teorica e di ricadute sociali. Ma mentre l’idea di società dello spettacolo il più delle volte muove da un approccio critico rispetto all’impatto dei media sulla coscienza collettiva, l’idea di società dell’informazione si presenta nella forma apparentemente neutra del progresso tecnologico e pertanto risulta gradita all’establishment politico-economico. Cosicché la società dell’informazione è in crescita e continua a battersi per diventare sempre di più senso comune. Anche in questa circostanza va osservato come il progresso, dato da decenni come una delle defunte grandi narrazioni, continua in realtà a presiedere l’agire del potere politico-economico e degli attori che si muovono sul mercato della comunicazione: nelle intenzioni dei suoi profeti la società dell’informazione promuove infatti la qualità della vita, il benessere, la libera espressione di sé.

Battuta la critica alla società dello spettacolo il mito della società dell’informazione si impone in virtù del successo delle sue applicazioni pratiche, della sua continua produzione di novità, della convergenza tra le tecnologie di trasmissione e quelle di comunicazione, dei fatturati in ascesa delle corporation legate al digitale, della promozione globale di icone quali Bill Gates, Steve Jobs, Mark Zuckerberg. E quali sono i pilastri su cui poggia tale mito? Uno ricorre all’equazione che a maggior informazione corrisponde automaticamente maggiore libertà. Il fenomeno del sovraccarico informativo dimostra esattamente il contrario. All’inizio l’information overload si è presentato come una disfunzione del mercato della comunicazione, poi è stato utilizzato come un’efficace tecnica di controllo: se si vuole deviare l’attenzione pubblica da un problema basta inondare uno o più media di informazioni ben selezionate su quel problema; di lì a poco le informazioni si trasformeranno in rumore, ossia in disturbi alla comunicazione, allora il pubblico cambierà canale e il problema è risolto. Meglio, irrisolto, ma finisce di costituire un serio ostacolo politico perché riguarda solo da una minoranza di cittadini. Un esempio: da anni siamo informatissimi sul riscaldamento globale, ma ancora oggi non ne veniamo a capo e continuiamo a “riscaldarci”.

Essere informati su un problema non equivale dunque a risolverlo. Si dirà che non è compito della stampa. Vero. Ma la stampa può essere strategica nel condizionare le scelte dei decisori come quando influenza gli orientamenti dei cittadini al voto, ai consumi, agli stili di vita. Espressioni entrate nell’uso comune come “gogna mediatica”, “manganello mediatico“, guerra mediatica”, “macchina del fango”, “disinformatia” suggeriscono quanto spazio di manovra hanno i mezzi di comunicazione nel gestire l’informazione. Tra parentesi, è da notare il sapore rétro di termini quali: gogna (Medioevo), manganello (fascismo), fango (ruralità). L’avanzare della società dell’informazione presenta poi un altro vulnus: quello di trasformarsi in una società della sorveglianza. Il dibattito sull’argomento conquista le prime pagine dei quotidiani quando emergono gravi casi di violazioni della privacy per poi ritornare nell’ombra in attesa dello scandalo successivo. Senz’altro polizie ed esperti di marketing non possono che gongolare con l’avvento dei social network. Spazi in cui gli individui forniscono volontariamente un’immensa quantità di informazioni sui loro gusti, consumi, credenze, aspirazioni, idee politiche.

L’opinione pubblica è un altro pilastro che sorregge il mito della società dell’informazione. La si cita quotidianamente sui vecchi e nuovi media come un faro della laicità e della democrazia liberale, ma cosa sia realmente è oggetto di discussione. In proposito Herbert Blumer aveva le idee chiare e da molto tempo ci ha informati che l’opinione pubblica è: 1) un prodotto collettivo; 2) in quanto tale non è un’opinione unanime con cui tutti i membri del pubblico concordano; 3)non è necessariamente l’opinione della maggioranza; 4) l’opinione di gruppi minoritari può esercitare un’influenza più efficace di quella del gruppo maggioritario. Quando si fa riferimento all’opinione pubblica il lettore, l’ascoltatore, il telespettatore, il navigatore della Rete dovrebbe tener conto che raramente, se non mai, si sta parlando a nome di tutti anche se l’emittente dà l’idea che sia così. In definitiva il ricorso all’opinione pubblica non garantisce di per sé che l’informazione segua un percorso trasparente.

La società dell’informazione pullula di notizie. I quotidiani nazionali vanno dalle 40 alle 100 pagine. Impossibile leggere tutto quello che c’è dentro. E’ un bene? E’ un male? Non lo sappiamo. Di sicuro sappiamo che anche lo statuto della notizia è incerto. Su cosa essa sia non c’è accordo tra gli addetti ai lavori. Per Furio Colombo “La notizia non è quasi mai nel fatto specifico che vi viene mostrato. Nel migliore dei casi è un lato, una coda, un sintomo, un dato di qualche altra cosa”. Per David Randall “Una notizia è tutto ciò che è nuovo, mai pubblicato, insolito e interessante in senso generale”. Per Sergio Lepri la notizia si può definire come “la massima approssimazione possibile all’effettivo svolgimento del fatto […] … notizia è il fatto che il giornalista è convinto possa soddisfare i bisogni informativi del lettore e accrescere il suo patrimonio di conoscenze, aiutandolo a essere più libero nei suoi giudizi, più sicuro nelle sue decisioni, più soddisfatto nelle sue curiosità”. A queste definizioni potremmo aggiungerne altre, ad esempio la notizia come merce. Ma quelle elencate sono sufficienti a dimostrare quanto sia epistemologicamente fragile ma politicamente orientabile anche quest’altro pilastro della società dell’informazione.

Per Shannon e Weaver la comunicazione consiste nel passaggio di informazioni. Il modello proposto negli anni ’40 dai due esperti è lineare e considera la comunicazione come trasmissione di dati da una sorgente a una destinazione attraverso un elemento codificatore, un canale e un elemento decodificatore. In una versione più elaborata inclusero anche il feedback. A partire dagli anni ’60 ci si è accorti che trasferire informazioni non è proprio così scontato e la comunicazione è stata osservata come un processo di trasformazione degli attori che interpretano messaggi e sono dotati di intenzionalità. L’irruzione dell’interpretazione e dell’intenzionalità di emittenti e riceventi ha complicato enormemente le cose dando vita alle indagini sulla pragmatica della comunicazione (fatta anche divergenze, incomprensioni, equivoci, inganni) e innescando un dibattito che continua ancora oggi con risvolti sorprendenti. Ad esempio, per alcuni dei suoi guru la società dell’informazione costituisce lo stadio immediatamente precedente prima di arrivare alla società della comunicazione e ricalcando così la celebre dinamica relativa al passaggio dal socialismo al comunismo. In ogni caso, il risultato è che non c’è accordo su cosa sia la comunicazione tanto che Ugo Volli la considera come un “fare problematico che lascia difficilmente spazio alla parità e alla reciprocità degli uomini e si presta sempre almeno al sospetto dell’autoritarismo e della manipolazione”. Osservata tramite questa chiave di lettura la società dell’informazione va smitizzata affinché possa esprimere tutte le sue potenzialità per l’avanzamento dei processi di partecipazione e di emancipazione.

Patrizio Paolinelli, via Po Cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro


La feudalizzazione della società italiana

RECENSIONE: “La società signorile di massa” di Luca Ricolfi (La nave di Teseo, Milano, 2019, 267 pagg., 18,00 euro).

di Patrizio Paolinelli

Come dice chiaramente il titolo ci troviamo dinanzi a una nuova definizione della società. Per la precisione: non di tutte le società contemporanee, ma della società italiana. Che il sociologo torinese ritiene un unicum nel mondo occidentale; beninteso un unicum negativo.

<<<==Prof. Patrizio Paolinelli

Ma perché la nostra società sarebbe “signorile di massa”? Perché la maggioranza degli italiani vive in una condizione paragonabile a quella dei signori feudali. Ipotesi parecchio audace ma che incuriosisce. Per dimostrarla la prima cosa che fa Ricolfi è sgombrare il campo da ricostruzioni pessimistiche della realtà. E così le prime pagine del suo libro presentano un affresco del nostro Paese in cui, a fianco di un’Italia che se passa male (per esempio i 13 milioni di anziani che vivono con una pensione inferiore a mille euro al mese), c’è un’Italia che se la spassa alla grande: milioni di persone che pur non lavorando conducono una vita agiata, a cui vanno aggiunti i ristoranti pieni, il tutto esaurito dei luoghi di villeggiatura, i giovani che “apericenano” e così via. Tuttavia, l’attuale società opulenta ha fondamenta assai differenti da quella che si sviluppò nel trentennio di crescita ininterrotta (1946-1975) per il semplice fatto che la crescita non c’è più da lungo tempo e oggi viviamo sulle spalle del surplus accumulato dalle generazioni passate. In sintesi le condizioni della società signorile di massa sono tre: le persone che non lavorano sono più numerose di quelle che lavorano; i consumi opulenti avvengono in assenza di lavoro; l’economia stagna.

Per dimostrare l’esistenza della società signorile di massa Ricolfi ricorre a una serie di dati statistici. Dei quali va tenuto ovviamente conto, ma decidere cosa significano è tutt’altra storia. In altre parole, i numeri in sé non dicono tutto del fenomeno che rappresentano. Occorre interpretarli. E le strade sono in genere due. Una lenta, costosa e comunque incerta, ossia attraverso indagini qualitative che confermino quelle quantitative; l’altra rapida, economica e ancora più incerta, ossia attraverso personali interpretazioni. Ricolfi sceglie la seconda strada con tutti i rischi che essa comporta. Soprattutto quello di far rientrare il suo sforzo intellettuale nel campo delle opinioni più che in quello della scienza.

Prendiamo il fronte dei consumi. Negli anni ‘60 gli italiani ebbero accesso alle cure mediche, all’istruzione, ai servizi igienici in casa e così via. Consumi (così li intende Ricolfi, ma forse sarebbe più opportuno chiamarli diritti) che nel Medioevo si potevano permette solo i nobili. Da questo livello di benessere negli anni ’80 si è passati a consumi di massa decisamente voluttuari, che Ricolfi stima posseduti o fruiti da oltre metà degli italiani. Quali sono? La seconda auto, la seconda casa, costose attrezzature da sub o da sci, weekend lunghi e ripetuti, vacanze in località esotiche, abbonamenti televisivi, svariati corsi extrascolastici per i figli, cibi e medici alternativi, tecnologia e così via. Tutto vero.

Ma siamo proprio sicuri che il possesso dell’abbonamento alla Tv satellitare e dell’attrezzatura da sub da parte di un impiegato del Comune (il cui stipendio è mediamente molto basso) sia sufficiente a metterlo sullo stesso piano del medioevale signore del castello o anche dell’agiato cardiochirurgo dei nostri giorni? Inoltre è la struttura economica della società che ha reso indispensabili a chi non può permetterseli consumi non necessari. E spesso lo ha fatto imponendoli: tralasciando la violenza simbolica della pubblicità, milioni di italiani non si sarebbero indebitati per decenni se la casa fosse stata davvero un diritto, forse avrebbero investito altrove i soldi destinati per la seconda casa se le città non fossero invivibili e probabilmente neanche avrebbero comprato la seconda auto se i trasporti pubblici fossero economici e efficienti.

Questo tipo di lettura dei dati statistici è assente dalle interpretazioni di Ricolfi. La sua critica è sempre in termini di efficientamento dell’attuale società e non del suo superamento (come ormai suggerisce il buon senso più che le posizioni politiche). Anche quando affronta le peggiori forme di sfruttamento del lavoro. Su tale aspetto il filo del suo ragionamento è il seguente: come nelle società signorili i vantaggi della nobiltà comportavano gli svantaggi della servitù della gleba, oggi i consumatori di beni voluttuari godono della loro condizione di privilegio grazie alla riduzione a una condizione paraschiavistica di una serie di categorie sociali. Ecco quali: i lavoratori stagionali (circa 200mila persone, per lo più di origine africana); le prostitute (tra 75mila e 120mila unità), il personale di servizio (865mila soggetti secondo l’INPS, circa 2 milioni secondo altri studi); i lavoratori in nero (450mila). Totale: quasi 3 milioni di persone, in maggioranza straniere. A queste figure Ricolfi ne aggiunge altre collocandole in quelle che definisce “situazioni di confine”. Esse sono: la massa di persone sottopagate nei settori del commercio, della ristorazione e non solo, a cui vanno aggiunti: gli spacciatori di sostanze stupefacenti, i lavoratori della gig economy (economia dei lavoretti) e quelli delle aziende esternalizzate. Si tratta complessivamente di un numero che oscilla tra 2.700.000 a 3.500.000 unità.

La ricostruzione dell’infrastruttura paraschiavistica del lavoro nel nostro paese fornisce il quadro di un’impressionante condizione di sudditanza di diversi milioni di persone e costituisce la parte più interessante del libro di Ricolfi. Il quale legge in termini politici la crisi italiana. Interpretata dal sociologo torinese come un caso esemplare di immobilismo. Tra i responsabili di tale immobilismo: la scuola che non boccia più e i giovani che preferiscono stare a casa nel dolce far niente piuttosto che accettare lavori non corrispondenti alle loro aspirazioni. Si tratta di problemi reali, non c’è dubbio. È dannoso per la società e per gli stessi studenti che la scuola promuova tutti. Fenomeno da cui però non è immune una parte consistente dell’università (e che dire delle lauree on-line?). Ma la soluzione non è certo quella di tornare alla scuola e all’università di classe com’era ai tempi di don Milani e come invece il ragionamento di Ricolfi induce a fare (e non solo nel caso dell’istruzione).

Allo stesso tempo è vero che molti giovani attendono l’impiego dei loro sogni e non si sporcano le mani con attività di second’ordine. Ma è altrettanto vero che troppe volte questi rimproveri sono mossi da chi non considera le paghe ridicole che vengono offerte, ha un ottimo posto di lavoro e non manderà mai i suoi figli a farsi sfruttare in un call center. Anzi, troverà, per le italiche vie traverse, un posto ben retribuito ai propri rampolli, magari da dirigente nella tanto disprezzata pubblica amministrazione. Evento che Ricolfi avrà sicuramente notato nell’università italiana. Notoriamente un mondo dove il nepotismo impera, proprio come in epoca feudale.

Ricolfi non fornisce ricette per uscire dalla società signorile di massa. E tuttavia sia la sua interpretazione dei dati statistici sia l’approccio ai problemi che affronta lasciano intendere che in Italia sono necessari più ordine e disciplina. A vantaggio di chi? In genere la richiesta di ordine e disciplina va a vantaggio del potere economico, il grande assente del libro di Ricolfi pur essendo il maggior responsabile della crisi italiana dato che, direttamente o indirettamente, da decenni controlla tutte le leve di comando della società. Eppure all’inizio del suo libro Ricolfi sostiene che il corpo principale della società italiana è capitalistico. Poi però se ne dimentica. E a ben guardare la società signorile di massa ha fatto soprattutto la fortuna dei capitalisti. I quali effettivamente somigliano sempre più alla nobiltà di un tempo che al ritratto dipinto da Max Weber.

Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro.


Punti di vista sulla pandemia

di Patrizio Paolinelli

La pandemia fa male. Uccide, chiude, blocca, isola, impoverisce. E, naturalmente, fa parlare. Tanto. Praticamente all’infinito. Ma accanto alle paginate dei giornali e agli interminabili sproloqui dei talk-show, stimola anche qualche parola diversa, qualche riflessione su quello che sta avvenendo e come sta avvenendo, sul modo in cui si sta gestendo questa fase drammatica e sulle sue prospettive.

<<==Prof. Patrizio Paolinelli

Sono diversi gli studiosi che in questo periodo si stanno esprimendo con le loro analisi e, per fortuna, non mancano coloro che non si fermano al coronavirus, ma scavano nel profondo di una società che era già alle corde. Eccone alcuni.

Iniziamo con due arrabbiati: il filosofo Giorgio Agamben e il sociologo Andrea Miconi. Il primo ha dato alle stampe “A che punto siamo? L’epidemia come politica”, (Quodlibet, Macerata, 2020, 106 pagg., 10,00 euro). Il secondo, “Epidemie e controllo sociale”, (manifestolibri, Roma, 2020, 127 pagg., 10,00 euro). Entrambi gli autori polemizzano violentemente con le decisioni del governo in merito alle restrizioni alla libertà di movimento dei cittadini per frenare la diffusione del contagio. Ovviamente non negano la pericolosità del Covid-19, ma contestano come le misure di contenimento del virus sono state imposte e sospettano che nascondano ben altre intenzioni. Quali sarebbero?

Per svelarle ricorrono alla categoria foucaultiana di biopolitica, ossia il governo degli esseri umani attraverso la regolazione della vita biologica (sessualità, riproduzione, morte e così via). Nel caso dell’epidemia in corso la biopolitica si esprime tramite pratiche di controllo della salute pubblica quali: l’obbligo al distanziamento interpersonale e all’uso dei dispositivi sanitari di protezione individuale, la quarantena, la limitazione degli orari degli esercizi pubblici, la chiusura di una lunga serie di attività culturali, ludiche, sportive, della scuola e dell’università, restrizioni nella libertà di spostamento sul territorio. Agamben connette la nozione di biopolitica con quella di stato di eccezione, celeberrima categoria della dottrina politica di Carl Schmitt e con la quale si intende la sospensione dell’ordine giuridico a cui segue l’esercizio di un potere sganciato dal diritto. Nei mesi della pandemia sono state infatti messe tra parentesi le garanzie costituzionali trasformando ogni individuo in un potenziale untore.

Situazione che per il filosofo romano ricorda molto da vicino gli anni del terrorismo e i provvedimenti d’emergenza che allora vennero presi. Con una differenza sostanziale rispetto a ieri: mentre la fine dell’estremismo extraparlamentare riportò l’ordine giuridico più o meno allo statu quo ante, oggi è cresciuta enormemente la tendenza a fare dello stato d’eccezione il paradigma di governo in nome della sicurezza pubblica. In altre parole, l’eccezione diventa regola. Per Agamben la nuova normalità è costituita da crisi perenni e da perenni misure di emergenza, dalla progressiva separazione degli individui gli uni dagli altri e dalla continua erosione delle libertà costituzionali. Andrea Miconi è assai vicino alle posizioni di Agamben. Utilizza la nozione di stato d’eccezione e alla critica nei confronti delle azioni di contrasto al contagio aggiunge quella rivolta alla rappresentazione mediatica dell’epidemia. Nel suo pamphlet arriva a parlare del 2020 come dell’anno che ha inaugurato lo stato di polizia. Per dimostrarlo riporta un lungo elenco di fatti di cronaca che la stampa ha rubricato nell’ordine del pittoresco, del bizzarro e della curiosità. Mentre per Miconi indicano un eccesso di controlli, un preoccupante potere discrezionale delle forze di sicurezza, la violazione dei diritti della persona e lo sconvolgimento del clima sociale.

Ecco alcuni di questi fatti: una donna è stata multata mentre pregava in chiesa da sola, stessa sorte è toccata a una psicologa che si recava a visitare un paziente, a una coppia che accompagnava la figlia a una visita oncologica dopo un trapianto di midollo spinale e a un uomo che accompagnava la moglie disabile a fare la spesa. Al lungo elenco di Miconi si possono aggiungere i video circolati sui social network dopo la pubblicazione del suo pamphlet e in cui si assiste a pesanti interventi delle forze dell’ordine nei confronti di cittadini colti per strada senza mascherina sanitaria. A questo proposito ci sarebbe da osservare che durante la pandemia le morti sul lavoro sono proseguite come prima, ma da parte dello Stato non si sono viste all’opera la stessa determinazione e la stessa energia per combattere il fenomeno.

Ma torniamo a Miconi. Il succo della sua critica è il seguente: con la pandemia è stata messa in atto una strategia di colpevolizzazione del cittadino e di deresponsabilizzazione della classe dirigente (potere politico, potere mediatico, potere economico). Ha preso così forma una sorta di populismo alla rovescia tramite il quale l’opinione pubblica si è assunta la colpa di quanto accadeva anziché prendersela con le élite. Per esempio, non si è troppo indignata dinanzi alla scarsa attenzione degli imprenditori per la salute di lavoratori e che nel bergamasco ha portato a consumare una vera e propria strage. Tuttavia ha accettato di essere sigillata in casa, di sentirsi dire dai media che tutto sommato la reclusione domiciliare è una cosa bella e di sottoporsi all’umiliante rituale dell’autocertificazione. Ancora: ha abbracciato lo slogan “C’è troppa gente in giro” anziché pretendere dei servizi di trasporto pubblici adeguati all’emergenza sanitaria. In definitiva, per Miconi lo scopo sommerso delle misure anti-contagio è duplice: da un lato, la normalizzazione di una pervasiva forma di controllo sociale; dall’altro, la possibilità per classe dirigente di togliere ai cittadini libertà fondamentali senza subire alcun scossone.

Anche Donatella Di Cesare si è occupata della pandemia dando alle stampe un tascabile intitolato “Virus sovrano? L’asfissia capitalistica”, (Bollati Boringhieri, Torino, 2020, 89 pagg., 9,00 euro). A differenza di quanto potrebbe lasciar supporre il sottotitolo del libro l’astro nascente dell’italica filosofia prêt-à-porter non muove una critica al capitalismo inteso come modo di produzione. Pertanto la sua riflessione risulta fortemente depotenziata. Tuttavia è utile dato il terrificante clima culturale in cui ci troviamo in termini di conformismo, adesione all’ideologia liberale e negazione dello spirito critico (in questo senso, sempre in tema di pandemia, un caso esemplare è il libro intitolato “Nella fine è l’inizio” di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti).

L’asfissia capitalistica di cui parla Di Cesare riprende il tema dell’accelerazione dei ritmi di vita nelle nostre società radicalizzando l’analisi critica. Avendoci costretti a un’esistenza rallentata, se non addirittura sospesa, la pandemia mette in luce “l’aberrazione della frenesia di ieri” e “la maligna velocità del capitalismo”. In quanto al virus, è sovrano sia per l’aureola che lo circonda sia perché ha oltrepassato ogni confine facendosi beffe proprio dei sovranisti. L’aspetto più interessante del libro della Di Cesare consiste nella correlazione costante tra le contraddizioni della nostra società prima della pandemia e durante la pandemia. Destano tuttavia qualche perplessità diverse affermazioni assai generiche e la tendenza a mettere sullo stesso piano la narrazione mediatica degli eventi con la realtà effettuale delle cose.

C’è poi un altro aspetto che lascia ancor più perplessi. E cioè, mentre le riflessioni di Agamben e Miconi invitano il lettore a prendere coscienza della gravità della situazione e dunque alla mobilitazione, quelle della Di Cesare non si sa bene dove vadano a parare. Le abbondanti critiche che muove al rapporto tra società pre-pandemica e società pandemica non indicano una direzione e sembrano esaurirsi nell’autocompiacimento di una brillante scrittura.

L’ultimo tascabile della nostra carrellata è quello di Mariana Mazzucato: “Non sprechiamo questa crisi”, (Laterza, Bari-Roma, 2020, 160 pagg., 12,00 euro). Il libro è composto da tredici interventi di cui otto scritti a quattro mani con altri studiosi e ripropone il pensiero dell’economista italiana applicandolo al dramma scatenato dalla pandemia. Semplificando al massimo la tesi centrale della Mazzucato si articola su alcuni punti: 1) da sempre le grandi imprese private beneficiano di enormi finanziamenti pubblici, diretti o indiretti che siano; 2)  numerosi colossi dell’economia non sarebbero neanche nati senza i massicci investimenti dello Stato, a iniziare dalla grandi corporation della Silicon Valley; 3) in parecchie occasioni banche e multinazionali sono state salvate dal fallimento con i soldi del contribuente; 4) i famosi imprenditori restituiscono pochissimo alla società che pur gli ha permesso di nascere, prosperare e sopravvivere.

Il timore della Mazzucato è che con la pandemia si rimetta in moto il circolo vizioso di privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite, accaparramento delle risorse pubbliche, scarsi ritorni per la collettività, recessione economica. Il suo intento non è quello di superare il modo di produzione capitalistico ma di “fare capitalismo in modo diverso” correggendo le storture provocate dai mercati lasciati a sé stessi. E per questo occorre che le risorse pubbliche siano indirizzate nell’interesse pubblico e non del profitto. Non certo per realizzare il socialismo, ma per salvare il capitalismo dalla spirale autodistruttiva in cui è finito col neoliberismo. Detto con una battuta, troppo successo porta al decesso. E allora come intervenire?

La ricetta della Mazzucato prende le mosse dalla necessità di riconoscere che la ricerca di base in campo farmaceutico è largamente a carico dello Stato (40 miliardi di dollari nel 2019) ed è sempre lo Stato che è intervenuto economicamente sui sistemi sanitari per combattere il Covid-19.  Non solo: gli enormi stimoli all’economia per scongiurare la catastrofe (negli Usa oltre 2mila miliardi di dollari) derivano dalle tasse dei contribuenti, pertanto il sostegno pubblico alle imprese non può più essere incondizionato come è accaduto fino a oggi. E ancora: lo Stato deve tornare a essere un protagonista attivo dell’economia e non più un soggetto passivo che elargisce soldi alle imprese nella speranza che queste creino ricchezza per tutti. Speranza mal riposta: da decenni nelle società occidentali la povertà aumenta, così pure le disuguaglianze e si passa da una crisi economica all’altra precipitando in lunghe fasi di stagnazione

Per la Mazzucato la pandemia è un’occasione per voltare pagina e dar vita a un circolo virtuoso dell’economia. Come? Attraverso l’implementazione di misure quali il dividendo di cittadinanza, che consiste in una remunerazione dei cittadini per gli investimenti statali nell’economia privata, premiando le aziende che creano davvero valore, plasmando i mercati affinché la ricchezza creata collettivamente sia messa al servizio di scopi collettivi, favorendo una green economy centrata sui lavoratori, rivedendo il sistema fiscale e così via.  Come si vede le proposte della Mazzucato sono piene di buon senso e data la situazione sembrerebbe irragionevole non accoglierle. Certo, non ci si può nascondere che il potere economico dovrebbe rinunciare almeno in parte al potere assoluto che ha a lungo perseguito e conquistato. I prossimi anni ci diranno se la ragione prevarrà sull’anarchia del capitale.


Cerca

Archivio