Il 7 novembre nelle sale è uscito il film “Il ragazzo dai pantaloni rosa” un film “necessario” come definisce anche l’attore protagonista Samuele Carrino, necessario perché ci sono storie, come questa, che devono essere raccontate, per far sì che determinate vicende non si ripetano mai più. Un film che per fortuna ha fatto molto rumore, proprio per quello che si cela dietro, ovvero la storia realmente accaduta di un ragazzo di nome Andrea Spezzacatena che purtroppo non c’è più. Questa pellicola ha avuto e sta continuando ad avere un enorme successo, non solo nelle sale ma anche a livello mediatico, tutti ne parlano, tutti lo commentano, tutti mostrano la vicinanza a questa storia e alla famiglia del ragazzo, molti si sono rivisti nelle dinamiche che viveva il protagonista, molti sono stati sensibilizzati, molti hanno trovato il coraggio di aprirsi dopo la visione del film. Ringraziamo, innanzitutto , la mamma di Andrea, per essersi aperta con il mondo, raccontando il dramma di cui è stata vittima lei e tutta la sua famiglia.
Questo film racconta la storia di Andrea, un ragazzo di 15 anni che si è tolto la vita a causa dei comportamenti umilianti, denigratori e violenti che alcuni bulli mettevano in atto nei suoi confronti, portandolo all’esasperazione. Questa vicenda risale al 2012, anno in cui Andrea purtroppo ci ha lasciati. Era un ragazzo brillante, aveva ottimi voti a scuola, seguiva con molta ambizione le sue passioni, era un bravo fratello maggiore e un bravo figlio. L’opera cinematografica racconta che Andrea iniziò ad essere vittima di bullismo quando un giorno si presentò a scuola con dei pantaloni rosa, per i bulli troppo “femminili” per essere indossati da un ragazzo, da quel momento Andrea subì bullismo, attacchi e insulti omofobi. Sarebbe però troppo superficiale credere che un gruppo di ragazzi se la prese con Andrea solo per dei pantaloni rosa, c’è dell’altro non credete? Lo presero di mira proprio perché volevano spegnere quella luce che tutti vedevano in lui o forse ancora, per invidia delle sue innumerevoli capacità, per la persona per bene che era, quello che non riuscivano ad essere loro. L’adolescenza è un periodo transitorio, di crescita e di scoperta di sè, i bulli invece avevano già stigmatizzato ed etichettato Andrea con degli epiteti offensivi e discriminatori. Il protagonista del film, a proposito di questa fase della vita, dice: “Si pensa che solo i poeti soffrano, ma si dimenticano di quanto sia difficile essere adolescenti”; in questa riga si nasconde tutta la fatica che i ragazzi fanno in quel periodo, si perché a quell’età, la più piccola delusione, che sia d’amore, scolastica o d’amicizia può sembrare una catastrofe, poiché essendo ancora inesperti non hanno gli strumenti interiori per affrontare e gestire alcune dinamiche . E’ l’età in cui si sperimentano le prime esperienze ma anche i primi rifiuti, i primi fallimenti, le prime sconfitte e noi adulti, genitori, insegnanti, psicologi, medici, esperti, dobbiamo fornire loro gli strumenti per essere in grado di gestire la perdita, la delusione, le angosce, facendogli capire che la vita è anche questa, non si scappa dai dolori. La sociologia, che si occupa dei fatti sociali considerati nelle loro caratteristiche costanti e nei loro processi, del rapporto tra il singolo e la società che lo circonda, può rivelarci molto riguardo le motivazioni che insorgono in alcuni soggetti per arrivare a compiere un atto così estremo. Gli anni dell’adolescenza, gli ultimi vissuti da Andrea Spezzacatena, come dicevamo, sono anni in cui la persona esplora il mondo che lo circonda, i ragazzi iniziano ad uscire dalla bolla di protezione che i genitori hanno costruito per anni nei confronti dei figli e si trovano a dover fare i conti con il gruppo dei pari, che come ci insegna la sociologia, può influenzare molto la persona e i percorsi che deciderà di intraprendere. In questa fase di vita, non si ha piena coscienza di sé, né la forza e la consapevolezza che ha sviluppato nel tempo un adulto, proprio per questo, Andrea, essendo un ragazzino molto sensibile, empatico, buono, fu portato sul fondo da tutto ciò che stava subendo e purtroppo decise di lasciarci. Un famosissimo sociologo, Émile Durkheim si è espresso sui meccanismi che spingono gli individui al suicidio, egli pensa sia determinato dal tipo di società in cui esso si verifica, perché è la società a produrre atteggiamenti e costruzioni mentali individuali. Come dargli torto, in molti casi il suicidio è una scelta estrema che deriva dal non sentirsi accettati e dal non sentirsi amati dagli altri. Come vedete tutti fattori riconducibili “agli altri” a come ci fanno sentire gli altri, perché forse ci guardiamo non con i nostri occhi ma con gli occhi degli altri. L’approvazione del prossimo sta diventando più importante del nostro pensiero, tendiamo a cambiare per gli altri, a sforzarci di piacere a tutti i costi, per svariati motivi: lo facciamo per sentirci parte di un gruppo, o perché crediamo che cambiando aspetto o lati del carattere risulteremo più attraenti agli occhi degli altri, o ancora per venire notati, per non sentirci invisibili. Compiamo tutte queste azioni, non per stare in pace con noi stessi, con il nostro IO interiore ma per stare in pace con il prossimo, nulla di più disfunzionale, perché gli altri devono accettarci malgrado ciò che siamo e non volendoci diversi. Alla base di tutti questi comportamenti disfunzionali c’è una bassa autostima e una non accettazione di sé, altrimenti, se così non fosse, non ci impegneremo così tanto ad impressionare gli altri, non spenderemo così tante energie per cercare amore , approvazione, consenso da chi ci circonda. Perciò è importante parlare di quello che ci attanaglia per risolvere le problematiche personali, parlando ci focalizzeremo sul problema, lo scardineremo punto per punto e potremmo arrivare a trovare le giuste soluzioni, potremmo capire da dove nascono insicurezze che ci portiamo dietro, le paure che ci limitano, per arrivare alla consapevolezza che il nostro valore non nasce in relazione a nessun altro, ma deriva solo da noi stessi, nessuno ci darà più valore o ce lo toglierà, è la percezione che abbiamo di noi stessi la cosa più importante. Dipende solo da noi vederci come esseri unici ed irripetibili, perché è questo che siamo. Le nostre stranezze, i nostri difetti, le nostre peculiarità sono i nostri tratti caratteristici, sono la nostra luce.
TASSI DI SUICIDIO ALLARMANTI TRA I GIOVANI. COME PREVENIRE UNA TRAGEDIA?
Mai come negli ultimi anni abbiamo assistito a tassi di suicidio così allarmanti e purtroppo l’età in cui questi ultimi si manifestano, scende sempre più, si parla di ragazzi tra i 13 e i 36 anni. All’interno dei paesi dell’Unione Europea tra i giovani di età compresa fra i 15 e i 19 anni, il suicidio è la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali. I dati del Telefono Amico e di numerose ricerche che sono state condotte su questa tematica, ci riportano che 1 adolescente su 7, di età compresa fra i 10 e i 19 anni soffre di problemi legati alla salute mentale e secondo i dati di un sondaggio il 50% si sente triste, preoccupato, angosciato, ansioso. In Italia nel 2023 sono state oltre 7.000 le persone (+24% rispetto al 2022) che si sono rivolte a Telefono Amico per farsi aiutare a gestire un pensiero suicida, proprio, di un familiare o un conoscente. Più che dell’atto in sé, porre importanza sulle motivazioni che portano i ragazzi a lasciarsi travolgere da questi pensieri estremi, perché solo capendone le motivazioni più intime e profonde, potremmo riuscire a prevenire tempestivamente questo fenomeno.
La domanda quindi è, perché nei giovani iniziano a farsi strada questi pensieri? C’è una frustrazione e insoddisfazione generale, delle proprie vite, dei rapporti che instauriamo che non sono come quelli che vorremmo, l’incertezza sul futuro che crea ansia, angoscia…tutto questo aggiunto ai giudizi/pregiudizi degli altri, le parole sbagliate pronunciate al momento sbagliato, il basso valore che ci attribuiamo, sono una combinazione letale, che spinge le persone a pensare che non esistere più in questo mondo sia l’unico modo per trovare la pace. In genere si stima che il rischio di suicidio diminuisca se lo stato emotivo migliora, ma il dato curioso, a riprova della complessità del fenomeno, è che i più alti tassi di suicidio si verificano entro circa tre mesi da un apparente miglioramento post-depressione, è importante perciò prestare attenzione al prossimo, andare oltre ciò che mostra in superficie. Se qualcuno di voi o qualcuno che conoscete ha determinati pensieri per la testa, parlatene, con chi volete, ma parlatene, con un esperto se potete, questi ultimi esistono proprio per dare ascolto e soluzioni laddove noi da soli non riusciamo ad arrivare. Il giorno scelto per parlare di questa tematica è il 10 Settembre, a livello mondiale dal 2003 ricorre la Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio, un modo per sensibilizzare l’opinione pubblica alla prevenzione sul suicidio e alla tutela della salute mentale, ma non basta un giorno. L’obiettivo del World Suicide Prevention Day e delle compagnie di prevenzione, locali e globali, è quello di ridurre il più possibile il numero di vittime per anno, cercando di individuare i fattori che possono indurre le persone a decidere di porre fine alla propria vita e adottando le giuste contromisure. I campanelli d’allarme possono essere molteplici, frasi come “Non ce la faccio più” o “Vorrei morire”, cambiamenti improvvisi nel sonno, nell’appetito, isolamento sociale, o gesti simbolici come la donazione di oggetti personali, sono indicatori che non dovrebbero mai essere sottovalutati. Inoltre offrire un ascolto empatico e privo di giudizi è il primo passo verso un supporto concreto. Rompere il silenzio su questo argomento delicato può contribuire a salvare vite. Ascoltatevi e ascoltate, non siete mai soli, c’è qualcuno nel mondo che sta attraversando il vostro stesso malessere e si sente esattamente allo stesso modo, vogliatevi bene, aiutatevi e fatevi aiutare. Ai bulli e non solo, invece, dico: “Smettetela e cercate di fare tutto il bene che potete, con tutti i mezzi che potete, in tutti i modi che potete, in tutti i luoghi che potete, tutte le volte che potete, finché potrete”. (John Wesley)
Dott.ssa Sofia Pulizzi, sociologa, criminologa e docente di Scuola Primaria
I sentimenti sono emozioni antiche come il mondo eppure le loro dinamiche non smettono mai di sorprenderci. I sentimenti sono mutati insieme a noi e nel corso degli anni, hanno attraversato diverse ere… oggi parleremo della nostra, di quella in cui stiamo vivendo. Sociologi e psicologi non smettono di indagare, approfondire e scrivere riguardo questo tema, perché il nostro cervello, quando si tratta d’amore, è davvero incredibile. Cristina Obber, giornalista e attivista, concludeva un suo saggio in questo modo “Mancano rassicurazioni in ogni ambito e la conseguenza è che stiamo razionalizzando l’amore, che invece è una dimensione di rischio, nella sua inquietudine trova la sua spinta e in questa, il nostro corpo, vive.”
Come ben sappiamo, viviamo nell’era del digitale, dove l’importante non è essere felici ma fare bella figura, regna una sovraesposizione non solo dei soggetti famosi, dei volti noti della tv, ma anche di gente comune, che, o per imitare qualcun altro o semplicemente perché sono figli della loro epoca, espongono ogni ambito della loro vita sui social network. Tendiamo a mostrare il bello, tendiamo a manifestarci invidiabili per la vita che facciamo, per quello che possediamo, perché in fondo cos’è quello a cui aspirano tutti? Essere NOTATI, ESSERE VISTI, far sapere che esistiamo a questo mondo e che la gente si ricordi di noi, questo ci importa, ma ancor di più: essere amati. Per tale motivo non facciamo altro che mostrarci sui social nella speranza che qualcuno rimanga colpito dai nostri contenuti, dal nostro stile di vita o semplicemente dal nostro aspetto e ci faccia entrare nella sua vita, ci faccia sentire apprezzati. Si fa presto a capire però che tutto questo ci fa rimanere ad un livello superficiale delle relazioni umane, perché una persona non può esistere solo tramite i contenuti che pubblica, non è la macchina che sfoggia sui social né tantomeno l’aperitivo che fotografa con la sua cerchia di amici. Conoscere e amare qualcuno significa apprendere il suo funzionamento, capire come funzioniamo a livello mentale, caratteriale, sapere in anticipo come reagiremo, sapere cosa ci piace e cosa ci infastidisce, sapere i traumi che abbiamo vissuto, questo significa conoscere qualcuno e per farlo c’è bisogno di tempo, empatia, cose incompatibili con il rapido mondo social, per questo non possiamo avere la pretesa di conoscere qualcuno solo da quello che decide di mostrare sulle sue piattaforme personali. Instagram, Facebook, TikTok, ci hanno tutti un po’ abituati al bello, a mostrare bellissime vacanze, cene in posti lussuosi, oggetti costosi, immagini di coppie felici, ma è davvero così? Tutto questo ci sta un po’ anestetizzando e ci sta facendo perdere di vista un po’ la realtà; la realtà è che la vita è fatta di luci sì, ma anche di ombre e quando arriveranno le ombre, sapremo gestirle? I social ce l’hanno insegnato questo?
AMARE VUOL DIRE STARE SEMPRE BENE?
Amare non è non provare e non provocare emozioni negative nell’altro, anzi questo significa avere rapporti completi, questo scrive Stefania Andreoli nel suo libro “Vivere le relazioni nell’era del narcisismo” e non potrebbe trovarmi più d’accordo. A volte è anche necessario ferire gli animi di chi amiamo pur di essere onesti con loro, è necessario non dirgli solamente ciò che vogliono sentirsi dire, è necessario essere duri con loro per far scaturire un cambiamento o miglioramento. L’amore non è una sala operatoria asettica e protetta da contaminazioni esterne: è tutto il contrario, noi esseri viventi siamo portatori dei nostri virus, di batteri emotivi che sporcano e corrodono i nostri sentimenti. Siamo formati da retaggi culturali, trasmessi dalla famiglia d’origine che ci risuonano nella testa, facendoci auto convincere del fatto che amare significhi stare sempre e solo bene, dentro relazioni impeccabili con partner che non sbagliano mai. Ci inculcano che devono essere bandite le emozioni scomode, in questo modo si trasferiscono messaggi fuorvianti, poco realistici e poco funzionali perché quando poi queste generazioni incontreranno dei problemi in coppia e non solo, non sapranno come gestirli. Il rifugiarsi nella negazione delle difficoltà, nell’annullamento delle domande, auto convincersi che le cose vadano bene, sono “soluzioni” contro la paura. Paura della verità, del dolore, del sentirci addosso sensazioni negative, paura della morte, del fallimento, del nonsenso, della solitudine, del confronto, paura di non capire e non essere capiti, paura dei nostri istinti, paura di noi stessi e paura degli altri.
EVITARE IL RISCHIO SIGNIFICA EVITARE I SENTIMENTI.
Sembra proprio che noi stessi siamo i primi a sabotarci, una forma di sabotaggio è il fatto di non chiederci nulla, proprio perché ormai abbiamo tutto pronto, con la nostra amica tecnologia a portata di mano. Non ci chiediamo niente perché la paura di pensare ci uccide, siamo i primi a ignorarci o ignorare i segnali che ci manda il nostro corpo, mente e cuore. Non domandare nulla a noi stessi implica non darci la possibilità di scoprire cosa si cela dentro di noi, impedisce di fare pensieri critici e di scoprirci. E’ tutto un “non lo so, non ne sono sicuro/a” nessuno si da più una spiegazione per come agisce, oppure ci si è dati una spiegazione tempo fa e ce la siamo fatti bastare per il corso degli anni, ma questa spiegazione non l’abbiamo più portata a fare una revisione, preferiamo non pensare per non scombussolarci troppo, perché non abbiamo coraggio. Non vogliamo ricevere domande che ci riguardano perché siamo gli unici competenti in materia di noi stessi e questo ci mette timore, abbiamo paura dell’elettricità, delle scintille, di un contatto reale a un livello ben più profondo, ben più sotto la pelle: nervi a nervi, nudi e scoperti. Ci concentriamo più su conversazioni di circostanza, sul descrivere cosa abbiamo fatto durante la giornata, raccontarci i nostri hobby e cosa cucineremo per cena, parliamo dei nostri impegni, magari ci diciamo anche parole dolci per abitudine ma ci ascoltiamo mai dentro veramente? E non parlo del nostro umore, parlo di qualcosa di più profondo, delle insicurezze che ci accompagnano, delle paure che ci turbano e di cosa non ci fa essere sereni al cento per cento, della nostra storia di vita che ci ha resi così come siamo. Abusiamo dei telefonini, delle uscite serali, ci cimentiamo in innumerevoli attività pur di non stare a casa fermi a pensare, ci fate caso? Ma se è vero che, con tutti questi espedienti cerchiamo di annientare il dolore, ci siamo ammalati della paura di sentire qualunque cosa. Come credete sia possibile incontrare l’amore vero, a queste condizioni?
LA SOCIOLOGIA DELLE EMOZIONI.
La sociologia delle emozioni ci dice che per stare al passo con i ritmi imposti dall’esperienza moderna, gli individui agiscono principalmente attraverso l’intelletto, amano con il cervello, non con il cuore, per proteggere la propria sentimentalità dall’accelerazione e dal mutamento continuo. Il prezzo che si paga però è alto, l’amore viene “calcolato” non “sentito” le relazioni risultano private del loro ingrediente fondamentale: l’emotività, perché distacco e indifferenza diventano le emozioni prevalenti. Vogliamo proteggere il nostro “sentire affettivo” e questo sembra imporre una manifestazione costruita e artificiale di sentimenti o stati emozionali che spesso non sono quelli autentici provati dal soggetto. Perciò viviamo tra il desiderio di fonderci con qualcuno per i sentimenti forti che sentiamo ma, per via dell’ansia di non perdere la propria individualità, finiamo per attaccarci a qualcuno che sia “tiepido” né gela, né brucia o addirittura finiamo per non attaccarci a nessuno. Le persone forti, i sentimenti forti ci fanno paura, preferiamo evitarli piuttosto che viverli. Ma che vita sarebbe senza? So che terrorizza, che può far male, che non ne siamo capaci, ma più di tutto che non ne possiamo fare a meno. L’amore è, tra le tante cose, anche caos perché le persone sono un caos. Siamo solo persone che per rimanere umane devono commettere il gesto eroico di rischiare di amare qualcuno, quando spesso vorrebbero solo essere lasciate in pace per evitare lo scoppio della guerra, perciò a volte la cosa giusta ci sembra sbagliata e la cosa sbagliata ci sembra quella più giusta, ma privarci di sentire che spreco! Privarci di sentire cose forti, nel bene e nel male, non equivale a vivere; al contrario, chi vive di questo, chi vive d’amore, VIVE, non appassisce.
Nell’ambito lavorativo, la parola mobbing assume il significato di pratica persecutoria più in generale di violenza psicologica perpetrata dal datore di lavoro o da colleghi (mobber) nei confronti di un lavoratore (mobbizzato) mettendolo in difficoltà in ambito lavorativo, sociale e familiare.
Il termine mobbing deriva dall’inglese mob, il mobbing è definibile come un insieme di comportamenti aggressivi di natura fisica, psicologica, emotiva e verbale esercitati nei confronti di uno o più lavoratori, un comportamento considerato come una vera e propria forma di abuso.
Secondo la definizione di uno considerato tra i massimi esperti e studiosi del fenomeno, Heinz Leymann (17 luglio 1932 – 26 gennaio 1999) accademico svedese, il mobbing viene indicato come una forma di terrorismo psicologico che implica un atteggiamento ostile e non etico posto in essere in forma sistematica da una o più persone nei confronti di un solo individuo, il quale a causa per l’appunto del mobbing, viene a trovarsi in una condizione indifesa e fatto oggetto di una serie di iniziative vessatorie e persecutorie. Le conseguenze sul lavoratore colpito possono essere profonde e durature, si va dal disagio e dall’insicurezza iniziali a disturbi psicosomatici, emozionali e comportamentali più gravi.
La vittima può soffrire di sintomi quali:
cefalea;
tachicardia;
problemi gastrici;
ansia e stress;
irritabilità e aggressività.
Nei casi più seri, il mobbing può sfociare in disturbi depressivi con uso di farmaci.
Gli elementi identificativi del mobbing possono essere:
la presenza di almeno due soggetti, il mobber (parte attiva) ed il mobbizzato (parte passiva), che entrano in contrasto tra di loro;
l’attività vessatoria continua e duratura;
lo scopo di isolare la vittima sul posto di lavoro e impedirle di esercitare un ruolo attivo sul lavoro.
Dall’analisi del fenomeno sono state individuate principalmente due tipologie:
il mobbing di tipo verticale che è quello messo in atto da parte dei datori di lavoro verso i dipendenti, per questo è stato coniato il termine di Bossing;
il mobbing di tipo orizzontale che viene invece praticato dai colleghi di lavoro verso uno di loro per varie ragioni.
Un altro fenomeno che si verifica negli ambienti lavorativi è lo “straining” cioè una specifica condotta vessatoria sul luogo di lavoro. A differenza del mobbing, noto come una serie continua di comportamenti ostili, tutti rivolti ad emarginare e allontanare il dipendente, lo straining può riguardare un atto isolato che causa stress significativo a chi lo subisce, con effetti negativi che persistono nel tempo. Lo straining rappresenta quindi una forma attenuata di mobbing, mentre il mobbing implica vessazioni continue, lo straining può manifestarsi anche in assenza di tali continuità, ma è sempre legato alla violazione dell’articolo 2087 Cod. Civ. che impone al datore di lavoro di tutelare la salute psicofisica dei dipendenti. Nelle aziende e nelle amministrazioni pubbliche per sensibilizzare il personale si potrebbero organizzare dei Focus Groups specifici di approfondimento sulle dinamiche dei conflitti, sulla cooperazione, sulla gestione della diversità e dell’integrazione. In questa attività il professionista assume il ruolo di facilitatore, stimolando la discussione, il confronto, nonché il cambiamento di atteggiamenti e di comportamenti potenzialmente ostili. Per evitare situazioni di mobbing e straninig il datore di lavoro potrebbe inoltre introdurre strumenti preventivi, come la stipula di accordi basandosi su codici di condotta condivisi, corretta informazione sui fenomeni, ossia informare i lavoratori facendo prendere coscienza dei danni che il mobbing e lo straining possono provocare, in modo da non creare le condizioni affinché possano avvenire.
Questo articolo vuole dare un’indicazione generale dei potenziali disagi che il mobbing e lo straining possono creare nei lavoratori, questo a discapito dell’ambiente lavorativo e successivamente di quello sociale e familiare. E’ fondamentale informare sul rispetto dell’essere umano, la cui tutela non deve essere affidata solo alle istituzioni ma anche al nostro senso di responsabilità sociale e familiare, facendo attenzione alle dinamiche relazionali che si vengono a creare nel proprio ambiente lavorativo, cercando sempre di migliorarle nell’ottica di avere un buon rapporto con i colleghi.
Scopo di questo articolo è quello di fornire i lineamenti del mio studio: “Elevare il riconoscimento e il prestigio di un’associazione locale: un approccio sociologico”1, inerente a una strategia innovativa ideata da una piccola associazione locale per aumentare il proprio riconoscimento e prestigio a livello nazionale. Nonostante la mancanza di risorse finanziarie, l’associazione sfrutta l’abbondanza di tempo volontario disponibile, implementando un programma di premi locali e creando una rete virtuale, attraverso un’opportuna azione di networking. Questo studio esamina come un approccio ben strutturato possa amplificare il valore percepito di un’organizzazione in un contesto sociale competitivo.
Contesto.
Lo studio sociologico analizza la strategia di un’associazione locale, priva di risorse finanziarie ma ricca di capitale umano volontario, per elevare il proprio riconoscimento e prestigio su scala nazionale. L’associazione, collocata a un livello medio-basso nella stratificazione sociale, si basa quasi esclusivamente sul contributo volontario dei propri membri. Utilizzando un sistema di premi rivolto a soggetti esterni su un ampio raggio territoriale e la creazione di una rete prevalentemente virtuale, l’associazione mira a migliorare il proprio livello di considerazione sociale. L’analisi è condotta in linea con le teorie di Max Weber, Talcott Parsons, Pierpaolo Donati e Pierre Bourdieu. La ricerca esamina come il conferimento di riconoscimenti esterni e la costruzione di un network possano aumentare l’autorevolezza dell’associazione e facilitare collaborazioni più ambiziose.
Dalla Concezione al Metodo.
L’associazione locale trattata rappresenta un esempio concreto di come una strategia ben articolata possa trasformare le limitazioni in opportunità. Sebbene l’associazione non disponga di risorse finanziarie, il suo capitale umano volontario costituisce una risorsa fondamentale per la realizzazione delle sue ambizioni. In un contesto sociale in cui la stratificazione è evidente e il riconoscimento spesso legato a risorse economiche, questa associazione dimostra che il capitale umano e il volontariato possono essere altrettanto potenti. L’approccio metodologico adottato si concentra su due pilastri principali: il programma di riconoscimento locale e la creazione di una rete virtuale. Questi elementi sono progettati per rafforzare il riconoscimento e il prestigio dell’associazione.
Programma di Riconoscimento Locale.
Il primo pilastro della strategia è lo sviluppo di un programma di riconoscimento locale. Questo programma si basa su un sistema di premi articolato in tre classi di benemerenza: bronzo, argento e oro. La definizione chiara dei criteri di benemerenza assicura trasparenza e coerenza nel processo di riconoscimento, permettendo all’associazione di valutare i meriti con rigore e obiettività. L’implementazione di un processo di selezione rigoroso e imparziale, con giurie composte da esperti dei vari settori, rafforza la credibilità del programma. Inoltre, le cerimonie di premiazione pubbliche non solo aumentano la visibilità dell’associazione, ma creano anche un senso di comunità e di appartenenza tra i partecipanti e il pubblico.
Estensione Nazionale del Riconoscimento.
Per ampliare l’impatto del programma, l’associazione utilizza canali di comunicazione digitale per facilitare la partecipazione a distanza. Questo permette di riconoscere individui e organizzazioni in altre regioni, espandendo la portata del programma di premi oltre i confini locali. La collaborazione con media locali e nazionali è cruciale per promuovere i risultati e i premi assegnati, incrementando ulteriormente la reputazione dell’associazione a livello nazionale. Questo approccio integrato di riconoscimento locale e promozione nazionale crea un ecosistema favorevole alla crescita del prestigio dell’associazione.
Creazione di una Rete Virtuale.
Il secondo pilastro della strategia è la creazione di una rete virtuale. La piattaforma online user-friendly sviluppata dall’associazione facilita la registrazione, il networking e la comunicazione tra i membri premiati. Le funzionalità interattive, come forum, chat rooms e webinar, stimolano l’interazione e la collaborazione, creando un ambiente dinamico e coinvolgente. Posizionando l’associazione come nodo centrale della rete, si garantisce un flusso continuo di informazioni e supporto, mantenendo una presenza attiva con l’organizzazione di eventi, incontri e sessioni formative online. Questo approccio consente all’associazione di consolidare la sua posizione e di diventare un punto di riferimento centrale per la comunità.
Focalizzazione degli Obiettivi.
Per assicurare il successo del programma, l’associazione stabilisce obiettivi SMART (specifici, misurabili, raggiungibili, rilevanti e temporizzati). Un esempio concreto è l’obiettivo di riconoscere 50 individui eorganizzazioni meritevoli entro il primo anno di attività. Ogni iniziativa è direttamente collegata agli obiettivi definiti, e le azioni sono prioritizzate per massimizzare il ritorno in termini di visibilità, riconoscimento e relazioni stabilite. Metriche chiave e strumenti di analisi sono utilizzati per monitorare i progressi e apportare miglioramenti basati sui risultati ottenuti. Questo approccio metodico e ben strutturato consente all’associazione di adattarsi e rispondere in modo proattivo alle sfide.
Riduzione delle Criticità
La gestione delle risorse, soprattutto il tempo dei volontari, è ottimizzata attraverso un sistema di gestione efficace e la formazione continua. La collaborazione e le partnership sono esplorate per integrare le limitate risorse finanziarie. L’ambiente di rete è inclusivo e accogliente, con risorse utili come guide, toolkit e servizi di consulenza per supportare i membri. La gestione proattiva delle criticità e il mantenimento di alti standard etici garantiscono la trasparenza e la reputazione dell’associazione.
Schematizzazione di Approccio e Metodologia.
Programma di Riconoscimento Locale:
1) Sviluppo di un sistema premiale
Criteri di Benemerenza: Definire chiaramente i criteri per classi di benemerenza (ad es. bronzo, argento, oro) per garantire trasparenza e coerenza nel riconoscimento.
Processo di Selezione: Implementare un processo di selezione rigoroso e imparziale, coinvolgendo giurie composte da esperti dei vari settori.
Cerimonie di Premiazione: Organizzare cerimonie pubbliche per aumentare la visibilità e l’impatto del riconoscimento.
2) Estensione Nazionale del Riconoscimento
Premiazione a Distanza: Ampliare la portata del programma, utilizzando canali di comunicazione digitale per facilitare la partecipazione e il riconoscimento a distanza.
Collaborazione con i Media: Collaborare con media locali e nazionali per promuovere i risultati e i premi assegnati, aumentando la reputazione dell’associazione.
Creazione di una Rete Virtuale
1) Piattaforma on line
Sviluppo della Piattaforma: Creare una piattaforma online user-friendly che faciliti la registrazione, il networking e la comunicazione tra i membri premiati.
Funzionalità Interattive: Implementare funzionalità come forum, chat rooms e webinar per stimolare l’interazione e la collaborazione tra i membri.
2) Centralità dell’associazione
Nodo Centrale della Rete: Posizionare l’associazione come nodo centrale della rete, garantendo un flusso continuo di informazioni e supporto tra il centro e i punti della rete.
Presenza Attiva: Mantenere una presenza attiva nella rete, organizzando eventi, incontri e sessioni formative online.
Focalizzazione degli obiettivi
1) Definizione Chiara degli Obiettivi
Obiettivi SMART: Stabilire obiettivi specifici, misurabili, raggiungibili, rilevanti e temporizzati (SMART) per il programma di riconoscimento e la rete. Ad esempio, “Riconoscere 50 individui e organizzazioni meritevoli entro il primo anno di attività.”
2) Allineamento delle Azioni con gli Obiettivi
Collegamento delle Iniziative: Assicurarsi che ogni iniziativa sia direttamente collegata agli obiettivi definiti.
Prioritizzazione delle Azioni: Prioritizzare le azioni che offrono il massimo ritorno in termini di visibilità, riconoscimento e relazioni stabilite.
3) Monitoraggio e Valutazione dei Progressi
Metriche di Valutazione: Stabilire metriche chiave per monitorare il successo del programma, come il numero di premi assegnati, la crescita della rete e il livello di interazione tra i membri.
Analisi dei Dati: Utilizzare strumenti di analisi per raccogliere dati e valutare regolarmente i progressi, apportando modifiche e miglioramenti basati sui risultati ottenuti.
Riduzione delle Criticità
1) Gestione delle risorse
Ottimizzazione del Tempo dei Volontari: Creare un sistema di gestione dei volontari che assicuri una distribuzione equa ed efficace delle attività, fornendo formazione e supporto per massimizzare l’efficienza e il coinvolgimento.
Collaborazione e Partnership: Esplorare opportunità di collaborazione e partnership per integrare le limitate risorse finanziarie.
2) Coinvolgimento della Rete
Ambiente Inclusivo: Promuovere un ambiente di rete inclusivo e accogliente, incoraggiando la partecipazione attiva e il senso di appartenenza tra i membri.
Supporto e Risorse: Fornire risorse utili, come guide, toolkit e servizi di consulenza, per aiutare i membri della rete a trarre il massimo vantaggio dalla loro partecipazione.
3) Gestione della Reputazione
Trasparenza ed Etica: Mantenere alti standard etici in tutte le attività, garantendo trasparenza nei processi decisionali e nella comunicazione.
Gestione Proattiva delle Criticità: Rispondere tempestivamente e con integrità a eventuali critiche o sfide, gestendo proattivamente le problematiche reputazionali.
In conclusione questo caso di studio evidenzia come un programma di riconoscimento locale ben strutturato e una rete virtuale possano elevare il riconoscimento e il prestigio di una piccola associazione. Attraverso un miglioramento continuo della metodologia, una chiara focalizzazione degli obiettivi e una gestione efficace delle criticità, l’associazione può affermarsi come entità rispettata e influente nelle sfere locali e nazionali.
Ing. Antonio Rossello, Dr hc in Sociologia e socio ASI.
Bibliografia:
(1) Rossello, A. (2024). Elevare il Riconoscimento e il Prestigio di un’Associazione Locale: Un Approccio Sociologico. Presentato il 15 giugno 2024, presso Roma Seraphicum, Collegio Serafico di San Francesco, Via del Serafico 1 – 00142 Roma, 2^ Edizione Open-Day FareRete 2024. Associazione FareRete InnovAzione BeneComune APS, Laboratorio di Dialogo e Azione per il Bene Comune. ↩︎
Profilo: ▷ La vetrina di Antonio Rossello – 25 opere pubblicate su www.BraviAutori.it – Savona – Italia
Per approfondimenti, si rimanda al lavoro scientifico completo: “Elevare il Riconoscimento e il Prestigio di un’associazione Locale: Un Approccio Sociologico” di Antonio Rossello, con il contributo di Franco Faggiano. (Entrambi Soci A.S.I., curatori del sito: RETI SOCIALI & NETWORKING)
Le comunità di pensiero (scientifica, letteraria, mediatica) affrontano l’urto dell’innovazione tecnologica sul presente rispondendo alla domanda: cosa sta accadendo oggi? E strutturano il futuro rispondendo a una seconda, inevitabile domanda: cosa accadrà domani? Dagli anni ’50 del secolo scorso i mondi della cultura, dell’impresa e dei media hanno progressivamente riempito biblioteche e archivi on-line di testi (orali, scritti, visivi) finalizzati a capire gli effetti sociali dell’automazione e a prevederne le tendenze future. Un impegno che aveva e ha ancora oggi ottimi motivi. Eccone due: 1) l’avvento della tecnologia elettronica di tipo digitale ha sconvolto i processi produttivi, contribuito a domare la forza-lavoro e affermato una nuova forma di accumulazione del capitale basata sull’informazione; 2) a partire dagli anni ’90 del XX secolo i proprietari dei vecchi e nuovi mezzi di produzione si sono impossessati dell’idea di rivoluzione spodestando nell’immaginario collettivo i rivoluzionari anticapitalisti ormai politicamente sconfitti. La due svolte, una economica e l’altra comunicativa, hanno avuto un successo travolgente e da alcuni decenni l’etichetta rivoluzione digitale è stata incollata all’insieme dei mutamenti innescati dalla tecnologia. Rivoluzione digitale: ecco la risposta alle angoscianti domande sul presente e sul futuro hi-tech.1
Storytelling globale.
Corrono gli anni ’70 del 900 e il governo statunitense crea de facto la Silicon Valley2. Se nella patria del profitto privato l’intervento dello Stato nell’economia fosse diventato di dominio pubblico per i tecno-imprenditori a la Steve Jobs si sarebbe trattato di un catastrofico danno d’immagine. A salvargli la faccia ha contribuito lo storytelling globale3 che accompagna i processi di automazione da un’ottantina di anni a questa parte in un crescendo impressionate. Andando per punti, lo storytelling globale consiste in una permanente campagna di comunicazione planetaria gestita in maniera il più possibile coordinata da governi, Tech Giants, sistema dei media. Una campagna che mitizza i tecno-imprenditori e promuove l’alta frequenza di innovazioni: calcolo quantistico, realtà mediate, nanotecnologie, biotecnologie, auto senza pilota e così via di meraviglia in meraviglia. Infine, una campagna che attua strategie di coinvolgimento del pubblico e dei consumatori facendoli sentire protagonisti della rivoluzione digitale.
Eco figurativa
Per essere ancora più efficace lo storytelling globale è corredato da efficaci rappresentazioni visive. Rappresentazioni che con un semplice colpo d’occhio indicano la best way per interpretare il passaggio da una rivoluzione industriale all’altra. Quella che vediamo nella Figura 14 è la successione temporale culturalmente istituzionalizzata di tale chiave di lettura. Non c’è narrazione delle tecnologie digitali che, in maniera esplicita o implicita, non la contempli. Si tratta di una rappresentazione iconica che costituisce allo stesso tempo un’istruzione visiva per spiegare un processo storico-sociale e un’immagine mentale di impronta chiaramente evolutiva. Un’immagine che: fa da matrice ad altre sequenze dello stesso tipo aggiornate con le ultime novità tecnologiche; gode di largo consenso nelle comunità di pensiero; è implicita nelle strategie di comunicazione delle Big Tech; si stampa facilmente nella mente di chi la osserva. Per tutti questi motivi la Figura 1 potrebbe fare bella mostra di sé in un museo della scienza e della tecnologia. Ma c’è da chiedersi: i significati di cui è portatrice reggono alla critica sociologica?
Vince chi convince.
In senso lato la narrazione può essere intesa come un discorso pubblico trasmesso nell’infosfera da vecchi e nuovi media. Ma la posta in gioco è altissima: organizzare l’esperienza dei riceventi. Perciò anche la più generica definizione di narrazione incontra un ostacolo: solo in teoria è previsto un confronto sullo stesso piano di dignità tra storie divergenti. In pratica le narrazioni che godono di maggior spazio, attenzione e visibilità sulla scena mediatica formano un ortodossia in grado di battere la concorrenza di storie disallineate. Continuando a prendere prestiti dall’advertising, la narrazione ufficiale sulla rivoluzione digitale è dominante nella stessa maniera in cui il linguaggio della pubblicità domina il racconto della merce. Si può contestare tale racconto finché si vuole e così è stato dagli anni 50 del 900 fino all’altro ieri ma alla fine è uscito vincente e deborda in ogni dove: dalla radio a Internet passando per la carta stampata. Sul piano comunicativo tale risultato è sintetizzabile in un semplice slogan: vince chi convince. È necessario aggiungere che non convince chi ha ragione, chi dice la verità, o chi è nel giusto: convince chi detiene il potere mediatico5.
Perde chi ha pochi mezzi.
Nel corso degli anni 90 la generazione dei pionieri di Internet ha conosciuto il suo quarto d’ora di celebrità e cantava la Rete come spazio di libertà, democrazia e anarchica creatività. Ci hanno pensato governi e multinazionali hi-tech a riportare l’ordine sommergendo la tecno-utopia dei pionieri con un diluvio di narrazioni focalizzate sull’innovazione permanente. Nel giro di pochi anni il cyberspazio è passato da luogo della reciprocità a prateria per il business, per la sorveglianza di massa, per veicolare l’ideologia neoliberista. Come le praterie di un tempo Internet è diventata anche un luogo pieno di insidie e nell’insieme la società on-line ha finito per costituire un doppione di quella off-line (atomizzata, edonista, aggressiva). Sul piano culturale questa come quella è governata dalla coalizione tra i proprietari dei tradizionali strumenti di comunicazione (il cui ruolo è ancora strategico nel generare le forme espressive della cultura di massa)6 e i grandi gestori di Big Data (i maggiori accumulatori di informazioni sul pubblico-cliente della Rete). Un vantaggio competitivo in grado di battere qualsiasi contronarrazione o addirittura renderla funzionale a un disegno egemonico così come è accaduto coi pionieri di Internet: immaginando di instaurare il regno della gratuità hanno aperto la strada a un nuovo, immenso mercato.
Ipoteca storica.
La forza della rivoluzione digitale è data dal sodalizio tra cose e parole. Vale a dire che la rivoluzione digitale è di per sé evidente: la stampa 3D costituisce un dato di fatto così come il robot Sophie e ChatGPT. Ma un dato di fatto è zoppo se non è legittimato da una narrazione destinata a produrre consenso sociale. Se vuole occupare uno spazio culturale la novità dell’oggetto digitale deve cingersi di un’armatura retorica in grado di respingere dubbi, ragioni contrarie, volontà di capire. L’armatura retorica non serve per imporre il silenzio. Ma a incrementare il flusso dei discorsi per trarre nuovi spunti narrativi e a mettere le redini al dibattito pubblico per farlo galoppare nella direzione desiderata: la futura civiltà del silicio. Lo scopo è politico: permettere all’oggetto digitale di proseguire il suo corso: che lo si lasci fare, che lo si lasci raccontare. Incontriamo così un’ipoteca storica della narrazione digitale: l’evoluzione tecnologica è un vantaggio per tutti. Non siamo forse passati dal primo calcolatore elettronico che pesava 30 tonnellate al portatile da meno di un kg? Grazie a Internet delle cose possiamo o non possiamo accendere la caldaia di casa da remoto? E nel prossimo futuro non saranno i robot pets a tenere compagnia agli anziani?
Febbre high-tech.
Per l’uso pubblico della storia la rivoluzione digitale è: una rivoluzione industriale caratterizzata da un inarrestabile evoluzione tecnologica che provoca un mutamento sociale senza precedenti, sovvertendo i meccanismi di produzione (il modo di lavorare) e di riproduzione (il modo di consumare) dando vita a una new economy e a una new society. Da questa vulgata scaturisce l’immagine mentale che stiamo analizzando così come Venere scaturisce dalla spuma del mare. E sui lucidi corpi artificiali delle meraviglie hi-tech si tessono le più svariate narrazioni. Nella nostra immagine la progressione delle rivoluzioni industriali si ferma alla quarta, genericamente definita Sistemi cibernetici. Ma per l’Unione Europea siamo già avviati alla quinta7. Fase in cui si compie un importante salto di qualità: l’industria 5.0 è insieme il collettore dell’innovazione tecnologica e dell’innovazione sociale. In altre parole, l’impresa privata non ha più bisogno di mascheramenti: prende ufficialmente in mano la riproduzione della società guidando la transizione digitale e quella verde. Nella cronaca giornalistica ci si può imbattere persino nella sesta ondata di innovazioni e probabilmente la graduatoria è destinata a salire come sul termometro salgono i gradi della temperatura corporea in caso di febbre. Con la rivoluzione digitale la febbre aumenta in conseguenza dell’apparizione di fantascientifiche novità tecnologiche e la scoperta di nuove nicchie di mercato. Ad ogni apparizione, ad ogni scoperta lo storytelling globale solleva la temperatura con diluvi di notizie, racconti, profezie.
Storia vs narrazione.
Ecco un elenco di eccitanti apparizioni: nel 1946 fa la sua comparsa quello che per la maggioranza degli analisti è il primo computer (Eniac); nel 1947 è presentato il primo transistor; nel 1948 Claude Shannon getta le basi della teoria dell’informazione e nello stesso anno Norbert Wiener conia il termine cibernetica; nel 1949 viene inventato il primo robot industriale (Ultimate) presentato nel 1954, entrato in produzione nel 1961; nel 1958 appare il circuito integrato; nel 1969 vengono collegati i primi due computer della rete Arpanet; nel 1971 viene alla luce il microchip; nel 1972 nasce Internet; nel 1984 la Apple mette sul mercato il personal computer Macintosh; nel 1989 Tim Berners-Lee inventa il World Wide Web al CERN di Ginevra; nel 2004 si afferma il Web 2.0. Per quanto incompleto questo elenco suggerisce che la rivoluzione digitale ha alle spalle una storia che per durata si avvicina a quella della prima rivoluzione industriale. Una storia che secondo i teorici del transumano si concluderà tra una ventina di anni quando l’accumulo di innovazioni tecnologiche produrrà una svolta improvvisa e si entrerà nell’era della singolarità tecnologica8. Un’era in cui gli esseri umani potranno aspirare alla vita eterna. Non si sa se tutti o solo alcuni, ma al là di questo dettaglio la narrazione digitale istituzionalizza un nuovo demiurgo: la tecno-scienza. Se progresso c’è è affare dell’impresa privata e nessun’altra forma di emancipazione è consentita, a iniziare dall’emancipazione del lavoro. Nella prospettiva dello storytelling globale l’evoluzione delle macchine prende il posto dell’evoluzione sociale. Perché mai così tanta intransigenza? Per spoliticizzare la tecnologia agli occhi della forza-lavoro e della forza-consumo e per ripoliticizzarla clandestinamente secondo le convenienze degli imprenditori. Perché clandestinamente? Perché la tecnologia si presenta come neutrale, come frutto del puro genio creativo. Perciò avanzare dubbi significa opporsi al progresso, o meglio, all’inevitabile.
Un’idea del tempo.
La rivoluzione permanente scatenata dal susseguirsi di oggetti digitali si presenta sulla scena mediatica con un particolare tempo del racconto ben rappresentato da alcuni slogan: Microsoft: «Il futuro è ora»; Toshiba: «Un impegno per le persone, un impegno per il futuro»; Gigaphoton: «Il futuro è oggi»; Olympus Corporation: «La tua visione, il nostro futuro»9. In questo legame tra l’oggi e il domani, il futuro è nel presente e il presente è nelle mani della cooperazione fra produttori di tecno-novità e clienti che le acquistano. La stessa cooperazione è sottintesa nel passaggio dalla macchina a vapore ai sistemi cibernetici come illustrato dalla nostra immagine sulla successione delle rivoluzioni industriali: il passato perde di significato (come è nata la prima rivoluzione industriale?), mentre il futuro risiede nell’avvenire in via di fabbricazione nei tanti cantieri digitali, dalla piccola start-up alle gigantesche multinazionali dell’hi-tech. L’idea del futuro a portata di click, gode del vantaggio di un cartello stradale: è facilmente comprensibile da chiunque. Il segreto del suo successo si basa su tre fattori: la necessità degli individui di economizzare risorse mentali per sopravvivere in una società dove il tempo è una risorsa scarsa; la spaventosa retrocessione culturale delle ultime due generazioni di giovani (gli attuali quarantenni e gli attuali ventenni); la mobilitazione collettiva per partecipare alla rivoluzione digitale (come consumatori, come produttori, come narratori).
Mattoni del racconto.
Siamo alla soglia di un avvenire radioso. I lavoratori possono attenderlo con fiducia e non hanno nulla da temere. L’ automazione è una chiave magica per la creazione di valori; non è un rozzo strumento di distruzione e il talento e le capacità di chi lavora avranno il loro compenso anche nel futuro paradiso terrestre Guidato dagli apparecchi elettronici, sulle ali dell’energia atomica e con l’aiuto dell’automazione, che non costa fatica e corre liscia come l’olio, il tappeto magico della nostra libera economia si solleva in volo verso mai sognati orizzonti. Viaggiare su quel tappeto, sarà la più straordinaria esperienza immaginabile10. Queste parole sembrano scritte oggi, invece risalgono al 1954. Un tempo in cui nella manifattura statunitense comparvero i primi computer. Nel brano troviamo alcuni dei principali mattoni con cui costruire la narrazione digitale di ieri e di oggi: l’ottimismo nel domani (l’avvenire radioso); l’illimitato credito di fiducia concesso all’innovazione tecnologica (l’automazione non è uno strumento distruttivo); la commistione tra credenza religiosa (il paradiso terrestre) e l’invenzione favolistica (il tappeto magico); l’archetipo del viaggio (il volo verso mai sognati orizzonti); lo spirito d’avventura (l’esperienza straordinaria).
Mito della frontiera 2.0.
Bill Gates: Questo è un momento emozionante dell’età dell’informazione. Tutto comincia ora. Dovunque io vada a tenere una conferenza o a cena con gli amici assisto a discussioni su come l’informatica cambierà la nostra vita. Ci si chiede: cambierà in meglio o in peggio? In che senso renderà diverso il futuro? Ho già detto di essere ottimista per carattere, e sono ottimista anche sugli effetti che le nuove tecnologie determineranno: valorizzeranno il tempo libero e arricchiranno la cultura, incrementando la diffusione dell’informazione; aiuteranno a decongestionare il traffico nelle aree urbane, perché ciascuno potrà lavorare a casa o in uffici vicini alla propria abitazione; contribuiranno a un minor consumo delle risorse naturali, perché un numero sempre crescente di prodotti potrà prendere forma di bit anziché di beni materiali; ci consentiranno di esercitare un maggior controllo sulla nostra vita, di fare esperienze che rispondano perfettamente ai nostri interessi. I cittadini della società informatica avranno a loro disposizione possibilità fin’ora sconosciute di inventare nuove attività, studiare e divertirsi. Le nazioni che, collaborando tra loro, prenderanno iniziative coraggiose godranno di grandi benefici economici. Verranno alla luce mercati completamente nuovi, e saranno create infinite opportunità di lavoro».11 Quanto può turbare l’homo digitalis lo sfiorato en plein di previsioni sbagliate contenute in questo lungo elenco? Nulla. Nulla per tre motivi. Primo: perché nella realtà mediatizzata la coerenza non è una virtù (qualcuno ricorda la promessa mai mantenuta di un milione di posti di lavoro grazie alla quale un tycoon dei media salì a Palazzo Chigi?). Secondo motivo: perché le previsioni sbagliate autorizzano dilettanti, imbonitori e incompetenti che pullulano dentro e fuori la Rete a dire la loro sugli effetti sociali della tecnologia fornendo un inesauribile carburante al moto narrativo. Terzo motivo: perché la narrazione digitale si nutre del mito statunitense della frontiera, e la nuova frontiera è il cyberspazio, che per sua natura non ha limiti: superato un confine eccone apparire un altro e così via all’infinito.
Previsione narrativa.
La narrazione digitale è incurante delle previsioni sbagliate sugli effetti sociali della tecnologia proprio perché si afferma come un racconto perennemente in progress. Se si vuole, un racconto di racconti in cui si alternano, si intrecciano e si sostengono molteplici libri. È vero: Bill Gates è uno che ama lanciare profezie e spesso sbaglia, ma qualche volta ci prende. Chi può negare che milioni di posti di lavoro siano andati perduti e che in futuro molti altri andranno perduti a causa della robotica e dell’intelligenza artificiale? Bastano poche evidenze, in atto e soprattutto in potenza, per permettere agli storyteller di continuare a intrecciare nuove trame12. D’altra parte la dieta mediatica prevede dei consumatori insaziabili. Ecco perché le previsioni sul futuro lanciate dagli eredi della rivoluzione digitale non sono quasi mai di tipo scientifico. O meglio: sono doxa travestita da episteme. S’intuisce il motivo: la previsione narrativa è mediaticamente più efficace di quella scientifica perché un serio scienziato sociale è sempre molto cauto nel fare previsioni sulla società di domani e di sicuro non apre le porte al sogno, perciò non fa notizia. Mentre un tecno-visionario ha mano libera nell’anticipare il futuro, lanciare profezie, eliminare incertezze, respingere la prudenza dei tecno-realisti (coloro che valutano l’impatto della tecnologia alla prova dei fatti)13. Trasmesse incessantemente da ogni tipo di media le previsioni narrative sul futuro hi-tech generano un effetto-realtà in grado di plasmare il presente. Non importa tanto il tipo di cambiamento prodotto dalla rivoluzione digitale quanto il suo sviluppo ideativo. E così qualsiasi guru della civiltà del silicio può permettersi il lusso di sbagliare previsioni senza che nessuno o quasi gli chieda conto: ciò che non accade oggi, accadrà sicuramente domani. Non è una questione parareligiosa. O almeno non solo. È una questione di educazione visiva. Basta andare su YouTube per vedere coi propri occhi che prima o poi i robot sostituiranno i camerieri e i giornalisti.
Mito delle origini.
Dal punto di vista storico la rivoluzione digitale nasce nei centri direzionali della grande industria statunitense durante gli anni 50 del 900. Dal punto di vista narrativo nasce nel garage di qualche geniale programmatore informatico. Nascono in un’autorimessa: Google, Amazon, Apple, Hewlett-Packard14. Almeno nel caso della Apple questa venuta al mondo è smentita. Evgeny Morozov: Appena poteva Jobs ricordava che la Apple era nata in un garage gli piaceva argomentare sulla purezza del garage e descrivere il suo sovversivo progetto Macintosh nei termini di un garage metafisico ma il co-fondatore della Apple, Steve Wozniak, ha sempre sostenuto che quel famoso garage svolse un ruolo davvero marginale nella storia della costruzione del primo Mac. Ho assemblato la maggior parte di quel computer nel mio appartamento e nel mio ufficio alla Hewlett-Packard confidò al Rolling Stone nel 1996. Non so da dove salti fuori tutta questa storia del garage lì dentro successe veramente poco.”15
Mito delle origini 2.
La nascita di una Big Tech all’interno di un luogo dimesso come un garage alimenta i sogni e le speranze di giovani garage tinkerers intenti a creare in camerette e scantinati le loro start-up. A ben guardare sono nate in locali di fortuna anche diverse band della musica pop diventate poi celebri. Il che suggerisce la genesi spettacolare della narrazione digitale. E a guardare ancora meglio, secondo il racconto ufficiale anche Mattel, Disney, Harley-Davidson e Lotus sono nate in un garage. Dettaglio che indica quanto, sul piano simbolico e su quello ideologico (mito del self-made man), la terza rivoluzione industriale sia figlia della seconda. Maternità confermata da fattori assai concreti. Per esempio: presentato a lungo come tecnologia pulita si è poi scoperto che il digitale inquina, è energivoro e per funzionare fa uso degli stessi combustibili fossili della vecchia manifattura. Al netto delle innovazioni tecnologiche la rivoluzione digitale presenta un’altra continuità col passato decisamente interessante: l’organizzazione gerarchica dell’impresa. Rigidità che nell’aprile di quest’anno ha permesso al magnate Elon Musk di licenziare 6.500 dipendenti di Twitter su un totale di ottomila. Però sotto questo profilo una discontinuità tra la seconda e la terza rivoluzione industriale va ammessa: nella Silicon Valley i sindacati praticamente non esistono.
Riduzionismo.
La nostra immagine mentale narra un modo particolare di fare storia: il mutamento sociale passa attraverso le invenzioni tecnologiche16. Ma la storia delle invenzioni tecnologiche non esaurisce la comprensione del cambiamento sociale. In tema di rivoluzioni industriali l’etica protestante non fu estranea all’accumulazione del capitale necessaria alla nascente industria manifatturiera, così come lo sviluppo dell’automazione nella manifattura non è estraneo alla conflittualità operaia. Due casi di scuola che indicano la molteplicità di forze del cambiamento sociale: forze economiche, culturali, politiche, tecnologiche, demografiche. Queste forze sono soggette all’azione collettiva e in misura variabile si combinano tra loro. La regola generale, ricavabile da qualsiasi manuale per studenti di sociologia, è che nessun passaggio da un modo di produzione a un altro e, più in generale, da un modello sociale a un altro può essere compreso se non si tiene conto di tale combinazione. E tuttavia quasi mai i narratori della rivoluzione digitale si confrontano con la complessità della transizione da una rivoluzione industriale all’altra perché verrebbe meno l’enfasi narrativa. È molto più efficace raccontare la storia dell’industria moderna col mero passaggio da una generazione tecnologica all’altra. D’altra parte le storie di successo funzionano sulla base di una trama semplice costellata di episodi più o meno complicati. Ma al di là dell’intreccio narrativo ci troviamo dinanzi a una forma di riduzionismo storico-sociale che non aiuta a comprendere i cambiamenti del passato e del presente. A conquistare il grande pubblico sono le storie semplici e avvincenti.
Determinismo tecnologico.
Il riduzionismo rende molto efficace l’immagine mentale che stiamo esaminando. Ma se si nutrono ambizioni culturalmente egemoniche le scorciatoie del pensiero, per quanto efficaci siano, da sole non bastano. Hanno necessità di almeno due coperture: una teorica e l’altra ideologica. Il passaggio automatico da una rivoluzione industriale all’altra lascia trasparire la prima copertura: il determinismo tecnologico. Si tratta di una nota teoria che vede nel livello tecnologico raggiunto da una società la causa fondativa della sua cultura, della sua struttura e della sua storia. Concezione ben illustrata da un’immagine con cui si induce a credere che la storia si ripeta sempre nella stessa maniera e le ondate tecnologiche costituiscano di per sé un miglioramento della società. Proprio perché monocasuale il determinismo tecnologico facilita le narrazioni e sulle sue spalle siedono i cantori della rivoluzione digitale. I vantaggi sono evidenti: oscurare la natura capitalistica della transizione epocale in cui si trovano le nostre società; produrre un pubblico plaudente o rassegnato dinanzi allo spettacolo della tecnologia; affermare un modello politico-culturale di tipo tecnocratico.
Darwinismo sociale.
Per sostenere i vantaggi del determinismo tecnologico ecco avanzare la copertura ideologica: il darwinismo sociale. Corrente di pensiero ottocentesca adattata al Terzo millennio grazie all’abbraccio fra teoria economica neoliberista (nata nella prima metà del 900) e la rivoluzione digitale (seconda metà del 900). L’incontro fra neoliberismo e new economy ha richiesto e continua a richiedere un nuovo tipo di produttore il cui profilo può essere così tratteggiato: si adatta a una vita lavorativa fatta di incognite; lotta senza esclusione di colpi contro i colleghi-concorrenti perché le opportunità sono scarse; accetta i contratti individuali e il lavoro nero senza protestare; lo stesso orario di lavoro non ha limiti ed è soggetto a qualsiasi variazione; è disposto al cambiamento continuo, alla mobilità occupazionale (almeno dieci volte nella vita) e a non avere fissa dimora; non sa cosa siano le ferie retribuite; i diritti sindacali appartengono a un passato considerato superato; la sanità la paga di tasca propria; vive perennemente in tournée. A chi somiglia questo flessibile globetrotter? A una vecchia conoscenza: il lavoratore dello spettacolo. Un lavoratore da sempre precario, in balia del mercato, per il quale la solidarietà è uno svantaggio e la vita è la lotta per la sopravvivenza. Con l’affermazione di questa figura di produttore il passato più lontano si salda col Terzo millennio smentendo l’illusione che una rivoluzione industriale azzeri le eredità storiche. Ovviamente non così per la narrazione digitale. Secondo la quale l’era del silicio costituisce un futuro nuovo di zecca. Un futuro che si materializza col susseguirsi di innovazioni tecnologiche e che è continuamente rinviato a domani. Nel frattempo? Miti, fiabe, spettacoli. Nel frattempo c’è da chiedersi come fa un’immagine mentale così discutibile come quella che abbiamo fin qui analizzato a non suscitare un diffuso ripensamento in grado di mettere in crisi la narrazione dominante. La risposta non è difficile da individuare: la rivoluzione digitale si iscrive nel registro dell’immaginario e può presentarsi sotto diverse forme espressive: mito, fiaba, spettacolo. In tutti i casi è un esempio da manuale di de-storicizzazione. Tuttavia mette ordine in una realtà che altrimenti richiederebbe molte spiegazioni (perché abbiamo bisogno di essere circondati da così tante macchine?) e argina la formazione della tecno-consapevolezza (perché vivere con gli occhi puntati su uno schermo?). Queste prevalenze sono generate dall’irruzione sulla scena mediatica delle tecno-novità e dalle mille storie che vengono raccontate a un pubblico che le fa proprie e le ri-racconta contribuendo ad alimentare fiabe, miti, spettacoli. Mille nuove storie vengono alla luce attraverso testi, parole, gesti, eventi, personaggi che appaiono sulla ribalta mediatica. Non necessariamente le storie devono essere confortanti. Anzi, possono seminare paure collettive come per esempio la minaccia dell’intelligenza artificiale di sostituire gli esseri umani dentro e fuori il mondo del lavoro. Un punto a sfavore dell’innovazione tecnologica? No. Sul piano narrativo l’ansia del lettore e dello spettatore non è un problema, è una risorsa chiamata suspence. Si è mai vista una fiaba, una mitologia, un film di fantascienza senza peripezie, senza prove da superare e senza che sia scorso del sangue?
La tecnologia avanza, la società arretra.
La sequenza di rivoluzioni industriali che ha dato vita a un’immagine mentale diventata senso comune passa da un mutamento sociale all’altro secondo una scansione che autorizza una lunga serie di innovazioni: tecnologiche, scientifiche, organizzative, finanziarie e così via. Una sola innovazione non è prevista: quella politica. Nel senso che non è prevista la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non è prevista l’eguaglianza sociale, non sono previsti i diritti sociali, non è prevista un’equa distribuzione della ricchezza, non è prevista la piena occupazione, non è prevista la fine della povertà, non è prevista la fratellanza, non è prevista la sacralità della vita. Dato che la negazione di tutte queste possibilità costituisce sempre più la realtà degli europei, la rivoluzione digitale sembra essere più l’esportazione nel Vecchio continente dello stile di vita statunitense che una new society. Sembra essere l’affermazione di un paradosso che tiene insieme l’avanzare della tecnologia e l’arretramento della società.
dott. Patrizio Paolinelli
Sulle fortune di tale etichetta e le sue numerose declinazioni cfr. G. Baldi, L’ultima ideologia. Breve storia sella rivoluzione digitale, Bari-Roma, Laterza, 2022. ↩︎
Cfr., É. Laurent, Mitologie economiche, Neri Pozza, Vicenza, 2017. M. Mazzucato, Lo Stato imprenditore. Sfatare il mito del pubblico contro il privato, Laterza, Bari-Roma, 2014. ↩︎
Sulla nascita, gli sviluppi, l’uso e soprattutto l’abuso di questa tecnica narrativa cfr., C, Salmon, Storytelling. La fabbrica delle storie, Fazi Editore, Roma, 2008. ↩︎
Fonte: Wikipedia. Voce: Industria 4.0 consultata il 10 dicembre 2023. ↩︎
Avviso per i lettori: questa posizione è da tempo largamente minoritaria tra i sociologi della comunicazione. Ci pare un buon segno. ↩︎
Per gli amanti delle novità ad ogni costo una brutta notizia: per quanto frammentata la cultura di massa esiste ancora. Perlomeno nel rapporto del tutto asimmetrico che separa i detentori dei mezzi di comunicazione dai loro fruitori. ↩︎
Commissione europea, Direzione generale della Ricerca e dell’innovazione, Breque, M., De Nul, L., Petridis, A., Industria 5.0 Verso un’industria europea sostenibile, incentrata sull’uomo e resiliente, Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione europea, 2021, https://data.europa.eu/doi/10.2777/308407 ↩︎
Cfr. R. Kurzweil, La singolarità è vicina, Apogeo Education Maggioli Editore, Sant’Arcangelo di Romagna (RN), 2014. ↩︎
L’interesse della comunicazione commerciale per il domani è di vecchia data e si estende ben oltre il comparto strettamente hi-tech. Per restare in Italia: ENEL – Accendiamo il presente per illuminare il futuro; Ferrovie dello Stato Il futuro è una realtà tangibile; Calzedonia Il futuro è rosa. ↩︎
Volantino per l’Introduzione all’era dell’automazione della statunitense National Association of Manufactures e citato da F. Pollock in, Automazione. Conseguenze economiche e sociali, Einaudi, Torino, 1970, pagg. 24-25. ↩︎
B. Gates, La strada che porta al domani, Mondadori, Milano, 1997, (Ed. aggiornata), pag. 356. Grassetto nostro. Il domani di Gates sarebbe stato un capitalismo senza attriti. ↩︎
Nella sua lettera annuale del 2014 Bill Gates spiegò che entro il 2035 non sarebbero più esistite nazioni povere, mentre di recente ha assicurato che ChatGPT cambierà il mondo. ↩︎
Osservare sul piano della realtà gli effetti della rivoluzione digitale è l’operazione che conduce Vanni Codeluppi in Mondo digitale, (Laterza, Bari-Roma, 2022) e le conclusioni a cui arriva non sono confortanti per i tecno-ottimisti. In proposito ci sia consentito rinviare anche al nostro, Transizioni digitali. Sindacato, lavoro privato e pubblico impiego nell’era hi-tech, Arcadia Edizioni, Roma, 2019. ↩︎
La leggenda delle aziende appartenenti alla old e new economy nate in un garage è assai diffusa. A titolo di esempio si veda: A. Delli Compagni, Otto grandi aziende nate in un garage, (www.wired.it, 24 ottobre 2016); G. Nadali, I business multi milionari nati in un garage, (www.fortuneita.com, 28 agosto 2018). ↩︎
E. Morozov, Contro Steve Jobs. La filosofia dell’uomo di marketing più abile del XXI secolo, Codice edizioni, Torino, 2012, pag. 57. ↩︎
Per una sintesi delle prospettive storiche alternative all’ortodossia del mutamento fondato sulla tecnologia cfr., S. Agnoletto, Rivoluzioni industriali e grande divergenza (tra XVIII e XIX secolo): miti e paradigmi, in, Into the black box, (a cura di), Capitalismo 4.0. Genealogia della rivoluzione digitale, Meltemi, Milano, 2021 ↩︎
Correvano gli anni ’60 e Edgar Morin pubblicò un libro destinato a diventare un classico della sociologia: L’esprit du temps (trad. it. L’industria culturale, il Mulino, 1963). Nelle prime pagine del volume Morin definì la cultura di massa in questi termini: “essa costituisce un corpo di simboli, di miti e immagini concernenti la vita pratica e la vita immaginaria, un sistema di proiezioni e di identificazioni specifiche, e si aggiunge alla cultura nazionale, alla cultura umanistica, entrando in concorrenza con loro”.
A partire dal secondo dopoguerra la cultura di massa ha conquistato spazi sempre più larghi generando nuovi saperi, nuovi gusti estetici, nuovi stili narrativi, nuovi modelli di rappresentazione del Sé e realizzando prodotti di qualità in numerosi campi: musica, cinema, televisione, editoria. Novità, qualità, sperimentazioni pop, reciproche contaminazioni con l’arte, il teatro, la moda hanno sostenuto la volontà di evasione dal grigiore degli anni ’50 e più in generale l’idea di democratizzare la cultura. Nel giro di pochi decenni la cultura di massa ha vinto la sfida lanciata alla cultura classica e a quella elitaria accompagnandosi per un momento persino con la contestazione giovanile. Negli anni ’70 è diventata egemone in Occidente e ha iniziato la sua espansione planetaria accelerandola al massimo dopo la fine della guerra fredda. Ma tra gli anni ’80 e gli anni ’90 una volta consolidata la propria posizione nell’immaginario collettivo la qualità spettacolare dei prodotti della cultura di massa ha fagocitato quella contenutistica e l’iniziale spinta democratica si è spenta a favore della ricerca del profitto.
Mentre divorava se stessa, la cultura di massa si è perfettamente saldata con la cultura del consumo e la sua penetrazione nella società è cresciuta in estensione e specializzazione. Basti pensare al passaggio dalla paleotelevisione alla neotelevisione o alla mutazione della pubblicità da veicolo meramente promozionale a filosofia di vita. Ma lo sviluppo non si è fermato agli aspetti tecnologici o a quelli propri del settore come potrebbe essere per l’industria automobilistica. Col passaggio al post-fordismo la cultura di massa si è integrata con una lunga filiera di attività del terziario in virtù di due processi principali: 1) pratiche universali quali la comunicazione, il gioco, la seduzione, l’immaginazio¬ne, il gusto, il piacere e la cura del corpo sono diventate oggetti dell’economia politica; 2) per essere appetibile ogni merce deve apparire il più possibile come un segno distintivo, da qui la proliferazione dei marchi, l’onnipresenza del design e l’estetizzazione della vita quotidiana. Data la matrice statunitense che la caratterizza, la cultura di massa adegua la soggettività ai valori dell’utilitarismo, dell’individualismo e del consumismo. La conseguenza è un’etica della vita come gara. Etica sostenuta dalla cultura di massa tanto che oggi quasi in ogni occasione d’incontro dentro e fuori lo schermo è condizionata dalla logica della performance: una corsa senza fine per essere più prestanti, più furbi, più ricchi, più giovani, più belli, più atletici, più sexy e così via.Per giustificare questo tipo di soggettività alcuni sociologi sostengono che sono i destinatari a utilizzare i mass-media o i clienti a manipolare la moda tramite micropratiche di fruizione personalizzata dei prodotti e di ibridazione di tali prodotti con le subculture urbane. A sentir loro si tratterebbe di mediazioni che dovrebbero de-monopolizzare le gerarchie simboliche lasciando così emergere una relazione paritaria tra l’industria culturale e i suoi fruitori. In realtà il rapporto di potere tra chi produce l’immaginario collettivo e la massa sterminata di coloro che lo traducono in comportamenti reali è completamente sbilanciato a favore dei produttori. Tale asimmetria permette alla cultura di massa di esercitare un controllo di tipo politico sulla vita degli individui governandoli fin nei loro minimi gesti. Osservata sul piano regolativo la cultura di massa è soprattutto un avanzato, flessibile e spesso occulto vettore di un ethos che induce il grande pubblico al consumo di ogni cosa: dall’abbigliamento ai telegiornali, dai partner sessuali ai telefoni cellulari, dai prodotti musicali ai generi letterari, dal tipo di fumetto al modello di pettinatura, dalle mete turistiche ai prodotti cine-televisivi e così via.
Tutta la variabilità dei comportamenti collettivi generati dalla cultura di massa ha finito per mantenere in piedi gli assetti di dominio presenti nella nostra società. Il dirompente slogan Sex, drugs and rocknroll non ha minimamente arrestato la corsa verso una società sempre più programmata, sempre più diseguale. Anzi l’ha rafforzata tra gli applausi dei meno abbienti. Da tempo il rock è morto, poi è stato il punk a lasciarci e uno dopo l’altro se ne sono andati generi e sottogeneri musicali che però hanno dato lavoro a innumerevoli band e soprattutto hanno intrattenuto il pubblico in recinti ben circoscritti dove sfogare aggressività, frustrazioni, pulsioni sessuali o dove più semplicemente ammazzare il tempo. Intanto, nel giro di poche generazioni, il mondo occidentale si sta progressivamente feudalizzando. Addirittura Barak Obama nel suo discorso sullo stato Dell’Unione si era lamentato del fatto che negli USA la mobilità sociale ha il fiato corto nonostante la nazione sia risorta dalla recessione.
E il sesso? E sempre più sfruttato dalla cultura di massa tanto da farne una vera e propria ossessione collettiva. La TV commerciale ha trasformato gran parte degli italiani in voyeuristi mentre star globali della pop music fanno a gara tra chi si esibisce in performance sempre più spinte. L’escalation della provocazione che va da Madonna a Lady Gaga fino a Miley Cyrus concede maggiore spazio ai richiami dell’eros che alla musica, mentre al di fuori dello schermo le persone sono più sole, diffidenti e instabili. In quanto alla libertà sessuale, se davvero fosse generalizzata, non si assisterebbe al dilagare della prostituzione e della pornografia. Non ce ne sarebbe bisogno. Ma il bisogno c’è e la cultura di massa gestisce la sessualità orientandone pratiche e saperi. L’oggetto privilegiato resta il corpo delle donne. Un corpo estetizzato, erotizzato che serve non solo a vendere merci ma che è stato trasformato in un’arma utilizzata dal potere politico. E anche in nome della libertà delle donne che negli anni scorsi L’occidente ha bombardato questo o quel paese islamico. I media si accodano alla propaganda e quasi non c’è testata giornalistica che non dia notizie sull’oppressione delle donne nel mondo arabo senza interrogarsi seriamente sulla complessità di quel mondo, sulla sua cultura, i suoi valori, la sua storia. Il modello che la cultura di massa impone è il corpo glamour: quello delle starlette hollywoodiane e delle top model. Possibile che non esistano altre forme di libertà dal patriarcato e altre modalità di espressione del desiderio? Per la cultura di massa no. Pretende il monopolio e rivela così il suo volto autoritario.
Il controllo sul corpo non è separato dal controllo della coscienza. Attraverso riti, media e mode la cultura di massa ha annesso la parte socializzata del Sé (il Me) riducendo ai minimi termini la parte individuale (l’Io). Un paradosso per le società liberali che sostengono di valorizzare al massimo l’individuo. Ma al di là della retorica la cultura di massa è un apparato di potere che influenza profondamente la vita pubblica e privata delle persone e in virtù di tale influenza ne governa la soggettività. Sul piano individuale il risultato è un anticonformismo telecomandato. Sul piano sociale è una diffusa forma di alienazione. Come ricostruire un rapporto più equilibrato tra l’Io e il Me? Un utile esercizio può essere quello di porsi delle domande sul proprio immaginario. Eccone alcune. Perché quella canzone che ho canticchiato per settimane a un certo punto non mi piace più? Perché non sopporto il silenzio? Da cosa nasce il desiderio di non perdere una puntata di quella fiction? Chi mi ha inculcato la paura di invecchiare? Cosa mi spinge a desiderare così tanto quel paio di stivali? Come mai mi spaventa un libro che supera le cento pagine? Perché sento di non avere mai tempo? Da dove provengono i sogni a occhi aperti che faccio di tanto in tanto? L’attrazione fisica verso quella persona nasce dal mio mondo interiore o dal mondo delle immagini che attraverso e che mi attraversa ogni giorno?
dott. Patrizio Paolinelli, sociologo e giornalista
a cura di: A.i.P.U. (Associazione ltaliana di Posturologia Universitaria], con il supporto .della P.S.A.F. (Associazione Scientifica dei Professionisti dello Sanità, Medicina Legale e delle Assicurazioni) – S.F.G. (Scuola Forense di Grafologia) – ASI {Associazione Sociologi Italiani} – IRC UniFunvic Europa – International Research Center (Brasile).
I componenti del progetto DSA:
Prof. Dott. Gaetano Agliata: Presidente dell’A.l.P.U. – Associazione Italiana Posturologia Universitaria, Medico, Docente Universitario di Scienze Motorie, Posturologia e Grafopatologia; Dott.ssa Hamida Ouled Slimane: Ricercatrice specializzata in Neuropsicopatologia e Neuroscienze; Dott.ssa Mariarosaria Greco: Posturologa Clinica; Dott. Antonio Magnone: Sociologo, Responsabile sviluppo aziendale; Dott. Gaetano Pizzuti; Psicologo, Avvocato; Prof. Dott. Raffaele Zinno: Presidente della P.S.A.F. Professionisti Sanitari Assicurativi Forensi, Medico Legale; Prof. Avv. Gennaro Gino Mazzo: Direttore della S.G.F. – Scuola di Grafologia Forense del Tribunale di Napoli, Avvocato e Magistrato, Grafologo; Dott. Aniello Ertico: Psicologo esperto in Neuropsicologia; Dott.ssa Ornella Calascibetta: Psicologa, Psicoterapeuta, Dirigente di V livello dell’ASLNAl; Prof. Davide Magnone: Posturologo Clinico e Operatore Medicina Quantica;
Sig.ra Faouzia Dayegue: Operatrice Sanitaria, lnterprete; Dott.ssa Nafisa Zroud: Medico Pediatra; Dott.ssa Souad Kammoun Chouk: Docente Universitaria, Pedagogista; Dott.ssa Hela Slams: Docente Universitaria di Neuropsichiatria infantile, Neuropsichiatra infantile; Dott.ssa Nesrine Hitira: Educatrice specializzata nei DSA Dott.ssa Hanen Aissa: Psicologa Scolastica; Prof. Antonio Imeneo: Delegato Lazio FISPES, Docente della UniFunvic, Responsabile Europa Unifunvic, Direttore Centro Internazionale Ricerca UniFunvic Bruxelles; Prof. Dott. Francesco MacDonald, Medico, Specialista in patologia e chirurgia vertebrale, Docente Università degli Studi di Palermo – Istituto Ortopedica “Galeazzi” di Milano, Umanitas Gradenigo Torino – Eurospine Member – Direttore Scientifico del Centro Sudi “Skolios” – membro del ‘ Comitato Scientifico Fondazione Scoliosi ltalia. ll progetto prevede tre giorni di formazione da realizzare presso gli istituti scolastici e parteciperanno: Dott.ssa Cheima Jeribi: Educatrice; Dott.ssa Farah Allouche: Logopedista; Dott.ssa Montaha Nasri: Logopedista. L’evento, organizzato dal Ministero dell’istruzione, sarà a cura di: Amel Ben Mahjoub (ispettrice Scolastica della Regione Mahdia), Lamia Ammari (Commissario e Responsabile dell’istruzione Regione Mahdia), Lasad Magri (Direttore Scolastico), Sofien Elkemel (Commissario e Portavoce del Ministero dell’istruzione della Regione Mahdia), Hichem Chebbi (Portavoce del Ministero dell’istruzione).
INTRODUZIONE AL PROGETTO
a cura di Agliata G.
I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (D.S.A.) sono trattati da tre figure professionali:
Neuropsichiatria infantile
Psicologo
Logopedista
Da studi osservazionali effettuati mediante screening scolastici, a partire dal 2003 {Agliato G. e coll.), è emerso che molti ragazzi affetti da D.S.A. presentano, se sottoposti ai test specifici dell’oculomotricità, disturbi degli assi visivi, tant’è vero che vengono loro diagnosticate le c.d.”forie”. La “foria” è un disturbo dell’asse visivo distinto in: esoforia, exoforia, ipoforia ed iperforia. Dal punto di vista clinico, trattandosi di un disturbo non evidente, contrariamente alla “tropia”, il più delle volte, sfugge ad una puntuale diagnosi. La valutazione di tale disturbo avviene attraverso dei test mirati: la disamina del punto prossimo di convergenza, il test lontano/vicino, il cover test, il test di Maddox, ecc. Le “forie” creano un disagio nel focalizzare il punto prossimo di convergenza a causa della variazione della distanza di quest’ultimo, secondo la tipologia della specifica “foria” da cui il soggetto è affetto. ln questo quadro clinico, durante la lettura e la scrittura, il soggetto è sottoposto ad un fortissimo livello di stress muscolare, determinando interruzioni cadenzate sia nella scrittura che nella lettura. Lo stress maggiore si verifica quando il soggetto deve associare la visione da lontano a quella da vicino, poiché i muscoli oculomotori, in tali circostanze non svolgono la propria funzione in maniera sincrona. ll punto focale, in tali pazienti, può essere aumentato, diminuito o spostato da un lato o dall’altro, in base allo specifico difetto presente. ln ambito scolastico, l’atteggiamento posto in essere dallo studente è considerato, il più delle volte, come una semplice “distrazione”, laddove in realtà è una “strategia inconscia” fisiologicamente necessaria, che il soggetto mette in atto per rilassare i muscoli oculomotori sottoposti a disagio, consentendo loro di riprendere l’attenzione, solo momentaneamente interrotta. ln realtà, si tratta di una sorta di “attenzione intermittente”, che pone il soggetto interessato in una situazione di evidente imbarazzo e può determinare perfino stati di malessere psicofisico, qualora non si appongano immediatamente adeguati correttivi. Appare di chiara evidenza che un soggetto affetto da tale disturbo, nella fase iniziale dell’apprendimento è sottoposto ad un indice di difficoltà e di stress ben superiori rispetto ai soggetti ortoforici, così come appare evidente che le relazioni neurofisiologiche della visione e dei rapporti con il sistema cerebrale, risultano fortemente condizionate da tali ‘forie”. Le connessioni neuro-fisiologiche risultano, infatti, condizionate da queste problematiche: proprio quelle che, soprattutto nella fase della crescita, debbono essere plasmate in maniera armonica, onde evitare le difficoltà di apprendimento e di attenzione accennate sopra. ln ambito riabilitativo, comunemente, se non d’abitudine, viene richiesto al soggetto di “attenzionare” ciò che sta leggendo, senza considerare che egli non ha gli strumenti adeguati per poterlo fare; ciò determina un ulteriore disagio, minandone le effettive capacità e causando ulteriori problemi di natura psicologica e relazionale. Le terapie per tali disturbi, sono conosciute nel mondo dell’oftalmologia, così come lo sono le tecniche riabilitative. La carenza o l’insufficienza di una corretta e tempestiva diagnosi iniziale, determina che, spesso, esse rimangono non trattate. Lo scopo del presente progetto è quello di diagnosticare in tempo utile le forie, così da poterle trattare precocemente, evitando che possano interferire pesantemente nell’evoluzione dei rapporti neurofisiologici del ‘sistema visivo con quello cerebrale. L’indagine del presente progetto di ricerca, verte su una casistica di circa 600 soggetti diagnosticati (Agliata G. et all.), effettuate tra il 2003 ed il 2423. Lo screening è stato condotto con il supporto dell’Associazione ltaliana Posturologia Universitaria (A.l.P.U.), dell’Associazione Scientifica Professionisti Sanitari Assicurativi Forensi (P.S.A.F.) e della Scuola di Grafologia Forense del Tribunale di Napoli (S.G.F.). I risultati preliminari sono stati presentati nel 2006 all’Università “La Sapienza” di Roma, che ha validato il lavoro effettuato {ed ancora in itinere) assegnando una borsa di studio (Agliata G.). Ad oggi, con gli screening citati è stata realizzata la prima fase dello studio osservazionale del presente progetto. ln seguito, con i dati raccolti si potrà passare alla seconda fase, che sarà resa operativa con il gruppo di controllo. Allorquando verrà fatta sistematicamente la diagnosi per l’accertamento del disturbo dell’oculomotricità ai piccoli pazienti, si otterranno risvolti positivi sia in ambito sociale che sanitario; oltre a ciò è opportuno riflettere sui costi che i D.S.A. incidono sul Sistema Sanitario Nazionale (s.s.N.). lnoltre l’oculomotricità interferisce anche nelle scoliosi, infatti il riflesso posturale condiziona la colonna vertebrale attraverso la relazione occhio/vestibolo/muscoli retro-nucali, tutto cio è mediato dal fascicolo longitudinale mediale.
Nei disturbi DSA sono coinvolte le cellule gangliari: infatti, gli assoni si proiettano verso il pretetto per le risposte vegetative e il follicolo superiore, affinché le informazioni visive si interfaccino con quelle sensoriali, ma anche al corpo genicolato laterale del talamo, per entrare poi in sinapsi con i neuroni che si proiettano verso la corteccia striata; tutti gli assoni convergono, poi, al nervo ottico. Un’altra importante riflessione va fatta per il rapporto che c’è tra l’oculomotricità e la scrittura: l’atto dello scrivere non è altro che la proiezione del cervello nello spazio e la coordinazione visuo-motoria e oculo manuale, attraverso i numerosi movimenti necessari della mano, che simboleggiano l’evoluzione dell’uomo, dato il rapporto di reciprocità sensoriale tra mano e S.N.C. La scrittura è sempre in rapporto con il corpo umano e, quale ritmo della dinamica del movimento, si forma e si sviluppa attraverso le funzioni cerebrali e degli organi periferici, mediante ‘i muscoli, le fasce e le strutture osteoarticolari, che da esso dipendono. Ecco l’importanza di comprendere il rapporto tra la scrittura e l’oculomotricità, laddove il ritmo delle dinamiche del movimento della scrittura è prodotto da una serie di strumenti, tra cui le mani, veri e propri organi finali,che in svariati modi, impugnano e gestiscono il mezzo scrivente. Le alterazioni della scrittura, le cause determinanti, nonché le conseguenze dello stato psicofisico e della vita di relazione dei soggetti DSA sono stati, negli ultimi decenni, oggetto di studio approfondito ed esteso a varie discipline specialistiche, con particolare attenzione ai riflessi di tali disturbi nell’età evolutiva. Riassumendo, possiamo affermare che gli specialisti da integrare nel gruppo di lavoro sono quelli che si interessano fondamentalmente di oculistica clinica, così come i riabilita tori del settore che, lavorando in sincronia, potranno redigere una diagnosi puntuale e rapida, punto di partenza indispensabile per poter intervenire con un’opportuna, tempestiva ed appropriata terapia riabilitativa. ln ambito scolastico, il progetto prevede corsi di formazione/informazione per il gruppo dei docenti coinvolti che, edotti delle indispensabili conoscenze specifiche, potranno essere le prime figure utili, atte ad ipotizzare delle diagnosi precoci, in attesa della valutazione degli specialisti del settore. ll corso di formazione auspicato metterebbe in condizione ciascun docente di attenzionare una patologia subclinica, in modo da informare la famiglia, che potrebbe/dovrebbe provvedere in tempi utili, a far sottoporre ad una visita specialistica il soggetto interessato. ll progetto, quindi, è rivolto fondamentalmente a soggetti considerati nel periodo dell’età evolutiva, proprio per intervenire precocemente sia nella diagnosi che nella terapia. Il presente progetto è stato argomento del Congresso Nazionale dell’Associazione Sociologi ltaliani (riconosciuta dal Ministero delle Imprese e del Made in ltaly) in collaborazione con le associazioni A.l.P.U., PSAF (autorizzata dal Ministero della Salute italiano per delineare le linee guida in ambito scientifico), S.F.G., che si è tenuto a Roma presso la Biblioteca del Senato della Repubblica ltaliana Sala Giovanni Spadolini il 23 marzo 2023.
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Già dagli anni Sessanta e Settanta, il tema della qualità della vita, della salute e del benessere tra gli individui, ha acquistato sempre più interesse, dal punto di vista culturale e della ricerca. Grazie alla conoscenza, all’informazione e alla ricerca, oggi salute e benessere sono diventati dei veri e propri valori universali. Vi sono però alcune categorie di individui che per mezzi, per condizione sociale, per motivi anagrafici, e per le condizioni di disabilità, che non solo non sono in grado a curarsi del proprio benessere e quindi della propria salute, in molti casi a causa della loro fragilità, si trovano a dover affrontare in totale solitudine una serie di ostacoli che in molti casi diventano un muro di gomma, che separa in modo netto, solitudine e benessere, dove la solitudine diventa lo specchio dell’individuo anziano il quale rimane solo, escluso da qualsiasi relazione, e quindi con poche possibilità di curarsi adeguatamente.Il concetto di benessere come diritto sociale si basa sull’idea che ogni individuo debba avere accesso a condizioni che favoriscano una vita sana, soddisfacente e piena, questo concetto è fondamentale nelle società, dove si riconosce sempre più l’importanza di garantire un livello minimo di benessere a tutti i membri della comunità. Tuttavia, la realizzazione del benessere come diritto sociale richiede un impegno politico, sociale ed economico significativo da parte dei governi e delle istituzioni internazionali. La speranza non muore mai, per declinare questo concetto prendo come riferimento alcuni dei più importanti autori, sociologi, psicologi, medici, e narratori, che con i loro scritti hanno contribuito a focalizzare l’attenzione su un fenomeno sociale di grande attualità, quello di riportare nell’alveo del paradigma della medicina narrativa, le storie dei pazienti. Onorare le storie dei pazienti, vuol dire creare intorno ad essi un percorso di cura partendo dalla relazione.
“Honoring the stories of illness“, è il saggio di Rita Charon medico internista e docente alla Columbia University, dove dirige il dipartimento di medicina narrativa, pubblicato negli Stati Uniti nel 2006 e tradotto in Italia nel 2019 (2019 Raffaello Cortina Editore ed It Micaela Castiglioni). La medicina narrativa trattata nel libro di Rita Charon, è fondata sulla capacità di riconoscere, assimilare e interpretare le storie di malattia, e reagirvi adeguatamente. Afferma “ci troviamo davanti a un bivio, tutti insieme, dobbiamo scoprire come sostenere le enormi capacità delle scienze biomediche, cercando al contempo di alleviare la sofferenza e ridurre le perdite legate alla malattia”. Entrare nella storia del paziente per poter esercitare le giuste pratiche di cura, in particolar modo al soggetto anziano, che privato della sua soggettività, sarà costretto a soccombere fino a perdere definitivamente la propria identità. Vi sono alcune malattie che hanno come conseguenza l’isolamento del paziente anziano, tra queste vi sono certamente la depressione, i disturbi della memoria, le demenze senili e quant’altro. Risolvere il problema relazionale insieme ad un approccio multidisciplinare può essere un modo per rendere l’anziano ammalato ancora degno di umanizzazione. I pazienti non hanno bisogno solo di una diagnosi precisa e di una terapia, ma anche di accettazione, conforto, speranza, tenerezza e sostegno. Il cuore della medicina è la relazione sostiene Rita Charon, gli aspetti narrativi che si trovano nella pratica clinica di ogni giorno sono cinque: La temporalità, la singolarità, la causalità, l’intersoggettività, l’eticità. La sfida è trovare una soluzione per ricollegare medico e paziente. Attuare la medicina narrativa in modo assoluto e non relativo in Italia, non è di facile attuazione, le venti sanità regionali sono scollegate tra loro, in deficit economico, causato da sprechi e da mancanza di risorse, in una cronica carenza di personale medico e infermieristico, il divario nord-sud, senza dimenticare la medicina di prossimità che a causa delle incombenze burocratiche e alla mancanza di medici fatica a dare risposte adeguate ai pazienti. Con questi presupposti il percorso della medicina narrativa fatica ad arrivare all’obiettivo descritto da Rita Charon.“C’è un prezzo da pagare per una medicina tecnologicamente sofisticata: impersonale, con terapie determinate da gruppi interscambiabili di specialisti, ossessionati dagli elementi scientifici e distaccati dal punto di vista umano. Il medico dà l’impressione di tenersi a distanza dall’esperienza dei pazienti, egli ha un modo differente di pensare alla malattia e alle sue cause, di reagirvi, di scegliere la terapia, l’ammalato ha bisogno di sentirsi compreso, di essere accompagnato. È necessario crescere con gli ammalati, imparando a conoscere e soffermarsi sulle informazioni sulle famiglie, sulle paure e sulle speranze, conquistare la loro fiducia è un passo fondamentale per offrire buone cure”. Dopo i 60 anni l’orologio biologico può essere il nuovo punto di riferimento per guardare al futuro, e aprire un nuovo capitolo della vita
La relazione
Il rapporto medico- paziente è la particolare relazione che si instaura tra un professionista sanitario e un paziente, a partire da uno stato di malattia di quest’ultimo, tale asimmetria rende il paziente in uno stato di vulnerabilità e di dipendenza dal medico. Tale condizione deriva da una secolare paternalistica, basata sulla concezione che il medico potesse decidere senza tener conto delle esigenze del paziente. Con il passare del tempo si è passati ad un nuovo approccio in cui il paziente esprime la propria volontà rispetto ad un’autonomia decisionale del medico, di conseguenza il rapporto è diventato via via più simmetrico dove il paziente viene informato e deve dare il suo consenso. Questa relazione si basa sulla fiducia, sulla comunicazione aperta e sulla collaborazione tra il medico e il paziente, al fine di ottenere il miglior risultato possibile per la salute del paziente. Far sentire le persone a proprio agio per poter confidare al medico i loro sintomi, le loro paure, ma in modo particolare le storie mediche personali. Una solida relazione medico-paziente, può migliorare l’aderenza al trattamento, ridurre l’ansia del paziente e migliorare i dati clinici. Di cruciale importanza è mantenere relazioni positive, mettendo sempre al centro delle cure il benessere e il rispetto per paziente. Quando siamo malati, sperimentiamo la nostra malattia: diventiamo spaventati, angosciati, stanchi, affaticati. Le nostre malattie non sono solo biologiche, ma umane. (Arthur Kleinman).
L’Empatia
Per comprendere stato d’animo ed emozioni di una persona, è necessario avere la capacità di entrare in connessione con gli altri, percepire emozioni e stati d’animo, come se fossero propri, riuscire a comprendere le azioni degli altri, da un punto di vista non interno a chi osserva, ma a chi agisce, possiamo parlare di “empatia”, o, come affermava Max Weber (Erfurt 1864- Monaco 1920), “comprensione empatica”, secondo la quale il ricettore di informazioni deve mantenere un atteggiamento di apertura e sensibilità tale da rendere fluido il reciproco scambio di comunicazione. Questa interazione, più o meno stabile, che avviene tra individui e gruppi sociali, i quali agiscono in modo intenzionale alle azioni degli altri, diventa simmetrica e complementare. Com’è noto tutti gli esseri umani hanno la necessità di sentirsi considerati e ascoltati, per raggiungere questo obiettivo però è richiesto impegno, tempo e capacità di ascolto. In sintesi l’empatia può essere definita la capacità di sentire con l’altro dal’’interno comprendendone il comportamento e le esperienze.
Il Ruolo del malato di Talcot Parsons
Il” ruolo malato “è una teoria della sociologia medica sviluppata da Talcot Parsons (1902-1979) fondatore dello struttural- funzionalismo, la teoria è sviluppata in associazione con la psicoanalisi, “approccio psicoterapeutico che si interroga sulle cause profonde del disagio soggettivo e riguarda gli aspetti sociali dell’ammalarsi insieme ai privilegi e gli obblighi che ne derivano”. Per Parsons il modo migliore per comprendere la malattia dal punto di vista sociologico è vederla come una forma di “devianza”, in quanto disturba la funzione sociale della società, “la malattia come stato di turbamento normale dell’individuo umano nel suo complesso, e comprende sia lo stato dell’organismo come sistema biologico, sia ai suoi adattamenti personali e sociali. Questo turbamento ha delle ripercussioni non solo sull’individuo, ma sull’intera società. Oggi la sociologia non è più parsonsiana, i ruoli sociali non sono più visti come una sorta di camicia di forza culturale, anche se la tendenza a vedere il malato come deviante è ancora molto presente.
“Io non sono quello che penso di essere”
Charles Horton Cooley (1864-1929) è stato tra i principali teorici dell’interazionismo simbolico, ed è noto per il suo concetto di “looking-glass self” (l’Io riflesso), secondo cui l’Io di una persona è il risultato delle interazioni impersonali nell’ambito sociale e di ciò che gli altri percepiscono di noi. La teoria dell’Io riflesso identifica bene la società di oggi nell’era dei social network, dove molto spesso il culto dell’immagine del SÉ proiettata nello specchio, definisce il proprio status, e le persone si preoccupano eccessivamente di come sono viste dagli altri e di cosa pensano di loro. La società Per Cooley dunque, è un intreccio ed una interconnessione di Io mentali, che lo riassumeva in: “Io non sono quello che penso di essere, e non sono quello che voi pensiate che io sia, ma sono quello che penso che voi pensiate che io sia”. “Human Nature and the Social Order pubblicata nel 1902”. Già dagli anni Sessanta e Settanta, Il tema della qualità della vita, della salute e del benessere tra gli individui, ha acquistato sempre più interesse, dal punto di vista culturale e della ricerca. Oggi salute, benessere sono diventati dei veri e propri valori sociali, le persone sono più attente al proprio benessere e alla propria salute grazie alla conoscenza, all’informazione e alla ricerca. Molti individui però ossessionati da quell’Io riflesso nello specchio, perdono di vista il “Noi”, dove gli altri servono solo a soddisfare i propri bisogni e raggiungere i propri obiettivi.
Il Cervello Sociale
Lo Psicologo Luis Cozolino, nella sua opera: il Cervello Sociale del 2008 Pepperdine University (Malibu California), definisce il cervello dell’uomo un “organo sociale” che si sviluppa nel contesto delle relazioni sociali, aggiungendo che la relazione tra due persone può essere paragonata a quella tra due neuroni che formano una sinapsi, uno spazio fisico che separa due soggetti agenti. Questo concetto è definito da Cozolino “sinapsi sociale”, e cioè che al posto dei neurotrasmettitori troviamo i comportamenti che portano all’informazione sociale, dove il modellamento delle strutture cerebrali, è causata dall’influenza reciproca. Il Centro Nazionale Malattie Rare (CNMR) promuove da qualche decennio, l’uso in sanità della medicina narrativa, in modo particolare nell’ambito di patologie complesse come le malattie rare. Lo strumento della medicina narrativa offre l’opportunità di affrontare le malattie, non esclusivamente come “DISEASE “(le conoscenze cliniche del professionista sulla malattia), ma anche come “ILLNESS” (vissuto soggettivo del paziente sulla malattia) e SICKNESS” (percezione sociale della malattia). “J. Launer, A. Wohlmann 2023” Vi sono alcune categorie di persone che sono culturalmente isolate nella società che chiedono aiuto alle Istituzioni e sono: gli anziani, i disabili, i meno abbienti, i cosiddetti fragili, ed hanno bisogno di risposte ai loro disagi, come garantire loro un adeguato accesso alle cure, ripartendo dalla relazione medico-paziente. Raccontare la malattia, sia dalla parte del paziente che di chi se ne prende cura, è un elemento irrinunciabile della medicina contemporanea, che comprende la partecipazione attiva dei soggetti coinvolti che, attraverso le loro storie, diventano protagonisti nel processo di cura e rendono più efficiente il Servizio Sanitario Nazionale. Quando gli ammalati si lamentano di essere trattati come numeri, come prodotti di una catena di montaggio, ci stanno dicendo che non si sono sentiti considerati nella loro singolarità, che sono stati ridotti a copie di altri corpi. Ma con la narrazione si può recuperare l’individualità perduta (R. Charon)
Gli intellettuali non sono una specie in via di estinzione. Scrittori e docenti universitari pubblicano regolarmente sulle pagine e gli inserti culturali dei quotidiani. Economisti, filosofi, sociologi sono spesso interpellati dai media e gli atenei non stanno affatto chiudendo i battenti.
Il libro è senz’altro in crisi, ma sono arrivati gli e-book, si continuano a sfornare best-seller e i dibattiti alle fiere del libro sono seguiti con interesse. Su Internet è tutto un fiorire di blog e riviste telematiche. I premi letterari stabiliscono ancora le loro classifiche, mentre mietono successi di pubblico i festival culturali: della filosofia, della complessità, della letteratura e così via. Certo, se per intellettuale intendiamo il portatore di un dissenso politico antisistema, allora sì, quella categoria è oggi poco visibile. E il motivo è semplice: è finita l’epoca delle rivoluzioni antiborghesi. Con molti chiaroscuri le ultime propaggini di quell’epoca furono il ’68 in Francia e il ’77 in Italia. Dopodiché è partita la rivoluzione conservatrice capitanata da Ronald Reagan, Margaret Thatcher, Bush (padre e figlio). Rivoluzione che ha contaminato la sinistra moderata – basti ricordare Tony Blair – e che continua ancora oggi.
Nonostante il trionfo del neoliberismo gli intellettuali che si fanno carico dei problemi del mondo non mancano. Non sono corteggiati dai media ma risultano vivi e vegeti. Si pensi a Samir Amin e a Noam Chomsky, giusto per citare un marxista e un anarchico noti a livello internazionale. Si pensi a quel laboratorio di idee che è il Forum Sociale Mondiale, nato nel 2001 a Porto Alegre in risposta al Forum Economico Mondiale di Davos. Si pensi alla galassia di autori che pubblicano per case editrici militanti e che fanno sentire la loro voce nei circuiti legati ai movimenti per la globalizzazione alternativa. Rispetto al passato la critica degli intellettuali impegnati soffre di due criticità: si rivolge più all’opinione pubblica che a specifiche classi sociali (trovandosi così in una posizione di debolezza dinanzi alla potenza di fuoco dei media mainstream); agisce in un contesto storico in cui la politica non gode più del primato sociale che le era proprio nel ‘900. Risultato: le idee dei movimenti faticano a intaccare i valori dominanti centrati sull’individualismo e il consumismo. Basti citare per tutte la decrescita felice di Serge Latouche.
Un nuovo intellettuale è oggi egemone: l’amministratore culturale. Chi è costui? E un funzionario della rivoluzione conservatrice. Funzionario che si è dimostrato strategico nel far piazza pulita di soggetti collettivi forti quali i partiti, nel ridimensionamento dei sindacati, nel mettere in discussione la scuola di massa, nella demolizione del Welfare State, nella negazione del diritto al lavoro. L’amministratore culturale è un militante che fa politica con strumenti non tradizionali. Lo troviamo all’opera alla LUISS e alla Bocconi, nelle redazioni dei quotidiani e nelle produzioni cine-televisive, negli uffici e nei centri studi della Confindustria, nelle agenzie pubblicitarie e nell’armata di addetti alle pubbliche relazioni. Lo troviamo persino tra gli esperti di marketing. I quali non si limitano solo a trovare il modo migliore per allocare prodotti/servizi e stimolare la domanda. Si interrogano anche sulla coesione sociale, la coscienza collettiva, la struttura delle emozioni, il senso di appartenenza degli individui, i loro bisogni, la loro ricerca di identità. Nella quasi totalità questi professionisti hanno sostenuto il passaggio dal fordismo al post-fordismo e sostengono oggi il fondamentalismo del mercato. Ovvero, la mercificazione di ogni cosa. E anche grazie al lavoro quotidiano e ormai trentennale degli amministratori culturali che il mondo è cambiato. Si deve soprattutto a loro se l’ideologia del tramonto delle ideologie è diventata senso comune, se nell’Italia di oggi il termine comunista si è trasformato in un insulto e se qualificare come azienda l’unità sanitaria locale rientra nel linguaggio corrente. Si deve a loro se l’intellettuale inteso come coscienza critica della società è relegato nell’ombra, se una popstar particolarmente esuberante è considerata ribelle, se Steve Jobs passa addirittura per un rivoluzionario e se le crisi economiche sono presentate come eventi naturali. E in questa temperie culturale dominata dal pensiero unico che un imprenditore come Diego Della Valle ha potuto recentemente avanzare la proposta di un governo nazionale composto quasi esclusivamente da tecnici. Proposta ritenuta fantascientifica anche solo una decina di anni fa, in pieno berlusconismo. Ma che oggi rientra nel novero delle cose senza sollevare particolari reazioni, neppure dalla comunità politica.
La marginalizzazione di pensatori alla Wright Mills è il risultato delle ristrutturazioni post-fordiste e dell’azione quotidiana esercitata dagli amministratori culturali. Grazie a questo combinato disposto oggi viviamo in una società frammentata in cui gli individui non si riconoscono in un progetto collettivo, fanno parte di specifici target di consumatori e di pubblico, inseguono ideali personali e si sono più o meno ritirati nel privato. Da qui il successo di fenomeni diversissimi tra loro come la Tv commerciale e la New Age. Mancando sia la visione di un progetto comune che un soggetto sociale portatore di tale visione (come potevano essere un tempo i movimenti operaio, studentesco, delle donne) la terra è franata sotto i piedi della critica al neoliberismo. Il grande pubblico è quasi del tutto spoliticizzato, è poco interessato alle idee di eguaglianza e giustizia sociale, ha sempre meno coscienza dei diritti sociali e le rivoluzioni che abbraccia sono tecnologiche o di costume. Esattamente quelle che risultano funzionali al potere economico. A pilotarle ci sono gli amministratori culturali per dare l’illusione di vivere in libertà e tra le cui competenze c’è quella di far passare le politiche neoliberiste in modi surrettizi. Ad esempio, tramite formule oscure come le riforme strutturali.
Con la parcellizzazione del pubblico in tipologie di consumatori il pensiero critico si è trovato a fare i conti con la moltiplicazione degli opinion leader. Che sono, in primis, i giornalisti, seguono in ordine sparso cantautori, soubrette, popstar, attori, campioni sportivi, imprenditori, comici, pornodivi. Non solo: gli amministratori culturali agiscono in sintonia con i ritmi dell’industria culturale, spiazzando così il pensiero riflessivo. I tempi della radio e della televisione impediscono infatti lo sviluppo del ragionamento. Nei talk-show si va per accuse, sentenze, botta e risposta. Mentre nelle interviste si procede per frasi brevi e conclusive. Non c’è alternativa: il pubblico ha imparato ad annoiarsi nel giro di pochi secondi e cambia canale. Questo processo di prolificazione, compressione e accelerazione della parola mortifica la maturazione del concetto e tuttavia non impedisce la partecipazione degli intellettuali alla vita dei mass-media. Sia perché acquistano notorietà, sia perché è l’unico modo per accedere a una platea altrimenti irraggiungibile.
L’adattamento alla società mediatizzata ha condotto a un abbassamento qualitativo generalizzato di produzioni culturali un tempo guardate con rispetto e soggezione. E’ il caso del libro: ormai non c’è personaggio dello spettacolo che non scriva, spesso con grande successo di vendite. Al di là dei giudizi sulla qualità, dopo aver perso la possibilità di interessare il grande pubblico l’intellettuale alternativo vede stornata la capacità di spesa dei lettori a favore di opere di intrattenimento. E a questo punto si pone una domanda: J. K. Rowling, autrice della saga di Harry Potter, è un intellettuale? Lasciamo aperto il quesito. Certo, la Rowling non rappresenta la coscienza critica della società. Ma d’altra parte un Majakovskij o un Pasolini sarebbero oggi rapidamente inghiottiti dal vortice mediatico. C’è tuttavia un punto da cui forse si può partire per cercare una risposta: ieri si guardava con speranza al futuro, mentre oggi esiste solo il presente. Ecco perché da circa un ventennio la filosofia si è concentrata più sul linguaggio che sulle idee. Ecco perché l’opinione di un giornalista ha una presa assai maggiore di quella di un sociologo. Ciò non toglie che su questioni particolari non esistano intellettuali impegnati che hanno conquistato l’attenzione del grande pubblico. È il caso di Roberto Saviano sul tema della legalità. Non si sogna più di cambiare il mondo, ma almeno un suo spicchio.
Il passaggio dal motore a scoppio al motore elettrico rappresenta una svolta significativa nella storia dell’industria automobilistica. Questo cambiamento rappresenta una conseguenza diretta della crescente consapevolezza ambientale e della ricerca di soluzioni sostenibili per ridurre le emissioni nocive. Inizialmente, il motore a scoppio ha rivoluzionato il settore automobilistico, consentendo ai veicoli di diventare uno dei principali mezzi di trasporto su scala globale. Tuttavia, con il passare del tempo, sono emersi i problemi legati all’inquinamento atmosferico e al consumo eccessivo di combustibili fossili. Questi fattori hanno stimolato la necessità di esplorare alternative più ecologiche ed efficienti.
L’introduzione del motore elettrico ha rappresentato una soluzione promettente a molte delle sfide ambientali e tecnologiche poste dal motore a scoppio. Da un punto di vista tecnico, il motore elettrico offre numerosi vantaggi, tra cui una maggiore efficienza energetica, minori costi di manutenzione e un funzionamento più silenzioso rispetto al motore a scoppio. Inoltre, la sua capacità di ridurre le emissioni nocive lo rende una scelta attraente per coloro che sono sensibili alle questioni ambientali. Tuttavia, non possiamo trascurare le sfide che accompagnano la transizione verso il motore elettrico. Ad esempio, l’infrastruttura di ricarica deve essere adeguatamente sviluppata per supportare una diffusione su larga scala dei veicoli elettrici. Inoltre, la questione dell’approvvigionamento sostenibile delle materie prime per le batterie rappresenta un’altra sfida significativa da affrontare.
L’innovazione tecnologica e l’impegno per la sostenibilità stanno spingendo l’industria automobilistica verso una trasformazione che potrebbe avere un impatto duraturo sull’ambiente e sulla società nel suo insieme. Tuttavia, è importante affrontare le sfide in modo proattivo e collaborativo, coinvolgendo governi, industria e consumatori per garantire una transizione efficace e sostenibile. Mentre il motore a scoppio ha rivoluzionato il settore nel corso del XX secolo, il motore elettrico promette di plasmare il futuro dei trasporti in modo più sostenibile. È fondamentale affrontare le sfide inerenti a questa transizione in modo oculato, tenendo conto sia delle opportunità che dei rischi connessi a questo cambiamento epocale.