Esiste un ramo della sociologia che non corrisponde ad alcuna cattedra né indirizzo di studio, ma che sta prepotentemente reclamando l’attenzione che merita un argomento centrale. Un ramo che potremmo definire trasversale alle varie sociologie corrispondenti dai sottosistemi e che sembra definire, nel suo prendere corpo, il vero scopo della sociologia. Definirei questo ramo la “sociologia della felicità” e il suo oggetto l’individuazione dei criteri e degli standard, nonché degli ostacoli che si frappongono al raggiungimento della felicità intesa come valore sociale (collettivo, strutturale, relazionale e individuale).
I pensatori degli ultimi decenni hanno giustamente
indicato il fattore economico – la diseguale distribuzione delle risorse
materiali – come il maggior ostacolo che impedisce alla maggioranza di accedere non già alla piena felicità, ma alla
possibilità di costruirla partendo dalla serenità esistenziale e sicurezza nel
futuro.
Domenico de Masi, professore emerito di Sociologia del
Lavoro, da anni si occupa di queste tematiche con uno sguardo rivolto al
futuro, agli sviluppi tecnologici, produttivi e sociali che i suoi più giovani
colleghi spesso non riescono a eguagliare. Il suo ultimo saggio edito da
Einaudi collega il passato al presente e al futuro, passando in rassegna gli
eventi e le due maggiori teorie del passato contemporaneo con la situazione
presente e la costruzione del futuro: le molte occasioni mancate
nell’intraprendere una via per una più egualitaria distribuzione delle risorse
che renderebbe possibile una società della sicurezza e della felicità. Il
saggio contrappone due teorie, due visioni e orientamenti politici estremamente
polarizzati in una teoria neo marxista di sociologia critica e nel suo opposto,
una scuola neoliberista economicista che non disdegna derive autoritarie per il
mantenimento dello status quo.
Il primo capitolo è dedicato alla Scuola di Francoforte,
la cui conoscenza è fondamentale per chi volesse approfondire le tematiche
sociologiche. Essa ha contribuito a un importante sviluppo del marxismo
integrandolo con riflessioni di carattere antropologico e psicosociologico con
teorici quali Herbert Marcuse, Theodor Adrono, Max Horkheimer Jürgen
Habermas e lo psicanalista Erich Fromm. Walter Benjamin la definì come una
costellazione interdisciplinare di prestigiosi intellettuali che ha ruotato dal
1923 ai giorni nostri intorno all’Institut für Sozialforschung incardinato,
senza farne parte, nell’Università
Goethe di Francoforte.
Nel secondo capitolo l’esposizione dei teorici e dei
corollari della scuola di Vienna e del potere da essa acquisito grazie agli
ingenti flussi di capitale scandisce gli eventi storici dello scorso secolo
fino alla situazione attuale nell’affermare il neoliberismo economico e
culturale in buona parte del globo terrestre anche per mezzo di potenti e
coercitive ingerenze geopolitiche quali il “Washington consensus”.
La seconda parte si apre esponendo le quattro concezioni
del lavoro che hanno segnato lo scorso secolo: quella cattolica, quella marxista,
quella liberista e quella socialista, a cui se ne aggiunge una quinta: quella
derivata dalla produttività industriale capitalista e che si propone di
massimizzare l’efficienza minimizzando i costi, una sorta di versione
ingegneristica del liberismo il cui maggiore esponente è stato indubbiamente
Frederick W. Taylor, nella sua organizzazione della fabbrica della Ford (questa
disposizione, immortalata dall’indimenticabile Charlie Chaplin nel suo
capolavoro “Tempi moderni”, è infatti
comunemente chiamata taylorismo o fordismo). Il riferimento al protestantesimo
calvinista come origine del capitalismo “ascetico” di Max Weber si infrange
inevitabilmente contro la realtà dei fatti nell’emergere della società dei
consumi. Autori illuminati come Keynes, che pur non mettendo in dubbio il
capitalismo – per lo meno ufficialmente – antepongono il progresso e la
sicurezza della piena occupazione al profitto hanno dato luogo a brevi periodi
di serenità economica, un piccolo scorcio della felicità che ci è stata negata.
Non è possibile per un sociologo essere neutrale nelle
analisi che puntano al cuore della vita individuale e collettiva: la
sopravvalutata avalutatività del ricercatore rischia di fare la fine del suo
teorico, colpito da depressione nel vedere tradita la propria fiducia nel
capitalismo ascetico. De Masi non nasconde mai il proprio orientamento né i
suoi desideri di vedere un giorno applicato interamente l’art. 3 della nostra
Costituzione per la rimozione degli ostacoli che impediscono la realizzazione piena
delle persone e della collettività. In una società più giusta lo sviluppo
tecnologico industriale in tutti i settori e le nuove scoperte scientifiche
consentirebbero a tutti di lavorare meno e in maniera più gratificante: la
felicità è a un passo da noi, ma quel passo ci vene costantemente impedito.
“Per donare – secondo l’antropologo Marcel Mauss, nipote di uno dei padri della sociologia, Durkheim – occorre possedere una forte dose di civiltà e, al tempo stesso, essere consapevoli che il valore del dono risiede nell’assenza di garanzia”.
L’attività extracurriculare nelle scuole e la formazione degli insegnanti registrano la mancata valorizzazione della cultura della donazione. Come se donare agli altri qualcosa di noi stessi, sangue e organi, non faccia parte dei nostri valori cristiani e, anche, del nostro dovere di uomini. Donare oggi, nella maggior parte dei casi ci riporta all’attuale società consumistica: a quella sorta di competizione che ci vede impegnati nello scambio di beni voluttuari in occasione di feste, onomastici, matrimoni, ecc. E non importa se per fare bella figura con familiari e amici siamo costretti ad usare la carta di credito revolving, far ricorso a una finanziaria o al vicino di casa “cravattaro”. L’ interessante è l’immagine: tanto per saldare il conto c’è sempre tempo. Nella speranza di un domani solvibile.
Per donare – secondo l’antropologo Marcel Mauss, nipote di uno dei padri della sociologia, Durkheim – occorre possedere una forte dose di civiltà e, al tempo stesso, essere consapevoli che il valore del dono risiede nell’assenza di garanzia. Questi concetti fanno maturare in noi la certezza che donare il sangue o gli organi appartiene alla solidarietà umana, all’aiuto verso il nostro prossimo: vissuti in silenzio senza lasciare tracce nella società dell’apparire.
Quante scuole italiane, nelle loro attività extracurriculari, danno la possibilità a studenti e docenti di apprendere la lezione dei coniugi americani Reginald e Margaret Green, i quali nell’ottobre del 1994 autorizzarono l’espianto degli organi del figlioletto Nicholas (7 anni) una volta constatata dai medici la morte cerebrale del bambino, che era rimasto ferito, il 29 settembre di quell’anno, in un tentativo di rapina lungo il tratto calabrese dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria?
Chiusi in un eterno presente, impostoci dall’ultimo dio, Internet, nel nostro cervello non c’è più spazio per certi meravigliosi ricordi del passato legati ad una società solidale e, soprattutto, impregnata di valori.
Oggi registriamo che l’attività extracurriculare nelle scuole è sbilanciata, quasi polarizzata, sulla violenza in un mondo in cui la brutalità fa parte del bagaglio umano. Secondo noi il tema trattato è giusto, ma è sbagliato il metodo usato per portare nelle aule scolastiche argomenti come il cyberbullismo, la violenza sulle donne e di genere, la lotta alla criminalità organizzata. Un metodo nel quale i profili pedagogici sono del tutto residuali, lasciati ai margini rispetto alla centralità della narrazione di “testimonial” in cerca di solidarietà e umana comprensione.
Il prevalere di quel segmento di società civile – sempre più preferito da dirigenti scolastici, corpo docente e consigli d’istituto – non fa altro che lasciare tracce nella rete e anche sui giornali dove, per una conferenza sulle mafie (soprattutto se i relatori sono magistrati, rappresentanti delle forze dell’ordine esponenti di una certa società civile) ricevi in dono un titolo su tre colonne corredato da foto e didascalia. I risultati pratici? Estemporanei, con l’aggravante che la mentalità mafiosa diventa sempre più dilagante, la criminalità sempre più pervasiva, i femminicidi sempre più frequenti e la violenza di genere allarga i suoi confini.
E allora perché non affidarsi a progetti culturali sulla donazione del sangue e degli organi, magari inserendoli strutturalmente nel programma di educazione civica, da sviluppare negli istituti secondari di primo e secondo grado?
Partiamo da una domanda: il capitalismo predatorio che ha divorato individui, società e ambiente da 30-40 anni a questa parte sarà sostituito nel futuro post-pandemico da un capitalismo dal volto umano? Il dibattito è aperto da tempo all’interno delle stesse élite economiche. Prova ne sia il libro di qualche anno fa di Frederic Laloux, “Reinventare le organizzazioni. Come creare organizzazioni ispirate al prossimo stadio della consapevolezza umana”, (Guerini Next, Milano, 2016, 534 pagg., 34,00 euro).
Sono passati sette anni dall’apparizione in Francia di questo corposo volume e come sappiamo l’élite economica se n’è bellamente infischiata. Ma oggi, seppure per una disgraziatissima circostanza come la pandemia, il libro di Laloux torna di grande attualità perché la crisi innescata dal Covid ha messo in luce, più di quanto già non fosse, i limiti dell’attuale paradigma organizzativo delle imprese.
Siamo tutti d’accordo: con la crisi innescata dalla pandemia la tanto paventata transizione verso un nuovo modello di sviluppo socio-economico ha subito una brusca accelerazione. Il problema è capire quale strada sarà effettivamente presa. Perché una cosa sono le previsioni su quel che accadrà domani, un’altra sono i fatti. Torna in mente la partizione del vecchio e intramontabile Machiavelli tra la realtà immaginata e quella effettuale, ossia la realtà concreta al di là delle parole, delle visioni e dei progetti di ognuno di noi.
Al momento la realtà effettuale ci dice che niente è cambiato sul piano degli assetti di potere: comandano le élite economiche globali di orientamento neoliberista, punto e basta. Il resto è quasi esclusivamente letteratura più o meno apprezzabile. Eppure ogni cosa è in movimento. In termini filosofici verrebbe da dire che in questo momento il divenire è più che mai in relazione dialettica con l’essere: l’eterno confronto tra Eraclito e Platone, tanto per capirci. Conviene allora cercare di comprendere cosa si muove all’interno del potere economico dato che è questo potere a governare ogni cosa.
Frederic Laloux è un consulente di grandi aziende. È dunque organico al modello di impresa liberista. Tuttavia negli anni si è reso conto che questo modello è anacronistico. Non solo per la crisi permanente in cui ha cacciato l’economia, per gli allucinanti costi umani e ambientali, ma per il funzionamento delle stesse aziende. Occorre allora reinventare le organizzazioni economiche, passando dall’attuale modello piramidale a un modello orizzontale in cui i lavoratori siano trattati come esseri umani e non come oggetti di nessun conto. Non si tratta di buonismo, ma di un’indicazione ispirata dalla volontà di migliorare le performance aziendali. Lavorare in un’impresa dove si è valorizzati e responsabilizzati, dove la gerarchia non è fondata sull’autoritarismo, dove le informazioni sono condivise, dove conta l’opinione di tutti, dove ci si confronta senza timori reverenziali tra management e lavoratori e dove la parola d’ordine è cooperare anziché competere; bene, tutto ciò rende l’ambiente lavorativo un luogo pieno di senso perché, per dirla con una battuta, non di solo pane vive l’uomo. E non si vive di solo pane perché gli esseri umani sono individui emotivi, spirituali e desideranti alla perenne ricerca di significati e di autorealizzazione.
“Reinventare le organizzazioni” parte da una premessa: le organizzazioni sono il risultato di determinate visioni del mondo e di determinati stadi della coscienza. Ognuna di esse segue un paradigma per spiegare il quale Laloux ricorre al codice dei colori: le organizzazioni rosse sono guidate da un’autorità basata sul comando (per esempio, la criminalità organizzata); le organizzazioni ambrate sono guidate da gerarchie stabili e scalabili (per esempio, l’esercito); le organizzazioni arancioni da innovazione, responsabilità e meritocrazia (per esempio, le multinazionali); le organizzazioni verdi sono guidate da valori culturali (per esempio, la famiglia). Per quanto riguarda le attività economiche Laloux propone di cambiare paradigma e di passare al modello Teal, color foglia di tè. Tale modello prende il meglio delle culture aziendali del passato, le supera e si fonda su tre prerequisiti principali: fiducia nel prossimo, realizzazione integrale della persona, capacità di autorganizzazione degli individui e dei gruppi.
Sogno? Utopia? No. Si tratta di un processo in atto. E gli esempi non mancano. La gran parte del libro di Laloux consiste infatti in una minuziosa rassegna di pionieristiche attività economiche che da tempo adottano il paradigma Teal nei più diversi comparti: assistenza sanitaria, manifattura, scuola, industria energetica e alimentare. Attività le cui dimensioni vanno da 100 a oltre 40mila dipendenti. Si tratta organizzazioni passate dal modello del controllo totale e della rigida divisione tra chi comanda e chi ubbidisce a organizzazioni basate sull’investimento negli individui. Aziende che danno fiducia ai lavoratori, che puntano sulle loro abilità, che li premiano per il loro impegno e che creano un ambiente di lavoro in cui ci si sente per prima cosa persone. Risultati economici? Eccellenti. Assenteismo? Parola sconosciuta. Innovazione? Continua. Processi decisionali? Rapidi e efficaci. Clienti? Pienamente soddisfatti e fidelizzati.
Pur nella loro diversità queste attività hanno in comune l’idea di partecipazione. Collaborare è meglio che confliggere, ascoltarsi gli un gli altri è meglio di imperare, decidere insieme all’interno di un sistema di rapporti paritari è meglio di comandare calando dall’alto decisioni preconfezionate e indiscutibili. A ben vedere il salto qualitativo del paradigma Teal è quello di uscire definitivamente dalla visione del lavoratore inteso come un automa meramente esecutivo delle disposizioni stabilite in camera caritatis dal vertice aziendale. Fine della robotizzazione dell’umano. Praterie aperte alla valorizzazione e all’autovalorizzazione del soggetto. Il cuore al posto del potere. In termini filosofici verrebbe da dire che l’alienazione del lavoro ha chiuso il suo cerchio. Sarebbe ora. Si approda così a un nuovo stadio della coscienza dei lavoratori e delle imprese.
La sintesi migliore della portata critica del modello Teal la offre forse Yvon Chouinard, fondatore del marchio d’abbigliamento Patagonia e che vale davvero la pena di riportare per esteso: “Sono un imprenditore da quasi cinquant’anni. È difficile per me dire queste parole, come lo è per qualcuno ammettere di essere un alcolizzato o un avvocato. Non ho mai rispettato questa professione. L’impresa è l’indiziata numero uno, perché è nemica della natura, perché distrugge culture native, perché prende ai poveri per dare ai ricchi e perché avvelena la terra con i rifiuti delle sue fabbriche. Eppure le aziende possono produrre cibo, curare le malattie, controllare la popolazione, dar lavoro alle persone e in genere arricchire la nostra vita. E possono fare queste cose buone e realizzare un profitto senza perdere la propria anima.”
Che cosa occorre fare affinché le imprese non perdano la propria anima? Chiudere col passato e cambiare strada. Attraverso il racconto delle esperienze aziendali dell’avanguardia Teal, Laloux è molto chiaro. L’azienda del futuro deve fondarsi sulla leadership diffusa e abbattere la barriera tra vita e lavoro. Nelle aziende Teal ognuno risponde del proprio operato a tutti gli altri membri del gruppo di lavoro e ogni gruppo di lavoro non è ispezionato da un’unità superiore, ma dalle altre strutture operative presenti nell’organizzazione. Solo così si possono liberare energie creative autentiche, svincolate dalla logica dello sfruttamento e della paura, dalla guerra di tutti contro tutti, dall’alienazione del lavoro e dall’ideologia del profitto a ogni costo. Le aziende Teal passano in tal modo dal modello organizzativo imposto, che attualmente caratterizza la gran parte delle attività economiche, a un modello pulsante, vivente, strutturato intorno all’intelligenza collettiva e ai bisogni reali degli individui, primo fra tutti quello di vivere una vita degna d’essere vissuta. In termini etici ciò significa passare dall’egoismo all’altruismo. In termini politici da una democrazia formale a una democrazia sostanziale. In termini economici dal benessere esclusivo degli azionisti al benessere collettivo. Resta una domanda: l’élite economica che ancora oggi governa il mondo sarà in grado di accettare questa evoluzione o si ostinerà a precipitare il futuro in un nuovo feudalesimo?
Siamo tutti d’accordo: con la crisi innescata dalla pandemia la tanto paventata transizione verso un nuovo modello di sviluppo socio-economico ha subito una brusca accelerazione. Il problema è capire quale strada sarà effettivamente presa. Perché una cosa sono le previsioni su quel che accadrà domani, un’altra sono i fatti. Torna in mente la partizione del vecchio e intramontabile Machiavelli tra la realtà immaginata e quella effettuale, ossia la realtà concreta al di là delle parole, delle visioni e dei progetti di ognuno di noi. Al momento la realtà effettuale ci dice che niente è cambiato sul piano degli assetti di potere: comandano le élite economiche globali di orientamento neoliberista, punto e basta. Il resto è quasi esclusivamente letteratura più o meno apprezzabile. Eppure ogni cosa è in movimento. In termini filosofici verrebbe da dire che in questo momento il divenire è più che mai in relazione dialettica con l’essere: l’eterno confronto tra Eraclito e Platone, tanto per capirci. Conviene allora cercare di comprendere cosa si muove all’interno del potere economico dato che è questo potere a governare ogni cosa.
L’idea di un collegamento stabile tra Calabria e Sicilia è tornata ad alimentare le illusioni degli abitanti di quest’area strategica del Mezzogiorno. Quel cavallo di battaglia (quasi sempre elettorale), da qualche giorno grazie a Silvio Berlusconi, è tornato a stagliarsi tra Scilla e Cariddi. Ma non ha suscitato il benché minimo interesse nello schieramento di centrodestra e nemmeno in quella parte di opinione pubblica che in passato vedeva nel Ponte sullo Stretto l’occasione di sviluppo e, soprattutto, di riscatto del Sud del Paese.
Quell’antico sogno trasmessoci dai nostri avi sembrava definitivamente tramontato in applicazione di una certa ragion di stato – imposta in passato da un Governo e da un Parlamento della Repubblica – che non ha tenuto conto dei miliardi spesi per progettare l’opera e del grande e complesso lavoro della Società Stretto di Messina, iniziato dal senatore Nino Calarco e proseguita dal Dott. Pietro Ciucci. – L’idea dell’on. Berlusconi ci lascia in balia di una serie di flashback che riportano in auge ipocrisie, inganni, contrapposizioni tra il Nord europeo e un Mezzogiorno “africano”: tra cittadini di uno stato fondato sul lavoro e lo sviluppo e milioni di sudditi che da Eboli in giù sono costretti ad arrangiarsi.
Personalmente nessun dubbio sulla buonafede del Cavaliere. Anzi. Nei confronti del leader di Forza Italia da quasi 20 anni resiste quell’empatia nata il 30 marzo 2005 quando l’allora Presidente del Consiglio prese parte all’inaugurazione dall’Auditorium Nicola Calipari del Consiglio regionale della Calabria.
<<== On. Silvio Berlusconi
In quella circostanza, per incarico del mio editore avevo il compito di intervistare il capo del Governo. Non fu un’impresa facile – dovetti lottare contro il servizio d’ordine e l’insofferenza di politici schierati e di colleghi giornalisti che rivendicavano l’esclusiva- alla fine però realizzai la più bella “marchetta” giornalistica della mia lunga carriera di cronista.
Anni dopo, in un’altra intervista- fatta questa volta ad Arcore da un altro Latella (Giampaolo), il Cavaliere mi mandò in dono tre delle sue belle cravatte. Una resiste al tempo, messa in bella mostra nel settore del mio studio occupato dalla grande Enciclopedia Treccani. E’ rimasta l’ empatia per l’uomopolitico. Al momento la mia posizione sul Ponte è agnostica, ma se questa grande opera fosse inserita in un vero progetto di sviluppo del Mezzogiorno sono certo che Nord e Sud farebbero diventare l’Italia la vera locomotiva dell’Europa.
Ipotizzare un progetto di opere infrastrutturali con un razionale utilizzo delle risorse europee già concesse o che arriverebbero in futuro non è certo azzardato: una vera alta velocità ferroviaria tra Salerno e Reggio Calabria che, ovviamente, riguardi anche la Sicilia; l’ambiente, liberando i territori dai rifiuti e i fondali dei mari dalla plastica, da carcasse di auto; interventi sull’erosione delle coste, azioni sull’efficienza dei depuratori; utilizzo di energie da fonti rinnovabili. E, soprattutto, decisioni contro la corruzione, gli intrecci politica -malavita organizzata, illegalità diffusa.
A monte ci sono le riforme: sempre invocate e mai realizzate. La madre di tutte è quella relativa alla magistratura che la “Riforma Cartabia” in parte non è riuscita a completare, seguita dalla riforma della pubblica amministrazione e di quella burocratica in chiave di attrazione di investitori esteri. Ma non si possono dimenticare l’etica della politica, l’umanizzazione dei mercati, la ricerca di politiche per ridimensionare il capitalismo finanziario. – Il dubbio tormenta le coscienze di milioni di meridionali che si chiedono chi siano i responsabili della grande arretratezza di quest’area della Penisola nelle cui fondamenta troviamo secoli di civiltà e di cultura.
Responsabilità non sono sempre dello Stato, ma condivise tra i diversi livelli di governo: centrale, regionale, comunale. Come l’Unità d’Italia ha tradito l’idea Risorgimentale, anche la Repubblica, nata dalla lotta partigiana, non è riuscita a dare identiche chance a tutti gli abitanti della Penisola.
Da sempre il Ponte sullo Stretto di Messina è diventata una ricorrente occasione di lotta politica. Quando a sostenere la realizzazione sono le forze di governo, le opposizioni danno fuoco alle polveri del dissenso affidando le loro ragioni a leggende metropolitane e all’alibi della ‘ndrangheta. A ruoli invertiti c’è sempre una componente ideologica, ambientalista, di interessi economici (presenti ancora oggi anche in una o più forze governative) ad impedire di avviare una seria riflessione sull’utilità dell’opera. – Nei mesi scorsi, un contributo l’hanno fornito gli imprenditori siciliani e calabresi aderenti a Confindustria che, in un dossier, ne hanno spiegato gli effetti positivi sull’economia e l’occupazione dell’intero Mezzogiorno. Mentre l’attuale Governo e i partiti che ad oggi lo sostengono si limitano al politichese.
La presenza del ponte potrebbe diventare un volano di sviluppo di quest’area geografica del Mediterraneo. Milioni di persone sarebbero attratti dalle località turistiche siciliane e calabresi rispetto, se non a tutte, ad alcune tradizionali mete del turismo di massa. Il Ponte grande catalizzatore di investimenti internazionali e un importante snodo di traffici nel mare Nostrum. Il Ponte fa paura, ma non al Sud.
Forse anche per questo, quando stava per diventare realtà, è stato fatto “crollare” prima dell’inizio dei lavori. Una decisione politica, sostenuta da potenti lobbies che in questo Paese decidono cosa bisogna fare o cosa non fare. Senza farsi scrupoli sull’utilizzo di milioni di euro utilizzati per gli studi di fattibilità e per il progetto di massima. Uno spreco all’italiana di cui nessuno è stato chiamato a rispondere. Nessuno ha ritrovato il coraggio d’indignarsi e protestare seriamente.
Sulla mancata realizzazione del collegamento tra le due sponde dello Stretto è stato apposto il sigillo dell’atto politico che ha visto protagonisti sia il Parlamento (2011) sia il Governo Monti (2012), mentre la pietra tombale è stata posata il 15 aprile 2013 quando il Presidente del Consiglio dei Ministri dell’epoca, con un decreto, ha posto in liquidazione, con la nomina di un commissario, la società Stretto di Messina S.p.A. “Parce sepulto”. Anche questa decisione fa parte dei misteri dell’Italia Repubblicana: nessuna responsabilità e nessuno sarà chiamato a pagare. E come spesso accade quando a vincere sono le lobbies, i protagonisti di quella stagione sono stati messi da parte.
Il deficit infrastrutturale, in particolare, nel settore dei trasporti e delle reti telematiche, rappresenta un ostacolo alla crescita socio -economica di interi territori. Ecco perché gli industriali siculo -calabri sottolineavano che “la decisione di realizzare un attraversamento stabile nello Stretto di Messina è vitale per l’economia, strategica per gli investimenti pubblici e privati, che sono alla base della crescita economica e dell’occupazione”. Aggiungendo: “La dotazione infrastrutturale nel settore dei trasporti è la spina dorsale dello sviluppo, fondamentale per rimuovere i vincoli della crescita”.
NORD E SUD E LA DIVERSITA’ DEL TRASPORTO SU ROTAIA
Poco è cambiato dall’epoca della “Freccia del Sud”, della valigia di cartone, della fuga dei migliori cervelli. Oggi i nuovi convogli – che nel centro nord sfruttano le caratteristiche strutturali dell’A.V. – da Milano e Torino impiegano ancora troppe ore per raggiungere Reggio Calabria. Da Roma oltre sei ore. I treni ci sono, ma c’è anche l’inadeguatezza della linea ferrata. Intanto nel Pnrr non esiste traccia dell’Alta Velocità. Ma c’è di più: un’alta percentuale di viaggiatori che prendono posto sulle frecce Rosse o Bianche o su Italo da Sapri fino a Reggio soffre maledettamente il mal di treno. Immaginiamo una Ferrari costretta a percorrere una vecchia provinciale il cui tracciato risale al regno Borbonico. Eppure questa mendace novità viene spacciata come una grande conquista, una rivoluzione del trasporto pubblico, un grande regalo agli italiani del Mezzogiorno. Ipocrisia di un sistema fondato sugli inganni, sulla corruzione, sulle diseguaglianze e sulle promesse.
Al Mezzogiorno, solo piccoli interventi di maquillage, mentre le grandi opere di ingegneria sociale, propedeutiche allo sviluppo del territorio, in prevalenza, rimangono delle incompiute o, nel migliore dei casi, finite a metà (l’A3 docet!). La cantierizzazione rimane sulla carta, mentre, ed è storia recentissima, la decisione di far ripartire i lavori del tratto della SS 106 che porta in Puglia, diventa l’occasione per indossare il doppio petto, per comparsate televisive, post sui social e titoloni sui giornali.
Fumo negli occhi: un vecchio trucco per impedire la rivolta dei poveri. I quali, ammaliati dai populisti di turno, concedono il consenso elettorale a chi riesce meglio nell’arte di demonizzare gli avversari, a parlare alla pancia degli italiani. Non basta denunciare le ingiustizie, farsi paladini dei bisogni del cittadino pur sapendo che si tratta di propaganda, di populismo e, soprattutto, di disonestà intellettuale. Destra, sinistra, centro, movimenti, liste civiche: protagonisti della commedia degli inganni. E così cambiano gli schieramenti, ma il Mezzogiorno non cambia volto. E come dice il nostro amico Otello Profazio: “Qui si campa d’aria”.
Il Mezzogiorno oggi è interessato sia alla diminuzione delle nascite sia all’ emigrazione: fenomeni che entro due/tre decenni potrebbero dare vita a preoccupanti forme di desertificazione. In un recente passato lo Svimez ha certificato che il Sud è alle prese con una “Trappola Demografica”. Dal 2000 -riportano nel loro dossier gli imprenditori calabresi e siciliani- “hanno lasciato il Mezzogiorno oltre due milioni di residenti: la metà giovani fino ai 34 anni, quasi un quinto laureati. Il meridione rischia di spopolarsi e questo crollo demografico ha un costo, stimato a oltre un terzo del Pil. Parallelamente alla fuga dal Mezzogiorno cresce il gap occupazionale tra il Sud e il Centro – Nord, che nell’ultimo decennio è passato dal 19,6 al 21,6%. In totale il Sud si ritrova 3 milioni di posti di lavoro in meno rispetto al resto d’Italia. Analogamente – si legge ancora nel dossier – la qualità del lavoro peggiora da Roma in giù. Al Sud aumenta la precarietà che si riduce invece nel Centro -Nord, ma cresce il part-time (+ 1,2%), in particolare involontario, che nel meridione raggiunge l’80% rispetto al 58% del Centro -Nord”.
La mancanza di infrastrutture di base e la presenza della ‘ndrangheta, diciamocelo senza infingimenti, sono solo alcuni dei tanti alibi per mantenere lo status quo di un Paese a due velocità. Tutto ciò fa comodo alla politica dominante alla quale spetterebbe il dovere di eliminare gli ostacoli che impediscono lo sviluppo di determinate aree dall’atavica arretratezza. Eppure queste realtà geografiche, ricche di storia, di tradizioni e di incomparabile bellezza, già prima dell’Unità d’Italia furono destinate a rimanere un grande serbatoio di braccia, funzionali alla ricchezza delle regioni nordiche.
La convinzione che per ogni cantiere che si apra trarrebbe vantaggio solo la malavita organizzata (il che, in parte, è maledettamente vero, ma al “magna magna”, direttamente o in modo indiretto, partecipano tutti) è un atto di sfiducia, un’accusa nei confronti dello Stato: incapace di garantire legalità e giustizia, di difendere la libertà di impresa e di esercitare la forza per garantire la democrazia. Gli italiani del Mezzogiorno sono stanchi dell’immobilismo della “paura”: repertorio di quelle forze politiche e sociali che da un lato condannano e dall’altro magari fanno affari con l’antistato. I santuari della ‘ndrangheta, già prima della globalizzazione, sono stati trasferiti al Nord dove operano i colletti bianchi della finanza e dove vengono prese le grandi e inappellabili decisioni rispetto alle quali, la manovalanza delle “locali” deve solo obbedire.
A condannare il Sud contribuiscono anche gli stereotipi negativi, le narrazioni che le forze indigene non hanno la potenza, e forse neanche la volontà, di cancellare sostituendoli con nuovi paradigmi socio-culturali ed economici. I fenomeni sociali hanno un’origine e una fine. E non è certo utopia sperare in un’Italia libera dal condizionamento mafioso. L’origine del fenomeno è conosciuta, ma la fine non arriva per quel sottile confine tra politica e ‘ndrangheta, tra mafia e antimafia
Anche di fronte alla drammatica eredità lasciata dal coronavirus, il Paese si è ulteriormente diviso. Altro che unità. Dopo i morti per la pandemia e i gravissimi danni socio-economici prodotti dall’aggressione putiniana all’Ucraina stiamo assistendo al festival di “chi la spara più grossa”, con uno spezzatino di interventi tampone che stanno provocando proteste, delusioni in quasi tutti i segmenti della vita sociale ed economica.
Si fa a gara per polverizzare le risorse attualmente disponibili: strategia che, nella legislatura che volge al termine è stata, prima, il collante del precario equilibrio politico, poi il tradimento alla causa anche in nome della pregressa e consolidata fedeltà a madre Russia. Mandare a casa il governo Draghi potrebbe non migliore la grave condizione in cui versa il Paese. Eppure, l’Italia governata dall’ex presidente della BCE godeva di grande prestigio internazionale e, cosa ancora più rassicurante, dell’appoggio dell’UE.
Il primo a rischiare è il Sud che – giusto ricordarlo – necessita di grandi opere in grado di modernizzalo e renderlo competitivo nel contesto nazionale e internazionale. Le risorse del PNRR non vanno spese per le realizzazioni di altre cattedrali nel deserto, di opere campanilistiche che, soprattutto nel Mezzogiorno, rimangono delle ferite inguaribili. Ancora una volta si rischia una guerra tra poveri e le promesse non spengono i tanti focolai di malcontento che dal prossimo autunno, con il ritorno alla realtà, potrebbero diventare incendi devastanti. A quel punto il libro dei sogni, infarcito da promesse elettorali, potrebbe diventare un’altra occasione perduta.
Un discorso a parte, infine, merita la politica europea che continua a considerare la solidarietà un optional e non tiene conto degli effetti devastanti prodotti dalla pandemia, di quelli legati all’imperialismo putiniano e al disegno geopolitico della Cina di Xi Jinping.
Il teologo avventista Hanz Gutierrez ha pubblicato un libro intitolato “La riscoperta del “Noi”. Cronache di una pandemia”, (Claudiana, Torino, 2021, 118 pagg., 12,00 euro). Il testo si concentra sugli effetti emotivi, esistenziali e spirituali provocati dalla diffusione del Covid-19. Si tratta di un riflessione densa di sensibilità, sapere e fede articolata in nove cronache scritte a Firenze dal 7 marzo al 19 dicembre del 2020, ossia durante la prima ondata della pandemia.
Sette delle nove cronache sono precedute dalla presentazione di un libro che vede come protagonista una malattia epidemica: il colera (Garcia Marquez); la poliomielite (Philip Roth) e soprattutto la peste (Sofocle, Tucidide, Lucrezio, Boccaccio, Camus). L’ottava cronaca consiste in una lettura pastorale del Salmo 61 di Davide e la nona in una discussione sul ruolo della teologia nelle crisi che colpiscono il mondo.
Per Gutierrez la pandemia in corso fa riemergere una serie di parole che avevamo dimenticato. Le principali, commentate dall’autore: umiltà, lentezza, solidarietà, vulnerabilità. Altre parole, che il lettore trova o ricava dal testo, sono: paura, vita, bene, giustizia, sacro, immaginazione. Tutte queste parole convergono in una direzione: il Noi. In virtù di tale convergenza il Noi costituisce l’asse centrale attorno a cui ruotano le cronache di Gutierrez. Il quale, in una prospettiva temporale, introduce le nozioni di Noi diacronico e Noi sincronico.
Il Noi diacronico ci collega col passato e con la storia delle epidemie. Eventi che non rappresentano semplicemente una successione di drammi. Oggi come ieri gli esseri umani fanno i conti con la medesima condizione: il disorientamento collettivo provocato da un virus che non si sa bene come combattere. Tale disorientamento connette il passato col presente, il Noi diacronico col Noi sincronico.
Ovviamente nel nostro mondo la medicina è molto avanzata e siamo in grado di contrastare epidemie e pandemie in maniera di gran lunga più efficace rispetto ieri. Nonostante ciò i dilemmi morali restano gli stessi. E le uniche risposte le possiamo trovare in mezzo agli altri e con gli altri: nella comunità, nella fratellanza, nel coltivare il senso del Noi.
Recentemente la sociologia dei consumi si è arricchita di un importante contributo grazie a Domenico Secondulfo – ordinario di sociologia generale all’Università di Verona – che ha curato una ricerca intitolata, “Il mondo di seconda mano. Sociologia dell’usato e del riuso” (Angeli, Milano, 2016, 31,00 euro). Il libro contiene scritti dello stesso Secondulfo, di Paola Di Nicola, Gian Paolo Lazzer, Lorenzo Migliorati, Francesca Setiffi e Debora Viviani. La novità rappresentata da questo lavoro si può così sintetizzare: si tratta del primo studio sociologico sull’emergente mercato degli oggetti usati.
<<= Prof. Patrizio Paolinelli
Partiamo dai numeri: “Il volume d’affari generato in Italia dall’usato è stato nel 2013, 18 mld, 1% PIL, di cui 7 mld on line (come risulta da un’indagine Doxa commissionata da Subito.it); la Camera di commercio di Milano ha stimato, tra il 2009 e il 2014, un incremento regionale dei punti vendita di usato pari al 40%. Secondo il rapporto nazionale sul riutilizzo del 2013, pubblicato dal Centro di ricerca economica e sociale “Occhio al riciclone”, nel 2013 il 48% degli italiani ha fatto ricorso almeno una volta al mercato dell’usato, on o off line“. La consistente crescita della domanda di beni di seconda mano ha indotto l’Unione Europea a inserire il mercato dell’usato nel piano strategico (2014-2020) che prevede il passaggio da un’economia lineare (basata sulla produzione di scarti) a un’economia circolare (basata sul riuso e il riciclo).
Dinanzi a questi numeri e all’iniziativa dell’Unione Europea emerge in tutta la sua rilevanza un fenomeno dalle ragguardevoli proporzioni economiche fino ad oggi quasi del tutto trascurato dalla sociologia dei consumi. E il motivo di tale disinteresse è dovuto tra l’altro a una sorta di pregiudizio ancora oggi largamente diffuso: si intende per merce solo ciò che è nuovo, solo ciò che non è entrato in contatto col consumatore finale. A ben vedere si tratta di una credenza abbastanza fragile. Perché, per esempio, sarebbe molto complicato sostenere che un’automobile usata non sia una merce. Entra così in gioco il sistema dei valori che permea le società in cui la mistica del nuovo assume un ruolo centrale sotto il profilo simbolico.
Difatti sia per gran parte della sociologia sia per molti consumatori il mercato dell’usato assume i contorni della marginalità, della povertà e persino dello sporco. Come se un cappotto usato non godesse dello status di merce rientrando in un mercato informale, per non dire in un mercato degli esclusi. E per sostenere questo stigma nella nostra società il prodotto nuovo è idealmente considerato un valore in sé, mentre ciò che è vecchio è bollato come un disvalore. Ma come dimostrano i sociologi impegnati nella ricerca curata da Secondulfo le cose stanno cambiando anche sul piano simbolico. Ad esempio la sharing economy valorizza positivamente la condivisione di beni e servizi al di là del possesso personale mettendo così in discussione la mistica del nuovo. Entrano poi in gioco altri valori come la memoria depositata nelle cose tanto cara al consumo critico e che il mercato ufficiale delle merci tenta in qualche modo di recuperare attraverso l’effetto vintage su prodotti nuovi come nel caso dei jeans invecchiati artificialmente con strappi e toppe.
Lo studio del mondo dell’usato è inserito da Secondulfo e dagli altri autori che hanno partecipato alla ricerca all’interno della teoria della cultura materiale cercando di comprendere come i beni di seconda mano stanno gradualmente conoscendo un vero e proprio riscatto culturale caricandosi di nuovi significati. D’altra parte da precedenti studi Secondulfo e i suoi collaboratori avevano notato la tendenza delle famiglie italiane a non gettare le cose trasferendole a parenti o amici oppure cercando di ripararle. Successive ricerche hanno poi evidenziato che il fenomeno è in espansione fino a diventare un vero e proprio mercato parallelo. Oggi non è più l’usato nobile come l’antiquariato e il vintage ha occupare la scena nel mondo di seconda mano ma anche l’usato ordinario. Tant’è che molti punti vendita di tale usato stanno sempre più somigliando ai negozi che vendono merce nuova di zecca.
L’espansione del mercato dell’usato è
legata a due fattori: da un lato, la lunghissima crisi economica che impone
alle famiglie di riutilizzare il più possibile una vastissima gamma di prodotti;
dall’altro, la consapevolezza da parte di una massa crescente di consumatori
dei problemi ambientali causati dallo spreco a cui si è indotti dalla religione
dei consumi. Entrambi i fattori stanno permettendo al mondo di seconda mano di
uscire dallo stigma della povertà e dall’essere rappresentato come un mercato di
scarsa rilevanza. Non basta. C’è un’altra dimensione che contribuisce al
successo dei prodotti di seconda mano: quella estetica. A differenza
dell’oggetto nuovo, che la martellante pubblicità incita ad acquistare
soprattutto in base a un’estetica della seduzione, l’oggetto usato si fonda su
un’estetica del ricordo permettendo così al consumatore di uscire dal gregge di
chi segue la moda e di personalizzare il proprio modo di apparire agli occhi
degli altri.
“Il mondo di seconda mano” è un libro che sollecita molte riflessioni. Ne propongo brevemente una partendo da una domanda: stiamo uscendo dalla società dei consumi? In parte sembrerebbe sì. E l’espansione del mercato dell’usato parrebbe confermarlo. Allo stesso tempo risulta difficile immaginare che lo stile di vita fondato sul consumismo si estinguerà senza una violenta reazione da parte dei poteri economici. I quali, tanto per dirne una, non vivono i problemi ecologici causati dallo spreco e dall’usa e getta come un dramma. Ma, al contrario, come un’ulteriore occasione per realizzare profitti. Per farla breve, il capitalismo si fonda essenzialmente sulla distruzione. Che ci capiti di mezzo l’ambiente è per banche e grande industria del tutto secondario. Non a caso è stata inventata quella truffa ai danni dei consumatori qual è l’obsolescenza programmata. Naturalmente questa è una riflessione che nasce dalla mia personale interpretazione del libro curato da Secondulfo. Ma credo che ogni lettore troverà molti altri motivi per riflettere sul dominio della forma-merce che sta portando le nostre società a soffocare tra i rifiuti.
Prima di chiudere mi sia concesso di dire due parole sul prezzo del libro. 31 euro per un testo accademico stampato col contributo del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Studi di Verona (dunque senza rischi per l’editore) e destinato al mercato universitario (dunque senza rischi per gli autori) è davvero troppo. Sorvolando sulla presenza di diversi refusi “Il mondo di seconda mano” è tuttavia un libro che consiglio di leggere. Che fare allora? Semplice: compratelo usato.
Mala tempora currunt: nel 2020 è esplosa la pandemia da cui non siamo ancora usciti a causa delle continue varianti. Piaccia o meno, saremo costretti a convivere con questo tipo di problematica e attendere, giorno per giorno, le evoluzioni e le decisioni di chi governa le nazioni.
dott.ssa Emilia Urso Anfuso
Quando la tensione sembrava allentarsi…boom! Ecco arrivare il conflitto tra Russia e Ucraina. Addio bei discorsi sui decenni di pace assoluta sul territorio europeo. Non intendo in questo caso analizzare la bontà delle misure intraprese dai paesi membri dell’Alleanza Atlantica, tra sanzioni e forse qualche mancanza in termini di diplomazia, ma posso almeno valutare che la condizione economica e sociale, dalle nostre parti, non sta sicuramente mostrando il suo lato migliore.
Una sola cosa si può affermare senza patema di sbagliare: in tutto il mondo siamo messi male, anzi, malissimo. Le filiere produttive, a 360°, sono compromesse da questi due eventi di grandi proporzioni, pandemia e guerra, i rialzi dei costi delle materie prime si abbattono sulla quotidianità di milioni di nuclei familiari: è uno scenario da incubo e non si riesce a intravvedere la fine di tutto questo, non nel breve periodo.
Inflazione: mai così alta dal 1986
Tutto questo ha riportato un paese come l’Italia indietro di oltre 35 anni, esattamente al 1986, quando l’inflazione era davvero schizzata a livelli insostenibili. Si inizia ora a parlare di stagflazione, un termine che, quando è necessario applicarlo, mostra la terribile situazione che si sta vivendo: un aumento esagerato dei prezzi a cui non corrisponde una crescita dell’economia. Ci avviamo verso un processo di recessione di proporzioni importanti, manca una possibile analisi in prospettiva semplicemente perché è impossibile avviare un’analisi.
Alcuni potrebbero eccepire che nel corso della Storia si sono già vissuti periodi simili e che nazioni quali l’Italia ne sono uscite egregiamente. Sì, ma è troppo facile guardare al passato, metodo che oltretutto non consente di riflettere sul presente e sul futuro a breve termine. L’Italia è stata sicuramente una grande nazione, ma continuare a ritenere che questa immagine, portata avanti al pari di un vessillo, ci salverà dai morsi degli accadimenti è almeno infantile. E’ anche necessario riflettere sui cambiamenti sociali: dopo la Seconda Guerra Mondiale il popolo italiano è stato in grado di ricostruire una nazione, col sudore della fronte e con la capacità di lavorare insieme.
Oggi sembrano mancare gli elementi fondamentali affinché un simile miracolo possa essere replicato. Si osserva, semmai, tanto livore e poca voglia di rimettersi in gioco riconoscendosi come parte integrante della collettività. In tutto questo, personalmente penso che la pandemia e una errata narrazione della stessa da parte del governo e degli opinionisti televisivi, abbia contribuito a generare un maggior livello di individualismo, che è l’esatto opposto di ciò che serve per rigenerare un sistema paese.
Tanta tecnologia e poco progresso
E’ particolare osservare come, di pari passo a una grande accelerazione in ambito tecnologico, non stia corrispondendo un vero progresso. Almeno dalle nostre parti. Più si progredisce a livello tecnologico, digitale e scientifico, maggiore appare la distanza per raggiungere un livello di civilizzazione e modernizzazione di livello almeno accettabile.
Una sorta di imbarbarimento umano, evidentemente sviluppatosi a causa di una miscela composta di paura, insicurezza e opacità sulle sorti di ogni singolo individuo, sta distruggendo la possibilità di marciare oltre le criticità di questo periodo storico così pesante, contribuendo a rendere di difficile soluzione molti aspetti della nostra quotidianità, qualsiasi saranno le evoluzioni in termini di pandemia, conflitto, modifiche all’assetto politico e sociale.
Resilienza? No, grazie
In tutto questo, appare evidente un fatto: gli umani sono ormai rigorosamente gestiti da chi governa le nazioni. Non è certo una novità, ma si può affermare che si è compiuto l’ultimo metro di distanza che mancava per ottenere la gestione totale di ogni singola esistenza. Non è un male quando questa gestione è operata per il bene comune, ma chi può dire di fare solo del bene per la collettività? Ho molto da dire sul criterio di resilienza, che se è ammissibile in campo ingegneristico non può esserlo in campo psicologico.
Non voglio essere “resiliente” e quindi “far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici” se questi eventi, in alcuni casi, scaturiscono da misure governative inique. Un esempio tra i troppi: se la politica sperpera denari pubblici, se non li destina alle imprese affinché possano continuare a produrre e quindi a garantire i posti di lavoro, non si può chiedere ai lavoratori licenziati di essere “resilienti“.
Diverso è il
discorso degli esseri umani capaci, per carattere, ad affrontare i momenti
negativi della vita con forza, volontà e coraggio. Fare confusione sul
significato di questo termine è parte integrante di un sistema politico che sta
tendendo sempre più all’utilizzo di metodi che sento di poter
definire…bizzarri.
Non siate resilienti e nemmeno sterilmente ottimisti. Semmai, siate realisti.
Il consiglio che mi sento di dare a tutti è quello di restare lucidi, di non cedere di fronte al caos imperante e alle incognite che si presentano con una velocità accelerata rispetto a un tempo.
Osservare,
giorno dopo giorno, i fatti che accadono e restare saldamente ancorati a
terra può contribuire a generare quell’ombrello di protezione che va aperto
ogni qualvolta si presenta un temporale improvviso. Quando le soluzioni non
dipendono dalle nostre scelte e decisioni, l’unico metodo per non beccarsi un
fulmine in testa è quello di continuare a osservare il cielo e mettersi al
riparo se le nubi si gonfiano e sentiamo i tuoni in lontananza.
Sarà perché vivere nelle società postindustriali è un vero e proprio affanno che il tema della felicità è tornato di recente a interessare parecchi studiosi. Domenico De Masi è intervenuto sull’argomento con un tascabile intitolato, La felicità negata, (Einaudi, Torino, 2022, pp.137, 12,00 euro).
Per De Masi la ricerca della felicità dipende da come la nostra società affronta le sfide del progresso e della complessità. A queste sfide la nostra cultura ha dato due risposte diametralmente opposte: quella della Scuola di Francoforte e quella della Scuola di Vienna.
Prof. Domenico De Masi – sociologo =>
I francofortesi della prima generazione daranno vita a una critica radicale della sovrastruttura sociale. L’ideologia, la famiglia, l’estetica, l’informazione, la cultura di massa, la tecnologia, l’organizzazione dei consumi, i modelli dell’autorità e lo Stato vennero analizzati come mezzi per dominare gli individui all’interno di una società capitalistica fondata sulla mercificazione di ogni cosa. Come è noto la Scuola di Francoforte ispirerà i movimenti di contestazione giovanile degli anni ’60 e ’70 del Novecento, i quali ritennero la società borghese un pervasivo sistema di dominio e un impedimento alla ricerca della felicità. Pertanto andava costruita un’altra società. Una società più libera, più giusta, più umana.
La risposta della Scuola di Vienna ai francofortesi sarà altrettanto radicale, ma a completo favore della borghesia. Meglio ancora, dell’élite borghese. I suoi teorici si sbarazzarono degli economisti classici che ipotizzavano la felicità collettiva e fondarono il neoliberismo. Dottrina che più che alla felicità guarda all’accumulazione della ricchezza senza farsi alcuno scrupolo morale, considera il lavoro una merce e i sindacati un problema, ha travolto le istanze di emancipazione dei francofortesi e da lungo tempo presiede pressoché incontrastata sia le politiche economiche dei governi sia la globalizzazione dei mercati.
I neoliberisti hanno reso più felici i cittadini delle società avanzate e più in generale gli abitanti del pianeta? Nient’affatto. Le loro risposte alle sfide del progresso e della complessità hanno causato disuguaglianze sociali sempre più marcate, disoccupazione, precarietà, instabilità, violenza sulle persone e sull’ambiente. Hanno dunque fallito? No, e da questa negazione scaturisce la tesi di De Masi: il neoliberismo ha come obbiettivo l’infelicità. Dunque non lo si può accusare di aver fallito proprio perché nega la felicità.
È chiaro tuttavia che l’infelicità prodotta dal neoliberismo è ormai insostenibile. Occorre invertire la rotta e il banco di prova della felicità sarà il lavoro. È necessario trasformarlo partendo dalla netta riduzione della giornata lavorativa, la garanzia di un reddito universale e l’ozio creativo, ossia: “la soave capacità di coniugare lavoro per produrre ricchezza con lo studio per produrre conoscenza e con il gioco per produrre allegria.”
Piccolo è bello, vero e giusto. Sembra essere questo il messaggio lanciato dal filosofo Gianluca Galotta col suo libro: “Paesofia. Filosofia e viaggi nei piccoli paesi”, (La Scuola di Pitagora editrice, Napoli, 2021, 174 pagg., 15,00 euro).
<<== Prof. Patrizio Paolinelli
In quest’opera l’autore individua nei piccoli borghi i luoghi ideali per avviare un percorso interiore. Un percorso non turbato dall’eccitazione perenne a cui è sottoposto l’abitante della città. Galotta riprende così le suggestioni di Simmel sull’uomo metropolitano, obbligato a un atteggiamento distaccato e indifferente per resistere alla sovrastimolazione sensoriale imposta dalle grandi concentrazioni urbane.
Paesofia va oltre questa premessa. Seppur in forma divulgativa il libro si occupa del rapporto tra spazio, tempo e filosofia. Rapporto che Galotta affronta con la delicatezza di chi ha tra le mani oggetti preziosi e fragili quali sono i piccoli paesi. In parecchi dei quali la popolazione cala di anno in anno. Tanto che per contenere lo spopolamento le amministrazioni locali si spingono a offrire case a prezzi irrisori in modo da richiamare altri abitanti.
La lotta di quest’Italia per evitare di sparire riempie di tanto in tanto le cronache dei giornali, è oggetto di convegni e da ultimo di una letteratura di viaggio i cui autori sono attratti dalla quiete, dall’intimità, dall’armonia dei borghi. Luoghi decongestionati dall’eccesso di presenza umana, dal traffico automobilistico, dall’onnipresente pubblicità.
Se da un lato le grandi città offrono opportunità che sono impossibili per i piccoli centri, dall’altro, sottraggono agli individui la loro principale caratteristica: l’umanità. In altre parole, la grande città genera un mondo poco umano o, addirittura, disumano. Per Galotta il processo di riumanizzazione può avvenire proprio nei piccoli paesi: contesti ideali nei quali è possibile concentrarsi su sé stessi per ritrovarsi.
I piccoli paesi costituiscono dunque i luoghi privilegiati dello spirito. E, in quanto tali, luoghi dove è possibile esercitare il pensiero filosofico. Con una scrittura piena di tatto e sobrietà Galotta mette in relazione le teorie di una serie di filosofi (da Epicuro a Nietzsche, da Sant’Agostino a Rousseau e così via) con i piccoli paesi. Grazie al loro silenzio, alla natura che li circonda, ai ritmi di vita rallentati e alla qualità dei rapporti umani è nei borghi, più che altrove, che si può riflettere sulla vera essenza delle cose.
Lo smart working non rappresenta una discontinuità con le politiche di smantellamento delle tutele del lavoro messe in atto da trent’anni a questa parte dai governi dei più diversi colori politici. Al contrario, può condurre al loro definitivo compimento. È questa la tesi sostenuta da Savino Balzano in un libro dal titolo inequivocabile: “Contro lo smart working”, (Laterza, Bari-Roma, 2021, 104 pagg., 12,00 euro). Diciamo subito che l’autore non è affatto contrario allo smart working in quanto tale. Semplicemente si interroga sul suo utilizzo generalizzato guardando più ai fatti che alle parole e tenendo conto della guerra al lavoro condotta dal neoliberismo.
Nell’affrontare il tema Balzano avverte che lo smart working non rappresenta una novità perché era già stato introdotto, ben prima dello scoppio della pandemia, con la legge n. 81 del 2017 e denominato con l’espressione lavoro agile. In secondo luogo, lo smart working emergenziale, imposto per contenere la diffusione dei contagi, ha presentato diverse affinità con il telelavoro.
<<== Prof. Patrizio Paolinelli
Nell fase pandemica il lavoro agile si è configurato come una sorta di lavoro a domicilio mediato dalla tecnologia digitale. Tuttavia, proprio la sua diffusione ha fatto venire l’acquolina in bocca ai datori di lavoro (pubblici e privati) per i vantaggi che si sono immediatamente palesati. Innanzitutto, il risparmio su una serie di voci che impattano sul costo del lavoro: buoni pasto, straordinari e trasferte. A cui vanno aggiunti i risparmi sulle utenze per mancato utilizzo delle sedi: luce, acqua, gas, condizionamento e pulizie. Ma il vantaggio forse più importante è quello che i datori di lavoro otterranno in prospettiva: destrutturare ulteriormente la comunità del lavoro separando e isolando i dipendenti.
I quali, operando da casa, hanno minori opportunità di aggregazione. D’altra parte, la comunità del lavoro si crea con la compresenza fisica, con la condivisione di spazi comuni, con lo scambio de visu di idee e opinioni, con l’istituzione di gruppi formali e informali, con la partecipazione alla vita aziendale e a quella sindacale. L’eventuale istituzionalizzazione dello smart working di massa fa deflagrare questo modello di socializzazione. E quello on-line non è che un surrogato come la pandemia ha dimostrato.
La disgregazione della comunità del lavoro è l’aspetto che maggiormente preoccupa Balzano. Si tratta di un processo implacabilmente perseguito dalle classi dominanti dalla fine degli anni ’80 a oggi. Dal pacchetto Treu al Jobs Act, pezzo dopo pezzo è stato smontato il sistema di tutele del lavoro fondato sul dettato costituzionale. Il suo posto è stato progressivamente occupato da una pletora di contratti a tempo determinato e da una flessibilità sempre più spinta. A ogni controriforma del lavoro politici e giornalisti hanno fatto a gara nel sostenere che c’era un prezzo da pagare per uscire dalla crisi, rivitalizzare il mercato, attrarre investimenti stranieri, favorire l’occupazione. Per i lavoratori il risultato è stato una perdita netta: meno diritti, meno occupazione, maggiore precarietà, maggiore incertezza.
Tale risultato ha sfibrato i legami che tenevano unita la comunità del lavoro e per di più ha messo i lavoratori gli uni contro gli altri: coloro che sono senza diritti (stagisti, precari, lavoratori in nero, finte partite IVA) si scagliano contro coloro che ancora qualche diritto lo conservano in una corsa al ribasso che fa gli interessi dell’impresa. La guerra tra poveri è poi alimentata da continue campagne stampa finalizzate a mettere i figli disoccupati contro i genitori occupati, gli impiegati pubblici contro quelli privati, i lavoratori contro i pensionati. Più di recente invece è partita la campagna “Dimenticate il posto fisso” i cui testimonial sono in genere giornalisti, docenti universitari, esperti, politici. Nella maggior parte dei casi si tratta di personaggi che hanno il posto fisso o solide posizioni economiche.
È su questo sfondo, descritto con rapidi ed efficaci tratti da Balzano, che si colloca l’attuale narrazione sulle magnifiche sorti e progressive dello smart working. Uno dei passaggi più seducenti di questa narrazione recita così: “Puoi lavorare dove vuoi e quando vuoi, l’importante è il risultato.” Alla fiaba Balzano contrappone la realtà. E la realtà dimostra che l’immagine del lavoratore in spiaggia sotto l’ombrellone a sbrigare pratiche d’ufficio col suo portatile va considerata una finzione pubblicitaria. E così come la finzione pubblicitaria ha come obiettivo il portafogli del consumatore e non la sua felicità, allo stesso modo l’esaltazione dello smart working di massa ha come obiettivo l’azzeramento del concetto di orario di lavoro e non un incremento del tempo libero.
È già così nelle multinazionali che con lo smart working e i dispositivi tecnologici vampirizzano la vita dei propri dipendenti. Si dirà: ma il contratto stabilirà il diritto alla disconnessione. Sì, sulla carta. Nella realtà non è e non sarà così. Facciamo un esempio. La pubblica amministrazione si accinge a reclutare alcune centinaia di migliaia di giovani con un contratto triennale. Se il capoufficio ti telefona quando in teoria non dovresti essere reperibile che fai? Non rispondi?
Con lo smart working di massa lo spazio-tempo all’interno del quale fino a ieri si strutturava la vita in fabbrica e in ufficio subisce una trasformazione che non migliora la condizione dei lavoratori. Già durante la pandemia abbiamo visto che stando a casa si lavora di più e si guadagna di meno. Ma a parte questo aspetto, Balzano fa notare quanto l’assenza di una sede di lavoro recida il valore più importante per la rivendicazione dei diritti: la solidarietà. Se non c’è solidarietà non c’è comunità. Se non c’è comunità non c’è protesta. Se non c’è protesta non c’è difesa dei diritti. Ecco perché potere economico, potere politico e potere mediatico hanno tutto l’interesse a spingere verso la massima estensione dello smart working. L’obiettivo è un mercato del lavoro trasformato in una sorta di far west dove vige la legge del più forte, ossia della proprietà. Più o meno il modello statunitense.
Con lo smart working il metro di misura per valutare la capacità del dipendente è spostato dal tempo di lavoro al raggiungimento dell’obiettivo. Dinamica che ha come conseguenza necessaria l’implementazione di meccanismi di rilevazione quantitativa della prestazione esattamente come accade oggi col lavoro gestito dalle piattaforme digitali. Si tratta di un altro passo in avanti per separare la retribuzione dall’orario di lavoro. Il rischio è che poi si arrivi a generalizzare il cottimo: più lavori, più guadagni. Uno scenario di questo tipo favorisce la concorrenza spietata tra lavoratori e un aumento a dismisura dello stress da lavoro correlato. Se si aggiunge che lo smart working comporta una maggiore sorveglianza da parte della proprietà, la deresponsabilizzazione dell’impresa in materia di sicurezza e praticamente l’impossibilità di scioperare risulta chiaro quante incognite presenti lo smart working. Il merito del piccolo e prezioso libro di Balzano è quello di opporre alla narrazione dominante una riflessione critica di cui oggi si è persa l’abitudine.