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IL RITORNO ALLA PIAZZA? UTOPIA DEL TERZO MILLENNIO DI UNA SOCIETA’ OSTAGGIO DEGLI URLATORI

EDITORIALE di Antonio Latella * –

La società italiana segna un ritorno agli urlatori. Nulla a che vedere con quella corrente musicale che fece la sua breve apparizione nel corso dei “Trenta gloriosi” dello scorso secolo, quando il Paese attraversava il cosiddetto boom economico. 

A sin. Antonio Latella

Ci dispiace deludere qualche nostalgico di Tony Dallara che fischietta ancora il suo cavallo di battaglia “Romantica”. In questa sede non prenderemo in esame neanche la disputa generazionale tra i sostenitori del genere melodico riconducibile a Nilla Pizzi, a Claudio Villa, Luciano Tajoli, e quelli dei cosiddetti anticonformisti da Celentano a Joe Sentieri.

Vorremmo, ma non possiamo e, soprattutto non vogliamo: non siamo tuttologi, ci mancano le competenze. Preferiamo invece parlarvi della società di oggi: ridotta in stato confusionale dall’aggressività del linguaggio quasi sempre urlato e, ahinoi, entrato ormai in tutti i segmenti della vita sociale, politica, istituzionale, sindacale, religiosa, associazionistica, culturale. E chi più ne ha più ne metta.

Oltre ai decibel dei tradizionali media – radio e televisione – si registra il tentativo del ritorno all’uso della piazza: messo in atto dal sindacato, dalla politica, da gruppi di disobbedienti, dai “neoluddisti” dell’ambientalismo e dal clero. E non solo. La piazza dei partiti di massa e del sindacato del periodo fordista è solo un ricordo del passato rimastoci in mente tra nostalgia e folclore. Tutto “resettato” dai paradigmi neoliberisti, dal capitalismo finanziario che prima desertifica, poi passa alla conquista di nuove terre vergini sempre più funzionali alla massimizzazione del profitto.

I problemi sociali non si risolvono alzando la voce e con il ritorno alle piazze che, nella società della comunicazione, sono diventate virtuali, più pericolose, invadenti e anarchiche. In realtà si tratta solo un ricordo dei nostalgici dell’arengario come se il tempo si fosse fermato alle adunate oceaniche caratterizzate da slogan, bandiere politico-sindacali e dalle truppe trasportate da treni speciali e da pullman che da nord e sud confluivano a Roma per sfilare per le vie della capitale prima di confluire a piazza San Giovanni.

Viaggi a carico della politica e del sindacato: “imbucarci” per una trasferta gratis a Roma, compresa di cestino con colazione e bibita (sempre a scrocco) per noi della generazione dei baby boomers era un vero piacere nonostante l’iniziale disagio di portarci dietro una bandiera rossa o con la sigla di un sindacato di ispirazione cattolica: imbarazzo che, tuttavia, durava il tempo dell’avvio del corteo. Poi gli stessi simboli venivano abbandonati in un cassetto dell’igiene ambientale per consentire di diventare normali turisti e senza l’obbligo di cantare l’inno dell’Internazionale.

La piazza faceva parte di una precisa strategia sindacale e dei partiti di opposizione che, mostrando i muscoli, riuscivano a centrare solo parzialmente i loro obiettivi e, qualche volta, riuscivano a mettere in crisi il governo la cui resilienza non avrebbe retto alle istanze sociali del Paese. Anche perché, all’epoca, gli esecutivi erano destinati a durare ancor meno di oggi. Perciò, il recupero di questo vecchio cavallo di battaglia della sinistra è un non senso. Per tutta un serie di motivi e circostanze passate ormai alla storia: la crisi della stessa sinistra in primo luogo, che ha dato fiato alle destre e ai movimenti populisti; la fine dei partiti  della prima Repubblica, demoliti dal terremoto giudiziario di “mani pulite”, ispirato dalla vecchia sinistra raccogliticcia in un coacervo di ideologie che ha prima spianato la strada al berlusconismo e, una volta imploso quest’ultimo, anche a causa dell’illusione patita dal Paese dall’incoerenza del Movimento 5S, ha spostato l’elettorato su Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.

Le capacità della Premier sono indiscutibili, ma la prima leader donna del nostro Paese è costretta a gestire con grande fatica i continui distinguo e il protagonismo degli altri partner di Governo. Compito che l’attuale Primo ministro sta svolgendo con acume politico e autorevolezza. Agevolata in questo compito da una larga maggioranza che, nonostante le continue fughe in avanti di qualche suo “generale”, riesce ad andare avanti in un Parlamento sempre più svuotato della sua primaria funzione legislativa per lasciare spazio alla decretazione d’urgenza. Si tratta di un vecchio sistema che ci rimanda ad epoche lontane della storia d’Italia.

Ai parlamentari va bene così… ed allora meglio affidarsi alla piazza e agli urlatori di turno. Nostalgia e folclore, ma niente pathos, solo presenzialismo: apparire, salire sull’arengario e strappare applausi di circostanza, amplificati dall’ipocrisia. Basta urlare, demonizzare l’avversario: come tanti granelli di un rosario di quindici poste per attribuire le colpe sempre agli altri. In uno scenario di angeli e demoni. I viaggi di protesta nella capitale – fermi per la pandemia- sono regolarmente ripresi: non sappiamo e non ci interessa sapere a spese di chi. La partecipazione non è certo quella di un tempo, anche per la diminuzione della rendita statale destinata alla politica e per l’emorragia di iscritti al sindacato.

Sull’arengario, a turno, salgono vecchie e nuove figure ma le platee sono sempre più ridotte, tanto da costringere gli operatori televisivi ad evitare i campi lunghi. Nel sindacato le gerarchie degli interventi oratori vedono prima la Cgil seguita da Cisl e Uil: ognuno imposta la voce, si agita, suda, grida in attesa dell’applauso che spesso tarda a venire. E’ il finale di tutti gli interventi si condensa nella “minacciata” d mobilitazione del Paese. Gli oratori della politica emettono sentenze contro governo e maggioranze che lo sostengono: per loro tutto è sbagliato e tutto è da rifare. Sembra un film ripetuto quotidianamente dalle tv di Stato e dalle reti commerciali.

Sul palco degli urlatori, non mancano gli arcieri della società civile e i sacerdoti antimafia. Questi ultimi invece di citare il Vangelo – i cui insegnamenti sono antimafia e, al tempo stesso, anticorruzione, di condanna ai ladri, allo sfruttamento dell’uomo da parte di altri uomini, e di invito ai tutti i cristiani al rispetto della solidarietà, contro il razzismo, le guerre, le discriminazioni –  parlano molto di condanna e poco di redenzione, conversione, perdono. I sacerdoti del Terzo millennio amano poco la povertà invocata da Papa Francesco per farsi contagiare della società consumistica dimenticando la loro vera missione evangelica, a beneficio delle tentazioni secolari.

A completare il quadro sono i campioni della convegnistica che, al giorno d’oggi, pare abbiano smarrito completamente la propria funzione di approfondimento delle questioni, anche dal punto di vista tecnico, per diventare il piccolo proscenio messo a disposizione di ego ipertrofici e autoreferenziali. Il campionario dei temi trattati è il più disparato: la parità di genere, il femminicidio, la legalità, lo sviluppo economico, le politiche per il Mezzogiorno, il PNRR, i beni confiscati alle mafie e anche il Ponte sullo Stretto, e via dicendo. Resta da chiedersi come mai anni, se non decenni, di convegni, seminari, tavole rotonde et similia abbiano lasciato intatti i problemi del Mezzogiorno, i femminicidi, la questione di genere, il sottosviluppo economico e la mafia, mentre del Ponte non c’è neanche l’ombra di una pietra. Perché magari non parlare un po’ di meno – possibilmente senza strillare quando lo si deve necessariamente fare – e agire di più?

* Sociologo, giornalista e presidente nazionale dell’ASI- Associazione Sociologi Italiani –


II° Congresso Nazionale ASI – Associazione Sociologi Italiani. Roma, 25 marzo 2023, Accademia della Storia dell’Arte Sanitaria

di Michele Petullà * –

Da sin. :Ariano , Franceschiello, Bovi e Latella

Si è svolto a Roma, il 25 marzo scorso, presso la prestigiosa Accademia della Storia dell’Arte Sanitaria, il II° Congresso Nazionale dell’ASI – Associazione Sociologi Italiani.  Nel corso del Congresso si è proceduto alla elezione degli organi statutari e all’approvazione delle linee programmatiche che guideranno l’Associazione per il triennio 2023-25; si è proceduto anche all’approvazione del bilancio relativo all’anno 2022. Il Congresso ha registrato una grandissima partecipazione di sociologi provenienti da tutto il territorio nazionale.

Un gruppo i sociologi ASI al termine del lavori congressuali

Ad aprire i lavori, dopo gli adempimenti di rito ­ – costituzione della Commissione verifica poteri e del seggio elettorale, nomina del Presidente (Marcello Bovi) e del Segretario (Salvatore Ariano) del Congresso ­ – è stato il Presidente uscente dell’ASI ­– il sociologo e giornalista Antonio Latella, riconfermato all’unanimità – il quale s’è reso protagonista di un’appassionata quanto efficace e coinvolgente “relazione morale e finanziaria”. Nel suo articolato intervento, il Presidente Latella – dopo aver delineato il ruolo e l’importanza della sociologia nella società contemporanea, caratterizzata da una sempre maggiore complessità sociale e dalla crescente rilevanza che ha assunto la comunicazione digitale – ha tracciato un bilancio molto positivo dell’Associazione, rivendicando con orgoglio i tanti e diversi risultati ed obiettivi raggiunti, soprattutto nel corso dell’ultimo triennio, nonostante il lungo e difficile periodo della pandemia. Un arco di tempo molto proficuo per l’Associazione, la quale ha registrato una grande crescita, sia in termini numerici – passando da poche decine di iscritti agli oltre trecentocinquanta soci attuali – sia in termini qualitativi, grazie anche ad un’intensa e mirata attività formativa ed agli accordi di partnership e di collaborazione con diversi Enti, tra cui l’ultimo in ordine di tempo quello con UNIPOSST – Università Popolare degli Studi Sociali e del Turismo di Napoli.

I relatori del Convegno che ha preceduto il II Congresso dei Sociologi ASI

Di recente, inoltre – il 5 febbraio scorso, per l’esattezza – è stata costituita la Deputazione francese dell’ASI, con sede a Parigi. L’ASI fa parte del circuito di ConfAssociazioni – la Confederazione delle Associazioni Professionali – ed è registrata al MISE – Ministero dello Sviluppo Economico, dal quale – ha precisato Latella – è riconosciuta come unica Associazione italiana di sociologi abilitata a rilasciare l’Attestato di Qualità e di Qualificazione Professionale dei Servizi prestati dai propri iscritti, in regola con le necessarie attività di formazione specifica. Con il 2023, ASI ha anche avviato la pubblicazione di una propria Rivista scientifica, Cultura sociologica, diretta da Patrizio Paolinelli – sociologo, giornalista ed autore di diverse pubblicazioni –, la quale si affianca alla testata giornalistica online Sociologiaonweb.

La platea del convegno scientifico

Alla relazione del Presidente Latella – molto applaudita e unanimemente condivisa dai presenti – è seguito un ampio dibattito, al termine del quale sono state approvate le proposte programmatiche per il prossimo triennio e sono stati eletti i nuovi organi statutari, primo fra tutti il nuovo Consiglio Direttivo nazionale.Il Congresso è stato preceduto da un Convegno scientifico – organizzato sempre dall’ASI, con la consulenza di qualificati Enti: AIPU – Associazione Italiana di Posturologia Universitaria, PSAF – Associazione Scientifica Professionisti Sanitari Assicurativi e Forensi, SFG – Scuola Forense di Grafologia, SGF – Scuola Grafopatologia Forense –  sui DSA, dal titolo “Approccio innovativo di Disturbi Specifici dell’Apprendimento”, nel corso del quale sono stati trattati anche gli aspetti sociologici di questo delicato e rilevante tema. Il Convegno si è svolto nella Sala Capitolare del Senato della Repubblica, il 24 marzo, è stato introdotto dal Presidente ASI, Antonio Latella, ed è stato coordinato dal dott. Giacomo Ciccarelli.

Un settore della platea del convegno “Approccio innovativo di Disturbi Specifici dell’Apprendimento”

Sono intervenuti, in qualità di relatori, studiosi ed esperti del settore e precisamente: la dott.ssa Hamida Ouled Slimane (Sociologia e DSA), responsabile tra l’altro della Deputazione ASI di Parigi; il Prof. Raffaele Zinno (Riflessi sociali dei DSA); il Prof. Gennaro Mazza (DSA, Sociologia e Grafologia); la dott.ssa Carmensita Furlano (Scrittura e DSA); il Prof. Gaetano Agliata (Oculomotricità nei DSA); il Prof. Davide Magnone (Postura e DSA); l’ing. Andrea Gadducci (Sociologia e Medicina quantistica informazionale); il dott. Donato Sarcinella (Gestione dell’informazione quantistica nei DSA).

* neo addetto stampa dell’Associazione Sociologi Italiani


La cultura e la religione sotto Augusto

di Giovanni Pellegrino

Il passaggio dal lungo periodo delle guerre civili a una fase di pace stabile sembrò risvegliare in età augustea la cultura .Augusto perseguì un’ampia politica di restaurazione culturale.

<<== Prof. Giovanni Pellegrino

 Tale politica prevedeva grandi investimenti nel campo delle arti insieme al sostegno delle correnti letterarie compatibili con le riforme di Augusto. Il “ Princeps” agiva in prima persona o per mezzo di collaboratori quali Mecenate suo consigliere ed amico il cui nome divenne sinonimo di protettore delle lettere e dei letterati. Infatti nella casa di Mecenate si riunivano e trovavano protezione artisti di vario genere che in cambio trasformavano le loro opere nello strumento per veicolare i valori della restaurazione morale di Augusto.

Dobbiamo dire che tale collaborazione non fu la conseguenza di un’imposizione forzata dal momento che Augusto investiva molto nelle arti e nella letteratura come anche nei lavori pubblici e negli spettacoli . Augusto in ultima analisi favoriva e proteggeva gli artisti che con le loro opere esaltavano e celebravano i valori ufficiali del principato. La letteratura latina visse  sotto Augusto il suo periodo d’oro .La sua caratteristica più visibile e distintiva rimase   l’ideologia politica la glorificazione e la giustificazione dell’impero romano.

Augusto ebbe a proprio servizio la penna di poeti quali Virgilio Orazio e Ovidio storici come Tito Livio scienziati quali Vitruvio e geografi come Strabone. Tutti  questi autori in modi diversi esaltarono la missione ecumenica dell’impero romano e il suo diritto naturale al dominio universale. Vi furono anche sporadiche manifestazioni culturali di dissenso al regime di Augusto, manifestazioni che furono represse.Per fare un esempio concreto uno dei poeti allontanati da Roma fu Ovidio e esiliato perché le sue opere erano considerate troppo licenziose.

Anche Afinio Pollione fondatore a Roma della prima biblioteca pubblica fu in disaccordo con la politica di Augusto . Afinio Pollione scrisse anche qualche libro di carattere storico che non è giunto fino a noi. A parte tali personalità di rilievo la produzione letteraria sotto Augusto era molto ricca e variegata .Per fare degli esempi concreti fiorì anche il genere drammatico e numerose opere teatrali furono scritte e rappresentate . Il periodo augusteo fu caratterizzato da una lingua latina molto matura ed evoluta che raggiunse l’apice dello stile e della chiarezza linguistica . A sua volta la cultura epigrafica latina assunse in questo periodo storico una forte unità.

Tale unità è la prova concreta degli stretti collegamenti esistenti tra le comunità di lingua latina in tutto il mondo romano . Il latino in questo periodo storico continuò a diffondersi nelle province  divenendo un modello imprescindibile della cultura dell’Occidente . Addirittura il latino riuscì a prestare alla lingua greca alcuni termini tecnici della scienza del diritto e della burocrazia . Come tutti sanno il greco fu sempre la lingua rivale del latino nel mondo romano .Inoltre proprio il greco si unirà al latino nella narrazione delle vicende storiche e della gloria di Roma. Infatti alcuni storici greci si specializzeranno nel racconto delle imprese militari di Roma.

Per fare degli esempi Polibio Diodoro Siculo e Dionigi di Alicarnasso diventeranno nei vari periodi storici gli storici di “ Roma  caput mundi”. Nel nuovo quadro politico e sociale il mondo greco entrato nella dominazione romana offrì nuovi scrittori ed artisti dotati di grande talento e capacità. Tale dato di fatto deve essere considerato il segno di una rinnovata prosperità nonché di un felice adattamento alla nuova realtà socio politica. La pace ritrovata e il notevole benessere materiale permisero al regime di Augusto di sviluppare un’ampia politica di lavori pubblici che determinarono l’abbellimento delle città in particolar modo di Roma .

L’architettura la pittura e la scultura furono caratterizzate da un periodo di splendore mai visto in precedenza . Augusto affermò di aver trovato una città di mattoni e di averla molto abbellita coprendola di marmi . Dobbiamo dire che anche lo slancio edilizio fu utilizzato per la propaganda del principato di Augusto. Tale slancio edilizio veicolò attraverso i monumenti gli slogan più importanti del principato quali “ pietas “ verso gli dei la famiglia e la patria nonché la “ virtus “ e i “ mos maiorum “. L’arte divenne così uno strumento della propaganda imperiale.

D’altra parte l’originalità e la qualità delle opere artistiche trovano l’esistenza di un’arte romana tipica realistica paragonabile all’arte ellenistica. Le caratteristiche principali di questa arte furono l’ecclettismo e l’ideologia imperiale. Il modello greco rimase tuttavia sempre visibile benché a differenza dell’arte greca coi nomi dei grandi artisti ellenistici quella romana fosse caratterizzata da un certo anonimato rimanendo gli artisti generalmente sconosciuti . Augusto fece edificare un altare che celebrasse la pace riconquistata vale a dire la famosa Ara Pacis , un foro e un grande tempio il Pantheon . Oltre all’edilizia pubblica anche quella privata ebbe un significativo impulso riflesso dell’agiatezza della sua committenza .

Una certa cura ed attenzione venne infine dedicata alla riorganizzazione architettonica dei campi militari permanenti che divennero talvolta vere e proprie città. Così come a Roma anche nei centri provinciali grande era l’attività edilizia pubblica. In molti luoghi sorsero templi di Augusto e di Roma e della Fortuna Augusta. Proprio la religione fu una delle maggiori preoccupazioni di Augusto. Egli con grandi sforzi ed impegno cercò di ripristinare la religione tradizionale romana ovvero tutti quei culti e quelle istituzioni religiose che erano stati gravemente trascurati durante l’età precedente.

La politica augustea di rinnovamento morale passava anche attraverso la rinascita della religione degli antenati . Tuttavia questa nuova rinascita della religione tradizionale ufficiale rimaneva principalmente un fenomeno di conformismo politico e sociale. Infatti nel mondo romano era presente il bisogno di un nuovo ideale spirituale e di una nuova fede. Non vi erano comunque culti religiosi prediletti dai vari ceti sociali . Accanto ai culti ufficiali continuarono ad esistere nuove forme religiose come superstizioni straniere pratiche misteriche ed anche riti magici. Tutte queste nuove forme religiose facevano comunque presa su molte persone sebbene fossero prive di appoggio e avallo ufficiali.

Una diretta conseguenza del principato di Augusto fu la nascita di un nuovo culto ovvero quello dell’imperatore. In oriente la deificazione del principe regnante era una pratica molto diffusa da tempo. Tale pratica nel periodo ellenistico era stata persino accettata dal mondo greco. Gli stessi romani a loro volta la accettarono pure essendo incompatibile con i costumi degli antenati. Accettando tale deificazione del sovrano regnante i romani riuscirono a spiegare le ragioni di un impero universale . Certamente la religione tradizionale romana non era in grado di giustificare l’esistenza di tale impero universale.

Dapprima titubante in un secondo momento Augusto permise che la propria persona venisse onorata come una divinità nell’urbe e nelle province. Il culto imperiale nell’Urbe era accompagnato dal culto della dea Roma . Dal punto di vista socio religioso la venerazione dell’imperatore rivestì una grandissima importanza. Infatti tale culto fu un fattore di forte coesione sociale in quanto tutti gli abitanti dell’impero romano si riconoscevano in tal modo uniti da un medesimo culto. Inoltre la venerazione dell’imperatore ebbe un’altra importantissima conseguenza socio politica ovvero il rafforzamento dell’autorità imperiale . Dopo Augusto la celebrazione dell’imperatore divenne un obbligo esteso a tutte le regioni dell’impero romano. Detto ciò riteniamo concluso il nostro discorso sulla cultura e sulla religione sotto Augusto.

                                                                           Prof. Giovanni Pellegrino


IL VALORE DELLA VITA NON È MERCE DA QUOTARE IN BORSA

di Antonio Latella *

Uomini senza umanità, gonfi di egoismo e, spesso, con la maglietta da cristiani. Da Steccato di Cutro è partito l’ennesimo messaggio sul valore della vita umana che, nei comportamenti di molti nostri simili, non sembra essere uguale per tutti. Invece è un bene prezioso e non l’oggetto di un listino borsistico soggetto a valutazioni del quotidiano gioco speculativo del capitalismo finanziario e del suo braccio operativo della globalizzazione.

<<<== Antonio Latella

La morte cancella le differenze terrene e tutti torniamo ad essere polvere anche dopo un pomposo, spesso ipocrita, rito funebre. Tutti, dai personaggi pubblici (dalla politica allo spettacolo, dallo sport all’imprenditoria… dal giornalismo alla sociologia) agli sconosciuti che sono stati inghiottiti dalle onde del mare calabrese e che, di molti di loro, probabilmente, non conosceremo mai il nome. Nostri simili: donne, uomini, bambini. Già, bambini che, nella terra che avevano abbandonato per realizzare i sogni di libertà, forse non avevano mai ricevuto una bambola, un trenino, o tirato calci ad un pallone.  Quella presenza di peluche sulle bare bianche del palasport di Crotone, posti da mani pietose, assume il significato di richiesta di perdono per la malvagità e l’indifferenza umana. Una risposta vera di pietà cristiana ai tanti sepolcri imbiancati sfilati, temiamo per esigenze d’immagine, davanti alle bare della camera ardente allestita nel palasport del capoluogo di provincia.

Ironizzare con la spocchia lessicale dell’intellettuale sulla morte non è concesso a nessuno. Ce lo ricorda ‘A livella’ del grande Totò, tanto per rimanere nel “profano”. “A prescindere” dai ruoli che ognuno di noi svolge come cittadino di terra-madre. L’ennesima tragedia dell’immigrazione dovrebbe aiutarci a ripensare alla crisi valoriale che alberga nelle nostre coscienze nel contesto di un esasperato individualismo che taglia trasversalmente la società attuale. Invece non sembra essere così. Neanche per quei cristiani che ostentano la loro appartenenza esibendo in pubblico il rosario ed altri simboli sacri.

Nel secolo degli spettatori pretendiamo che siano sempre gli altri all’impegno di solidarietà e di aiuto nei confronti delle persone oppresse dalle dittature, dalle guerre, dalla povertà, dal disagio sociale e dalle catastrofi naturali. Nella ricerca di libertà e di nuove occasioni di vita e di lavoro, c’è sempre una motivazione plausibile che rientra nell’ambito della libertà naturale di tutti gli uomini: dai russi agli ucraini, dagli italiani ai cinesi, dai coreani agli americani.  Quel “sarebbero stati incauti” non esiste: da uomini liberi non solo non lo accettiamo, ma lo respingiamo con forza.

Da non sottovalutare, inoltre, l’indifferenza di una parte dell’Occidente che all’accoglienza e alla solidarietà preferisce comportarsi come lo struzzo. E non solo nascondendo la testa sotto la sabbia della post modernità e delle logiche neoliberiste. Ma ponendo finanche veti nel contesto delle decisioni di un’Europa strabica e nostalgica di ideologie, che ha condiviso o subito, nel corso nel ‘900.

Pensiamo come sarebbe il mondo se la solidarietà alle comunità di appartenenza fosse riconosciuta organicamente e universale: un valore che non ha né confini né appartenenze.  Un principio dal quale ci allontaniamo sempre di più, poco tollerato da una parte della politica europea, sempre più rintanata negli egoismi di parte e morbosamente alla ricerca di consenso e prestigio. Un modus operandi che non risparmia nessuno: neanche il nostro Paese, certi suoi schieramenti politici, frazioni dell’economia, e segmenti di popolazioni inclini ad etichettare gli “altri” come portatori di negatività, ladri di lavoro agli indigeni e di valori che non appartengono alla nostra cultura. Un arengario disgustoso oltre che incubatore di odio e razzismo.

Ogni uomo porta sulle spalle il bagaglio di un destino pianificato da un essere soprannaturale che “ob torto collo” è costretto ad accettare tra innata paura e attesa di speranza. E va alla ricerca di un Dio, di una nuova fede. Quel credo che in noi cristiani continua ad affievolirsi sotto l’incalzare della modernizzazione, portatrice di nuovi paradigmi culturali, di modelli effimeri, di incondizionata subalternità al consumismo, che ci distraggono dagli insegnamenti del Vangelo per renderci succubi delle scoperte tecnico-scientifiche. Ma non perché affascinati dal ritorno all’illuminismo quanto per l’affannosa ricerca di una nuova libertà, probabilmente, dall’affrancamento del Dio che professiamo per abbracciare la religione dei media con al centro Internet, che il filosofo Paolo Ercolani definisce l’”Ultimo Dio”.  Riflettiamo assieme: solo alla “divinità” WhatsApp si affidano quasi 35 milioni (dato del 2022) di “fedeli”, che ha definitivamente cancellato l’agorà dalla nostra storia sostituendola con le comunità e le piazze virtuali.

 Applicazione protagonista anche nel dopo naufragio di Steccato di Cutro per marcare ancora di più il disegno di demonizzazione dell’avversario.  Da tempo esposto a raffiche di post sempre più finalizzate a difendere le ragioni dell’appartenenza e anche, come in questa circostanza, rispetto al dolore di quanti fanno parte del popolo dell’immigrazione: fenomeno di cui noi italiani, soprattutto i cittadini del Mezzogiorno, portiamo antiche e nuove stimmate.

Gli effetti di questo dibattito contraddittorio hanno trasformato la città di Crotone in meta di pellegrinaggio di gente sincera come di farisei. Mentre Roma è al centro di uno scontro al colore bianco che vede coinvolti anche pezzi dello Stato che si rimpallano le responsabilità (ancora tutte da accertare) sulla tempestività dei soccorsi. Con l’opinione pubblica   incapace di fare una distinzione, oseremmo dire una scelta, tra bene e male, realtà e face news.

Caos che si aggiunge a quanto sta avvenendo in un mondo ormai multipolare che corre alla ricerca di un nuovo ordine geopolitico finalizzato alla conquista del pianeta e delle sue risorse naturali e allo sfruttamento dei mercati, Un disegno che utilizza raffinate tecniche di comunicazione ideologica che creano destabilizzazione soprattutto tra i paesi occidentali, Europa compresa. Con grandi rischi per la democrazia che nell’era dei social è chiamata a fare i conti con un’immensa concentrazione del potere.  Sempre meno interessato – per motivi di convenienza – al fenomeno migratorio: diventato un sentimento comune.  E cosi rimaniamo ancorati alle nostre abitudini: seduti nelle nostre abitazioni davanti a vecchi e nuovi media facendo zapping o click, mentre  “loro”,  gli stranieri, annegano  tra le onde dell’impetuoso Mare Nostrum,  cimitero senza tombe e senza fiori.

Ogni occasione è buona per imbarcarsi e sfuggire al male: opportunità densa di speranza e fiducia riposta in altri esseri umani dalla “faccia pulita”, ma con l’animo criminale. Profughi disposti a tutto pur di essere traghettati nell’agognato occidente, terra delle libertà individuali e di nuovi costumi, al punto da privarsi di tutti i loro averi (magari ricorrendo a prestiti da amici e parenti) ed affidare la loro vita nelle mani di criminali tollerati dalla corruzione esistente nei paesi di partenza dei viaggi della speranza.  Esistono logiche che non capiamo o non vogliamo capire. Iniziando dall’Ue che attraversata dagli egoismi, dalla simpatia o antipatia per le diverse componenti di questa multipolarità mondiale, usa l’arma del silenzio per spezzare la resilienza di quanti vanno in cerca, tra indifferenza e razzismo, di libertà e giustizia sociale. I morti di Steccato meritano rispetto. Fermiamoci in silenzio per qualche giorno e riflettiamo sull’importanza dei nostri antichi valori. A prescindere.

*Antonio Latella – sociologo, giornalista e presidente nazionale sociologi ASI


GIOVANI DELUSI, INQUIETI, ASOCIALI, VIOLENTI

di Antonio Latella *

L’attuale fotografia del Paese ci aiuta a mettere a fuoco il presente e immaginare il futuro della nostra società sempre più anziana e alle prese con il fenomeno della violenza giovanile. Una istantanea nitida il cui orizzonte è carico di nuvoloni di rassegnazione, inquietudine, di comportamenti asociali, di violenze.

<<== Antonio Latella *

Ragazzi contro ragazzi, adolescenti contro adolescenti: da Firenze a Trieste, passando per Mantova. Scontri di natura ideologica e accoltellamenti per futili motivi, forse sentimentali. Gli ultimi due episodi hanno come protagoniste ragazzine in possesso di armi bianche. Quasi come i guappi di un tempo, eppure appartengono a famiglie comuni, perbene e senza ombre, il cui status viene offuscato da simili vicende.

In una società che trasuda violenza, fisica e verbale, dai suoi gangli vitali, non si salvano neanche quelle comunità che affondano le radici in antiche civiltà. Per questo appare quasi discriminatorio emettere “sentenze” di  condanna dei territori teatro dei fatti di cronaca.  Anche perché il “virus” si espande così velocemente che non trova anticorpi in grado di frenarne gli effetti deviati per poi far ricorso ad appropriate terapie sociali.

Nella foto, dai contorni nitidi e inequivocabili, notiamo una società individualista e competitiva, contaminata dai comportamenti materialisti del consumismo, in cui ai beni voluttuari riserviamo maggiore importanza delle persone. Insomma, un’omologazione totale ai paradigmi dell’occidentalizzazione in una metamorfosi a tappe: dalla laicizzazione della società al boom economico e alle successive lotte operaie, dal Sessantotto (tappa importante per frantumare i residui di una società arcaica avviando una rivoluzione dei costumi) al neoliberismo, fino alla società post industriale e all’attuale dittatura della globalizzazione digitale.

Cambiamenti epocali, lasciati senza governo, che hanno agevolato la nascita della società liquida e provocato lo sradicamento delle nostre radici umanistiche.

Effetti che nel tempo hanno messo in crisi le due principali agenzie educative: famiglia e scuola, entrambe in profonda difficoltà, al punto di aver perso la grande funzione pedagogica del passato. Famiglia e scuola: la prima che in poco più di un secolo è passata dalla patriarcale alla nucleare per proseguire con un numero di tipologie crescenti (un solo genitore, ricostruita, impersonale, fino a quella di fatto). L’attuale modello, Vittorino Andreoli lo definisce “famiglia digitale”: “…influenzata dal trionfo di internet e dall’uso dello smartphone che è diventato un’appendice del nostro corpo e della nostra mente”. Nel saggio di Andreoli si analizzano gli effetti della trasformazione digitale: si evidenziano i pericoli di un adattamento passivo, il rischio di una società senza famiglia, ma si riconosce anche la capacità del nucleo parentale di ritrovare la forza e le funzioni peculiari che l’hanno caratterizzato in millenni di storia.

Ma non dimentichiamo che i social hanno chiuso tutti noi (giovani, meno giovani e anziani) in un eterno presente: qui e ora, tutto e subito. All’interno delle famiglie non esiste più la comunicazione, ma le connessioni che ci rubano il tempo anche durante i momenti di convivialità, nonostante il nostro corpo rimanga seduto attorno al tavolo con gli altri familiari. Affetti e interessi evadono fuori delle mura domestiche in un nomadismo virtuale che ci illude di approdare in altri mondi, di fare nuove amicizie. E con lo sfaldamento della famiglia, i figli si ritrovano senza punti di riferimento. Questa assenza poi incide sulla loro crescita psico-sociale e causa anche la solitudine degli anziani conviventi.

La disarticolazione del primo nucleo di società consente al virus della violenza giovanile di contagiare nuovi territori della nostra società, sempre più anemica di anticorpi del vivere civile.

Ecco perché il pestaggio dei due studenti sul marciapiede del Liceo Michelangiolo di Firenze e gli accoltellamenti avvenuti in altrettante comunità delle province di Mantova e Trieste – sommate al bullismo, all’azione delinquenziale delle baby gang e a tutti gli altri episodi di violenza giovanile passate alla cronaca – necessitano di un nuovo protagonismo delle famiglie e risposte forti e immediate da parte dello Stato.  L’indignazione, i convegni e i progetti di recupero pagati da Pantalone fino ad oggi hanno prodotto scarsi risultati con un grande spreco di risorse pubbliche. E allora, considerato che non esiste più la funzione pedagogica, “dura lex sed lex”.

Se la famiglia è in crisi non meno gravi sono le condizioni della scuola che si porta dietro il peso di riforme sempre funzionali alla politica dominante che ha governato il Paese per oltre mezzo secolo. In particolare la sinistra che sulla spinta emozionale del movimento studentesco del ’68 ne ha modificato l’autonomia, limitando al minimo sia la gestione, sia il prestigio degli insegnanti. E da quando il portone degli istituti scolastici è stato spalancato, al suo interno è entrata anche la politica che, in parte, ha contratto le scelte dei docenti anche sul fronte didattico. Come se non bastassero gli episodi di violenza giovanile già passate alle cronache, il Paese ha l’urgenza di decodificare altri segnali: pensiamo allo sciopero annunciato dal sindacato nell’immediatezza dell’aggressione di Firenze, probabilmente inopportuno. Ma questo lo capiremo tra qualche tempo.

L’Italia si trova davanti ad un bivio pericoloso, intanto per il clima rovente della contrapposizione politica tra maggioranza e opposizione sulla recente sentenza della Cassazione che ha respinto il ricorso di Alfredo Cospito, anarchico insurrezionalista, che dal 2014 in regime di 41bis sta scontando una pena di poco più di 9 anni per la gambizzazione di un dirigente dell’Ansaldo. Una situazione che potrebbe far scoccare la scintilla di una malaugurata rivolta sociale. Una miscela “esplosiva”, che ha costretto lo Stato ad intensificare la sorveglianza su eventuali obiettivi sensibili

Torniamo agli ultimi episodi di violenza giovanile. Se da una parte è compito esclusivo della giurisdizione penale accertare le responsabilità dei neofascisti e, di conseguenza, irrogare la giusta sanzione, dall’altra riconosciamo all’opinione pubblica, alle istituzioni, alla stessa politica, nonché agli organi scolastici del Liceo fiorentino, il diritto di condanna sociale.

La foto risulterebbe taroccata se non si tenesse conto di due ulteriori particolari: l’intervento del ministro all’Istruzione e al Merito sul caso del Liceo Michelangiolo con una risposta affrettata, forse di parte, alla preside della scuola, che in una circolare aveva difeso i suoi studenti.  Al posto della moderazione il Ministro ha preferito annunciare sanzioni prima di ascoltare e capire certe iniziative. Ascolto e moderazione fanno parte, o meglio dovrebbero far parte, delle virtù della politica, ancor più quando svolge una funzione di governo che attribuisce il “potere di esternazione”, che richiederebbe una componente di prudenza maggiore rispetto al più generalizzato diritto alla libertà di manifestazione del pensiero che spetta a tutti i cittadini.

Su questo aspetto, illuminante è stato recentemente il prof. Michele Ainis.

Sulla vicenda di Firenze, preside e ministro potrebbero aver preferito la visibilità mediatica al più appropriato esercizio dei rispettivi ruoli svolti.  Il dibattito che è seguito ha provocato un forte senso di irritazione e divisione dell’opinione pubblica: scontri dialettici che utilizzano il linguaggio di contrapposte ideologie che hanno caratterizzato il ‘900 e che non aiutano a riportare serenità negli ambienti studenteschi.  Uno spettacolo che, ne siamo certi, neanche gli studenti stessi, futura classe dirigente del Paese, hanno gradito. Cosi come non tutte le classi del Michelangiolo intendono  omologarsi al pensiero della preside in merito ai riferimenti storici contenuti nella lettera a loro inviata. Anche loro hanno idee politiche che a volte non professano (o preferiscono rimanere neutrali) al punto di respingere l’idea che la scuola possa diventare una fucina ideologica in contrapposizione al dettato della nostra Costituzione.

La scuola e i docenti non hanno la funzione di indottrinare i discenti, trasferendo loro simpatie o antipatie nei confronti di qualsiasi parte politica o partitica.  Se ciò dovesse capitare, come in modo larvato potrebbe, si perde la fiducia dello Stato, tradendo così il giuramento di fedeltà fatto al momento dell’assunzione di chi lavora nella pubblica amministrazione. Un dovere rispetto al quale non ci sono deroghe: né per i presidi, né per i docenti, e, ovviamente, neanche per il personale amministrativo.

Le ideologie e le militanze partitiche rientrano nel novero delle libertà individuali, ma sono off-limits prima di varcare i cancelli della scuola pubblica dove la funzione è quella del trasmettere i saperi.

  • Antonio Latella – sociologo, giornalista, presidente
    • Associazione Sociologi Italiani


DAL LOGORIO DELLA VITA PUO’ SALVARCI SOLO FIORELLO

di Antonio Latella

Non siamo più noi stessi e nei rapporti sociali raramente esprimiamo quelle emozioni positive di cui noi italiani andavamo fieri.  Cosa ci succede per essere così spaventati, introversi, irascibili, smarriti?

<<<=== Antonio Latella

Il fatto che per strada, in metro e spesso anche al bar nella pausa caffè rimaniamo tutti a testa bassa, muti e posturalmente inespressivi non può rimanere sempre un problema degli altri. Riguarda tutti: politica, istituzioni, corpi intermedi e semplici cittadini che più degli altri soffrono gli effetti della post modernità. Appare del tutto fuori luogo – almeno in questa circostanza – citare Montesquieu e la sua teoria sul “Clima e il carattere dei Popoli”: nord e sud, almeno su questo versante, non fanno differenza, Napoli compresa, nonostante la proverbiale simpatia dei partenopei riconosciuta anche negli angoli più remoti del nostro pianeta.

Ma neanche possiamo negare una mutazione antropologica riconducibile alla metamorfosi del mondo, trainato dalle scoperte scientifico-tecnologiche che spingono il vascello-terra (per traslare il pensiero di Morin) a navigare così veloce   da non renderci conto quale sarà il destino dell’umanità.  E soprattutto delle prossime generazioni alle quali passeremo il testimone del futuro di un pianeta in grande sofferenza sociale, economica, ambientale e relazionale.

In ogni epoca storica l’uomo ha affrontato un particolare e sempre diverso logorio. E se in passato, grazie alla genuinità dei rapporti individuali e di gruppo, di rispetto e di solidarietà, il Paese è riuscito ad affrontare i problemi ereditati dalla guerra e dalle violenze del regime fascista, oggi abbiamo perso la fiducia soprattutto nelle istituzioni. La dipendenza delle odierne sovrastrutture politiche e culturali dal capitalismo globalizzato ha letteralmente cancellato l’antica funzione di indirizzo e controllo della democrazia e, di conseguenza, ha contribuito ad annullare l’espressione delle emozioni e del pensiero dell’uomo.  Ciò determina non solo una grande sofferenza sociale, ma anche la disaffezione nei confronti del sistema politico e, di conseguenza, il rifiuto alla partecipazione democratica come registrato – ultimo esempio in ordine di tempo – nelle ultime elezioni regionali in Lombardia e Lazio.

Se non c’è empatia ci chiudiamo nel guscio dell’individualismo e, rassegnati come siamo, rischiamo di diventare i pasdaran della società dell’odio.  Il rischio di rivolta sociale, già molto alto per gli effetti della pandemia e della guerra in Ucraina, trova combustibile nella grave situazione economica in cui si trova l’Italia che si porta dietro gli effetti disastrosi delle politiche populiste di un recente passato. Le nuove povertà che si aggiungono alle pregresse, la quasi completa scomparsa delle classi medie, gli scandali, la corruzione, l’uso politico della magistratura, lo scontro tra e all’intero delle coalizioni politiche sono lo specchio di un Paese che non può più avvitarsi su se stesso nella speranza che sia  sempre l’Europa a correre in suo aiuto.

Far finta di indignarsi se cittadini senza scrupoli hanno ottenuto dalle casse dello Stato risorse per quasi 10 miliardi di euro destinate al bonus 110% sulla ristrutturazione del patrimonio immobiliare (senza averne diritto, dicono da ambienti politico -governativi), rappresenta una delle tante ipocrisie di un Paese che non rispetta i suoi cittadini che vengono munti come vacche padane.

La testa bassa, i musi lunghi, il mutismo fanno parte della comunicazione non verbale ma non si tratta di messaggi di rassegnazione. Un silenzio che diventa assordante anche se nessuno degli interessati pare abbia voglia di ascoltarlo. Ma il cittadino, prima o poi, presenta il conto: rimane lontano dai seggi elettorali. E di fronte alla disaffezione, scatta il festival dell’ipocrisia nel tentativo di spiegare un fenomeno di cui sono note origini e motivazioni.

I musi lunghi degli italiani veicolano altri messaggi per chiedere conto dello stato di salute del Welfare  e se l’Italia sarà in grado di spendere bene e subito le risorse del Pnrr. Fuori dalla retorica dell’appartenenza geografica, pensiamo a come sarà il Mezzogiorno dopo la grande abbuffata di risorse europee e, soprattutto, se questa parte della penisola otterrà l’aiuto per eliminare il gap con le altre regioni che crescono anche grazie ai migliori cervelli costretti a lasciare la loro terra. La rabbia e non già il sole abbrunisce i volti di milioni di “terroni” costretti ad accontentarsi delle mancette elargite dal governo di turno rispetto a vere opportunità occupazionali.

Il mutismo, che a questa latitudine viene etichettato come omertà, fa parte dell’atavica rassegnazione di un popolo saccheggiato dall’imprenditoria d’oltre linea Gotica, scesa al sud creando cattedrali nel deserto, che dopo il saccheggio del territorio ha puntualmente trovato l’alibi per il rientro alla base.

E’ vero, lo sviluppo del Mezzogiorno è stato frenato dalla presenza di grandi fenomeni sociali deviati e negativi (dal brigantaggio alla mafia che oggi contende allo Stato “la sovranità” del territorio), ma la politica nazionale – da Giolitti a quella repubblicana, espressione di decine di governi centrali: monocolore o di coalizione –  allo sviluppo solido e duraturo ha preferito l’assistenzialismo. Per due motivi: per trasformare questa grande area dell’Italia in serbatoio di braccia prima, e oggi di cervelli, da utilizzare al Nord per il suo livellamento con il resto dell’Europa; e per impedire rivolte sociali  come quelle che hanno caratterizzato il passato: dalla riforma agraria con l’occupazione delle terre ai Moti di Reggio del 1970, fino alle grandi manifestazioni operaie  per lo smantellamento delle poche realtà industriali.  Le rivolte sociali non necessitano di preavviso.

E mentre si lavora all’autonomia differenziata  che renderà il nord sempre più ricco e moderno e il Mezzogiorno sempre più emarginato, tra Scilla e Cariddi riappare il cavallo di Troia del Ponte sullo Stretto. Ennesima promessa di sviluppo: beffa che segue gli impegni puntualmente disattesi sull’alta velocità Salerno-Reggio Calabria, con prosecuzione nella dirimpettaia Sicilia. Il problema del Mezzogiorno non è solo dei suoi abitanti, ma dell’intero Paese:  se il primo non cresce il resto rimane con il freno a mano tirato.

A muso lungo ( o corto…) gli italiani, da troppo tempo, aspettano le riforme come quella della Giustizia madre di tutti i cambiamenti. La durata dei processi, innanzitutto. Ma anche una revisione di alcune parti del codice penale che spesso ben si prestano a comprimere al massimo le garanzie di libertà personale e riservatezza nel rispetto della volontà dei Padri costituenti. Una politica pavida che sembra ingessata nella funzione legislativa ha il compito di rinsaldare la divisione dei poteri.  E respingere con gli strumenti previsti dalla Costituzione l’uso politico della magistratura. Il cittadino che sbaglia deve pagare, ma chi, incidentalmente, finisce in un’indagine di polizia giudiziaria e poi finisce in pasto all’opinione pubblica rappresenta un atto di barbarie, con l’aggravante di essere cittadino di un Paese che si definisce patria della cultura giuridica. Lo stesso vale anche per chi dopo un lungo calvario giudiziario viene ritenuto completamente estraneo ai fatti a lui addebitati. Ma come qualsiasi altro indagato è già finito davanti ad una corte mediatica.

Italiani spaventati, introversi, irascibili, smarriti: cittadini di un Paese che, come per il passato, deve tornare ad essere ispiratore di un nuovo Umanesimo nel contesto di un’Europa, senza ideologie e divisioni, e ridare all’attività culturale, sociale e politica la funzione di governare i processi di pace, prosperità e progresso.

Non un pensiero utopistico, ma di speranza.  Altrimenti nessuno riuscirà a salvarci dal cannibalismo, neanche la satira di Fiorello che al risveglio con le sue gag   fortifica la nostra resilienza messa a dura prova dal caos prodotto dalla cattiva maestra e dai suoi nipotini.

Antonio Latella – sociologo, giornalista e presidente dell’Associazione Sociologi Italiani


Il tempo e l’azione della politica

di Domenico Stragapede

I tempi passano ma il sistema politico sembra essere sempre lo stesso. I politici si riducono, ma la proposta elettorale sembra non cambiare. L’importante è avere la maggioranza nella composizione degli schieramenti. Ma la società contemporanea non chiede la quantità. I valori del passato non sono più il collante per attrarre l’attenzione e la fiducia dell’elettore.

<<== Domenico Stragapede —

Ebbene sì, il cittadino chiede risposte, azioni, processi e programmazione per realizzare innovazione e sviluppo.

La militanza era lo strumento di attenzione per formare il carattere funzionale della risorsa collaborativa, oggi l’ambiente sociale ha cambiato le abitudini nel percepire le variabili dello spazio e del tempo. Il vivere quotidiano viaggia ad una velocità che la politica del consenso di breve periodo non è più in grado di concepire. Il sistema governativo della chiamata alla responsabilità ha un nuovo elemento di propulsione, la “programmazione”, quel processo che richiede preparazione e analisi di lungo termine per definire la visione e gli obbiettivi per creare lo spazio delle possibilità.

L’epoca dello spot e delle informazioni variopinte non sono più il risultato di uno spettacolo teatrale, ben visto da chi esprime il proprio consenso per eleggere la propria rappresentanza. La qualità e la sostanza sono elementi richiesti all’ambiente politico, il saper cavalcare l’onda della promozione pubblicitaria si addice ad una realtà degli anni 60, gli anni del benessere. La complessità a sostituito lo scenario semplice, dove ogni semplice parole, da sola rappresentava un proclama al cambiamento.

Oggi la svolta risiede nel saper non solo trasmettere emozioni, reclutando attraverso l’ammirazione personale. La capacità di analisi, programmazione ed esecuzione dei processi innovativi, ecco il fulcro della politica qualitativa.

La politica oggi ha fallito perché è vista da molti come la strada per migliorare la propria individualità attraverso il potere, prestigio e posizione. Ma non bisogna dimenticare che non stiamo parlando di un lavoro, ma di uno strumento che serve per realizzare le politiche di crescita e sviluppo della società nella sua complessità.

Il saper comprendere e realizzare il cambiamento è la sostanza concreta della politica, quell’azione di governo che stabilizza le dinamiche previste nel presente, utili a eseguire i processi futuri di un territorio che possa essere una città, provincia, regione e/o stato.

La politica dovrà creare fiducia partecipativa, realizzare soluzioni, concretizzare il pensiero dinamico della comunità, dovrà adattare i propri tempi alla plurale scala di problemi nella ricerca sempre maggiore di  benessere, cercando il valore nella capacità individuale/collettiva e qualità funzionale.

Dott. Domenico Sgragapede – Sociologo ASI


IL RITORNO DEL LEVIATANO E LA CRISI DEL MOVIMENTO PACIFISTA

di Antonio Latella

La guerra non è una fiction. Papa Francesco la definisce la “mistica della distruzione”. Sì, distruzione, morte che non risparmia nessuno: bambini, donne, anziani e tanti altri esseri umani costretti a subire le forme mistiche dell’autocrazia. <<== Antonio Latella –

La fine della “guerra fredda”, la caduta del muro di Berlino, il tramonto delle ideologie, la dissoluzione dell’Urss avevano fatto credere all’Europa di aver sconfitto il leviatano del Secolo breve.  Ma nella sua metamorfosi, il mostro biblico – che Thomas Hobbes utilizzò per indicare il sovrano che esercitava il potere assoluto – ha assunto le sembianze del cavallo di Troia traendo in inganno politici, governi, associazionismo, movimenti pacifisti e semplici cittadini.

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin, con intere città rase al suolo, sembra non interessarci più di tanto, nonostante le immagini drammatiche e inumane entrino quotidianamente nelle nostre case attraverso la televisione.

La guerra, rispetto ad analoghi episodi del passato, non ha registrato il protagonismo del movimento pacifista. Difficile individuarne le motivazioni a meno che non si voglia parlare di crisi esistenziale. Qualcuno assumendo la difesa potrebbe attribuire la colpa ai social, cosa che in parte è possibile. Ma la mancata presenza nelle piazze dei giovani e degli studenti, sempre pronti alla protesta quando si tratta di imperialismo americano, solleva più di un dubbio.  Forse siamo alle prese con una sorta di “conversione” di massa per redimerci dai vecchi rancori ideologici, abiurare allo stile di vita occidentale e ricostruire così un nuovo modello di società.

E tra nostalgici e nuovi proseliti, sempre alle prese con contraddizioni e distinguo a prescindere, l’Ue continua a correre il serio rischio di profonde lacerazioni tra gli Stati che la compongono. A ciò si aggiunge il cerchiobottismo Usa, che condensiamo nel disegno teso all’allargamento del G7.

E come se non bastasse, alcuni politici nostrani di vecchia militanza si affidano alla retorica pur di guadagnare consensi. Cosa che la Premier Giorgia Meloni continua a non accettare, stoppando ogni tentativo di polemica prima che diventi virale sui social. Le nostre perplessità poggiano sul dato oggettivo che in guerra chi  muore da una parte e dall’altra  sono esseri umani: giovani in prevalenza.

Il nostro pianeta attualmente è alle prese con una cinquantina di conflitti armati – non tutti riconducibili ai disegni delle potenze globali – a cui si aggiungono i demoni della paura che minacciano l’utilizzo delle armi atomiche. Per i tanti teatri bellici sparsi in quasi tutti continenti, ma anche per i crimini di guerra (recenti e passati), non mancano i quotidiani appelli del Pontefice alla pace: carichi di preoccupazione per gli effetti umanitari e i danni collaterali che– come non si stanca di ripetere Papa Bergoglio – causa questa “terza guerra mondiale a pezzetti”.

Agli appelli di pace e del cessate il fuoco, soprattutto in Ucraina, fa da contraltare l’impotenza dell’ONU, ostaggio del “diritto di veto” da parte di uno dei 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia). Al punto da dimostrare l’inutilità di una organizzazione incapace di difendere il mondo e di garantirne gli equilibri. La sua impotenza è pari a quella della vecchia Società delle Nazioni.

Anche se in “sonno” il leviatano non ha mai smesso di essere l’ispiratore dell’imperialismo che spesso, col mendace proposito della difesa della democrazia, si macchia di crimini che nessuno mai riuscirà a sanzionare. Mostrare i muscoli per destabilizzare è sempre presente nella logica geopolitica di Stati Uniti, Russia e Cina.

Gli Stati, intanto, corrono verso un riarmo senza precedenti dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale: l’industria bellica lavora a pieno regime e i governi continuano a stanziare tante di quelle risorse finanziarie che potrebbero essere utilizzate contro la fame nel mondo e per avviare quella bonifica ambientale del nostro pianeta, il cui stato di salute è giunto al punto di non ritorno.

Dietro ogni guerra ci sono grandi interessi: prima per distruggere, dopo per ricostruire, gestire le risorse naturali, energetiche innanzitutto. Interessi che hanno ben poco a che fare con la difesa della democrazia: il più delle volte sono riconducibili alla logica del capitalisismo finanziario (che utilizza il “braccio armato” della globalizzazione per accumulare grandi risorse che solo in minima percentuale vengono redistribuite a beneficio di territori e cittadini), molto più vorace e inumano delle variazioni storiche assunte dalla rivoluzione industriale al fordismo.

 E se in passato i corpi intermedi, in particolare il sindacato, rappresentavano un argine a difesa dei lavoratori e la politica, bene o male, riusciva a mediare sulle scelte in materia di lavoro e occupazione, oggi il capitale sceglie aree vergini sparse per il mondo, con bassi salari, senza sindacalizzazione, senza tutele sociali. Tutto questo fa aumentare le diseguaglianze, le povertà, gli egoismi che ne trae vantaggio quel 10% della popolazione mondiale che detiene circa l’80% della ricchezza complessiva.

Torniamo al massacro della popolazione ucraina. Le scene di distruzione e di morte che giornalmente i media introducono nelle  nostre abitazioni non  sbloccano i colloqui di pace da parte delle diplomazie che si sono assunte tale difficile campito. Nessun passo in avanti, nemmeno dopo la devastazione causata da un missile di una tonnellata sganciato da un aereo russo che ha distrutto un insediamento abitativo a Dnipro.

E mentre aerei e navi russe sarebbero state dotate di armi nucleari, non possiamo restare passivi in attesa della paventata fine del mondo, ma abbiamo il dovere di reagire e condannare: ognuno per la funzione sociale che svolge. A volte la storia si ripete e lo fa improvvisamente e a nostra insaputa.

Antonio Latella – giornalista, sociologo e presidente dei sociologi ASI


La cultura e la religione nell’impero romano nel III secolo d.C.

di Giovanni Pellegrino

In questo articolo prenderemo in considerazione la cultura e la religione nell’ impero romano nel III secolo d.C. La cultura del III secolo d. C. è poco conosciuta . Infatti quasi nessun lavoro letterario è sopravvissuto . Tuttavia un capitolo importante dell’attività intellettuale di quel periodo storico è rappresentato dalla cultura giuridica .

<= Prof, Giovanni Pellegrino

L’età dei Severi è l’età di importanti giuristi quali Paolo Ulpiano e Modestino. Dei contenuti della loro opera ci dà informazioni il “ Tigesto” una compilazione giuridica dell’età di Giustiano. Sappiamo di più sulla letteratura greca di questa età in particolare della filosofia neo platonica rappresentata soprattutto da Plotino e dai suoi seguaci. I neoplatonici continuavano tradizioni filosofiche razionalizzanti con una fede fervente nel politeismo sincretistico cercando di contrastare le religioni misteriche orientali e il cristianesimo.

A scrivere in greco la storia di Roma ci pensarono Cassio Dione ed Erodiano mettendo in mostra l’ormai completa integrazione dei Greci nell’impero romano. In particolare Erodiano definisce l’impero romano con la significativa espressione “ il nostro impero romano “. Dobbiamo mettere in evidenza che i Greci stessi cominciarono a definirsi “ Romani”. Per quanto riguarda le belle arti si osserva una loro decadenza o piuttosto la loro evoluzione verso un mutamento dell’ideale estetico. Venne gradualmente abbandonata la rappresentazione fedele della realtà e della personalità individuale che venne sostituita da uno schematismo di pose e di tratti. Nell’architettura il fenomeno dominante fu la crisi dell’urbanesimo tradizionale sostituita da un’ urbanistica destinata a soddisfare le esigenze della difesa.

Il riutilizzo di vecchi frammenti e di elementi architettonici per nuove costruzioni rivela le difficoltà economiche di quel periodo storico , uno dei più difficili e problematici della lunghissima storia dell’Impero romano. Infatti il III secolo d.C. fu caratterizzato da una evidentissima crisi economica e sociale che colpì tutte le classi sociali e tutti i territori dell’impero romano. Solamente le sontuose ville dei latifondisti continuarono a fare sfoggio di sé insieme al grande tempio che a Roma l’imperatore Aureliano dedicò al dio Sole.

Molto interessante fu anche l’evoluzione della religione in questo periodo storico. I culti tradizionali pur sempre in vigore persero popolarità come anche il culto imperiale. Sebbene lo Stato continuasse a pretendere tale culto e sebbene continuasse a essere celebrato divenne soprattutto una prova di fedeltà politica all’imperatore e una sorta di dovere civico. Nella sempre maggiore “ anomia religiosa” esistente nell’impero le masse cercarono altri dei e altri orizzonti spirituali. Le divinità straniere specialmente quelle orientali rimasero sempre di moda ma se alcune videro aumentare i propri adepti ( vedasi il caso del dio Mitra) altre persero un certo numero di fedeli.

In tale periodo storico i moltiplicarono anche le manifestazioni di superstizione e di occultismo ed inoltre la magia trovò un notevole numero di adepti. Fu proprio per rispondere a questo clima di magia e superstizione che l’imperatore Aureliano cercò di imporre senza successo il culto unitario e unificante del “ Sol Invictus ”. Non deve assolutamente sorprendere il fatto che in tale periodo storico molte persone praticassero la magia e le arti divinatorie. Infatti come tutti i sociologi o gli storici sociali sanno nei periodi di crisi molte persone si rivolgono alla magia e all’astrologia perché cercano in tal modo di assumere il controllo degli eventi e delle altre persone avendo perso la fiducia nelle strategie razionali finalizzate ad assumere il controllo sull’ambiente esterno e sugli altri uomini.

Anche le stesse arti divinatorie a cominciare dall’astrologia nei periodi storici nei quali il futuro diventa incerto e fonte di ansia si cerca di avere informazioni sugli eventi futuri utilizzando le arti divinatorie in generale e l’astrologia in modo particolare. Nel periodo compreso tra la morte di Commodo e gli inizi del regno di Diocleziano il fenomeno spirituale e sociale più rilevante ed importante fu rappresentato dalla crescita del cristianesimo la religione cristiana riuscì in tale periodo storico a fare adepti e a coinvolgere sempre più i componenti di tutti i livelli sociali.

Inoltre il cristianesimo riuscì a conquistare adepti in tutte le province dell’impero romano. Ciò avvenne perché la crisi ideologica morale e spirituale stava ormai investendo tanti strati della società romana. Gli individui reagirono a questo stato di cose angosciante e frustrante in modo diverso : vi fu chi si rivolse allo  scetticismo e incredulità che venne attratto dalla magia o dalla mistica dei culti orientali e chi invece trovò nella religione cristiana l’alternativa cercata al clima di crisi imperante. Certamente la grande coerenza dimostrata  fino al martirio numerosissimi cristiani ebbe il suo peso nel crescente successo del cristianesimo ma senza dubbio se non fosse esistito tale clima di crisi la religione cristiana avrebbe faticato molto di più a conquistare un numero sempre crescente di adepti

Le comunità cristiane aumentarono si diffusero in tutte le città più importanti dell’impero romano e cominciarono ad avere tra loro stretti contatti . Si strutturarono meglio al loro interno sia dal punto di vista organizzativo sia amministrativo. La direzione delle comunità passò nelle mani di speciali membri a ciò preposti scelti dal resto della comunità: presbiteri diaconi e vescovi. Questi ultimi si riunivano in assemblee come sinodi o concili per prendere decisioni importanti e discutere intorno ai dogmi della fede. Il vescovo più importante era quello di Roma la più grande città dell’impero sede della più grande comunità cristiana .

Il III secolo d. C. annoverò le due più violente persecuzioni scatenate contro i cristiani. Infatti Decio e Valeriano perseguitarono in maniera sistematica i cristiani di tutto l’impero romano. Molti andarono incontro con grande coraggio al martirio ma ci furono anche altri che per evitare il martirio rinnegarono la propria fede. Questi ultimi i cosiddetti  Lapsi rinnegarono la loro religione accettando di fare sacrifici all’imperatore. Ma questi sono anche i secoli nei quali nacquero all’interno delle comunità cristiane le prime forme di eresie: il montanismo dal nome del profeta Montano apparve alla fine del II secolo d.C, mentre poco dopo fu la volta del donatismo dal nome del vescovo Donato.

I seguaci del montanismo erano contrari all’universalismo della religione cristiana colpevole a loro dire di aver cercato dei compromessi con lo Stato pagano e di aver cominciato ad accumulare beni e proprietà. Viceversa i seguaci del montanismo esortavano i propri fedeli a rinunciare alle ricchezze terrene e a condurre una vita improntata sullascitismo. Derivazione del montanismo fu il donatismo. Infatti il vescovo Donato in Africa si mise a capo di una corrente di montanisti intransigenti . Essi decisero di rifiutare il perdono a tutti coloro che durante le persecuzioni di Decio e Valeriano avevano rinnegato la religione cristiana. Dobbiamo altresì mettere in evidenza che malgrado le ostilità e le persecuzioni il mondo romano fu l’unico spazio dove la fede in Gesù Cristo poté svilupparsi e progredire alla fine dell’antichità.

Concludiamo tale articolo riguardante la cultura e la religione nel III secolo d.C. mettendo in evidenza che in alcune province dell’impero romano fecero la loro comparsa manifestazioni culturali preromane  .


HA ANCORA UN SENSO LA “FESTA” DI SAN VALENTINO?

di Antonio Latella –

Dubbiosi e scettici, forse irriverenti nei confronti di milioni di persone che celebrano la festa degli innamorati. Tuttavia ci chiediamo se oggi abbia ancora un senso la ricorrenza di San Valentino.

<<<=== Antonio Latella

Lo facciamo con la consapevolezza del rischio di essere costretti a passare sotto le forche Caudine del potente esercito del consumismo che domina il mondo o, cosa molto più insidiosa, finire tra le grinfie dei leoni della tastiera.  

Il mondo postmoderno si è rivelato sempre più avaro nel concedere amore e sempre meno disposto a riceverne come se si trovasse in uno spazio franco dove non fioriscono sentimenti.  E senza l’amore (inteso come valore universale) continuano a venire meno altri nobili valori: il rispetto degli altri, la solidarietà, la pacifica convivenza, come se l’uomo contemporaneo avesse scelto la cittadinanza su un altro pianeta.

Le nostre radici cristiane (con la massima “amatevi gli uni gli altri”), nel corso dei secoli, si sono talmente sfilacciate al punto da ritrovarci nella cosiddetta società dell’odio, del distinguo, della contrapposizione e, soprattutto, dei legami effimeri e dell’indifferenza.

 Ispirarsi alla vita del Patrono di Terni (San Valentino), tradizione che dura da secoli, oggi, appare quasi un non senso: forse un po’ blasfemo, sicuramente impregnato di ipocrisia. L’uomo non si accorge di essere indissolubilmente legato ad un grande padrone: il mercato globale che limita le nostre libertà di scelta, i nostri orientamenti, i nostri gusti, il nostro modo di essere società. Insomma, ci ruba finanche il bello dell’innamoramento.  E in un mondo senza amore prevale la seduzione, destinata prima o poi ad appassirsi sotto al sole del deserto della solitudine dove, come tanti predoni, ci affanniamo alla cerca di nuovi “incontri” senza futuro e senza prospettive di vita in comune.

In una pubblicazione del 2013 “Gli usi postmoderni del sesso”, Bauman partendo dalla liberazione sessuale del ’68, evidenzia lo “scollamento” dell’erotismo (desiderio) rispetto al sesso e all’amore.  “Sesso, erotismo e amore non possono esistere l’uno senza gli altri, eppure la loro esistenza si consuma in una guerra perenne per l’indipendenza”. Poi tira in ballo i beni di consumo che fanno aumentare il desiderio di possesso: “sopito una volta realizzato per poi accenderlo nei confronti di un nuovo prodotto in una coazione a ripetere all’infinito”.

“Amarsi e rimanere insieme tutta la vita – si legge in “Amore liquido” della collana baumaniana-. Un tempo, qualche generazione fa, non solo era possibile, ma era la norma. Oggi, invece, è diventato una rarità, una scelta invidiabile o folle, a seconda dei punti di vista”.   Nessun ricordo del passato: resettato nei tradizionali valori umani, che oggi viaggiano in compagnia di una società virtuale che ci sta definitivamente traghettando nella post umanità. Sempre più indifesi, privi come siamo di anticorpi socio-culturali che hanno scolorito nell’uomo finanche il comune senso del pudore.

“Le nuove generazioni nascono e crescono in un mondo in cui si deve essere connessi, sempre” si legge in “Baciami senza rete” di Paolo Crepet che lo psichiatra, sociologo e giornalista ha pubblicato prendendo lo spunto da una scritta sui muri di Roma “spegnete Facebook e baciatevi”. Una perenne connessione di cui si esalta solo la positività, senza considerare i danni collaterali prodotti “dalla nuova epoca telematica”. E si pone tre interrogativi: “Come sarà da adulto un bambino che ha comunicato sempre e soltanto attraverso un device?”; “Che ne sarà della sua abilità nell’utilizzare il suo apparato sensoriale?”; “Che cambiamenti ci saranno nelle sue relazioni  sociali, nel suo modo di vivere i sentimenti, nella sua capacità e empatia?”. *  

“Viviamo in un mondo dove ci nascondiamo per fare l’amore, mentre la violenza e l’odio si diffondono alla luce del sole” (J. Lenon)”. Mezzo secolo di metamorfosi antropologica ci dividono dal protagonismo dei Beatles all’esibizionismo di Fedez e Rosa Chemical.  Come negli anni ’70 del Secolo breve, anche oggi il mondo è un grande teatro di guerra, di violenza in generale, ma sono cambiati i costumi che ci “autorizzano” a rendere di pubblico dominio la nostra vita privata e con dovizia di particolari: passioni, cambio di partner, tradimenti, crisi di coppia, divorzi, liti per liberarsi o avere assegnati i figli, rivendicazioni patrimoniali come abitazioni, Rolex, pellicce. Fatti che affidiamo ai social e destinati ad un pubblico sempre più bulimico di gossip. Nel secolo dell’individualismo se non appari non conti nulla, non sei nessuno. E maggiori sono i particolari, anche dal punto di vista sessuale, più link contribuiscono ad aumentare il personale consenso virtuale.

Il tutto dimenticando che i social oltre a rubare tempo alla vita reale provoca uno stato di incomunicabilità tra la coppia che poi si estende all’intero nucleo familiare. E come dice il sociologo Francesco Alberoni “l’amore ha bisogno di comunicazione” e quando “lei non parla e lui non chiede” nascono equivoci e liti.

Cosa rimane dell’amore?  Forse solo cronaca. In particolare quella di uomini che uccidono mogli, compagne, amanti, fidanzate o che decidono di liberarsi del partner. Donne che non sopportano più le violenze domestiche, i soprusi, le scappatelle del compagno o perché il loro rapporto, diventato ormai routine, rimane “incollato” solo per la presenza dei figli. E con l’amore ormai finito, tra una minaccia e un episodio di stalking,  la coppia focalizza obiettivi diametralmente opposti che a lungo andare sfociano in fatti di sangue.

Ed allora chiediamoci se il 14 febbraio può ispirarsi ancora a San Valentino?

Antonio Latella -sociologo, giornalista, presidente Associazione Sociologi Italiani

* le risposte le troverete sulla pubblicazione del prof. Paolo Crepet


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