In questo articolo prenderemo in considerazione la dinamica di gruppo nonché la devianza sociale, due importanti oggetti di studio nella sociologia e nella psicologia sociale.
<<==Prof. Giovanni Pellegrino
Per prima cosa dobbiamo chiarire che col termine” dinamica di gruppo” si intendono tutti quei fenomeni psicosociali che insorgono quando un certo numero di individui si riuniscono per un periodo più o meno lungo, costituendo un gruppo. Mettiamo anche in evidenza che non è sufficiente che alcuni individui si trovino casualmente in un luogo perché si possa parlare di gruppo. Si definisce gruppo un insieme di persone che si incontra con una considerevole frequenza e che si propone di raggiungere determinati fini sufficientemente stabili.
Inoltre tra i membri di un gruppo si instaurano rapporti affettivi intensi (simpatia, antipatia ecc) ed inoltre nasce una forte dipendenza reciproca, nonché un sentimento di solidarietà di gruppo. Tali sentimenti persistono nei membri del gruppo anche quando esso non si riunisce. Un gruppo può esistere solamente quando all’interno di esso è presente una notevole forza che mantiene unito il gruppo. Tale forza o per meglio dire tale sentimento prende il nome di coesione di gruppo. All’interno di un gruppo esistono forze denominate centripete che tendono a mantenere unito il gruppo, come pure esistono altre forze denominate centrifughe che tendono a determinare la disgregazione del gruppo.
Una legge di fondamentale importanza nella dinamica di gruppo afferma che un gruppo può continuare ad esistere fino a quando l’intensità delle forze centripete è maggiore di quella delle forze centrifughe. Un gruppo tende a durare nel corso del tempo solamente se i suoi membri hanno forti motivazioni che li spingono a fare in modo che il gruppo continui ad esistere. Lewin ha compiuto interessantissimi studi sulle motivazioni che mantengono uniti i membri di un gruppo nonostante la possibile insorgenza di conflitti più o meno intensi e duraturi. Lewin ha anche definito le motivazioni la molla di tutte le azioni dei componenti di un determinato gruppo. Più in generale possiamo dire che le motivazioni costituiscono la molla e la spiegazione di tutti i comportamenti degli esseri umani che possono essere compresi pienamente solamente quando si riesce a studiare le motivazioni che sono alla base di tali comportamenti.
Ogni volta che si ha quello che i sociologi chiamano crollo dei livelli motivazionali all’interno di un determinato gruppo si ha la fine del gruppo stesso. In sintesi possiamo dire che le cause psicosociali che più frequentemente portano alla disgregazione del gruppo sono tre: prevalenza delle forze centrifughe, crollo dei livelli motivazionali e l’incapacità del gruppo di centrare i propri obiettivi sia per motivi intrinsechi che estrinsechi. Uno dei fenomeni più importanti della dinamica di gruppo è la creazione di diversi ruoli all’interno dei gruppi, ruoli che permettono al gruppo non solo di esistere ma anche di raggiungere i propri obiettivi. L’insieme dei ruoli presenti all’interno di un gruppo prende il nome di role set. In questa sede prenderemo in considerazione i tre ruoli principali esistenti in un gruppo ovvero il leader, il deviante e il capro espiatorio.Il leader è colui che prende le decisioni più importanti essendo considerato dagli altri membri l’individuo dotato di maggiore carisma e di maggiore capacità. Egli è anche considerato il più adatto a guidare il gruppo nel raggiungimento dei fini prescelti. Il deviante è il membro sul quale si concentra l’aggressività dei componenti del gruppo in quanto viene considerato una specie di nemico interno poiché non si conforma alla morale di gruppo e alle regole vigenti in esso. Soprattutto nei momenti più critici della vita di un gruppo i comportamenti aggressivi messi in atto contro i devianti sono particolarmente intensi, in quanto servono a scaricare le ansie e le frustrazioni dei membri del gruppo e ad aumentare la coesione interna. Dobbiamo mettere in evidenza che la presenza reale o immaginaria di nemici esterni o interni aumenta la coesione del gruppo.
Infatti la storia sociale ci insegna che nei periodi storici nei quali l’ansia sociale cresceva parimenti aumentava l’ostilità e le sanzioni sociali nei confronti dei devianti. Naturalmente è anche possibile che qualora il numero e il prestigio dei devianti aumenti si abbiano dei conflitti all’interno del gruppo che portano o alla sconfitta dei devianti o alla loro vittoria oppure alla scissione del gruppo. In estrema sintesi possiamo dire che i devianti sono individui che infrangono una o più norme sociali. Le norme sociali stabiliscono quali comportamenti sono normali e quali non lo sono in un dato sistema sociale. Tuttavia dal momento che le norme sociali variano nelle diverse società un comportamento che è considerato deviante in un sistema sociale può essere considerato normale in un altro. Quando una norma sociale viene infranta scattano le sanzioni sociali. Si definisce sanzione la reazione degli appartenenti ad un dato gruppo sociale nei confronti di coloro che infrangono le norme sociali. Tale reazione è finalizzata a scoraggiare i comportamenti devianti e ad incentivare la conformità ovvero il rispetto delle norme. Esitono due tipi di sanzioni: positive(offerta di una ricompensa per la conformità) e negative( punizione dei comportamenti devianti). Dobbiamo mettere in evidenza che le norme sociali vigenti in un dato gruppo non sono stabili in quanto tendono a cambiare col trascorrere del tempo. Infatti alcune norme perdono la loro capacità di condizionare il comportamento degli individui e vengono sostituite da altre norme.
I sociologi definiscono “saturazione della norma” il processo che porta una norma a perdere la propria capacità di regolamentare il comportamento degli individui in un dato gruppo sociale. La saturazione della norma è più lenta nelle società tradizionaliste mentre è molto più veloce in quelle caratterizzate da intensi processi di mutamento sociale ( nelle prime le norme sociali restano in vigore per diversi secoli, mentre nelle seconde possono mutare in pochi decenni). I sistemi sociali nei quali i processi di mutamento sociale sono veloci prendono il nome di società eraclitee mentre quei sistemi sociali nei quali i processi di mutamento sono lenti sono chiamati dai sociologi società parmenidee. Nei sistemi sociali eraclitei la saturazione delle norme è molto veloce mentre nei sistemi sociali parmenidei essa è molto più lenta. Possiamo dire per fare un esempio che nelle società del mondo occidentale i valori tradizionali sono andati incontro ad un veloce processo di saturazione ragion per cui in molti casi sono considerati devianti coloro che restano fedeli ad una visione del mondo di tipo tradizionalista e non coloro che si pongono contro la tradizione.
Esattamente il contrario accade in molte nazioni del terzo mondo nelle quali i valori tradizionali sono difesi non soltanto dalle norme e dalle sanzioni sociali ma anche dalle norme e dalle sanzioni giuridiche. Dobbiamo mettere in evidenza che in molti casi il mutamento delle norme sociali determina col passare del tempo il mutamento delle norme giuridiche. Dobbiamo anche dire che non tutti i comportamenti devianti sono sanzionati nello stesso modo in un gruppo sociale in quanto alcuni sono oggetto di un accettabile grado di tolleranza, mentre nei confronti di altri non esiste la benchè minima tolleranza. In genere possiamo dire che maggiore è l’importanza della norma sociale infranta, più forte è la sanzione applicata ai trasgressori.
Concludiamo il nostro discorso sui comportamenti devianti mettendo in evidenza che esistono nei vari sistemi sociali delle sub culture devianti e marginali che seguono dei veri e propri “Codici devianti”( vedasi il codice deviante dei barboni nelle società occidentali). Detto ciò torniamo ad occuparci dei principali ruoli esistenti nei gruppi sociali prendendo in considerazione il ruolo del capro espiatorio. Il capro espiatorio è il membro del gruppo più debole sul quale si concentra l’aggressività degli altri componenti del gruppo. La caratteristica più importante del capro espiatorio è quella di non sapersi difendere dai comportamenti aggressivi degli altri componenti del gruppo, ragion per cui la sua vita e la sua condizione esistenziale sono molto tristi. Dobbiamo tuttavia dire che i ruoli all’interno dei gruppi non sono fissi e definiti una volta per tutte dal momento che tali ruoli sono soggetti a mutamento sia per l’arrivo di nuovi membri sia per i mutamenti che si verificano nel contesto sociale di appartenenza del gruppo.
Appare chiaro che i gruppi possono tanto condizionare l’ambiente esterno quanto essere condizionati dagli eventi che si verificano nel sistema sociale. Sono possibili i mutamenti della dinamica di gruppo di due tipi: endogeni ( dipendenti dalla volontà e dalle azioni dei membri del gruppo) ed esogeni ( dovuti alle influenze dell’ambiente esterno). Lewin ha classificato i gruppi in tre tipi, tenendo conto della leadership: gruppi autocratici, gruppi democratici e gruppi “lassez faire”. Nei gruppi autocratici tutte le decisioni e le valutazioni provengono dall’iter. Nei gruppi democratici il leader tiene conto del parere e della volontà degli altri membri ogni volta che deve prendere una decisione. Nei gruppi lassez faire il leader è poco interessato, è poco motivato all’esercizio del potere e per tale ragione lascia nei processi decisionali molto spazio agli altri membri, rinunciando a svolgere in maniera adeguata il proprio ruolo.
Interessante è lo studio della leadership nei gruppi patologici. Snaider mette in evidenza che nei gruppi patologici il leader che emerge spontaneamente è quasi sempre l’elemento più patologico o addirittura più criminale presente nel gruppo. Vogliamo precisare che vengono definiti patologici quei gruppi i cui membri presentano un forte livello di devianza o comportamenti criminali oppure manifestano alterazioni abbastanza gravi della personalità. A questo punto diremo qualcosa intorno alle condizioni indispensabili per un ottimale funzionamento del gruppo. In sintesi un gruppo può ottenere buoni risultati quando esistono tre condizioni: forte coesione interna, presenza di individui dotati di notevoli qualità e capacità, sufficienti motivazioni per raggiugere i fini propri del gruppo. La coesione di gruppo dipende da diversi fattori. In primo luogo riveste grande importanza il grado in cui la” morale del gruppo” influenza il comportamento dei componenti. Vogliamo mettere in evidenza che per “morale del gruppo” intendiamo l’insieme delle norme che il gruppo elabora per regolamentare i rapporti tra i membri e le relazioni con l’ambiente esterno.
In secondo luogo la coesione di gruppo dipende dal grado di lealtà esistente tra i componenti di esso. In terzo luogo la coesione di gruppo dipende anche dalla capacità e volontà di difendere i membri dagli attacchi esterni soprattutto nei momenti più difficili della vita del gruppo. In quarto luogo riveste molta importanza anche il piacere e il grado di autorealizzazione che il gruppo permette di far raggiungere ai propri membri. Per quanto riguarda le capacità dei componenti, appare chiaro che un gruppo costituito da individui dotati di notevoli risorse culturali, psicologiche, economiche e sociali sarà in grado di ottenere risultati ottimali. Tale gruppo riuscirà infatti a gestire in maniera adeguata tutte le situazioni sociali, anche quelle più complesse e complicate. Appare infatti evidente che un gruppo che desideri ottenere risultati ottimali debba essere in grado di gestire in maniera soddisfacente anche le situazioni problematiche più gravi dal momento che il valore di un gruppo si evidenzia soprattutto nei momenti difficili. Per quanto riguarda i livelli motivazionali non c’è dubbio che se i fini perseguiti dal gruppo sono in grado di motivare la maggior parte dei membri, tale gruppo otterrà risultati ottimali.
Infatti tutti i componenti impegneranno tutte le loro risorse nelle attività del gruppo. Chiudiamo il nostro discorso sulla dinamica di gruppo mettendo in evidenza che i fenomeni di contagio psichico giocano un ruolo importante nella dinamica di gruppo. Tale fatto è ancora più evidente nel caso dei gruppi guidati da leaders fortemente carismatici. In tali casi il contagio psichico determina nei membri del gruppo quelli che i sociologici chiamano” stati di effervescenza collettivi” che modificano la personalità, il comportamento e perfino la percezione della realtà da parte dei membri. In tali casi si verificano tra i membri del gruppo fenomeni molto forti di dipendenza psicologica nei confronti del leader carismatico. Nei casi più estremi di dipendenza psicologica nei riguardi del leader carismatico i membri del gruppo possono sviluppare alterazioni molto forti della percezione sociale della realtà che possono determinare la perdita della capacità di interpretare in maniera corretta la realtà stessa con grave pregiudizio per l’obiettività dei membri. Tale alterazione della percezione della realtà da parte dei membri soggiogati dal potere carismatico del leader prende il nome di “ visione tunnel della realtà” tipica anche delle nevrosi. Dobbiamo mettere in evidenza con chiarezza i notevoli rischi psicosociali ai quali vanno incontro i componenti del gruppo soggiogati dal forte carisma del leader. In primo luogo essi possono sviluppare una forte dipendenza psicologica da leader, cosa non esente da rischi psicosociali notevoli. Infatti come tutti sanno tutti i rapporti interpersonali basati sulla dipendenza psicologica sono ad alto rischio per gli individui che manifestano tale dipendenza. In secondo luogo gli individui che presentano la visione tunnel della realtà indotta dal carisma del leader, sono portati a sopravvalutare l’importanza del gruppo nell’universo sociale di appartenenza col rischio di mettere in atto strategie comportamentali inadeguate se non addirittura sbagliate nel loro universo sociale. In terzo luogo i membri del gruppo corrono il rischio di sminuire fortemente l’importanza dei rapporti interpersonali con gli individui che non fanno parte del loro gruppo cosicchè è possibile che essi mettano in atto strategie comportamentali che non tengano conto della reale importanza per loro delle persone esterne al gruppo.
Inoltre è possibile che i membri del gruppo soggiogati dal carisma del leader del gruppo trascurino i loro doveri sociali nei riguardi di persone esterne al gruppo. In quarto luogo i componenti del gruppo corrono l’importante rischio psicosociale di non riuscire a leggere ed interpretare in maniera adeguata le situazioni sociali nelle quali si trovano ad agire. Infatti come tutti i sociologi sanno il comportamento degli esseri umani non dipende tanto dalle caratteristiche intrinseche delle situazioni sociali nelle quali essi si trovano ad agire ma quanto dall’interpretazione e dalla lettura sociologica che gli uomini danno di tali situazioni. Di conseguenza appare evidente che se il leader col suo carisma è in grado di manipolare l’interpretazione delle situazioni sociali effettuate dai membri del gruppo è anche in grado di manipolare il comportamento dei componenti del gruppo, fatto questo pericolosissimo dal punto di vista sociologico.
In quinto luogo i membri del gruppo soggiogati dal carisma del leader possono mettere in atto processi di imitazione sociale spinti all’ennesima potenza tanto da imitare anche quei comportamenti non adeguati se non addirittura riprovevoli dal punto di vista etico e morale esibiti dal leader. Come si vede sono molti e sono forti nello stesso tempo i rischi psicosociali a cui vanno incontro i membri del gruppo che presentano una “visione tunnel” della realtà indotta dal carisma del leader, rischi che possono portare all’alienazione totale di tali individui. Infine c’è da dire anche che ci sono gruppi guidati da leader dotati si di forte carisma ma privi di principi etici e morali cosa che aumenta in maniera esponenziale i rischi psicosociali dei membri di tali gruppi. Detto ciò riteniamo concluso il nostro discorso sulla dinamica di gruppo.
Le tecnologie dell’informazione che consentono a tutti di dissertare su tutto in una dimensione virtuale hanno contribuito a far divenire la “tuttologia” una delle questioni più evidenti della società postmoderna. Il termine “tuttologo” – considerato in accezione negativa – connota un individuo onnisciente, presuntuoso, superficiale, convinto di saper tutto. In esso vi rientrano blogger, opinionisti, politici, i quali in un contesto democratico possono esprimere pareri su qualsiasi argomento anche se con scarse conoscenze e competenze pertinenti.
<<=== Prof. Antonio Sposito
I detrattori della “tuttologia”
Molti
detrattori confondono la “tuttologia” superficiale
con la “tuttologia” intesa come approccio conoscitivo integrato e
critico. Occorre fare chiarezza su questo aspetto. Secondo i negazionisti della “tuttologia” andrebbero
considerati tali anche certuni filosofi che, fin dai tempi dell’antica Grecia,
hanno tentato di assemblare la molteplicità della realtà in una unità
interpretativa fondante, connettendo in un unico
quadro conoscitivo la metafisica, i principi morali, politici, scientifici,
gnoseologici, religiosi, estetici, persino i sentimenti come l’amore.
Stessa considerazione va fatta sul versante delle scienze fisiche,
matematiche e naturalistiche, citando, ad esempio, Albert Einstein e Stephen
Hawking (la “teoria del tutto”), i quali hanno cercato di connettere in un
unico quadro di riferimento tutti i fenomeni naturali conosciuti. Così
come Charles Darwin – che è stato naturalista, antropologo,
biologo, geologo – noto per aver formulato
la teoria dell’”evoluzione delle specie” per selezione
naturale, introducendo la variabilità dei caratteri ereditari in
interazione con l’ambiente e il loro differenziarsi attraverso la discendenza
da un antenato comune.
Secondo gli antagonisti della “tuttologia” siffatti studiosi
erano degli illusi?
La questione
è che dalla modernità industriale in poi, per esigenze di “specializzazione”,
il sapere originario integrato si è allontanato dalla casa madre unitaria
frantumandosi in mille rivoli feticistici, assumendo così una forma funzionale
alla “poiesis” (produzione), intesa come “agire strumentale”,
settoriale, finalizzato alla creazione di prodotti materiali e immateriali alienati
da coloro che li hanno generati. Ciò che è andata persa nel tempo è la
“praxis” (prassi) aristotelica, costrutto ripreso poi da Marx e Gramsci, implicante un
“agire” disinteressato che inglobi in sé il suo “senso”, coniugata in
modo inscindibile con il “theoretikós” (la teoria).
Il vero
intellettuale è un “tuttologo”
Il “theoretikós”
e la “praxis”
rappresentano le stimmate degli “intellettuali
tradizionali” non funzionali ai sistemi di potere in cui agiscono.
A tal
proposito, in uno dei passi tratti da Quaderni dal carcere,
Gramsci illustra l’identità e il ruolo dell’”intellettuale organico” e
dell’”intellettuale tradizionale”. Il primo, collegato a gruppi sociali
specifici, contribuisce al mantenimento del dominio di una classe egemone o
all’emersione di una classe subalterna. Il secondo, può avere in principio
relazioni con particolari classi per poi mutare nel tempo in una categoria
sociale a se stante: “… che cioè concepisce se stessa come continuazione ininterrotta nella
storia, quindi indipendentemente dalla lotta dei gruppie non come
espressione di un processodialettico,
per cui ogni gruppo sociale dominante elabora una propria categoria di
intellettuali” (A. Gramsci, Quaderno 11, § 16).
Attualmente
nella società postmoderna si sta perdendo il ruolo dell’”intellettuale
tradizionale”, il quale, entrando nella storia, sia in grado di esprimere
saperi integrati che infrangono i feticismi delle “specializzazioni”.
Il paradosso: tra i detrattori della “tuttologia” vi sono
(ahimè) anche alcuni sociologi
Diversi sociologi, anche se non richiesto, si affrettano ansiosamente
a chiarire che non sono “tuttologi”.
Questi – affetti probabilmente da
“masochismo professionale” esiziale e da “feticismo sociologico” – esibiscono diniego
verso l’approccio integrato (qui inteso nelle sue dimensioni macro-meso-micro
sociologiche), considerando la Sociologia prevalentemente un sapere
tecnico-specialistico.
Perché lo fanno?Per compensare probabilmente un senso di
“inferiorità”, forse inconscio, nutrito nei confronti di altre scienze, discipline
e professioni da scimmiottare? Perché si illudono di trovare più facilmente
lavoro?
A costoro voglio ricordare che il sociologo non è un tecnico, né
un praticone, ma è un produttore di conoscenze sociologiche che forniscano una
visione di insieme della realtà costruita attraverso le relazioni sociali, le quali conoscenze
devono costituire il patrimonio civico e culturale di tutti i cittadini.
Questi sociologi detrattori non si rendono conto di negare così l’identità
storica ed epistemologica della Sociologia,
la sua dimensione pubblica, di abortire se stessi come intellettuali, di rinunciare
anche alla responsabilità morale di condurre tale processo educativo,
il quale giustifica la funzione sociale e politica degli stessi sociologi.
La Sociologia è la scienza del
“tutto” sociale
Sarebbe sufficiente ricordare ancora ai
sociologi negazionisti del “tutto” che uno dei costrutti portanti della
disciplina sociologica, ossia, il “sistema sociale”, definisce un insieme di
parti differenti e interdipendenti che contribuiscono al suo funzionamento proprio
come un “tutto”. Tanto è vero che un “fatto sociale” non può essere spiegato
soltanto in sé, ma va letto e interpretato in maniera contestualizzata.
Se vi fosse un ulteriore bisogno di
chiarimento sulla “vexata quaestio”, la conferma che la Sociologia – e
più in generale le Scienze Sociali – è la scienza del “tutto” collettivo, la
forniscono anche i Piani di Studio per il conseguimento del diploma di laurea attinente,
delineati dai diversi dipartimenti universitari. Non a caso occorre sostenere esami
specifici inerenti non solo alle numerose branche della Sociologia ma anche
alla psicologia sociale, alla storia contemporanea, all’antropologia culturale,
all’economia politica, alla statistica, all’etica e alla bioetica, alle scienze
politiche, alla filosofia, alla comunicazione e ai media, ecc.
La Sociologia, o meglio le Scienze
sociali, nascono plurime e, al contempo, unificanti.
Il sociologo, dunque, non si distingue a
valle per ciò che fa ma a monte per la sua “forma mentis”, per come
osserva in modalità connessionale la realtà. Le diverse declinazioni
della professionalità del sociologo vanno intese soltanto come variazioni sul
tema. Il problema non è, quindi, la “specializzazione” ma sacrificare, in nome
di questa le fondanti conoscenze sociologiche di base (il “theoretikós”).
Il paradosso per il sociologo è
diventare come alcuni medici di alta e raffinata “specializzazione” che magari
hanno dimenticato come si cura un raffreddore, oppure come un matematico che genera
equazioni fondamentali ma che non sa più calcolare quanto fa 2+2.
È proprio questo che noi sociologi vogliamo diventare?
Avete mai sentito parlare di pensiero critico?
Proviamo allora da sociologi a fornire ai cittadini, grazie
alla “tuttologia” sociologica critica, la capacità di leggere la
realtà sociale in modo integrato (il “theoretikós”), concretando, all’interno
della vita quotidiana, un “agire sociale” più
consapevole (la “praxis”).
Magari contribuiremo così a trasfor-mare anche il presente
e il futuro di una società schizofrenica, dissociata, feticista, la quale scambiando
la parte per il “tutto” autoproduce masochisticamente quel disagio diffuso e
multiforme che la investe.
Nel 1942 Peppino De Filippo presentò al pubblico italiano un suo lavoro teatrale dal titolo “Non è vero ma ci credo”. Il maestro riuscì mirabilmente a definire i connotati della superstizione e di chi crede negli amuleti, negli occultisti e nella lettura delle carte, in grado di rivelare ciò che avverrà. Il successo della pièce teatrale fu tale che fu deciso di adattarla per il cinema. Ancora oggi è considerato il massimo capolavoro dell’ampia produzione teatrale del commediografo e attore comico napoletano.
<<== Prov. Avv. Michele Miccoli
Fin dall’antichità gli esseri umani cercano di indagare il mistero
che si cela nel futuro, e di garantirsi qualche vantaggio personalizzato,
magari attraverso la creazione di amuleti realizzati su commissione, con costi
che partono da poche decine di euro fino a qualche centinaio. Se persino certi
personaggi politici e capi di stato si rivolgono ai cartomanti per ottenere
risposte ai loro dubbi, principalmente riferiti alla loro elezione o a qualche importante
decisione da intraprendere, non si può dire che il fenomeno aggredisca solo la
gente comune. È invece vero che la gente
comune si rivolge maggiormente al settore quando è in atto una crisi economica,
e considerando che ormai viviamo il più lungo periodo di dissesto finanziario a
livello mondiale, è facile immaginare quale sia la situazione attuale.
In televisione, in radio, sul web, è un proliferare di
pubblicità riferite alla lettura delle carte, alla divinazione, alla creazione
dell’amuleto personalizzato che sconfiggerà il male, attrarrà l’amore eterno o
sarà in grado di permettere al suo possessore di trovare il lavoro agognato. In
Italia non esiste una legge che vieti questo tipo di attività. Veggenti, e maghi,
sono considerati come liberi professionisti, a patto che non si attribuiscano
poteri sovrannaturali come guarire le malattie e quindi consigliare di
sospendere le cure, oppure di poter esorcizzare qualcuno inducendolo a ritenere
di essere posseduto. In tal caso il rischio è di essere denunciati, e
condannati, per il reato di truffa aggravata, e a patto che non dimentichino di
emettere regolare fattura per le prestazioni fornite, o la sanzione
amministrativa busserà alla porta senza alcuna necessità di guardare nella
sfera di cristallo.
La crisi crea in molti un’intensa necessità di conforto, e rivolgersi
a un veggente sana un poco dell’ansia cagionata dalla penuria di denaro, dalla
perdita della sicurezza sul futuro e, in generale, fa sperare in un possibile ribaltamento
della situazione. Papa Francesco, subito dopo la sua elezione, dichiarò: “Per
guadagnarsi il Paradiso, bisogna seguire Gesù nel cammino della vita, non
cartomanti e presunti veggenti”, dimenticando però che pure chi va in chiesa a
battersi il petto spesso chiede qualche numero fortunato da giocare al lotto,
come ricordò Massimo Troisi in un famoso sketch che tutti ricordiamo, e non
accade solo a Napoli, città della superstizione per antonomasia, bensì lungo
tutto lo stivale.
Passiamo ora a un po’ di dati aggiornati, che permettono di
comprendere meglio la situazione. Sono circa 13 milioni gli italiani che si rivolgono
agli oltre 155.000 maghi, santoni e capi di sette di vario genere. E’ difficile
stabilire con certezza gli introiti incassati da questi professionisti, perché molti
di essi eludono il fisco, però – grazie a uno studio realizzato dal Codacons – si
è potuto scoprire che dal 2008 – anno dell’avvento della crisi economica – al
2018, il giro d’affari è aumentato del 500% registrando incassi da capogiro:
circa 8 miliardi di euro. La crisi crea anche vantaggi economici, ma solo ad
alcuni.
Anche l’Osservatorio Antiplagio, che si occupa di analizzare
il fenomeno dell’occultismo, fornisce alcuni dati interessanti, come quelli sulle
motivazioni che spingono così tante persone, di ogni ceto sociale, a rivolgersi
al guru di turno. L’incertezza sul lavoro e i dubbi legati alla capacità
economica sono al primo posto tra le richieste. La situazione sentimentale è al
secondo posto. L’ansia del dubbio scaturito dalla domanda “Cosa sarà di me”? è
dura da sedare autonomamente. Meglio chiedere a chi potrebbe saperne di più,
non si sa mai.
Questo grande successo porta a un’altra considerazione: la società moderna è sempre meno avvezza ad avere la capacità di risollevarsi dalle intemperie che la vita porta a tutti noi. Più facile è tentare di dare una mano al destino, pagando però un balzello che può arrivare, in alcuni casi, a diverse migliaia di euro. Ognuno sia libero di decidere come spendere il proprio denaro, e a chi affidare la scoperta della propria sorte, l’importante è assumersi la responsabilità delle proprie scelte e valutare in anticipo quanto s’intende spendere in questa impresa.
“Vede, la gente ha paura di quello che non
riesce a capire… E… Ed è difficile anche per me capire”
(Joseph
Merrick).
Un film, una storia, un volto… E’ questo il caso di una pellicola del 1980, The Elephant Man, diretto da David Lynch; si tratta di un adattamento cinematografico di due opere letterarie:The Elephant Man: A Study in Human Dignity di Ashley Montagu e The Elephant Man and Other Reminiscences di Frederick Treves.
Poiché è si tratta
di una produzione cinematografica datata è bene rammentare, se pur brevemente,
la trama:
Joseph Merrick è un uomo affetto dalla sindrome di Proteo, pertanto il
suo corpo è pieno di malformazioni, in particolare è il suo viso ad essere deforme, tanto da circolare con un sacco, cucito ad un cappello, con un
foro per poter guardare, temendo la reazione degli altri alla vista di tanta
“bruttezza”; così viene apostrofato come l’uomo
elefante. E’impiegato come fenomeno da circo da Bytes, un uomo senza
scrupoli che più e più volte lo maltratta verbalmente e fisicamente. La vita di
Joseph cambia grazie al suo incontro con il dottor Frederick Treves che non
solo lo visiterà ma inizierà ad ospitarlo nell’ospedale presso il quale lavora.
L’aspetto di Merrick inizia a terrorizzare il personale, e al contempo ad
attirare l’interesse dei più curiosi. La sua presenza nel nosocomio porta il
direttore dello stesso, Mr. Francis Carr Gomm, ad essere contrariato, in
principio alla sua presenza, tant’è che dopo un breve colloquio lo considera un
soggetto da inviare in una struttura psichiatrica; tutto cambia quando Joseph
inizia non solo a parlare ma addirittura a recitare ad alta voce il 23esimo
salmo della Bibbia; questo episodio spinge il direttore a ritornare sui suoi
passi, decidendo di appoggiare Treves nel suo processo di cura. Merrick desta
l’interesse dalla regina, di attrici, di moltissimi personaggi illustri. Inizia
a riscattare la sua persona, dimostrando, che oltre alla propria immagine, c’è
molto di più. L’idillio va in frantumi con il ritorno di Bytes che, non solo lo
rapisce, ma lo porta con il suo circo,
in Europa. I maltrattamenti persistono, finché gli altri membri del circo non lo fanno
fuggire. Ritornato a Londra le sue condizioni di salute si aggravano, ma, dopo
una serata in teatro e dopo aver ringraziato il suo ormai amico Treves che lo
aveva cercato disperatamente, decide per la prima volta di stendersi in
posizione supina, posizione che per via delle sue gravi deformità comporta la
sua morte. Suicidandosi, così, saluta quella terra che lo aveva tanto
angustiato quanto acclamato, per congiungersi con la sua mai dimenticata
defunta madre, Mary Jane.
Il film ci porta immediatamente nel vivo della “teoria dello stigma” di Goffman. Ma che cos’è uno stigma? La terminologia, così come il suo primo significato, risale all’antica Grecia, in cui stigma designava la pratica di incidere, con una lama rovente, il corpo degli indesiderati: schiavi, traditori o un soggetto autore di una qualsiasi colpa. In particolare, Merrick, che ricordiamo essere un personaggio realmente esistito, appartiene alla prima tipologia di stigma, ovvero relativa alle deformità fisiche(Goffman 1963). Questo significa che “Noi normali sviluppiamo certe concezioni, non sappiamo se oggettivamente fondate o no, riguardo alla sfera di vita in cui un particolare stigma squalifica subito una persona”(Goffman, 2003, p.66). Questa squalifica, porta uno stigmatizzato come Merrick, a vivere una sfera relazionale completamente perturbata; il capitale sociale, ossia l’insieme delle relazioni di cui un soggetto gode, viene completamente ridotto per non dire annullato, e con esso, si riduce la sua eccezionale azione terapeutica per soggetti con qualsiasi tipologia di patologia come Joseph, ormai da molto tempo accertata: Berkman e Syme(1979) hanno dimostrato come tra chi ha un basso capitale sociale è il doppio rispetto a chi ha un social network elevato.
A ciò si aggiunge poi il fatto di portare lo stigmatizzato ad essere considerato altro, Merrick urla, non a caso: “No! Io… non sono un elefante! Io non sono un animale, sono un essere umano! Un uomo… un uomo!”; ciò perché i normali sono quelli che “non si discostano per qualche caratteristica negativa dai comportamenti che, nel caso specifico, ci aspettiamo da loro […] Per definizione, crediamo naturalmente che la persona con uno stigma non sia proprio umana […] Mettiamo in piedi una teoria dello stigma, una ideologia atta a spiegare la sua inferiorità.” (Goffman, 2003, p.15).
Lo stigma, così, comporta una frattura, spesso irreparabile fra lo stigmatizzato e la società, infatti nonostante Merrick abbia i suoi momenti di gloria e di accettazione, comunque crea sgomento, perché viola la sacralità dei canoni corporei, e di conseguenza lo stigma “non riguarda tanto un insieme di individui concreti che si possono dividere in due gruppetti, lo stigmatizzato e il normale, quanto piuttosto un processo sociale a due, assai complesso, in cui ciascun individuo partecipa in ambedue i ruoli, almeno per quello che riguarda certe connessioni e durante certi periodi della vita. Il normale e lo stigmatizzato non sono persone, ma piuttosto prospettive”(Goffman, 2003, p.170).
Lo stigma, poi, trova “terreno fertile” soprattutto in società reificate, proprio come quella in cui vive Merrick, ovvero la società vittoriana, in cui il sistema di interazione sociale era particolarmente rigido, e quindi con una scarsa attitudine non solo alla mobilità sociale, ma soprattutto con un elevato atteggiamento ghettizzante, tanto da rendere il familiare non familiare grazie soprattutto ad una visione prettamente organicista e meccanicista, e quindi di tipo biomedico. Una società, che potremmo anche definire come governata dalle eteronomie, ossia realità sociali in cui la “differenza viene definita dall’altro e, a sua volta, l’identità che di essa emerge non è quella secondo la quale la disabilità costituisce un atto differenziatore, ma l’assenza di elementi identitari rispetto all’altro. È un’identità eteronoma e in negativo; è un’identità escludente e marginalizzante. È una non- identità. È l’identità dell’insufficienza, della carenza e della mancanza di autonomia”(Ferreira, 2007).
Accanto a Merrick vi è un altro personaggio interessante, ovvero il dottor Frederick Treves, che potremmo definire, con l’approccio di Goffman, come un saggio(Goffman 1983), ovvero “colui che deriva la sua “saggezza” dal lavorare in un ambiente che si occupa specialmente dei bisogni di chi ha uno stigma particolare o dei provvedimenti che la società prende in loro favore”(ivi pag.31). Questo personaggio verrà ammonito dalla capo- infermiera Madre Shead, dal momento che a suo dire, Merrick continua ad essere trattato come un fenomeno da baraccone da un lato, e dall’altro è ipertutelato dall’ospedale dalla classe sociale più abbiente. Madre Shead, coglie pienamente il concetto del “culto dello stigmatizzato(…)-che-si sviluppa quando il “saggio” reagisce in modo abnorme alla stigmatofobia del “normale”(Maturo, 2007,p.60); si tratta di un portamento che induce alla conseguenza tale per cui “chi ha uno stigma onorario-il saggio-mette talvolta a disagio sia lo stigmatizzato che il normale. Infatti con quel loro essere sempre pronti a portare un fardello che non è veramente il loro, è frequente che si pongano di fronte agli altri in un atteggiamento eccessivamente moralistico”(Goffman, 1983, p.33). Degno di nota è il suo atteggiamento nei confronti di Merrick che sembra gettare le basi, nonostante i tempi non fossero ancora maturi, per un approccio alla malattia improntato sull’identità sociale e morale, sulla percezione soggettiva e culturale del paziente, ossia ricorre ai principi della Narrative Based Medicine(Medicina basata sulla narrazione).
Merrik, infine, si
suicida, decide di abbandonare la società che nonostante lo abbia angustiato,
tanto da affermare che “Io sono felice
ogni ora del giorno,(…). Anche se sapessi che morirei domani. La mia vita è
bella, perché so di essere amato… Io sono fortunato!”.
Nell’ultima scena del
film, con la madre di Merrick, lo
accoglie nell’universo, recitando la poesia di
Alfred Tennyson “Niente muore”:
“Mai.
Oh,
mai.
Niente
morirà mai.
L’
acqua scorre.
Il
vento soffia.
La
nuvola fugge.
Il
cuore batte…
Niente muore”
Davide Costa, sociologo e segretario regionale dell’Associazione Sociologi Italiani
Riferimenti bibliografici
Berkman L., Syme
L., (1979), Social Networks, Host
Resistance, and Mortality: A Nine Year
Follow-Up Study of Alameda Country Residents, “American Journal of
Epidemiology”, n.109.
Goffman E., (1983),
Stigma, L’identità negata, Giuffrè
Ed., Milano.
ID., (2003), Espressione e identità. Giochi, ruoli,
teatralità, Il Mulino, Bologna.
Nelle società tecnologicamente avanzate la salute è minacciata in ogni istante. Non c’è luogo dove sia del tutto al sicuro: né in casa né tantomeno fuori casa. Questa continua sfida probabilmente fa parte dei rischi connaturati alla vita intesa nel senso di “coevoluzione genetico- culturale” (Lumsden, Wilson, 1984).
<< == Prof. Patrizio Paolinelli
Ma noi siamo
esseri civilizzati e ci interroghiamo sul perché il primordiale tenga sotto
scacco l’attuale. Uno stallo dalla perenne durata che ha come risultato non
certo la resa della conoscenza ma la sua ostinata e ben congegnata offensiva.
La scienza
preme così sulle nostre esistenze offrendoci soccorso, fiducia, speranza. Tutti
buoni motivi per convivere con l’aria inquinata, i costi stratosferici
dell’acqua imbottigliata, le sofisticazioni alimentari, i prodotti
geneticamente modificati, le malattie sociali, gli incidenti stradali, i
disastri aerei, le morti sul lavoro, il clima impazzito, le nuove pandemie. Anche
a causa di questa cahier de doléances per
molti l’ideologia del progresso è una narrazione senza più voce. Resta però la
modernità. Una fase storica che non ha trovato ancora approdi ultimi se non il
provvisorio prefisso post. E resta una regola universalmente accettata: il
cambiamento continuo.
Nonostante la
modernità debba concludere il proprio autosuperamento e nonostante i rischi che
ci fa correre, l’innovazione in quanto tale costituisce ancora oggi la risposta
prevalente offerta dalla società postindustriale alle insidie, i drammi, le
incertezze che circondano la salute. Questo significa semplicemente che la
lotta contro disagi e malesseri passa attraverso la categoria dello sviluppo.
Aumenta il Pil nazionale e si assiste al prolungamento della speranza di vita,
cresce la produttività e fiorisce la medicalizzazione del quotidiano, siamo
socialmente premiati per il nostro mostrarci giovani, sani, sportivi e
incrementiamo i meccanismi di autocostrizione.
La prima linea
della lotta senza quartiere contro la malattia e l’invecchiamento è ovviamente
il corpo. Una prima linea a difesa da nemici noti e ignoti. A ben guardare, una
difesa del presente e contro il futuro. Mai giunga il domani sotto la nostra
ben armata muraglia di innovazioni tecno-scientifiche perché vedremmo noi
stessi. Perciò convivremo ancora a lungo con la transizione postmoderna.
Distinzione tra dolore e sofferenza
La tutela sui rischi per la salute gode prevalentemente di due spazi di protezione. Spazi dichiaratamente pubblici come l’ospedale, lo studio del medico di famiglia, l’attenzione dei media su acciacchi e malattie, le serie televisive ispirate al lavoro dei medici, i dibattiti sulla spesa pubblica per la sanità. Territori saturi di significati che indicano una soglia di attenzione collettiva in progressiva crescita intorno a un fenomeno sociale sempre problematico. Ci sono poi spazi dichiaratamente privati come l’igiene personale, l’essere in forma, lo stile di vita. Province della cura di sé che segnalano un secondo ed altrettanto importante livello di interesse collettivo declinato nella versione del benessere, della prevenzione, del fitness, del buon vivere.
Nello spazio
pubblico destinato alla salute il corpo anatomico è solitamente elemento
passivo in complice balia di esperti a cui bisbiglia i propri mali. In quello
privato il corpo estetico-sportivo è un agente attivo che ha nelle proprie mani
l’anima così come una volta si diceva del destino. Il primo è il regno del
dramma, della malattia vissuta in maniera più o meno solitaria. Il secondo è il
palcoscenico del benessere, della performance più o meno esibita: è il teatro
della felicità. In entrambi i casi è evidente che la dicotomia pubblico/privato
costituisce un’utile finzione conoscitiva. Serve solo per districare i fili
intrecciati dei processi genetico-culturali. Niente ormai sfugge ai sempre più
evoluti occhi artificiali della medicina. E da tempo l’ottocentesca intimità
borghese ha esaurito la sua funzione sociale. Più nessun segreto di famiglia.
Anzi: sempre meno famiglia e sempre più diritti: diritto all’informazione, alla
salute, alla sessualità, diritti del paziente, del bambino, delle donne…
Insomma, l’interdetto finisce nelle aule parlamentari, talvolta in quelle dei
tribunali, sempre e comunque in televisione.
Il privato è
morto. E’ morto nel momento in cui è diventato oggetto di infinite narrazioni.
Il malinconico declino del femminismo così come l’eclissi delle teorie
sull’alienazione indicano la vittoria del modo d’essere mercantile. Indicano
anche la neutralizzazione dell’oggetto tramite la produzione di discorsi. Non
sempre il sapere è liberatorio. Il discorso: “… non è semplicemente ciò che
manifesta (o nasconde) il desiderio …il discorso non è semplicemente ciò che
traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per cui, attraverso cui, si
lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi” (Foucault, 1972, pag. 10).
Per chiudere: a) il corpo malato è preso in carico dalle scienze mediche che si assumono l’onere del dolore; b) il corpo sano è preso in carico da terapeutici sottosistemi culturali che si assumono l’onere della sofferenza. La posta in gioco è, tra l’altro, l’integrità del corpo, il rapporto individuo società, il confine tra normale e patologico. Temi che ci porterebbero troppo lontano per affrontarli in questa sede. Diciamo allora che qui ci occupiamo esclusivamente della sofferenza. E di un tipo particolare di sofferenza annidata nella psicosfera: la strenua lotta che ognuno di noi compie quotidianamente per essere socialmente accettato, riconosciuto dal proprio gruppo di riferimento, amato dall’altro da sé. Nelle economie di mercato essere felici non è gratis. La ricerca della felicità si paga in molti modi. Tuttavia è una tensione ineliminabile della condotta umana. Una tensione non meno importante di quella per la salute fisica. Anzi: inscindibile dalla salute fisica. Nella società postmoderna alcuni dei terapeutici sottosistemi culturali che osservano, interagiscono, regolano la sofferenza causata dal non essere pienamente accettati, riconosciuti e amati sono: la moda, la pubblicità, lo spettacolo, lo sport. Veri e propri transatlantici di lusso per attraversare un’epoca che sta tracciando nuove rotte tra parola e visione, che sta scoprendo nuovi mondi tra scrittura e immagine.
Problemi di cuore
L’abitudine al faticoso lavorio mentale per adattarsi alla transizione postmoderna indica che non tutto ciò che riguarda la salute si risolve nella dialettica tra corpo minacciato dalla malattia e corpo tutelato dalla medicina. Se così fosse i passaggi dalla società industriale a quella postindustriale e dalla modernità alla postmodernità sarebbero compiuti e vivremmo in un ordine socio-temporale forse meno tempestoso dell’attuale (Zerubavel, 1985). In tal caso avremmo un futuro davanti. Ma così non è. Oggi la coscienza soggettiva del tempo deve fare i conti con la fluttuazione da un mondo di concetti a un mondo di immagini fantasmatiche. Probabilmente sarebbe meglio dire di fantasmagorie dato che l’esistenza diventa sempre più un’esperienza visiva. L’immagine non si limita ad illustrare i testi ma a sostituirli. L’immagine del corpo estetico-sportivo non riflette il mondo né vi si adegua: è un mezzo per interpretare la realtà privilegiando lo sguardo.
Tutto andrebbe
per il suo verso sé la modernità non avesse divorziato dal progresso. Allora
non si avvertirebbe il diffuso senso di incompiutezza, la mancanza di futuro.
Ma il domani è talmente gonfio di incertezze da non essere ipotizzabile se non
in peggio rispetto all’immediato ieri. Una caduta di ottimismo che riduce gli
spazi di progettualità. Si apre alla crisi e risolve la crisi offrendosi anima
e corpo al nonstop dell’immaginazione cinetelevisiva. Nel mondo interiore degli
individui la destrutturazione della parola si riorganizza intorno ai fantasmi
della cultura di massa: prototipi di un Io ideale che orientano selettivamente
la percezione di se stessi e degli altri. L’amore per i divi del piccolo e
grande schermo, per le icone dello sport dà letteralmente corpo ad un tipo
particolare di fiducia nel tempo: l’aggregazione intorno all’evento e i suoi protagonisti.
Lo sappiamo e
non ce lo diciamo quasi mai: tutto questo tumulto è una questione di amore.
D’altra parte, il desiderio di una vita piena di gioia è una forza di coesione
sociale. L’amore dà certezze, mette al riparo dagli orrori del mondo e le ali
alla fantasia. La società postindustriale l’ha capito molto bene. Le emozioni e
le passioni sono la sua materia prima. Tutta l’economia gira oggi intorno alle
faccende del cuore. L’automobile è la “sposa meccanica” (McLuhan, 1984), le chat line un modo per incontrare nuovi
amici, l’abbigliamento una strategia di seduzione, il design la poesia della nostra epoca, il corpo sportivizzato un
oggetto di salvezza sostitutivo dell’anima (Baudrillard 1976). Tramite una
produzione fondata sull’amore la cultura postmoderna restituisce agli individui
l’integrità d’essere persone. Il tempo trova così la sua dimora. Ma è
provvisoria perché l’amore postmoderno non è emigrazione verso il tu o verso il
noi. E’ innanzitutto autoreferenziale: è un amore che passa attraverso le
immagini mediatiche dell’amore. Il tempo torna presto a minacciare tempesta.
Naufraghi nel tempo
La volontà di trascendere il presente è contemporaneamente aperta e chiusa dalle anticipazioni tecnologiche del domani. Il sacro riprende così ad essere un rifugio sicuro dal momento che la secolarizzazione si è sbarazzata del passato ed è ambigua sugli orizzonti futuri: non promette più l’evoluzione del progresso infinito né cede alle richieste della decrescita. Le rivoluzioni tecnologiche non si fermano. Così gli individui devono adattarsi non solo alla moderna dannazione dell’orologio ma anche al postmoderno tempo reale. Un tempo senza durata che ha inaugurato una nuova stagione per la struttura del sentire. Il tempo è oggi una delle risorse più scarse. E la penuria di tempo entra in conflitto con la memoria individuale, con la memoria collettiva (Zerubavel 2005), facoltà necessarie per il soggetto di reinventare il passato e fondamento dell’identità di gruppo. Al momento la cultura postmoderna ha costruito un suo ordine del tempo: i presenti-futuri. Viviamo aperti a differenti attualità e nell’immanenza di molti domani offerti dalla tecnosfera. In un mondo saturo di messaggi il tempo non possiede più una funzione simbolica. La vita quotidiana su cui la borghesia aveva innestato la propria tradizione identitaria muta di statuto e si fonda sulla rottura delle continuità. Dal momento che il tempo non ha più durata la stessa idea di vita quotidiana traballa. Nell’era della simultaneità “l’identità personale è un lusso” (Lasch, 1985). Ma nel giro di una generazione al “lusso” ci si abitua. All’identità non si può rinunciare. Tantomeno un mondo di narcisi.
In un’epoca di
transizione come la nostra tutto cambia. E oggi tutto cambia a velocità
straordinaria. Come è possibile la vita quotidiana, ossia la ripetizione, se
niente, ma proprio niente sta in piedi per una generazione? Il concetto di
generazione poi è instabile: oggi molti quarantenni si vestono come
adolescenti, l’infanzia sta scomparendo e le macchine digitali hanno un ciclo
di vita di pochi anni. Il problema è noto e prende slancio con l’avvento della
società dei consumi tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Tramite la
cultura postmoderna il processo si rafforza nella pratica di una quotidianità
intesa come successione di eventi sotto forma di spettacoli da offrire e
consumare: lo spettacolo di sé da mostrare, lo spettacolo degli altri da guardare.
Sono i cicli brevi della moda a dettare il passo del tempo. Mode tecnologiche,
culturali, musicali, d’abbigliamento, mode estive… I vincoli sociali si
indeboliscono frantumandosi in una miriade di fedeltà, appartenenze,
identificazioni momentanee e scambiabili per nulla interessate a fornire
direzioni stabili. Ritmi sempre più brevi mettono in crisi le cosmologie
intermedie: “intendendo con questo termine tanto le cosmologie studiate
tradizionalmente dall’etnologia (entrate in crisi con la penetrazione
coloniale), quanto le rappresentazioni proprie ai corpi intermedi … cioè i
partiti e i sindacati, rappresentazioni, queste ultime, che per molti hanno
avuto la funzione di fornire una <visione del mondo> atta a ordinare e
orientare la loro vita quotidiana, come le religioni per i credenti o i
praticanti” (Augé, 1977, pag. 80). L’individuo si trova così sovraccaricato di
responsabilità. È solo, in pieno deficit simbolico, privo del sostegno di
mediazioni istituzionali autorevoli. Squilibri che provocano sofferenza e
ricorso alla cura. Possiamo chiamare questo malessere e la sua soluzione:
naufragio nel tempo.
Storia vs biografia
Le strategie di sopravvivenza al mutamento continuo suggeriscono di guardare indietro per trovare un aggancio col passato e una parvenza di continuità. Si tratta di una chance offerta dalla cultura postmoderna alla formazione dell’identità. Moda etnica e cucina tradizionale sono un esempio di viaggi nel tempo, così come il turismo in realtà deindustrializzate e il gusto dei tatuaggi. Ma girare la testa all’indietro non basta per ricostruire il senso del tempo storico. Diciamo allora che citando il passato la società postmoderna ripara una pericolosa falla dell’identità e l’individuo affronta la successione continua di innovazioni con maggiore facilità. Poi c’è appunto il giorno per giorno. E oggi le persone hanno un’altra strada da percorrere per guadagnarsi una personalità. Una strada in salita: l’ascesa verso i valori postmaterialisti quali la stima, l’autoespressione, la soddisfazione estetica (Inglehart, 1998). Tuttavia l’affermazione dei valori di benessere è tutt’altro che raggiunta. E allo stesso tempo i valori materialisti quali la crescita economica e la razionalità strumentale non sembrano aver affatto abdicato alla loro funzione socioculturale.
Come ben si
vede la posta in gioco è la qualità della vita. Però la conflittualità tra tempo
sociale e tempo soggettivo non sembra politicamente dichiarata. Nella
transizione postmoderna valori postmaterialisti e valori materialisti
convivono. Una coesistenza che indurrebbe a verificare se e quanto i valori
postmaterialisti permettano la permanenza e l’evoluzione dei valori
materialisti. Ma a noi qui interessa intercettare il piacere del naufrago al naufragio del tempo. Un naufragio
incapsulato nell’eterno presente di un narcisismo collettivo che seppur privo
di senso storico permette di sprigionare numerose potenzialità della biografia.
Nella
dimensione postmoderna il tempo è convertito in spazio. Da qui l’estensione del
presente, il suo essere abitato, percorso più che vissuto. D’altra parte, il
tempo in sé non possiede coesistenze di senso. Il senso dei simboli è dato
dalla loro natura storica. E il senso del tempo è dato dalla sua natura
simbolica. Quando la dialettica tra storia e simboli non costituisce la bussola
migliore orientarsi in un presente attraversato da flussi continui di informazioni
e immagini muta la prospettiva del tempo. Tempo convertito in spazio, certo. Ma
che tipo di spazio? Uno spazio liscio, scivoloso, impenetrabile: lo specchio,
lo schermo cinematografico, la vetrina, il display del telefono cellulare, lo
schermo del computer e quello della televisione. Nel nuovo ordine ottico ogni
esperienza è prevalentemente vissuta come sensazione (Sauvageot, 2000).
In una società che premia la competizione tra biografie, ossia tra individui, l’eterno presente diventa una categoria sostitutiva del futuro. Come d’incanto nella cultura postmoderna non ci sono più scontri valoriali tra generazioni, ma fra tribù, coorti di età, gruppi. Talvolta si assiste al paradosso (per la modernità) di figli più tradizionalisti dei padri e di padri che imparano dai figli i trucchi della navigazione su Internet. E almeno sotto questo profilo il Novecento è davvero finito: più nessuna possibilità di rivoluzione politica, più nessun senso del tragico tanto caro alla cultura mitteleuropea, più nessun sentimento di nostalgia, fine del sentire romantico. Dove incanalare allora, le richieste di amore che si accumulano con l’innalzamento dell’età media, con la popolazione che scoppia di salute, con la stessa popolazione che soffre per l’evanescenza dei simboli socialmente condivisi, con bisogni sempre pronti a sbocciare in desideri? Come governare il sentimento del tempo di milioni di biografie in competizione tra loro per essere accettate, riconosciute e amate? Nel lavoro permanente sul corpo.
Democrazia e biografia
Le strategie di autocostrizione della società in transizione non sono senza prezzo: il giovanilismo di massa chiesto e ottenuto dal presente esteso comporta forti stress. La società non è più febbricitante come la metropoli di Simmel. Da allora ad oggi la temperatura è salita parecchio. La società di transizione è delirante. Tuttavia, anche il delirio può essere: a) economicamente un buon affare; b) socialmente un prolifico impiego del tempo; c) idealmente una produzione di visioni utili a progettare il futuro individuale e collettivo. Tre vantaggi che non annullano gli svantaggi della transizione. Uno fra tutti: il più attuale, il più invisibile: l’horror vacui.
La paura del vuoto ha molti volti. Almeno tanti quanti sono quelli di chi passa il tempo a sudare in palestra, a trascorrere i fine-settimana nelle beauty farm, giornate intere sdraiati sulla spiaggia ad abbronzarsi. La paura del vuoto corre nel rapido percorso tra lo sguardo e l’immagine oggetto del desiderio. Nell’era industriale l’horror vacui assumeva le maschere della solitudine in mezzo agli altri facendo così la fortuna della psicologia e della psichiatria. Nell’era postindustriale la solitudine in mezzo agli altri è rubricabile come una sofferenza ben tollerata. Gli altri vanno e vengono. I rapporti umani sono a scadenza. Ogni esperienza preme l’acceleratore. La modernità ha inventato il record e la sveltina. La postmodernità combatte la solitudine come il medioevo combatteva la peste. E vince: la solitudine è sempre meno oggetto di medicalizzazione, tu sei il miglior medico di te stesso, perciò non sei mai solo, sei sempre in compagnia. Di chi? Del tuo corpo. Il corpo: questo spettacolo permanente della tua biografia, questo per sé che è in te e di cui devi prenderti cura è in stretto dialogo con la pubblicità, la moda, lo sport.
E così la democrazia postmoderna ha inventato l’usa e getta, la terapia breve, l’Io multiplo. Ma se il corpo non corrisponde all’ideale sportivizzato trasmesso da campioni e attori? La soluzione c’è: occorre inseguire l’immagine ideale più di coloro che la natura ha premiato. Occorre non abbandonare il fantasma neanche per un istante. Amare l’immagine di successo è la dimostrazione di saper amare l’amore. Anche se sei fra gli ultimi fai sempre parte del presente. Ci sei, esisti. Come tutti hai diritto alla tua biografia. Come tutti puoi partecipare alla gara.
Fermare il tempo
“Ci dovrebbero essere anche gli ospedali per i dispiaceri” scriveva Zavattini nel suo primo libro (2001). Era il 1931. Ovviamente nessuno gli ha dato retta. Come si può dar retta a un letterato anarchico? Gli ospedali per i dispiaceri non sono stati costruiti e finché il dispiacere non diventa sofferenza anche per l’altro da sé non si raggiunge lo status di malati. I malati di solitudine viaggiano indietro nel tempo. Tornano alla società industriale. Gli affetti da horror vacui invece sono maggiormente emancipati, approfittano di quello che la cultura postmoderna offre loro a piene mani e affrontano l’horror vacui dichiarando guerra al malessere. Una nuova pedagogia del corpo accompagna l’individuo in lotta contro lo spettro della sofferenza: respirare in modo corretto, sciogliere le tensioni muscolari, sottoporsi a massaggi. Ma anche: fare nuove conoscenze alle terme, lasciarsi andare ai benefici della sauna, abitare una casa costruita secondo la dottrina del Feng shui. È la filosofia del wellness. Ma può essere qualsiasi altra filosofia sportiva o parasportiva. Alla fin fine non importa quale cura di sé si sceglie perché un principio della società postmoderna è: il benessere mentale passa attraverso il benessere del corpo.
Meno
risolvibili sono le accelerazioni dei ritmi sociali. Oggi chi è più stressata
di una quarantenne che sfiorisce? E di un ciclista dopato? Ma gli stress non
sono paragonabili. Sono fatti individuali perché il corpo è sempre più
privatizzato. È più stressata una top model anoressica o una rock star in crisi
di astinenza? È più disperato un centravanti che non segna o un salutista che
ha ripreso a fumare? Dato a ognuno lo stress di appartenenza la compressione
spazio- temporale (Harvey 1993) non presenta solo lati oscuri: è la fiera delle
esperienze. La velocità ricettiva dello sguardo postmoderno riduce i tempi
delle ritualità a favore dell’intensità: stressati sì, ma quante emozioni. E se
poi la quarantenne sconfigge le rughe, il ciclista vince senza imbrogli, la top
model batte l’anoressia, la rock star si libera dalla droga, il centravanti
riprende a fare goal e il salutista a smettere di fumare, chi gli può negare la
vittoria sul tempo?
Le risposte
della società di transizione alla sofferenza mentale sono molto complesse e
variegate. Mario Perniola sostiene che oggi la comunicazione è psicotica e non
semplicemente nevrotica. “Il modo d’essere psicotico costituisce … una
catastrofe della significazione. Nulla di quanto viene detto nel contesto
psicotico può essere oggetto di interpretazione: infatti non c’è – come nel
racconto del sogno o del sintomo nevrotico – un affetto o un pensiero inconscio
che si nasconde dietro il linguaggio. Nella psicosi questo diventa autonomo
rispetto a colui che parla” (Perniola, 2004, pag. 35).
Vantaggi del giocare
L’autonomia del linguaggio è uno dei punti più alti del trattamento sociale della sofferenza. Ad un primo livello di osservazione constatiamo che la sua pratica non è medicalizzata. Le varie filosofie del corpo lo dimostrano quotidianamente. La società si pone il problema della salute e lo assume senza camici bianchi. Possiamo annoverare questo ripristino del benessere perduto nella biopolitica, così come fa Foucault (1978) per descrivere l’assorbimento delle diversità nella società moderna. Oppure possiamo annoverarle all’interno delle politiche per la vita come fa Bauman (2005) riferendosi alla società postmoderna. Entrambe sono interpretazioni di una normalità insofferente alla sofferenza che solo alcuni studiosi si prendono la briga di decifrare. Ma non possono pretendere di risolvere. Nel caso di Bauman poi il problema non si pone nemmeno, allineandosi così ad una prevalente tendenza culturale affermata da Toffler (1988) e che privilegia l’adattamento individuale alle trasformazioni dei ritmi sociali.
Per quanto esteso il disagio soggettivo non si traduce in disordine sociale. Tutt’altro: da anni la società di transizione ha la sua ferrea ideologia nella retorica della globalizzazione. Anche la cultura si fa globale: dalle olimpiadi al corpo levigato, bello e abbronzato esibito nelle spiagge di tutto il mondo. All’alba del terzo millennio il discorso egemone ordina: molti modelli di seduzione, guerra alla vecchiaia, la vita come gara. Se il drammaturgo Arthur Miller nota che: “…una delle cose oggi più strane in milioni di esistenze è che individui normali sono circondati, per non dire assediati, dalla recitazione come mai prima nella storia” (Miller, 2004, pag. 2), allo stesso modo si può osservare che siamo accerchiati dal continuo gareggiare in una misura superiore a qualsiasi epoca passata.
In un mondo di attori-seduttori è fin troppo facile scoprire la connessione tra l’ideologia del mercato e il continuo rivaleggiare anche nelle interazioni extralavorative. È altrettanto evidente che neoliberismo e comportamenti espressivi costituiscono due differenti aree di esercizio del potere: area dell’utilità il primo spazio, area del dispendio il secondo. Tra le somiglianze e le diversità di due sistemi allo stesso tempo integrati e separati si colloca un trascendentale storico quale la nozione di gioco. Con la new-economy si tentò persino di fare del lavoro un’attività ludica. Ma come noto la bolla scoppiò e per la maggior parte dei postmoderni resta ancora in piedi la distinzione tra tempo retribuito e tempo non retribuito. Ma il confine si fa sempre più poroso perché il denaro è lo strumento di comunicazione maggiormente diffuso. Le identità vincenti sono ricche.
Se poi sono fisicamente belle ancora meglio. L’imprenditore è un modello di identificazione. E se l’imprenditore risulta anche un campione dello sport è un’icona. I casi ormai sono tanti. Alcuni hanno superato se stessi. Il calciatore inglese David Beckham è uno degli esempi più noti. Ormai è molto più di un’icona: è un brand globale. Uomini e donne si innamorano di lui con la stessa intensità con cui ci si innamora dell’ultimo modello di jeans. Un amore vero, impulsivo, irresistibile. Un amore per il quale si nutre venerazione e si è disposti a pesanti sacrifici. Un sentimento adolescenziale, indubbiamente. Ma potente e pericoloso se insoddisfatto. Beckham è allo stesso tempo: un calciatore, un imprenditore, un sex-symbol. E’ giovane: ha 32 anni. Ha giocato nel Manchester United e nel Real Madrid.
E’ stato capitano della Nazionale inglese. Dal luglio del 2007 gioca nel Galaxy di Los Angeles. E’ sposato con Victoria, un’ex Spice Girls, band di successo negli anni ’90. Secondo indiscrezioni, grazie all’avventura americana iniziata a Luglio 2007, tra ingaggio e sponsorizzazioni Beckham guadagnerà 250 milioni di dollari in cinque anni. In più si parla di altri 250 milioni di dollari l’anno per il fatturato del business generato dalla vendita di abbigliamento, occhiali, profumi, cosmetici (Reginato 2007). Cifre da capogiro, irraggiungibili per la quasi totalità dei cittadini dei Paesi ricchi. Cifre socialmente accettate perché conservare questo sistema offre a tutti la speranza di poter un giorno raggiungere quelle vette. Beckham è figlio di operai.
Il caso Beckham
dimostra che tra i giochi sociali quelli sportivi sono tra i più idonei per
rispondere alle identità in crisi: plasmano il corpo, colmano di significato
l’horror vacui, assegnano un ritmo al tempo, mantengono alto il livello di
agonismo tra le persone, rispettano la mitologia del self-made-man, rafforzano l’ideologia liberista in economia e
quella liberale in politica. Nella cultura postmoderna lo sport è salito di
rango ed è diventato il maggior detentore di quote dell’immaginario collettivo.
Scaricare la tensione
L’incalcolabile produzione di testi e immagini su avvenimenti e campioni sportivi suggerisce che l’autonomia del linguaggio non è assoluta: necessita sempre di un parlante esperto. La lingua è niente senza l’atto di parola. L’icona sportiva e quella sessuale sono niente senza uno sguardo competente in grado di apprezzarle o disprezzarle. La comunicazione ha sempre ai suoi poli un emittente e un ricevente. E il ricevente reagisce intelligentemente al messaggio che lo raggiunge. Se reagisce in maniera psicotica o in maniera delirante poco importa perché entrambi le risposte possono tranquillamente coesistere. Di più: si appoggiano una all’altra dando alla società l’occasione di una terapia di massa per raggiungere il corpo idealizzato, prevenire i rischi per la salute, vincere l’angoscia di un futuro incerto. D’altra parte, un mondo di sofferenti è un mondo elettrizzato, disponibile per qualsiasi avventura. Contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare una società in ansia è una società forte. La perdita, la separazione, l’insuccesso sono molle potentissime per cercare un altrove, spezzare legami, superare tradizioni: in una parola: per fare la storia. Chi lotta meglio di un infelice?
Da una
prospettiva sociologica è importante comprendere chi si fa carico della
sofferenza sociale. A questo punto incontriamo una vecchia conoscenza:
l’industria culturale. È un concetto insuperato della Scuola di Francoforte
(Horkheimer, Adorno, 1966) con il quale si afferma che nelle società
capitalistiche avanzate la produzione dei mass-media è razionalmente
pianificata da parte di imponenti organizzazioni che hanno come fine
l’adattamento degli individui ai modelli di vita e di consumo egemoni. Ai tempi
di Adorno e Horkheimer l’adattamento alla cultura dominante è prevalentemente
inteso come sottrazione. Sottrazione di libertà, di autonomia, di creatività
nei confronti di un soggetto messo sotto tutela dalle multinazionali
dell’intrattenimento e dell’informazione. Dopo le rivolte seguite in virtù di
questa presa di coscienza politica della propria sofferenza, la società ha
riflettuto su sé stessa e rielaborato le proprie strategie di regolazione. Oggi
i postmaterialisti sono maggiormente propensi a considerare l’adattamento in termini
più evolutivi: come attività, scelta, orientamento. Il controllo resta. Tanto
che possiamo affermare la definitiva scomparsa del privato, altra dimensione
del Novecento ormai non più funzionale alla sensibilità di un mondo in
transizione.
Per quanto inquietante la società del controllo non è che una delle tante espressioni del passaggio d’epoca che ci tocca affrontare. Il controllo sociale ha attivato un altro campo di forze mutando radicalmente la propria microfisica: viviamo nell’era della sorveglianza elettronica. Gary Marx (1988) ha individuato dieci caratteristiche che differenziano la custodia digitale dalle forme tradizionali di controllo sociale. La nuova sorveglianza trascende la distanza e il tempo, è di bassa visibilità, è di frequente involontaria, è ad alta intensità di capitale più che di lavoro. Quest’ultimo elemento assume un particolare interesse perché significa che l’informazione digitale è facilmente rimandata ad una fonte centrale rendendo così possibili economie di scala: poche persone riescono a controllare molti luoghi e individui. E gli individui diventano, volenti o nolenti, fruitori (consumers) di sorveglianza partecipando in prima persona al loro stesso monitoraggio. Le tracce lasciate dalla carta di credito non sono che uno degli esempi più noti. E’ il lato oscuro della società dell’informazione. Una società nella quale: “La maggior parte delle attività di sorveglianza avviene letteralmente al buio, lontano dagli sguardi, nel regno dei segnali digitali” (Lyon, 1997, pag. 17).
La società
dell’informazione: altro nome che diamo a un mondo plurale e uniformato,
liberale e illiberale, salutista e sofferente. E, di paradosso in paradosso, il
lato oscuro della società dell’informazione è quello più visibile, più criticato,
più soggetto a norme: la tutela della privacy
ad esempio. Un oggetto di cui la società si assume il peso. Ma l’ansia del
narcisista per un corpo da invidiare e l’angoscia del post-materialista per la
salute deve pur essere disciplinata. Si assiste così ad un contromovimento
prodotto dalla società: le stesse tecnologie della videosorveglianza sono
utilizzate per misurare numerose prestazioni sportive. Dal punto di vista
soggettivo le unifica l’eccitazione
emotiva. È eccitante superare i limiti di velocità in autostrada rischiando che
l’autovelox ci colga in flagrante. È
altrettanto eccitante assistere ad un evento sportivo e veder vincere la nostra
squadra del cuore o il nostro beniamino superare un record.
Si noti il
linguaggio affettivo adottato. Un linguaggio d’uso comune e indicatore del
fatto che: “… la maggior parte degli eventi di loisir suscitano emozioni legate a quelle provate dalla gente in
altre sfere: suscitano paura e compassione, o gelosia e odio, in armonia con
gli altri, ma non nel modo seriamente pericoloso o sconvolgente della vita
reale. Le emozioni vengono trasferite, per così dire, nella sfera mimetica con
una chiave differente. Perdono mordente. Sono mescolate con una <specie di
piacere>…Tuttavia, l’aspetto mimetico – caratteristica comune di tutti gli
eventi di loisir… – non è costituito dal fatto che essi sono rappresentazioni
della <vita reale>, ma che le emozioni (i sentimenti da esse suscitati)
sono legati a quelli sperimentati in situazioni di <vita reale>,
semplicemente trasposti in chiave diversa e mescolati con una <specie di
piacere>” (Elias, Dunning, 1989, pagg. 99-100).
Vita satura
La vigilanza hard basata sulle tecnologie dell’informazione interagisce con una seconda e ben più visibile forma di partecipazione soggettiva al controllo sociale. Partecipazione che segna una nuova tappa nei processi di autocostrizione: l’adattamento ad un’esperienza sempre ambivalente, sempre oscillante tra la ricerca del piacere e la sofferenza per la sua mancanza, peggio ancora la sua perdita. Chi si fa carico di questa riorganizzazione della struttura del sentire è la massa culturale. Ovvero l’insieme delle professioni che gestiscono la produzione di emozioni nella nostra società: dai pubblicitari agli stilisti della moda, dai designer agli esperti di marketing. L’industria culturale allarga i propri confini oltre i mezzi di comunicazione di massa per estendersi ad ogni forma di consumo. Siamo un’epoca estetica: il bello regna sovrano. Ma soprattutto: il bello deve ancora arrivare. Di più: il bello deve sempre arrivare. È la fine dell’attesa e dei suoi tormenti. Impossibile aspettare. Impossibile rinviare l’acquisto. Con l’estetizzazione di ogni oggetto sfuma un’altra distinzione del Novecento: quella tra tempo libero e tempo di lavoro. Il piacere è comunicato ovunque. E’ a portata di sguardo.
Cercare, trovare, consumare esperienze felici è l’attività degli individui postmoderni per mantenere in vita l’esperienza del naufragio. In mezzo alla tempesta di messaggi e immagini niente è più importante della concentrazione sul proprio sé. E, a proposito di Io imperiale, bisognerebbe rileggere (nel senso di reinterpretare) e riscrivere (nel senso di rimetaforizzare) Robinson Crusoe. Nella società di transizione chi più chi meno si ritrova in qualche momento della poetica di Robinson. Nel romanzo di Daniel Defoe l’isola dona una sorpresa al naufrago: un servo di colore. Che guarda caso viene battezzato con il nome di una certezza, ossia di un giorno: Venerdì. In un mondo fatto di flussi continui di immagini e informazioni il tempo non è più un testo: è una superficie riflettente il corpo reale e quello ideale. Fanno notizia le modelle stroncate dall’anoressia e il dilagare dell’obesità. Le certezze coincidono con il gusto del successo. Nella modernità il successo di una moda ne segna l’inesorabile fine e da qui la necessità di ripetere il ciclo (Simmel 1985). Nella postmodernità la tendenza al successo è senza fine, non risponde ad un tempo ciclico perché non ha mai un punto di arrivo.
Mistici del
tempo reale, i nostri occhi cercano ovunque il brivido di un’onda
irresistibile. E la trovano, meglio: la studiano nell’immagine del corpo
cinetelevisivo e nel suo farsi carne nella vita reale. È il quarto d’ora di
celebrità per tutti, il killeraggio della noia, la sospensione del tempo, la
democrazia dell’eccitazione, la seduzione in ogni dove. È la vittoria
sull’horror vacui. Nessuna paura ti può più turbare: il naufragio continua.
Deve continuare: seguendo i ritmi della moda, acquistando l’ultimo modello di
cellulare, facendo del proprio corpo una scultura, andando allo stadio.
Convergenza emotiva
Navigando tra il probabile e l’improbabile, tra il possibile e l’impossibile come si articola l’adattamento del naufrago postmoderno stretto tra la morale della seduzione e lo stigma dell’antiseduzione? Il Robinson moderno doveva risolvere innanzitutto problemi di vita materiale: salvarsi la vita, sperare nel futuro e colonizzare l’isola. In altre parole: doveva salvare il corpo per dare respiro a un’idea. Il Robinson postmoderno deve risolvere innanzitutto problemi di vita mentale: salvarsi dai paradossi sociali, sperare nell’eterno presente e invocare discontinuità senza limiti. In altre parole: deve salvare un’idea per dare respiro al corpo. In virtù di questo spostamento dei termini corpo-idea il lieto fine appartiene di diritto a Daniel Defoe. Mentre il terrore della fine appartiene di diritto ai postmoderni.
La strategia
forse più diffusa adottata dai naufraghi postmoderni a tutela della propria
salute psichica si articola su tre mosse sociali: la negazione del dolore
(proprio e altrui), la neutralizzazione della paura, l’intensificazione del
piacere. Oggetto privilegiato di queste mosse è il corpo. La tecnologia di
applicazione è la pratica dietetico-sportiva nelle sue diverse varianti,
agonistiche e amatoriali. Vediamo all’opera questa tensione nei divi
cinetelevisivi. L’odierno ideale di bellezza esige un ventre piatto e
muscoloso, bicipiti in evidenza, performance da chi è abituato a ore e ore
giornaliere di palestra. Il nuovo modello si estende anche alle donne: sul
piccolo e grande schermo da tempo le notiamo esibirsi in arti marziali,
atletismi di ogni tipo, abilità circensi.
Sul piano della struttura emotiva i due sessi stanno indubbiamente convergendo. Ma verso dove? Per quanto riguarda l’estetica verso un corpo- armatura, sintomo di un Io assediato da troppi stimoli visivi e allo stesso tempo in perenne confronto con l’instabilità. Per quanto riguarda la salute psichica verso un nuovo sentire, frutto di un quotidiano autocontrollo, o “lavoro emozionale” come lo chiama Hochschild (1995). E una caratteristica del lavoro emozionale è quella di impedire la trasformazione sociale. Si lavora su sé stessi per adattarsi all’imprevisto che ogni novità si porta dietro come qualsiasi corpo fisico si porta dietro la propria ombra. “Niente cambia dove tutto cambia” è una formula di permanenza che la società postmoderna ha inaugurato su scala planetaria. L’obiettivo è biopolitico: gestire la sofferenza della vita mentale trasferendola nella soluzione sempre provvisoria di un corpo socialmente accettato, riconosciuto dal gruppo di riferimento, amato dall’altro da sé. Questo non vuol dire che prima o poi la formula non si rovesci e si assista al: “Tutto cambia dove niente cambia”. Ma l’individuo postmoderno non desidera tale opzione. Preferisce non pensarci: potrebbe costargli la catastrofe di un naufragio compiuto. Potrebbe ritrovarsi solo, o forse in compagnia, ma su un’isola. Un’allegoria da reality show che il grande pubblico guarda comodamente seduto sul divano di casa. E allora: meglio una società di transizione che una nuova società.
Il corpo è un film
“Tutto ciò che nella vita reale somiglia al romanzo o al sogno è privilegiato” (Morin, 1963, pag. 35). Per quanto lontana nel tempo questa affermazione è ancora oggi euristicamente valida se si osserva la struttura postmoderna del sentire come fase di un processo storico per controllo delle emozioni (Elias, 1982). Altrettanto attuali restano i principali meccanismi psicologici individuati da Morin per spiegare la marcia trionfale della cultura di massa. Ossia: la proiezione e l’identificazione. Grosso modo possiamo dire che con la prima dinamica si intende la possibilità dello spettatore di uscire dalla propria pelle vivendo mentalmente situazioni di fantasia, con la seconda si intende l’empatia provata verso personaggi appartenenti al mondo dello spettacolo. La dialettica proiezione-identificazione è ancora oggi una base fondante su cui attecchisce la gestione del corpo nella società postmoderna. Società che ha portato a maturazione la logica dei consumi di massa siglando un contratto tra controllo delle tensioni individuali e industria culturale.
La convenzione
tra eccitazione emotiva e mediatizzazione dell’esistenza conferisce un senso
dominante al modo di guardare sé stessi e gli altri. Lo sguardo postmoderno è
prevalentemente desiderante. Come il desiderio: a) è perennemente vigile; b)
punta coscientemente su un oggetto preciso; c) non è mai pienamente
soddisfatto; d) ha sempre un ostacolo davanti. Fotografia, cinema e televisione
sono i mezzi di comunicazione che hanno forgiato la vista della tarda modernità
e della postmodernità sino a farne il senso che realizza il sogno. Il sogno ad
occhi aperti di farsi notare, ammirare, desiderare. Una volta interiorizzate le
immagini delle star del cinema e dei campioni dello sport gli individui
postmoderni sono pronti per entrare in scena. Con le loro performance chiedono
agli altri trasformati in pubblico di essere amati. La parola d’ordine è:
affascinare. I più affermati tra questi narcisi rovesciano i termini della
richiesta affettiva. E inducono gli spettatori ad attendere che siano loro a
degnarsi di amarli. La parola d’ordine è: dominare.
La telecronaca: un romanzo postmoderno
La spettacolarizzazione dello sport agonistico costituisce uno dei fenomeni che permette cogliere l’agire dello sguardo desiderante e il suo specchiarsi in differenti situazioni sociali. E’ noto quanto il binomio pubblicità-diritti televisivi e il sistema dello sport si sorreggano a vicenda. E sono altrettanto noti i meccanismi di difesa messi in atto dallo stesso sistema sportivo per sottrarsi dall’abbraccio del business mediatico (Porro, 2001). In generale possiamo osservare nello sport un movimento simile ad altri sistemi sociali, ad esempio quello economico. Sottoposto ad una pressante mercificazione lo sport agonistico riproduce una serie di dinamiche tipiche del capitalismo finanziario: facili guadagni, scandali, usura precoce dei campioni, concorrenza sleale, conflittualità portata a livelli estremi, gare a getto continuo. Per la precisione va detto che diverse di queste dinamiche sono presenti in nuce anche nell’epoca del capitalismo industriale. Ma oggi le vediamo maturate e interagire tutte insieme contemporaneamente. In congiunture storiche di questo tipo si assiste ad una mutazione antropologica dello sport.
Anche
un’osservazione impressionistica sul calcio lascia trapelare due fenomeni: i
campioni di questa disciplina sono sempre più caratterizzati (uno è bello,
l’altro simpatico, un terzo grintoso, un quarto inesperto ma si farà ecc.) e le partite sempre più deludenti. Insomma,
all’aumento di attrazione del singolo campione corrisponde simmetricamente un
minor incanto del gioco di squadra. Cos’è accaduto? Un’ipotesi: il postfordismo
applicato alla competizione sportiva comporta l’appiattimento delle prestazioni
su una linea di mediocrità perché i prodotti-partita, i prodotti-squadra si
differenziano sempre meno così come accade nel mercato delle automobili e dei
detersivi. Agli occhi del tifoso e dello spettatore televisivo inizia a contare
più il contenitore del contenuto, più la confezione del prodotto. Tutto dipende
dal prezzo.
Modificando la
percezione visiva dell’evento sportivo il sodalizio pubblicità- diritti
televisivi corregge il gusto di un’epoca. L’armonia non è più nel bel gioco. Un
esempio per capirci. Il campionato del mondo di calcio del 2006 è stato quanto
di più modesto si sia potuto vedere per una competizione di quel livello.
L’Italia batte ai rigori la Francia in una brutta finale per essere poi
sconfitta per tre a uno da lì a un paio di mesi dalla stessa Francia. Ma quanti
primi piani, quanti ricami sulla personalità di questo o quel calciatore,
quante parole per sopperire alla mancanza di gioco. La testata di Zinédine
Zidane al suo avversario è un monumento elettronico che ne spodesta un altro:
la sofferta esultanza di Tardelli dopo un goal al Mundial del 1982.
Neopaganesimo
La profondità della superficie è un tratto classico dei nostri tempi perché è sulle superfici che si muovono le immagini. Ai fautori degli abissi di senso la cultura postmoderna risponde aprendo il proprio sistema. Quando la curva del consumo di un prodotto tende ad abbassarsi il marketing dell’industria culturale sposta il campo di applicazione delle proprie forze sostenendo processi di differenziazione. Accade allora che i campioni sportivi passino indifferentemente in un altro ordine simbolico; dalle piste e dai campi di calcio al mondo della pubblicità. Un esempio di come la liturgia sportiva porti a compimento la transustanziazione secolare del corpo in immagine.
E’ vero: la
pubblicità è onnivora. Solo per fare un esempio tiene per la gola qualsiasi
organo di informazione e più in generale dalle inserzioni dipende l’intera
industria dei media. Dunque non si vede perché il calcio o il tennis dovrebbero
sottrarsi alla sua legge dato che alla fin fine gli atleti di professione sono
lavoratori dello spettacolo. Va poi segnalato l’avvento della neotelevisione. Ossia di una Tv caratterizzata dal flusso
anziché dal programma, dallo zapping,
dalla numerosità dei canali e da uno spettatore meno passivo seppur passato
dallo status di pubblico a quello di target.
L’assolutismo della pubblicità sui media e le nuove modalità di fruizione di
molteplici proposte televisive hanno avuto effetti dirompenti sull’immaginario
collettivo. Effetti ai quali l’atleta di notorietà globale è protagonista al
pari e forse più delle celebrità hollywoodiane.
Anna Kurnikova
è un ex tennista russa diventata celebre sia per le sue capacità nel doppio, di
cui è stata più volte campione mondiale, sia per il suo ingresso nel pantheon
del divismo. Anche lei come Beckham è un sex
symbol e un prototipo del campione-imprenditore nato dal sodalizio
sport-spettacolo/sport- mercato. E’ stata la testimonial di una serie di prodotti d’abbigliamento, ha avuto un
fidanzamento col cantante Enrique Iglesias, è entrata nel mirino del gossip internazionale, ha lanciato una
sua linea di profumi, ha fatto la modella e la ragazza-copertina. Cosa
sorprende in quest’elenco? La quantità nella diversa modulazione d’uso del corpo.
Il modello resta quello vincente: corpo tonico e in salute, un corpo come opera
d’arte. Inizia a cambiare la sua percezione simbolica. Che tende a passare
dalla mitologia dell’eroe in tutte le sue varianti (Ferrero Camoletto 2005) al
corpo sacro il cui culto non può che essere neopagano in una società
secolarizzata come la nostra.
A differenza
dell’attore cinematografico il cui lavoro è inimitabile, o imitabile dai più in
forma caricaturale, il lavoro del divo sportivo può essere fatto proprio da una
gran massa di persone. Certo, in termini di performance non raggiungeranno i suoi
traguardi. Ma possono arrivare a somigliarli nell’ideale corporeo. D’altra
parte, l’uomo greco non godeva dei poteri degli dèi e tuttavia ne aveva le
fattezze. Si possono anche rovesciare i termini e dire che gli dèi greci
avevano le fattezze degli esseri umani. Pochi eletti riusciranno ad usare il
corpo in così tante maniere come Beckham e Kurnikova. Ma a partire dalla loro
immagine tutti possono mettersi in competizione per lenire le sofferenze
postmoderne causate dalle prime rughe, i seni cascanti, l’abbassamento del tono
muscolare e, orrore, la pancia prominente.
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avvicinandosi questo tradizionale appuntamento di fine anno, ho avvertito la difficoltà di trovare le parole adatte per esprimere a ciascuno di voi un pensiero augurale.
Sono giorni,
questi, in cui convivono angoscia e speranza.
La pandemia
che stiamo affrontando mette a rischio le nostre esistenze, ferisce il nostro
modo di vivere.
Vorremmo
tornare a essere immersi in realtà e in esperienze che ci sono consuete. Ad
avere ospedali non investiti dall’emergenza. Scuole e Università aperte, per i
nostri bambini e i nostri giovani. Anziani non più isolati per necessità e
precauzione. Fabbriche, teatri, ristoranti, negozi pienamente funzionanti.
Trasporti regolari. Normali contatti con i Paesi a noi vicini e con i più lontani,
con i quali abbiamo costruito relazioni in tutti questi anni.
Aspiriamo a
riappropriarci della nostra vita.
Il virus,
sconosciuto e imprevedibile, ci ha colpito prima di ogni altro Paese europeo.
L’inizio del tunnel. Con la drammatica contabilità dei contagi, delle morti. Le
immagini delle strade e delle piazze deserte. Le tante solitudini. Il pensiero
straziante di chi moriva senza avere accanto i propri cari.
L’arrivo
dell’estate ha portato con sé l’illusione dello scampato pericolo, un diffuso
rilassamento. Con il desiderio, comprensibile, di ricominciare a vivere come
prima, di porre tra parentesi questo incubo.
Poi, a
settembre, la seconda offensiva del virus. Prima nei Paesi vicini a noi, e poi
qui, in Italia. Ancora contagi – siamo oltre due milioni – ancora vittime,
ancora dolore che si rinnova. Mentre continua l’impegno generoso di medici e
operatori sanitari.
Il mondo è
stato colpito duramente. Ovunque.
Anche
l’Italia ha pagato un prezzo molto alto.
Rivolgendomi
a voi parto proprio da qui: dalla necessità di dare insieme memoria di quello
che abbiamo vissuto in questo anno. Senza chiudere gli occhi di fronte alla
realtà.
La pandemia
ha scavato solchi profondi nelle nostre vite, nella nostra società. Ha acuito
fragilità del passato. Ha aggravato vecchie diseguaglianze e ne ha generate di
nuove.
Tutto ciò ha
prodotto pesanti conseguenze sociali ed economiche. Abbiamo perso posti di
lavoro. Donne e giovani sono stati particolarmente penalizzati. Lo sono le
persone con disabilità. Tante imprese temono per il loro futuro. Una larga
fascia di lavoratori autonomi e di precari ha visto azzerare o bruscamente
calare il proprio reddito. Nella comune difficoltà alcuni settori hanno
sofferto più di altri.
La pandemia
ha seminato un senso di smarrimento: pone in discussione prospettive di vita.
Basti pensare alla previsione di un calo ulteriore delle nascite, spia
dell’incertezza che il virus ha insinuato nella nostra comunità.
È questa la
realtà, che bisogna riconoscere e affrontare.
Nello stesso
tempo sono emersi segnali importanti, che incoraggiano una speranza concreta.
Perché non prevalga la paura e perché le preoccupazioni possano trasformarsi
nell’energia necessaria per ricostruire, per ripartire.
Nella prima
fase, quando ancora erano pochi gli strumenti a disposizione per contrastare il
virus, la reazione alla pandemia si è fondata anzitutto sul senso di comunità.
Adesso
stiamo mettendo in atto strategie più complesse, a partire dal piano di
vaccinazione, iniziato nel medesimo giorno in tutta Europa.
Inoltre, per
fronteggiare le gravi conseguenze economiche sono in campo interventi europei
innovativi e di straordinaria importanza.
Mai un
vaccino è stato realizzato in così poco tempo.
Mai l’Unione
Europea si è assunta un compito così rilevante per i propri cittadini.
Per il
vaccino si è formata, anche con il contributo dei ricercatori italiani,
un’alleanza mondiale della scienza e della ricerca, sorretta da un imponente
sostegno politico e finanziario che ne ha moltiplicato la velocità di
individuazione.
La scienza
ci offre l’arma più forte, prevalendo su ignoranza e pregiudizi. Ora a tutti e
ovunque, senza distinzioni, dovrà essere consentito di vaccinarsi
gratuitamente: perché è giusto e perché necessario per la sicurezza comune.
Vaccinarsi è
una scelta di responsabilità, un dovere. Tanto più per chi opera a contatto con
i malati e le persone più fragili.
Di fronte a
una malattia così fortemente contagiosa, che provoca tante morti, è necessario
tutelare la propria salute ed è doveroso proteggere quella degli altri,
familiari, amici, colleghi.
Io mi
vaccinerò appena possibile, dopo le categorie che, essendo a rischio maggiore,
debbono avere la precedenza.
Il vaccino e
le iniziative dell’Unione Europea sono due vettori decisivi della nostra
rinascita.
L’Unione Europea
è stata capace di compiere un balzo in avanti. Ha prevalso l’Europa dei valori
comuni e dei cittadini. Non era scontato.
Alla crisi
finanziaria di un decennio or sono l’Europa rispose senza solidarietà e senza
una visione chiara del proprio futuro. Gli interessi egoistici prevalsero.
Vecchi canoni politici ed economici mostrarono tutta la loro inadeguatezza.
Ora le
scelte dell’Unione Europea poggiano su basi nuove. L’Italia è stata
protagonista in questo cambiamento.
Ci
accingiamo – sul versante della salute e su quello economico – a un grande
compito. Tutto questo richiama e sollecita ancor di più la responsabilità delle
istituzioni anzitutto, delle forze economiche, dei corpi sociali, di ciascuno
di noi. Serietà, collaborazione, e anche senso del dovere, sono necessari per
proteggerci e per ripartire.
Il piano
europeo per la ripresa, e la sua declinazione nazionale – che deve essere
concreta, efficace, rigorosa, senza disperdere risorse – possono permetterci di
superare fragilità strutturali che hanno impedito all’Italia di crescere come
avrebbe potuto.
Cambiamo ciò
che va cambiato, rimettendoci coraggiosamente in gioco.
Lo dobbiamo
a noi stessi, lo dobbiamo alle giovani generazioni.
Ognuno
faccia la propria parte.
La pandemia
ci ha fatto riscoprire e comprendere quanto siamo legati agli altri; quanto
ciascuno di noi dipenda dagli altri. Come abbiamo veduto, la solidarietà è
tornata a mostrarsi base necessaria della convivenza e della società.
Solidarietà
internazionale. Solidarietà in Europa. Solidarietà all’interno delle nostre
comunità.
Il 2021 deve
essere l’anno della sconfitta del virus e il primo della ripresa. Un anno in
cui ciascuno di noi è chiamato anche all’impegno di ricambiare quanto ricevuto
con gesti gratuiti, spesso da sconosciuti. Da persone che hanno posto la stessa
loro vita in gioco per la nostra, come è accaduto con tanti medici e operatori
sanitari.
Ci siamo
ritrovati nei gesti concreti di molti. Hanno manifestato una fraternità che si
nutre non di parole bensì di umanità, che prescinde dall’origine di ognuno di
noi, dalla cultura di ognuno e dalla sua condizione sociale.
È lo spirito
autentico della Repubblica.
La fiducia
di cui abbiamo bisogno si costruisce così: tenendo connesse le responsabilità
delle istituzioni con i sentimenti delle persone.
La pandemia
ha accentuato limiti e ritardi del nostro Paese. Ci sono stati certamente anche
errori nel fronteggiare una realtà improvvisa e sconosciuta.
Si poteva
fare di più e meglio? Probabilmente sì, come sempre. Ma non va ignorato neppure
quanto di positivo è stato realizzato e ha consentito la tenuta del Paese
grazie all’impegno dispiegato da tante parti. Tra queste le Forze Armate e le
Forze dell’Ordine che ringrazio.
Abbiamo
avuto la capacità di reagire.
La società
ha dovuto rallentare ma non si è fermata.
Non siamo in
balìa degli eventi.
Ora dobbiamo
preparare il futuro.
Non viviamo
in una parentesi della storia. Questo è tempo di costruttori. I prossimi mesi
rappresentano un passaggio decisivo per uscire dall’emergenza e per porre le
basi di una stagione nuova.
Non sono
ammesse distrazioni. Non si deve perdere tempo. Non vanno sprecate energie e
opportunità per inseguire illusori vantaggi di parte. E’ questo quel che i
cittadini si attendono.
La sfida che
è dinanzi a quanti rivestono ruoli dirigenziali nei vari ambiti, e davanti a
tutti noi, richiama l’unità morale e civile degli italiani. Non si tratta di
annullare le diversità di idee, di ruoli, di interessi ma di realizzare quella
convergenza di fondo che ha permesso al nostro Paese di superare momenti
storici di grande, talvolta drammatica, difficoltà.
L’Italia ha
le carte in regola per riuscire in questa impresa.
Ho ricevuto
in questi mesi attestazioni di apprezzamento e di fiducia nei confronti del
nostro Paese da parte di tanti Capi di Stato di Paesi amici.
Nel momento
in cui, a livello mondiale, si sta riscrivendo l’agenda delle priorità, si
modificano le strategie di sviluppo ed emergono nuove leadership, dobbiamo
agire da protagonisti nella comunità internazionale.
In questa
prospettiva sarà molto importante, nel prossimo anno, il G20, che l’Italia
presiede per la prima volta: un’occasione preziosa per affrontare le grandi
sfide globali e un’opportunità per rafforzare il prestigio del nostro Paese.
L’anno che
si apre propone diverse ricorrenze importanti.
Tappe della
nostra storia, anniversari che raccontano il cammino che ci ha condotto ad una
unità che non è soltanto di territorio. Ricorderemo il settimo centenario della
morte di Dante.
Celebreremo
poi il centosessantesimo dell’Unità d’Italia, il centenario della collocazione
del Milite Ignoto all’Altare della Patria.
E ancora i
settantacinque anni della Repubblica.
Dal
Risorgimento alla Liberazione: le radici della nostra Costituzione. Memoria e
consapevolezza della nostra identità nazionale ci aiutano per costruire il
futuro.
Esprimo un
ringraziamento a Papa Francesco per il suo magistero e per l’affetto che
trasmette al popolo italiano, facendosi testimone di speranza e di giustizia. A
lui rivolgo l’augurio più sincero per l’anno che inizia.
Complimenti
e auguri ai goriziani per la designazione di Gorizia e Nova Gorica,
congiuntamente, a capitale europea della cultura per il 2025. Si tratta di un
segnale che rende onore a Italia e Slovenia per avere sviluppato relazioni che
vanno oltre la convivenza e il rispetto reciproco ed esprimono collaborazione e
prospettive di futuro comune. Mi auguro che questo messaggio sia raccolto nelle
zone di confine di tante parti del mondo, anche d’ Europa, in cui vi sono
scontri spesso aspri e talvolta guerre anziché la ricerca di incontro tra
culture e tradizioni diverse.
Vorrei
infine dare atto a tutti voi – con un ringraziamento particolarmente intenso –
dei sacrifici fatti in questi mesi con senso di responsabilità. E vorrei
sottolineare l’importanza di mantenere le precauzioni raccomandate fintanto che
la campagna vaccinale non avrà definitivamente sconfitto la pandemia.
Care
concittadine e cari concittadini,
quello che
inizia sarà il mio ultimo anno come Presidente della Repubblica.
Coinciderà
con il primo anno da dedicare alla ripresa della vita economica e sociale del
nostro Paese.
La
ripartenza sarà al centro di quest’ultimo tratto del mio mandato.
In questo articolo formuleremo delle riflessioni di carattere sociologico sul movimento New Age, il più importante movimento neopagano esistente nel mondo contemporaneo.
Prof. Giovanni Pellegrino ==>>
Il New Age è una delle espressioni più importanti della nuova religiosità sia perché molti individui sono attratti dalla religione acquariana, sia perché le tematiche acquariane sono presenti in maniera diretta o indiretta in molti nuovi movimenti religiosi. In Italia esistono numerosi Centri dell’età dell’Acquario, alcune comunità acquariane e numerosi individui si riconoscono nella nebulosa acquariana. Non dobbiamo dimenticare che anche se l’Italia è la sede del Papato, gli italiani sono molto inclini a diventare adepti delle nuove religioni, a recarsi da maghi e astrologi, a frequentare gruppi esoterici e accettare varie forme di sincretismo religioso. Pertanto i sociologi e gli storici delle religioni non sono sorpresi dal fatto che anche in Italia la visione del mondo acquariana eserciti una non trascurabile influenza nei vari settori nei quali i paradigmi del New Age sono determinanti.
Ma in definitiva che cos’è il movimento New Age? A dire il vero risulta difficile dare una definizione appropriata del movimento New Age, perchè fanno parte dell’universo acquariano cose molto diverse tra loro. Di conseguenza il New Age appare una realtà fluida e sfuggente o meglio una serie di realtà che hanno tra loro una certa aria di famiglia ma che presentano anche differenze e contraddizioni profonde. Ma nonostante tutto ciò che abbiamo premesso è necessario dare una definizione del New Age. Vedremo ora diversi modi in cui è stato definito il New Age, cominciando dalle definizioni di Zoccatelli, che ha proposto una triplice definizione del New Age tenendo conto di una triplice prospettiva( psicologica, storico- religiosa e sociologica).
Riguardo alla possibilità di definire il New Age da un punto di vista della psicologia sociale, Zoccatelli ha affermato che il New Age può essere descritto come uno stato d’animo, come la sensazione condivisa da un numero significativo di persone, di essere entrati in un’epoca nuova contrassegnata da cambiamenti radicali in tutti i settori della vita sociale. In effetti gli acquariani sono convinti che i mutamenti che stanno avvenendo nel mondo contemporaneo provocheranno una specie di effetto a catena che renderà sempre più veloce i mutamenti in tutti i settori dell’attività umana. Gli acquariani si prefiggono il “rovesciamento dei paradigmi”in campo politico, artistico, religioso, culturale, scientifico e sociale.
Zoccatelli tenta poi di dare una definizione del New Age anche dal punto di vista della storia delle religioni. Secondo Zoccattelli le analisi più sofisticate riconducono il New Age alla categoria del movimento di “risveglio”nonostante che gli storici delle religioni abbiano applicato questa categoria soprattutto al fenomeno del pentecostalismo. Il New Age si pone come “movimento di risveglio” nell’area culturale occidentale non più del mondo cristiano ma del mondo laico. In effetti il New Age si propone di risvegliare quelle capacità e quelle potenzialità che a dire degli acquariani sono presenti in tutti gli esseri umani, anche se molti di essi si trovano allo stato latente. Per fare in modo che tali capacità passino dallo stato latente a quello attivo, il New Age propone una serie di tecniche che utilizzano sia principi della psicologia del profondo, sia concetti e pratiche derivanti dalle religioni e dal misticismo orientale. Zoccatelli fornisce poi una terza definizione del fenomeno New Age che tiene conto del punto di vista dei sociologi della religione. Zoccatelli afferma che per facilitare la comprensione del fenomeno New Age bisogna fare riferimento ad una categoria il cui studio è stato sviluppato dai sociologi della religione, categoria indicata col termine di network, che può essere tradotto con l’espressione “struttura a rete”.
In sintesi Zoccatelli sostiene può essere definito un network. Cercheremo ora di chiarire con un esempio, cosa si intende nella sociologia della religione con questo termine certamente non di facile comprensione. Immaginiamo che in un città si formi un gruppo di appassionati di astrologia che decidono di incontrarsi periodicamente per scambiare delle idee e parlare delle loro esperienze. Ipotizziamo che questo gruppo stabilisca dei contatti con altri gruppi di cultori di astrologia situati nella stessa città o in altre città.
Se questi gruppi non presentano nessun tipo di organizzazione gerarchica, costituiscono un network, il network degli appassionati di astrologia. In estrema sintesi i membri di un netwok hanno una visione del mondo molto simile,si propongono gli stessi obiettivi, sono in comunicazione tra loro e seguono gli stessi modelli comportamentali ma non possiedono nessuna struttura gerarchica ufficiale. Il New Age è senza dubbio un classico esempio di network. Introvigne ritiene che nel caso del movimento New Age non si debba tanto parlare di network ma di metanetwork ovvero di network di network. Secondo Introvigne il metanetwork New age ingloba un gran numero di network diversi, accomunati dall’idea secondo cui sono in corso novità qualitive e radicali. In realtà alle riunioni e ai congressi del New Age sono presenti persone appartenenti al network tanto diverse tra loro, come gli ecologisti, i praticanti della neostregoneria, coloro che dichiarano di esssere in contatto con gli alieni, i credenti nei poteri dei cristalli, gli esoteristi e i praticanti della medicina alternativa, etc. Vedremo ora come definiscono il New Age due importanti esponenti dell’ambiente acquariano. Merlin Ferguson sostiene che il New Age è un insieme di nuovi paradigmi che stanno emergendo in tutti i campi della vita e del sapere umano, radicalmente diversi dai paradigmi precedenti.
A sua volta Davide Spangler afferma che il New Age è quella condizione vitale che emerge quando si vive la vita in maniera creativa, potente e compassionevole. A sua volta Cecilia Gatto Trocchi definisce il New Age come un vasto ed eterogeneo movimento di ricerca spirituale che ritiene iniziata una nuova era zodiacale legata all’Acquario. La nuova era vuole contrapporsi alla precedente ( quella dei Pesci) e si impegna a valorizzare l’emotività, l’espressione del corpo, l’energia della mente- spirito e la visione magica del mondo. Come si vede è possibile definire il New Age in molti modi. Tale movimento è pluriprospettico e pluridimensionale. A questo punto riteniamo opportuno proporre cinque definizioni del New Age utilizzando le categorie e i concetti della psicologia sociale e della storia delle religioni. Le cinque definizione riguardanti il New Age sono: una visione del mondo costituita da elementi di sicuro successo nella società contemporanea; il tentativo di reincanto del mondo; una fede senza dogi; un movimento antropocentrico; unarisposta di tipo neopagano al bisogno di appartenenza.
Per quanto riguarda la prima definizione da noi proposta dobbiamo dire che una delle cose che ci ha maggiormente colpito del movimento New Age è stato che all’interno della nebulosa Acquariana fossero presenti molte discipline e molte credenze che incontrano incondizionato favore degli uomini contemporanei nonché molto spazio ed attenzione da parte dei mass media. Per fare un esempio l’astrologia, uno dei pilastri della visione del mondo Acquariana, rappresenta uno dei miti della società contemporanea, come pure la magia, la credenza nella reincarnazione, il sincretismo religioso, l’interesse per la filosofia e per il misticismo orientale, l’interesse per il pensiero esoterico, la medicina alternativa, l’ecologia. Tutti questi elementi di primissimo piano all’universo acquariano sono indiscutibilmente argomenti che attirano l’attenzione e l’interesse di un numero grandissimo di individui, tanto che libri, riviste e trasmissioni radiotelevisive che affrontano tali argomenti ottengono sempre un notevole successo. Ultimamente altri elementi dell’universo Acquariano sono diventati popolari anche tra coloro che non appartengono al movimento New Age.Vogliamo riferirci alla credenza dell’esistenza di fate gnomi, folletti, all’interesse per lo sciamanesimo e al successo della angeologia.
Il New Age può anche essere definito un movimento che si propone di attuare il “ reincanto del mondo”. Con tale termine si intende il fatto che per gli Acquariani il mondo e la natura sono divini e sono popolati da una serie di esseri viventi dotati di poteri magici. Mentre con il disincanto del mondo si era affermata una visione razionale del mondo e dei rapporti tra uomo e natura, col reincanto del mondo attuato dal New Age la situazione cambia radicalmente. Prima del New Age i rapporti tra uomo e natura erano soprattutto strumentali nel senso che l’uomo cercava di esercitare un dominio sulla natura utilizzando la scienza e la tecnologia. Al contrario col reincanto del mondo di matrice Acquariana si ha una vera e propria “ rivoluzione copernicana” per quanto riguarda la concezione del mondo e dei rapporti uomo-natura. Alla base di tale “Rivoluzione Copernicana, vi è la cosiddetta “ipotesi di Gea” secondo cui la divinità suprema è Gaia che altro non è che la Terra divinizzata e considerata un organismo vivente al quale vengono tributati onori divini. Ma gli Acquariani non si limitano a divinizzare la Terra: essi attribuiscono poteri divini anche alle stelle, alla luna e al sole.
Possiamo dire che il New Age non si limita al reincanto della Terra ma propone una visione magica dell’intero universo. Trattasi di un reincanto del cosmo basato sulla credenza nell’unità essenziale della vita e nella sacralità intrinseca dell’universo. In altri termini gli Acquariani ritengono che esista una “comunione cosmica” che partendo dagli elettroni arriva fino alle galassie. Il New Age si fa portatore di una concezione olistica dell’universo secondo la quale tutto ciò che accade in un qualsiasi punto dell’universo ha effetti e conseguenze nell’intero cosmo. Il New Age può anche essere definito la più classica espressione della nuova religiosità caratterizzata da una fede che rifiuta i dogmi e da un soggettivismo religioso spinto oltre ogni limite. In effetti gli Acquariani pur accettando una serie di credenze fondamentali lasciano molto spazio all’interpretazione personale e al soggettivismo nei loro rapporti con la dimensione religiosa e con gli altri uomini. Inoltre i seguaci del New Age sono convinti che ogni individuo debba seguire una propria via personale per raggiungere il risveglio delle proprie capacità latenti e per entrare in armonia con se stessi e con l’universo.
Per dirla in altro modo anche se gli Acquariani accettano le stesse verità fondamentali esistono un certo numero di credenze non accettate da tutti i componenti della nebulosa acquariana ma solamente da alcuni gruppi. Vogliamo mettere in evidenza che la maggior parte delle differenze dottrinali esistenti nella nebulosa acquariana sono dovute alla presenza nell’universo religioso del New Age del Chanelling, una forma moderna di spiritismo. Gli storici delle religioni e i sociologi delle religioni mettono in evidenza che il Chenelling da’ luogo nel New Age ad un modello di religiosità incontrollata, dal momento che permette l’ingresso nell’edificio dottrinale acquariano di nuove credenze molto spesso imprevedibili. Il Chanelling è anche una delle cause della nascita di nuove religioni, in quanto crea le premesse per l’esistenza di quelle che i sociologi delle religioni chiamano”rivelazioni continue”.
Il Chanelling è una fonte di rivelazioni continue perché sostituisce un contatto permanente con entità soprannaturali di vario tipo, in grado di rivelare in ogni momento concetti riguardanti qualsiasi argomento attinente alla dimensione religiosa. Gli storici delle religioni mettono in evidenza insieme ai sociologi della religioni che il Chanelling permette una serie potenzialmente infinita di “ rivelazioni private e la presenza di un numero altissimo di profeti. Di conseguenza gli acquariani ritengono che potenzialmente ogni individuo possa diventare un”nuovo profeta e che le entità soprannaturali impegnate nel Channeling forniscano continuamente” nuove rivelazioni” per facilitare il progresso dell’umanità e l’arrivo della nuova era. Concludiamo il discorso sul Channeling mettendo in evidenza che i sociologi e la religione hanno studiato con attenzione tale forma di spiritismo che molto spesso contraddice i contenuti delle rivelazioni che sono alla base delle grandi religioni tradizionali.
Il New Age può anche essere definito un movimento dotato di una visione del mondo di tipo antropocentrico. Gli storici delle religioni sanno che gli Acquariani sono caratterizzati da un’antropologia molto ottimistica dal momento che sono convinti che l’uomo possa salvare se stesso senza l’aiuto della Grazia Divina ( trattasi di una vera e propria autosoteriologia). In sintesi il New Age afferma che l’uomo può salvarsi acquistando consapevolezza di essere di natura divina. Appare evidente che l’attribuire al genere umano una natura divina non può non portare ad una visione del mondo estremamente antropocentrica. Il New Age è convinto che il genere umano sia in grado di risolvere tutti i suoi problemi una volta che il genere umano abbia acquisito la consapevolezza delle proprie capacità latenti. A detta degli Acquariani gli uomini non sono in grado di utilizzare tali capacità latenti perché non sanno di possederle . Il forte antropocentrismo del New Age è anche evidente nella convinzione presente in tuttti gli acquariani che l’uomo non deve essere umile e sottomesso nei confronti di Dio ma deve manifestare una forte volontà di potenza derivante dall’essere di natura divina. In estrema sintesi possiamo dire che la concezione dell’uomo reclamizzata dal New Age presenta un antropocentrismo così forte da sfociare in un vero e proprio titanismo.
Per fare un esempio concreto il concetto di pensiero positivo, uno degli elementi più reclamizzati della visione del mondo acquariana trova il suo fondamento nella concezione antropocentrica che caratterizza il New Age. Infatti alla base del pensiero positivo vi è la convinzione che l’uomo abbia il potere di agire quasi magicamente sulla realtà, liberando energie psichiche positive in grado di attirare altre forze positive esistenti nell’universo. Nell’antropologia acquariana il potere dell’uomo sul corso degli eventi è fortissimo ragion per cui è lecito parlare di un vero e proprio titanismo , che ricorda un po’ il titanismo dell’uomo del Romanticismo. Infine il New Age può anche essere definito una risposta di tipo neopagano al bisogno di appartenenza, una delle esigenze più sentite nella società contemporanea come affermano tutti i sociologi. Il bisogno di appartenenza diventa sempre più importante nel contesto sociale contemporaneo nel quale i principali legami sociali attraversano una crisi profonda: la famiglia, il gruppo amicale, i gruppi di lavoro e tutti gli altri gruppi secondari non riescono più a soddisfare il bisogno di appartenenza degli individui perché non sono più in grado di fornire motivazioni ai loro appartenenti.
In un contesto sociale di tale tipo il movimento New Age che fa sentire l’individuo parte dell’ universo, può essere considerato dal punto di vista sociologico una risposta neopagana al bisogno di appartenenza degli individui. Parliamo di risposta neopagana a tale bisogno perché il New Age ha un forte carattere neopagano. Per dirla in altro modo il New Age è una delle massime espressioni del neopaganesimo imperante nella società contemporanea come hanno messo in evidenza gli storici delle religioni e i sociologi della religione. Qualunque cosa si voglia pensare del New Age non si può negare che dal punto di vista sociologico esso condiziona in maniera diretta o indiretta la visione del mondo degli uomini contemporanei quanto meno nel mondo occidentale.
Nella società contemporanea esistono molti miti che hanno la funzione principale di fornire motivazioni e dare un senso alla vita degli individui. In questo articolo prenderemo in considerazione uno di tali miti ovvero il fascino del mistero.
<<== Prof. Giovanni Pellegrino
Quando noi affermiamo che nella società contemporanea esiste una forte tendenza a mitizzare cose, fatti, persone e fenomeni sociali, intendiamo dire che molte cose, persone e fenomeni sociali diventano oggetto di una vera e propria idolatria da parte degli uomini contemporanei. In estrema sintesi possiamo dire che il processo di mitizzazione determina un aumento in maniera esagerata di tutto ciò che subisce tale processo: esso fa perdere agli individui la capacità di valutare in maniera critica ed oggettiva nonché razionale il reale valore di tutto ciò che viene mitizzato. La mitizzazione può essere considerata l’oppio degli uomini contemporanei. Per dirla in altro modo, nella società contemporanea esiste una vera e propria “fame di miti” che spesso è diretta conseguenza della crisi dei grandi valori che un tempo davano un senso alla vita di un individuo e fornivano altresì loro le motivazioni per compiere azioni degne di lode.
Spesso il processo di mitizzazione è un modo per compensare frustrazioni e fallimenti personali dal momento che gli individui non sono soddisfatti dei traguardi raggiunti e sentono il forte bisogno di mitizzare qualcosa o qualcuno. Dopo queste considerazioni sul processo di mitizzazione affronteremo il tema del nostro articolo ovvero il ruolo giocato dal fascino del mistero nel mondo contemporaneo. Dobbiamo dire che nonostante la scienza e la tecnologia siano arrivate oggi a livelli mai raggiunti nella storia del genere umano, il mistero esercita un grandissimo fascino sugli uomini contemporanei. Possiamo dire che razionalità e irrazionalità convivono senza generare conflitti in moltissimi individui moderni che non tengono in nessun conto il principio di non contraddizione. Alcuni sociologi ritengono che tale interesse per il mondo del mistero debba essere considerato un segno della crisi della razionalità. Noi non condividiamo in maniera assoluta l’idea che il ritorno del fascino del mistero sia un segno della crisi della scienza che è la più perfetta forma di conoscenza raggiungibile dall’uomo nel mondo terreno.
Tutti quelli che criticano la scienza dovrebbero tener presente che negli anni trenta la vita media degli individui era di quarantanove anni mentre oggi raggiunge gli ottantacinque anni. Naturalmente non bisogna pretendere dalla scienza cose impossibili, come ad esempio rispondere alle domande: esiste Dio? Esiste una vita dopo la morte? Infatti la risposta a tali domande presuppone conoscenze di tipo metafisico al di fuori delle capacità cognitive degli uomini. A nostro avviso la mitizzazione del fascino del mistero non è segno della crisi della scienza ma del desiderio di esplorare la dimensione soprannaturale utilizzando criteri e modalità diversi da quelli proposti dalla religione cattolica che si basano sulla fede. Tali criteri venivano dalla nuova religiosità di tipo gnostico e neopagano tipica del New Age, della Wicca e dei nuovi movimenti magico- religiosi. Come tutti sanno oggi assistiamo al ritorno in grande stile di un neopaganesimo multiforme che fa sentire la sua influenza in tutti i settori della vita sociale. In sintesi il fascino del mistero deriva almeno in parte dal fatto che moltissimi individui rifiutano le modalità proposte dalla religione cattolica per entrare in contatto con la dimensione soprannaturale (fede, preghiera, ascetismo) e mettono in atto modalità di rapportarsi al soprannaturale condannate dalla religione cattolica.
Ad esempio molti individui ricorrono alle pratiche magiche, allo spiritismo, al satanismo, all’evocazione dei componenti del “piccolo popolo” nonché alla adorazione di divinità pagane quali Gaia e la Grande Madre. Oramai nessuno mette in dubbio che nel mondo occidentale si è verificata la grande rivincita del paganesimo che ha determinato una profondissima crisi della religione cattolica. Esiste inoltre una mitizzazione del fascino del mistero che si basa sulla convinzione che la mente umana possieda dei poteri divini che le permetterebbero di ignorare le leggi della natura e di modificare gli eventi della vita degli individui ( basti pensare al cosiddetto “pensiero positivo” tipico della visione del mondo del New Age). Moltissimi individui sono fortemente attratti dallo studio dei misteri riguardanti motivi divini della mente umana a causa del fatto che l’uomo, fin dai tempi del paradiso terrestre ha sognato di diventare come Dio e di avere poteri divini (vedasi il Peccato Originale). Inoltre esercitano molto fascino sugli uomini tutti quei misteri collegati con le civiltà del passato anche se spesso alcune di tali civiltà diventano oggetto di processi di idealizzazione nel senso che si nota una vera e propria idolatria nei loro confronti che non tiene conto della realtà storica.
Per fare un esempio citeremo l’idolatria che gli acquariani e gli adepti della Wicca dimostrano nei confronti della civiltà e della religione celtica. Moltissimi sono dunque i misteri che attirano gli uomini contemporanei. A tale riguardo Berlitz scrive: “ecco dunque il fiorire di romanzi occulti, di saggi sulle civiltà del passato, sul continente di Atlantide, sulla ‘ archeologia spaziale, sulle religioni iniziatiche, sulle antiche scienze, sui personaggi circondati da un alone di mistero, sulle leggende e sui fenomeni paranormali e così via”. 1 (C. Berlitz, Atlantide, Edizioni Mediterranee, Roma, 1984, p.10). Come si vede esistono misteri di ogni tipo che rendono la mappa dei misteri presenti nella società contemporanea estremamente variegata e pluridimensionale.Tuttavia dobbiamo dire che contribuiscono alla mitizzazione di un certo numero di misteri le affermazioni e le teorie non sostenute da dati di fatto divulgati da individui che pubblicano libri su tali fatti misteriosi. Essi spacciano per dati di fatto e per clamorose scoperte quelle che altro non sono che delle semplici opinioni personali al massimo suffragate da semplici indizi. Un’altra causa della mitizzazione di un certo numero di misteri sta nel fatto che quasi tutte le persone che leggono i libri di tali autori non hanno conoscenze scientifiche e storiche per esprimere una valutazione oggettiva del valore reale di tali teorie.
In questa sede non possiamo effettuare considerazioni di carattere sociologico e psico-sociale su tutti i più importanti misteri che attraggono l’uomo contemporaneo, in quanto dovremmo scrivere un intero libro su tale argomento e non un semplice articolo. Pertanto ci limiteremo a formulare alcune considerazioni sociologiche e psico- sociali sul mistero di Atlantide, il presunto continente perduto che si sarebbe inabissato nelle acque dell’oceano Atlantico circa diecimila anni fa. In tale articolo vedremo il significato filosofico, sociologico e storico- religioso del mistero di Atlantide. L’esistenza di Atlantide viene sostenuta da Platone che ci parla del perduto continente in due dialoghi ma la maggior parte degli studiosi ritiene che la descrizione di Atlantide sia uno dei tanti miti presenti nelle opere di Platone e non un fatto storico. Non possiamo in questa sede fare delle considerazioni filosofiche sull’importanza dei miti nel pensiero platonico ma possiamo dire che è molto probabile che Patone abbia utilizzato il racconto di Atlantide non per sostenere l’esistenza storica del presunto continente ma per altri fini come accadeva per gli altri miti platonici. Detto ciò cercheremo di mettere in evidenza le conseguenze psico-sociali che deriverebbero dalla dimostrazione dell’esistenza di Atlanatide. In effetti tale dimostrazione avrebbe un fortissimo impatto psicologico e sociologico sia sulla comunità scientifica sia sulla gente comune in quanto farebbe saltare la concezione lineare della storia, uno dei capisaldi della percezione sociale della realtà nel mondo occidentale. Come tutti i sociologi sanno, modificare la percezione sociale della realtà significa cambiare radicalmente l’universo sociale.
La concezione lineare del tempo e della storia si basa sul presupposto che la società moderna è quella nella quale è stato raggiunto il massimo grado di progresso scientifico e tecnologico mai avuto in tutta la storia dell’umanità. Se si dovesse provare che Atlantide prima di essere distrutta aveva raggiunto un notevole livello di sviluppo scientifico bisognerebbe mettere in discussione i capisaldi della concezione del mondo e si avrebbe quello che i sociologi chiamano shock culturale. Dal punto di vista della storia delle religioni il grande interesse che si registra nel mondo contemporaneo per il mistero di Atlantide può essere considerato una forma moderna di quella che gli storici delle religioni chiamano “ nostalgia delle origini”. Tale nostalgia è presente a livello conscio ed inconscio negli animi degli uomini. Essa fa riferimento a un lontano passato nel quale esisteva quella che gli storici delle religioni chiamano” l’età dell’oro”, un’età di pace, prosperità ed abbondanza. In effetti Atlantide viene definita da Platone come “l’età degli dei”, nella quale gli abitanti di tale continente si trovavano in una specie di paradiso terrestre. Infine per molte persone Atlantide è la culla della civiltà e della razza umana, ragion per cui collegano ad essa quelli che gli storici delle religioni chiamano “miti delle origini” od anche “miti di fondazione ,che fanno riferimento ad avvenimenti accaduti all’alba della storia del genere umano. Tali fatti avrebbero condizionato in maniera irreversibile l’umanità.
Prof.
Giovanni Pellegrino
Prof.ssa
Mariangela Mangieri
Bibliografia
R. Baschera,
2000 nell’anno del Signore, Milano, 1989
C. Berlitz,
Atlantide, Edizioni Mediterranee, Roma,1984
M. Corvaia,
Le profezie di Nostradamus, De Vecchi Editore, Milano, 1982
K. Lowith,
Significato e fine della storia, Il
Saggiatore, Milano, 19991
G.
Pellegrino, Il neopaganesimo nella società moderna,Edisud, Salerno, 2000
G.
Pellegrino, Il ritorno dell’astrologia, New Grafic Service, Salerno, 2004
G.
Pellegrino, Il new age, Edisud, Salerno,2003
H. Reimann,
Introduzione alla sociologia, Il Mulino, Bologna, 1982
J. Vallee,
Messaggeri di illusione, Sperling-Kupfer, Milano, 1984
Una delle domande più frequenti che attanagliano gli studiosi è di certo la definizione del rapporto tra l’individuo e la società. Questa, insieme ad altri innumerevoli quesiti, detiene il titolo di oggetto di studio e di ricerche innumerevoli.
<< ==dott./sa Flavia Munafò
Sarebbe utopico, e, tendenzialmente anche troppo presuntuoso da parte mia, cercare di affrontare l’argomento in maniera esaustiva senza riempire le pagine di questo scritto con infinite dissertazioni melense e già dette; per questo, infatti, cercherò di riportare in maniera fedele e di analizzare il più possibile, vista la scarsità degli strumenti conoscitivi in mio possesso, quanto detto da famosi e stimati sociologi del secolo scorso a riguardo. Varie e disparate sono state le interpretazioni e le conseguenti critiche e dissertazioni verso ciò che si ritiene essere l’argomento principe della sociologia; cercare di capire in che modo l’individuo si relazioni con la società circostante e se e come essa sia in grado o meno di influenzarlo, di riversare su di esso le angosce di un comportamento da adottare, è un interrogativo che potrebbe aver interessato chiunque, al di là dei sociologi.
Ogni persona, infatti, può porsi la domanda segreta: come mai mi comporto in questa maniera, seguo determinati atteggiamenti? Lo si fa in relazione al tipo di attività svolta? Al posto occupato nella scala sociale? La relazione sussiste in base alla volontà dell’individuo, o è invece, la società il vero fulcro che muove le nostre vite come il burattinaio tiene il filo delle sue creature? Contestualmente, anche non avendo studiato nessun manuale di sociologia, mi sorge spontaneo chiedermi: quali sono gli strumenti che l’individuo ha per relazionarsi con questo “magma”, quale è la società? Dopo aver letto attentamente alcuni difficoltosi scritti, sono giunta a conoscenza di concetti fondamentali, quali il ruolo e lo status.
Il primo quesito che già si pone dinanzi la recente scoperta è capire se e come questi due meccanismi siano dipendenti e simbiotici e in che modo. L’universo che si cela dietro queste due parole è veramente complesso e multiforme. Nonostante le interpretazioni siano molteplici e si muovano nelle più svariate direzioni di indagine metodologica, alcune risultano essere, pur nella loro complessità, schematicamente più utili e malleabili al fine di questa trattazione.
Dagli studi di individui come Giddens possiamo trarre elementi chiarificatori di partenza; individuo e società come dualità di agire e struttura, analisi del vincolo per definizione di fenomeni sociali, analisi storico-sociologica della struttura sociale, contraddizione esistenziale e contraddizione strutturale, ripresa dell’assetto di indagine di Durkheim nella trattazione della struttura… ma proprio questi scritti possono aiutarci o distrarci dalle nostre fin troppo banali domande? Sicuramente un’analisi così minuziosa e dettagliata può indirizzare noi sociologi verso un’isola di risposte concettualmente valide e preziose, ma altresì, la comprensione di tali informazioni è senza dubbio difficoltosa. Una delle tesi più certe e affidabili è sicuramente quella condotta da Robert K. Merton, sociologo universalmente noto per la sua umanità oltre che per importanti formulazioni, quali la teoria di medio raggio.
La descrizione che ci offre
riguardo il concetto di ruolo e status e la loro compresenza all’interno
dell’enigmatico comportamento individuale, poiché difficilmente comprensibile
senza supporto analitico dell’intero lavoro dello studioso, verrà da me
utilizzata solo nozionisticamente come integrazione al concetto che tento di
sviluppare.
Mi preme, tuttavia, sottolineare che la tesi affrontata da Merton sia esplicitamente una conseguenza della critica che egli muove nei confronti di un illustre antropologo come Ralph Linton, colui il quale imprime al binomio ruolo – status una valenza completamente opposta se non anche limitante di questo concetto. Merton e Linton, pur essendo esponenti illustri di due differenti scienze sociali, hanno analizzato puntualmente il complesso di ruolo che arbitra e gestisce le nostre azioni quotidiane, in base alla tipologia di vita che conduciamo, legata propriamente ad esso.
Il complesso di status e di ruolo, oltre a regolare la vita individuale di ciascuno di noi, ha anche il compito di disegnare i modelli per il comportamento reciproco fra individui e tra gruppi di individui. Con il termine status si intende la posizione occupata dall’individuo all’interno di un modello specifico; proprio per questo, infatti, lo status individuale equivale alla somma degli status occupati e determina una certa posizione all’interno del complesso sistema sociale. Linton, ha analizzato a priori il problema della personalità per capire la conseguenza dettata dallo status. Per “personalità di base”, egli intende la configurazione psicologica propria dei membri di una data società e caratterizzata da un certo “stile” di vita in armonia con il quale gli individui si organizzano. La personalità di base, o fondamentale, costituisce la base della personalità per i membri del gruppo.
Il concetto proprio di
personalità di base porta alla formazione di diversi postulati:
le prime esperienze dell’individuo esercitano un influsso sulla personalità;
le esperienze analoghe producono configurazioni della personalità simili in individui che sono soggetti ad esse;
le tecniche per l’allevamento dei figli sono culturalmente modellate e tendono ad essere simili ma mai identiche;
le tecniche per l’allevamento dei figli differiscono da una società all’altra.
Le conseguenze possono essere le
seguenti:
i membri di una determinata società hanno in comune molti elementi della prima esperienza;
hanno in comune molti elementi della personalità;
c’è differenza tra i tipi di personalità a seconda della personalità.
Linton, così, ricollega l’analisi della personalità di base a quella di status, poiché la prima rappresenta la matrice da cui si sviluppano i tratti del carattere. La personalità di status, o statuale, indica l’insieme dei diritti e doveri che sono propri di una categoria sociale; indica l’insieme dei diritti e dei doveri propri dell’individuo, in quanto titolare di una posizione o più posizioni che occupa nel sistema sociale.
Il ruolo, invece, è la posizione, l’azione.
Se volessimo fare una comparazione, per quanto improbabile, possiamo identificare lo status come l’elemento qualitativo, mentre il ruolo come l’elemento attivo. Entrambi sono parti integranti dello stesso concetto, poiché, ogni posizione del soggetto è tale in quanto funzionante e ogni ruolo si attua in quanto ha il crisma ufficiale del correlativo status. La realizzazione di uno status può verificarsi indipendentemente dal ruolo e viceversa, ma si tratta di casi abnormi, che non incidono sulla configurazione regolare della società.
Status e ruolo vengono così a presentarsi, in astratto, come emanazioni di modelli e di temi culturali. Lo status, infatti, è l’espressione astratta di un modello, la posizione, il modo generico, uniforme e potenziale di essere, uguale per tutti coloro che hanno titolo di appartenervi. Poiché status e ruolo si esprimono come riduzione dei modelli ideali in modelli individuali in determinate categorie sociali, hanno come principale interesse l’organizzazione delle attitudini individuali, di ruoli e comportamenti attivi.
A proposito della struttura della
personalità cui si faceva riferimento sopra, addestrare l’individuo per un
determinato status significa essenzialmente sfruttare il suo potere di
assimilazione della prima età. Proprio per questo, status e ruolo si possono
distinguere in due categorie, dal punto di vista del loro riferimento:
– ascritti (ascribed): assegnati a priori, indipendentemente dalla volontà degli individui, senza riferimenti a differenze o capacità;
– acquisiti (achieved): conferiti per un atto volitivo dell’individuo che si inserisce in uno status da lui scelto, i quali richiedono particolari qualità.
L’assegnazione a priori degli status viene raggiunta in base al rilevamento di determinati fattori: età, sesso, generazione, posizione economica, posizione politica, religione, istruzione, ambiente fisico, solidarietà. Se pensiamo sia logico capire come nell’elemento età si regolino i meccanismi di status e ruolo, e non sempre lo è, questo è decisamente più problematico nella posizione economica e politica e nell’elemento sesso. Le posizioni relative a status e ruolo nel sesso variano a seconda delle società in maniera paradossale e riflettono le differenti concezioni che le società stesse hanno della virilità e della femminilità.
Linton prende come esempio
esplicativo il sesso, anche in relazione all’età, per descrivere le differenze
che intercorrono tra uomo e donna in molte situazioni come il matrimonio, i
rapporti familiari, oltre al rapporto di base che discrimina la donna e le
impedisce di svolgere alcune determinate attività, come appunto indicato,
l’impossibilità per una donna di svolgere un incarico di estrema importanza
come essere a capo di uno Stato.
Anche a livello più puramente
“simbolico” le differenze che emergono sono innumerevoli. “Per l’età come per il sesso, nel determinare il contenuto dello status
i fattori biologici implicati risultano secondari rispetto a quelli culturali.
Vi sono talune attività che non si possono attribuire ai bambini, perché essi
mancano della forza necessaria o non hanno avuto il tempo di acquisire le
necessarie capacità tecniche…”. Questo ci permette di prendere in esame sia
il fattore età che il sesso, elementi di base per capire cosa sia realmente lo
status, ovvero esistono attività, riti e azioni le quali non possono essere
intraprese e portate a termine da tutti. Non dalle donne, perché mancano della
forza necessaria e perché sono sempre state abituate ad occuparsi d’altro; non
dai bambini, perché mancano dell’esperienza necessaria che si ottiene e si
matura solo con gli anni.
Nell’esempio di Linton, tra l’altro, ritroviamo anche il concetto di fattori culturali come impronta di ogni cultura e, proprio nel saggio “The study of man”, l’antropologo si interroga su quanto l’individuo debba conoscere e prendere parte alla cultura del proprio gruppo, arrivando alla conclusione dell’uso necessario di tutto il patrimonio culturale, poiché la cultura racchiude aspetti peculiari di sostrato fondamentali per qualsivoglia tipo di interazione sociale e si fonda su aspetti di tipo comune, di distinte categorie, di scelta alternativa e di tipo aggiuntivo, ovvero individuale, facoltativa. Indubbiamente, l’esperienza, ma soprattutto la formazione culturale di Linton giustificano ampiamente il tipo di indagine metodologica condotta per giungere a determinate conclusioni, opinabili o meno.
Merton, nella sua analisi “revisionista” e critica, considera da principio il rapporto tra individuo e società come generante conflitto e ritrova il dramma dell’individuo nella possibilità di scelta tra gli elementi in contrasto, poiché, all’interno della struttura sociale, di natura processuale, si trovano differenti elementi di facilitazione e di opposizione alla scelta, che portano l’individuo in una direzione di scelta/non scelta. Merton ritiene che il compito del sociologo e della sociologia sia quello di scoprire gli elementi che si trovano “al buio” per renderli noti a tutti, insieme all’imprescindibile costruzione di teorie per l’analisi sociale, con un assetto professionale e non dilettantesco. All’interno della sociologia esiste, appunto, una questione aperta riguardo la struttura della società costituita da complessi di ruolo e complessi di status. I concetti di status e di ruolo descrivono, appunto, la struttura sociale.
Proprio partendo dalla teoria di
Linton, secondo cui lo status equivarrebbe alla posizione che gli individui
occupano all’interno del sistema sociale, e che l’individuo che occupa una
molteplicità di status ha diritto ad uno ed un solo ruolo distinto, Merton
critica, sostenendo che ogni status occupato non implica uno ed un solo ruolo
ma un insieme di ruoli. L’insieme di ruoli è definibile anche come complesso di
ruoli o role-set.
Per status si intende il nucleo
in cui le caratteristiche delle forme di orientamento tipico degli individui si
disegna. Nella critica a Linton, secondo cui ogni individuo occupa nella
società uno status a cui è associato un ruolo, come aspettativa che la
struttura sociale manifesta nei confronti degli individui, Merton oppone i
ruoli che ogni individuo ha corrispondono ad una molteplicità di status,
proponendo uno schema esplicativo:
STATUS SET ROLE SET
→ R
1 → R 1
STATUS
→ R 2 STATUS
→ R 2
→ R 3 → R 3
Lo status-set si configura
all’interno della società, pensandolo come una sequenza di status che implica
una sequenza di ruoli e il numero delle aspettative verso gli individui da
parte della struttura sociale sono molteplici. Fra ruoli diversi, infatti, può
esserci conflittualità, poiché gli elementi strutturali all’interno sono
ambivalenti.
Merton approfondisce la questione sollevata da Linton: se vogliamo descrivere la struttura sociale bisogna individuare gli elementi che la caratterizzano, ovvero ruolo e status. Il ruolo è da riferire ad un insieme di aspettative relativamente a comportamenti che la società afferma conformi alle proprie aspettative e che incoraggia continuamente. Non esistono perciò ruoli in astratto ma le aspettative intimamente connesse al ruolo.
La critica a Linton parte
dall’assunto che all’interno di una società sia impossibile connettere un solo
e unico ruolo ad un solo status nelle aspettative socialmente strutturate;
infatti, ad ogni particolare status non corrisponde un solo ruolo ma un insieme
di ruoli, ovvero il role-set. Secondo Merton, il role-set si può considerare la
caratteristica più importante della struttura sociale, poiché essa è costituita
da “un insieme di relazioni di ruolo che
le persone hanno come conseguenza dello status sociale da esse occupato”.
Il complesso di ruoli equivale alle caratteristiche più importanti della struttura sociale all’interno del complesso di status: ogni ruolo si regge su una struttura di attributi. Accanto alle norme principali si trovano le contronorme sussidiarie, le quali hanno il compito di aprire la struttura sociale alla contingenza, predisponendo gli strumenti concettuali che siano in grado di contenere al loro interno la contingenza, ma che non siano completamente contingenti, strumenti, i quali sono categorie sensibili alla cumulazione della conoscenza e contingenti al tempo stesso.
Merton ritiene che dalla ricerca
sistematica si possano intuire e analizzare questioni rilevanti; possiamo
ritenere utili infatti gli elementi di una ricerca solo se siamo in possesso di
un elenco di problemi da affrontare. Una relazione sociale è modellata dalla
posizione che l’individuo occupa con riferimento a quella posizione che la
società ha descritto nei comportamenti. L’individuo opportunamente inserito
nelle relazioni sociali, con segno diverso è perennemente soggetto ad
ambivalenza.
La struttura sociale è composta
da:
● complesso di ruoli
● complesso di status
● sequenze di ruoli
● sequenze di status
Nel complesso di ruoli che ognuno
di noi occupa vi sono aspettative da cui derivano modelli di comportamento che
si individuano subito e altri più difficoltosi da ricercare.
La struttura sociale è complessa
ma gli elementi basilari che la compongono sono distribuiti in modo da riuscire
ad avere una vita regolare. Poiché esistono circostanze che alterano i
complessi di ruolo, ci sono elementi che limitano il conflitto interno tra i
ruoli. La stabilità del complesso di ruolo è data dall’entrare in relazione con
individui che hanno una differente collocazione all’interno del sistema
sociale. Gli individui che entrano in relazione all’interno del complesso di
ruoli, sono definibili come individui periferici.
L’instabilità nel complesso di ruolo è data dalla relazione di ruolo con gli
individui periferici, compensata da un numero di meccanismi sociali.
All’interno del singolo ruolo che appartiene al singolo status si fa riferimento a norme o contronorme sussidiarie che potrebbero entrare in conflitto con le aspettative promosse e incoraggiate dalla struttura sociale. Per contronorme si intendono complessi di norme minori ugualmente strutturate. Una delle caratteristiche più importanti rilevate nel complesso di ruoli e nella performance di un singolo ruolo è collegata agli attributi principali e attributi minori in cui c’è ambivalenza nei ruoli.
L’ambivalenza riscontrata da
Merton può essere di due tipi: sociologica, ovvero caratteristica del sistema
sociale perché in riferimento alle aspettative normative incorporate nel
singolo ruolo del singolo status sociale; psicologica, dipendente da quella
sociologica. Merton individua tra l’altro i contesti di ricerca, cioè le forme
di ambivalenza collegate a diverse tipologie di individui e professioni e,
conseguentemente, enuclea cinque tipi di ambivalenza empiricamente accertati,
connessi alla presenza delle aspettative normative in contrasto all’interno di
uno status sociale. Quando il soggetto operante si trova di fronte ad una
scelta e non sa cosa sia meglio scegliere abbiamo l’esempio di aspettative
normative inconsistenti, vale a dire lacune strutturali, le quali bloccano e
impediscono la scelta dell’individuo.
Per definire la teoria di ruolo
(role theory) dobbiamo tenere presente due elementi informativi basilari: lo
status come posizione in un sistema o gruppo sociale (lo studente, la madre, il
bambino, il professore…) e l’età e il sesso che tende a definire lo status
(ragazza, signora…) e il ruolo come comportamento associato ad uno status; in
altri termini, il ruolo è ciò che le persone tendono a fare in un determinato
status.
Particolarmente rilevante, al
fine di questa trattazione, è risultata la lettura di “Homo sociologicus”, nel
quale Ralf Dahrendorf definisce il ruolo sociale la categoria atta all’analisi
dell’azione. Laddove la società è definibile come consistente di individui,
prodotta da individui ma non obbligatoriamente somma dei singoli individui e
forma alienata del singolo, è utile riportare alla mente il concetto, appunto
citato dallo stesso Dahrendorf, di “reference group” (rif. Merton), ove il
singolo individuo orienta il comportamento secondo consenso o dissenso con
l’operato di gruppi a cui non è appartiene e che danno vita ad un sistema di
relazione nel quale il singolo è costretto a valutare il proprio comportamento
in misura maggiore di quello altrui.
E’ dunque vero che l’individuo
subisce una profonda pressione da parte dei propri simili e della società
tutta? Le aspettative sociali rivestono un ruolo così predominante nella nostra
vita? Se così fosse, ogni individuo potrebbe a ragione sentirsi “inglobato” dal
magma sociale e dalle pressanti rivendicazioni, senza via d’uscita.
Potrei azzardare una risposta di assenso. Le informazioni che ho finora esaminato e dettagliatamente riportato, mi inducono a pensarla in questo modo. Con ogni probabilità, nel compiere una qualsiasi azione quotidiana e di routine, non ci è permesso soffermarci a riflettere sulla percentuale di volontà che imprimiamo in quella determinata azione. E’ pur vero che i ruoli che ricopriamo giornalmente sono più che parte integrante del nostro stile di vita, per cui ad ogni posizione corrispondono automaticamente una serie definita di ruoli, e che la possibile estromissione volontaria di questi capovolgerebbe l’assetto esistenziale con ripercussioni inimmaginabili, ma del resto, va tenuto conto quanto siano stati e siano tutt’ora di fondamentale importanza quei concetti di ruolo e status analizzati per la comprensione, quantomeno parziale, della relazione intrinseca tra noi individui e la struttura sociale che ci è intorno.
Flavia Munafò –Dipartimento Comunicazione e Ricerca Sociale, La Sapienza, Roma
Se partiamo dal presupposto di sapere, di conoscere e comprendere cosa sia una scelta razionale individuale, possiamo dilungarci e argomentare nel migliore dei modi, avendo a disposizione una incredibile letteratura sociologico – economica; possiamo elencare differenti e variegate dottrine e tesi, possiamo cercare di spiegare teoremi più o meno difficili, e quindi, possiamo ripetere ciò che è già stato studiato e detto.
<< == Dott.ssa Flavia Elisabetta Munafò
Da questo presupposto, ecco
l’enunciazione di tutto ciò che la mia tesi attraverserà, in alcuni passi in
maniera più dettagliata, in altri meno analitica.
Sarebbe difatti, un’operazione
abbastanza semplicistica, nonché priva di fine, se non la ripetizione di
concetti, ripercorrere solo e unicamente le tappe del pensiero economico che
hanno costruito il filo logico e procedurale della teoria della scelta sociale,
ovvero il meccanismo che prova a spiegare perché, se una scelta razionale
individuale è possibile, non lo è quella di una intera collettività, formata da
un numero di individui, consumatori razionali; sarebbe così semplicistico, che
il mio tentativo di indagine cadrebbe sotto il peso dell’inutilità.
Io ho provato, con estrema
fatica, a dare un senso “altro” a questa serie di complicate e straordinarie
teorie che hanno segnato il cammino del pensiero economico, e ho tentato,
sempre con grande sforzo, di trovare un punto di vista “più sociologico” da
poter apportare come valore aggiunto a questa mia piccola riflessione.
Mi piace ricordare l’importanza di quello che poi spiegherò, per argomentare il mio contributo: la teoria delle votazioni, la dottrina utilitaristica, la concezione di Pareto ecc; sebbene io abbia studiato e ristudiato queste “pietre miliari” con estrema attenzione ed interesse, ho provato a focalizzare l’attenzione (anche per via della vastità di argomentazioni) su un aspetto per me rilevante, ovvero: quanto, quando e in che maniera l’economia si viene a legare con i giudizi di natura etico morale. Volendo seguire questo filo rosso, dobbiamo tenere presente innanzitutto la povertà della teoria neoclassica, nella misura in cui essa provi a supportare una teoria della scelta sociale, una teoria che, nel caso particolare, prende la forma della costruzione di una funzione di benessere sociale. Partendo da questo, possiamo procedere oltre. Possiamo innanzitutto vedere cos’è e come si applica una funzione di benessere sociale, ma anche questo potrebbe sembrare nozionisticamente ripetitivo, in virtù del fatto che, attraverso la FBS si riesca a tenere “alla Pareto” fuori tutti i giudizi etico morali dalla scienza economica e mantenere ferma l’ipotesi che invece una decisione collettiva, almeno democratica, si possa fare.
Il punto di snodo dove io tendo è sottolineare, aggiungere una riflessione, arricchire l’argomentazione con una piccola considerazione: Arrow come spartiacque tra un “prima”, fatto di meccanismi come la teoria delle votazioni, che serve soltanto nella misura in cui, tramite la teoria delle votazioni fa vedere un altro modo in cui emerge il limite della decisione collettiva, – cioè tutte le invenzioni che si sono fatte delle varie modalità delle votazioni possono essere lette come il riflesso dell’estrema difficoltà che un sistema sociale, quindi fatto da un aggregato di soggetti tra loro liberi e autonomi, – della difficoltà di mettere insieme qualcosa che sia, che “suoni” decisione collettiva, decisione sociale, per liberarsi anche da una “presenza” di Pareto, a volte ingombrante, a volte limitante, e dalla separazione che c’è tra le questioni di natura etico morali, dalle questioni di natura oggettiva e calcolabili e verificabili in modo decontestualizzato.
Arrow si pone come un anti bergsoniano perché fa vedere che non è sufficiente affermare che io possa immaginare, concettualizzare, una funzione di benessere sociale composta da funzioni individuali, bisogna saperla costruire e dimostra infatti che questa stessa assolutamente non si può costruire. Ovvero lo si potrebbe fare attraverso degli algoritmi talmente complicati che sono davvero impraticabili per la mente umana; da qui egli cerca di costruire un modello che, tenuto conto delle esigenze minimali della democrazia, si possa costruire questa funzione e dimostra che nel rispetto di queste condizioni minimali, la costruzione di questa funzione è impossibile.
Da questa impossibilità, si pone avanti Sen, per
il quale esiste davvero un’esigenza di
introdurre le considerazioni di carattere etico morale
Da qui la mia tesi, questo tentativo di sottolineare, di
dichiarare, una sorta di fallimento, che si trova nella estrema povertà di un
sistema teorico e concettuale e che porta a pagare il prezzo della
trascuratezza; una teoria che si priva, come dice Sen, di giudizi etico morali
“alla Pareto” per salvaguardare una disciplina, per farla essere o per farla
rimanere, (se mai ci sia stata) scienza, il prezzo che si paga è elevatissimo,
e non arginabile, credo, ovvero il dazio da pagare, amaramente, è quello della
irrilevanza.
Nella prospettiva di leggere,
comprendere e disquisire riguardo il teorema dell’impossibilità di Arrow, in
particolar modo riguardo l’introduzione revisionata del 1963, l’unica possibile
lettura è certamente di tipo analitico e di confronto continuo e diretto con i
testi e gli autori di riferimento, con gli economisti che hanno studiato e
tentato invano di confutare un teorema
perfetto.
Proprio nell’essenza metodica
della costruzione di questo teorema e degli studi successivi a riguardo si può
intravedere un profilo non solo di tipo economico ma anche socio-culturale; la
difficile, e anche per questo impossibile, confutazione alla teoria di Kenneth
Arrow, muove dagli elementi essenziali della ricerca: come sia possibile che,
in una scienza esatta e di alto livello come l’economia, possano intersecarsi
giudizi di valore, evento tipico in altre discipline e in differenti ambiti,
atti a diversificare il focus argomentativo.
La possibile motivazione che
origina e sostiene l’intero sistema di riferimento arrowiano si può certamente
ritrovare nelle parole dell’autore e, forse in maniera ancor più precisa e
puntuale, se possibile, nel volume “Introduction
to social choice and welfare” a cura di Kotaro Suzumura, documento di
importanza oltremodo rilevante per ripercorrere le teorie economiche precedenti
ad Arrow, che hanno portato costui a costruire il suddetto teorema.
Infatti proprio questi studi
“pionieristici” sono temporalmente ripercorsi da Suzumura, con particolare
distinzione tra “old welfare” e “new welfare”, dagli anni ’30 agli anni
’60 del secolo passato, per poi tornare indietro con la memoria all’ultimo
ventennio del 1700, con obbligati riferimenti a Condorcet e il paradosso di voto e a Borda per il metodo decisionale di voto.
Come sia possibile districare e
comprendere dove e in quale modo i giudizi di valore entrino silenziosamente a
far parte della scienza economica, come si possa esplicare e replicare al
teorema dell’impossibilità, concentra il mio punto di lettura analitica e di
interesse: non esiste un sistema di stato sociale che possegga la funzione di
soddisfare una serie di condizioni necessarie per la vera democrazia e
l’efficienza dell’informazione? Da questo fulcro di riflessione, da questo
solletico intellettuale si apre una diramazione di continui balzi di
discussione e di analisi che attualmente ancora non trovano termine.
Il centro di riflessione di mio
interesse, ovvero ciò da cui Arrow solleva il tutto, risiede nella
retrospettiva storica della struttura di una democrazia capitalistica; in essa
le scelte di tipo sociale possono essere compiute secondo due differenti
modalità: il voto, in uso per le
decisioni politiche e il meccanismo di
mercato, in uso per le decisioni economiche; a questo si somma, nel modo in
cui si compiono scelte da parte di un consumatore razionale o meno, il
difficile scoglio delle scelte
individuali o delle scelte di
gruppo.
Nel tentativo di sciogliere
questo nodo concettuale, Arrow, con finalità di semplificazione, ipotizza una
comunità che consista di tre votanti e che essa debba scegliere tra tre
differenti metodi alternativi di azione sociale; analogamente all’analisi del
consumatore individuale e quindi della sua scelta, in condizioni di costanti
richieste e prezzi di entrata variabili, il comportamento razionale comunitario
dovrebbe riassumersi nella scelta dell’alternativa applicabile, ovvero la più
alta nella lista, secondo le preferenze collettive.
La modalità con cui si arriva
alla lista piramidale di preferenza collettiva consiste nell’asserzione che
un’alternativa sia preferibile ad un’altra se e soltanto se una maggioranza
della comunità abbia preferenza per la prima alternativa alla seconda, ovvero
se scegliesse la prima tra due alternative ma solo se esistessero unicamente
queste due. L’esemplificazione del teorema di Arrow, da cui si nota
immediatamente la sua impossibilità di risoluzione, è tale per cui si considera
A, B e C le tre alternative possibili e 1, 2 e 3 i tre attori sociali; si suppone
che l’attore 1 preferisca la A alla B e la B rispetto alla C, e per conseguenza
logica la B alla A, e che l’attore 3 preferisca C ad A e A a B, e quindi C a B;
da ciò una maggioranza preferisce A rispetto a B e una maggioranza equamente
preferisce B rispetto a C. Si può dire che la comunità preferisce A rispetto a
B e B rispetto a C. Se la comunità dev’essere considerata come se attuasse un
comportamento di tipo razionale, si deve ammettere che A è preferita a C ma
bisogna ricordare che una maggioranza preferisce C rispetto ad A; di fatto il
metodo per comprendere la scelta individuale rispetto a gusti collettivi viene
meno nel tentativo di soddisfare la condizione di razionalità. Esistono forse altre metodologie di
aggregazione di gusti individuali che implichino un comportamento razionale
della comunità e che possano essere soddisfacenti in altri modi?
Il banale escamotage usato dagli
economisti per uscire dall’empasse del non saper trovare una chiave di lettura
capace di soddisfare sia le preferenze individuali che quelle collettive nello
stesso modo diventa il fare rendiconto asserendo che uno stato sociale è meglio
di un altro, in maniera tale da non prendersi responsabilità tra l’altro di
riuscire a spiegare come sia possibile che, all’interno del mercato, vi sia una
trasformazione valoriale tale da far perdere di vista il focus della ricerca
per lasciare spazio a meccanismi che “sporcano” la disciplina economica tanto
da non poter comprendere dove sparisca la logica che lega le scelte dei tre individui
presi ad esempio precedentemente, e di conseguenza quelle delle tre
collettività del nostro secondo esempio.
Come si impone la preferenza di
un individuo sugli altri due se si trovano in un sistema di democrazia? Non è
forse il principio cardine della democrazia l’uguaglianza delle scelte
possibili e, nello stesso tempo, l’impossibilità di prevaricazione delle
preferenze individuali? Ogni individuo dovrebbe essere libero di formulare ed
esprimere ogni sua propria preferenza che rappresenti le sue valutazioni per il
benessere dello stato sociale in cui si trova.
Il sistema sociale e la funzione
propria di quest’ultimo idealizzata da Arrow dev’essere, appunto, così
sufficientemente ferrea da poter aggregare un profilo delle preferenze individuali
ordinate all’interno di un sistema di preferenze sociali.
Senza entrare nel dettaglio
specifico di come Arrow riesca a scandagliare il nodo concettuale che
intrappola i poli opposti di scelte individuali e di scelte collettive, con
l’uso di assiomi incontrovertibili, posso asserire di credere con fermezza
nell’importanza della questione sollevata da questo economista in merito alla
quantità di concatenazioni logico-concettuali sulle quali, con ogni
probabilità, non si sarebbe ragionato senza un input di tale entità.
La questione sollevata da Arrow
pone di fronte una miriade di interrogativi che legano le due maggiori sfere
del teorema, ovvero come si possono organizzare scelte individuali e scelte
collettive in un sistema sociale e dove riescano ad entrare in contatto con
l’economia i giudizi di valore, di natura squisitamente etica, e come essi
riescano a sconvolgere i “passi obbligati” dell’azione economica, che pone
l’accento sulla certezza consequenziale di tale azione.
La modalità di comprensione di
una così difficoltosa e approfondita questione si può ricercare nei riferimenti
teorici presi in esame da Arrow e dai susseguenti studi economici, analizzati e
ordinati da Suzumura. Dal background storico alla ripresa dei temi di “Social Choice and Individual Values”,
alla controversia del “social planning”, fino al significato teoretico e
pratico della teoria della scelta sociale, Suzumura ripercorre con perizia
tutte le implicazioni di studio concernenti il teorema di Arrow.
L’importanza che riveste Suzumura
all’interno della mia lettura di Arrow e di tutto ciò che ne consegue è di
elevatissimo livello, non solo per il suo contributo alla comprensione dei
termini economici su cui si muove il teorema, ma anche per far sì che la
cornice storica, che per certi versi ha influenza sulle dissertazioni
economiche, sia ben chiara, proprio in virtù del fatto che un argomento come la
scelta sociale, nucleo delle due diramazioni di decisioni politiche e decisioni
economiche, è la cartina di tornasole del contesto in cui viene presa in esame
e ci rende chiaro, oltre al risvolto economico, anche quello storico-sociale,
nonché sociologico-culturale.
Nella visione tout-court in cui
guardo al teorema di Arrow non posso fare a meno di soffermarmi proprio sul
contributo che questo incredibile economista ha offerto alla scienza sociale;
le decisioni politiche rimandano al meccanismo di voto quanto le decisioni
economiche al meccanismo di mercato, in un continuo interscambio che apre lo
sguardo del sociologo e fa focalizzare l’attenzione sul rapporto di dipendenza
reciproca che lega questi tre temi, divisibili tra il “nucleo-welfare” come fosse un organismo cellulare e le distensioni
di politica ed economia, rapporto di dipendenza, se non di interdipendenza, che
consente di avere chiaro il contesto e le motivazioni da cui scaturisce
l’intento di Arrow di dar luce alla chiarificazione di meccanismi di scelte
individuali e di scelte collettive.
Per dare migliore delucidazione
dell’intrinseco procedimento del teorema dell’impossibilità si usa dire che,
dati i requisiti di universalità, non
imposizione, non dittatorialità, monotonicità, indipendenza dalle alternative
rilevanti, non è possibile determinare un sistema di votazione che preservi le
scelte sociali; lo scopo dello studio arrowiano è trovare una qualsiasi
procedura di decisione collettiva che possa soddisfare alcuni requisiti
ragionevoli per una scelta non arbitraria.
Un esempio di procedura che non riesce a
soddisfare i requisiti considerati da Arrow è il sistema di voto maggioritario,
come mostrato dal paradosso di Condorcet, ovvero la dimostrazione di come la
votazione a maggioranza, ricorrente nella democrazia rappresentativa, può
condurre a delle scelte ambigue: partendo dalle preferenze individuali, si
vuole arrivare ad una preferenza collettiva coerente e razionale (se A è
preferito a B, B è preferito a C, allora A deve essere preferito a C). Il
paradosso di Condorcet mostra in che modo questo non sia sempre il caso per le
preferenze collettive. In altro modo, Jean-Charles Borda propone un’altra
procedura, chiamata conteggio di Borda, la quale consiste nell’attribuzione dei
punti e poi fare la somma, la quale non ha questo difetto, ma il teorema di
Arrow non lo consente poiché ci deve essere un requisito che non sia
soddisfatto: l’indipendenza dalle alternative rilevanti. Dimostrare il teorema
comporta l’impossibilità di soddisfare simultaneamente tutti i requisiti
considerati da Arrow.
Nel momento in cui prendo in
esame la difficilissima questione che tratta il teorema di Arrow e tutto ciò
che ne consegue, non posso non ricordare il mio focus che è sempre l’analisi del sistema sociale, correlata
alla sfera economica e alla sfera politica. Il teorema ipotizza che la società
necessiti di adottare un ordine di preferenze tra differenti opzioni; ciascun
individuo, ogni singolo attore sociale, possiede un proprio ordine di
preferenza, il quale può essere espresso tramite il voto. La problematica di
base si crea nel momento in cui non si riesce a trovare una procedura, una
metodologia, una funzione di scelta pubblica per adottare una terminologia più
appropriata, che trasformi l’insieme delle preferenze individuali in un
ordinamento globale coerente. Il teorema considera le proprietà che Arrow
ipotizza rappresentare requisiti ragionevoli per un sistema di voto equo:
universalità o dominio non ristretto: la funzione di scelta sociale dovrebbe avere compito di creare un ordinamento delle preferenze sociali di tipo deterministico e completo, a partire da qualsiasi insieme iniziale di preferenze individuali;
non imposizione o sovranità del cittadino: qualsiasi possibile preferenza sociale deve essere raggiungibile a partire da un appropriato insieme di preferenze individuali, ovvero ogni risultato deve poter essere raggiunto in qualche maniera, il che richiama alla memoria quasi una visione machiavelliana di azione;
non dittatorialità: la funzione di scelta sociale non deve semplicemente seguire l’ordinamento delle preferenze di un individuo o un sottoinsieme di individui, al contempo ignorando le preferenze individuali;
monotonicità o associazione positiva tra valori individuali e sociali: se un individuo modifica il proprio ordinamento di preferenze promuovendo una data opzione o restare invariata, ma può assegnare a tale opzione una preferenza minore, da ciò deduco che nessun individuo dovrebbe essere in grado di esprimersi contro un’opzione assegnandole una preferenza maggiore;
indipendenza dalle alternative irrilevanti: se si confina l’attenzione ad un sottoinsieme di opzioni, e la funzione di scelta sociale è applicata solo ad esse, di conseguenza il risultato deve essere del tutto compatibile con il caso in cui la funzione di scelta sociale è applicata all’intero set di possibili alternative.
Il teorema di Arrow afferma e
sostiene che, se il gruppo della collettività comprende almeno due individui e
l’insieme delle alternative possibili almeno tre opzioni, non è possibile
costruire una funzione di scelta sociale che possa soddisfare al contempo tutti
i requisiti analizzati.
Dalla lettura finora conseguita
emerge, in special modo nell’ultima trance discorsiva, un accenno non
indifferente a nozioni di tipo giuridico, le quali ordinano le sopra accennate
modalità di voto nella democrazia partecipativa; del resto non si può ignorare
come il sostrato delle leggi sia fondamentale per la costruzione di
qualsivoglia tipo di stato sociale razionale e non soggetto ad anomia,
condizione obbligatoria per il libero svolgimento delle scelte, prima individuali
e poi collettive, nostro interesse principale in questa dissertazione, la quale
tende a ricordare le basi da cui scaturisce il teorema dell’impossibilità e che si amplia in un consapevole
atteggiamento intellettuale di concordia tale da perseverare nel “giustificato
motivo” cui inneggia Arrow, senza possibilità alcuna di confutazione.
A questo proposito mi piace
ricordare i riferimenti fondamentali cui ricorre Arrow per esplicare il proprio
dogmatico teorema: Knight, “Human nature
and world democracy” (Freedom and reform, 1947); una parentesi riguardo il
“Paradox of voting”, la quale comprende E. J. Nanson (1882), Samuelson (1938),
Bergson (1948), Lange (1942), M. W. Reder (1947); F. Y. Edgeworth (1881),
Marshall (1949), L. Robbins (1935), N. Kaldor (1939), J. R. Hicks (1939);
particolare il soffermarsi puntuale di Arrow su “The determinatess of the utility function” di O. Lange (1934), la
ripresa di A. P. Lerner in “Economics of
control” del 1944 e H. Zassenhaus (1934).
L’economista usufruisce di H. R.
Bowen, F. H. Knight e D. Black, negli scritti pubblicati intorno al 1940 per
delineare le limitazioni dell’analisi, quanto di T. Veblen (1889), J. Von
Neumann, O. Morgenstern (1947) e See H. Steinhaus (1948) riguardo l’importanza
dell’azione razionale nelle scelte individuali e si sofferma sugli studi di
Veblen ( “The theory of the leisure class”
) e di F. K. Knight ( “Ethic and Econimic
reform” ).
Sufficiente l’introduzione per
avere una panoramica generale del modus operandi arrowiano, che consta di
momenti di analisi economica, politica, storica e sociale, i quali si
intersecano in una trama perfetta di cornice all’enunciato dell’impossibilità e
di cui un eccellente economista come Kotaro Suzumura fa proprio per scandagliare
ulteriormente l’invana confutazione.
Suzumura usa riferimenti
temporalmente sconnessi, che oscillano in epoche diversissime e filoni
economici contrastanti, come una sorta di macchina del tempo in movimento
continuo tra il primo decennio del 1800 fino agli anni ’50 del secolo
successivo.
UTILITARISMO ED ETICA
L’utilitarismo, che irrompe nella
riflessione etica, politica ed economica a partire dal XVIII secolo, ha alla
sua base principi quali: fare dell’etica una scienza esatta per e della
condotta umana; considerare l’agire secondo il “movente” e non più secondo il
“fine”; riconoscere il piacere come movente per eccellenza dell’agire umano;
ammettere al piacere una dimensione intersoggettiva e la conseguente
coincidenza dell’utilità privata con l’utilità pubblica (per cui il fine di
ogni attività umana diventa la massima felicità condivisa dal maggior numero
possibile di persone); considerare il comportamento umano come calcolo
razionale totalmente volto alla massimizzazione dell’utilità; sostenere la
necessità di un aumento della felicità e nell’ordinamento dello stato e nel
sistema di distribuzione delle ricchezze; una stretta connessione con la
scienza economica.
I principi fondamentali di questa teoria sono:
il welfarismo, o teoria del benessere: dovendo valutare situazioni alternative,
la chiave di valutazione è la soddisfazione/benessere che i soggetti ottengono nel fare ciò che preferiscono;
il conseguenzialismo: dovendo valutare delle azioni, la chiave di valutazione sono le conseguenze che queste azioni producono;
l’ordinamento-somma: dovendo valutare degli stati sociali alternativi, la chiave di valutazione è la somma delle utilità individuali.
A partire dagli anni ’70 questa teoria viene sottoposta aspramente a delle critiche per il suo “ignorare” le questioni che riguardano la giustizia e i diritti.
L’utilitarismo viene
essenzialmente accusato di ammettere e giustificare una distribuzione diseguale
di piacere e pena laddove non esistano altre alternative che aumentino la
felicità totale; giustificare la perdita di libertà di alcuni per il benessere sociale
collettivo, ovvero la scarsa considerazione dell’indipendenza e dell’autonomia
dei singoli esseri umani e del loro “diritto” di perseguire un proprio disegno
di vita.
Infatti, l’obiettivo della
massimizzazione del benessere collettivo genererebbe implicazioni negative
riguardo l’uguaglianza e la garanzia di un minimo benessere per ciascuno;
CRITICA
DI SEN ALL’UTILITARISMO
Sen fece critica interno
dell’utilitarismo che contrasta il dominio assoluto della filosofia
utilitarista nell’ambito dell’economia e delle scelte pubbliche proponendo
un’integrazione tra utilitarismo e una teoria dei diritti.
L’economia del benessere è
dominata fino agli anni 30 dal pensiero utilitarista, il quale teorizza che la
soddisfazione degli individui può essere calcolata e comparata usando un metro
di valutazione uguale per tutti.
La sistemazione neopositivista di
L. Robbins delegittima sia la cardinalità sia la confrontabilità interpersonale
delle utilità individuali e comporta il ricorso ad altri metodi per
l’aggregazione di preferenze e/o interessi individuali al fine di ottenere o un
criterio sociale di valutazione o una decisione collettiva; il metodo che viene
utilizzato è quello delle votazioni ricavato dai valori di Borda, de Condorcet
e altri: nasce la moderna teoria delle scelte sociali.
Nel 1951 Arrow dimostra che non
esiste nessun meccanismo in grado di soddisfare un insieme di requisiti
minimali di coerenza e di moralità (pur essendo ogni requisito, singolarmente
preso, ragionevole e desiderabile): volendo soddisfare contemporaneamente
questi requisiti si generano dei risultati paradossali e incoerenti.
Il teorema di Arrow si è
dimostrato così solido che le uniche alternative sono o la rinuncia ad almeno
uno dei requisiti o la sostituzione del quadro di analisi.
Sen affronta queste alternative
tralasciando la prima, poiché non supera l’impossibilità arrowiana.
Riguardo alla seconda egli
attacca la tesi di Arrow accusandone l’incompletezza in quanto ignora
informazioni che possono essere trascurate.
Secondo Sen, la “povertà
informativa” della teoria di Arrow è causata dall’adozione che questa teoria ha
fatto dell’ordinalismo, dall’assenza dei confronti interpersonali e del
principio di neutralità.
Sen imposta tutta la sua critica
all’utilitarismo, sia sul piano delle scelte sia sul piano dei diritti; per
l’economista alcuni fatti quali:
l’esistenza di “cose” che hanno valore anche se non sono preferite o desiderate da nessuno;
l’ esistenza di preferenze “soffocate” verso valori importanti;
il non esaurirsi della persona nella sola utilità,
la necessità di riconoscere alla persona anche la sua singola individualità, non possono essere assolutamente ignorati così come accade nell’utilitarismo.
Attraverso l’impossibilità del
liberale paretiano, Sen giunge a dimostrare come il principio di Pareto sia
moralmente controverso: basandosi solo sull’utilità i ignorando elementi
“morali”, su può autorizzare il passaggio da un Pareto – inferiore anche nel
caso in cui il Pareto – superiore sia moralmente di gran lunga inferiore al
Pareto – inferiore.
ECONOMIA
ETICA ED ETICA ECONOMICA (la proposta di Sen)
Sen constata come l’approccio
etico sia indebolito con l’evolversi dell’economia moderna di stampo
ingegneristico, comportando un forte ridimensionamento nella considerazione
delle ragioni di natura etica che di fatto influenzano il comportamento umano.
Si pone una ipotesi di recupero
della componente etica in economia, dato che, nella teoria economica attuale
vigono due principi fondamentali:
il comportamento effettivo è un comportamento razionale e prevedibile,
un comportamento razionale è caratterizzato da coerenza interna di scelta e massimizzazione dell’interesse personale;
tali principi non sono corretti: essi negherebbero evidente di fatto quali l’esistenza di errori e confusioni.
Entrando nell’analisi
dell’economia del benessere, Sen fa notare come questa abbia assunto un ruolo
marginale nell’ambito dell’economia dal momento in cui si sono eliminate le
considerazioni di natura etica, si è adottato il criterio dell’ottimo paretiano
e si è ritenuto per certo che il comportamento umano fosse mosso dall’interesse
personale.
Dell’utilitarismo Sen studia la
componente welfarista e osserva che l’utilità non può essere considerata come
unica fonte di valore per due ragioni:
l’utilità può generare anche benessere (non solo benessere),
il benessere personale può non coincidere con l’utilità.
E’ un dato di fatto che l’agire
di un individuo può essere orientato sia verso il proprio benessere che verso
altri obiettivi, quindi è necessario distinguere il benessere dalla facoltà di
agire.
L’utilità quindi dovrebbe essere
interpretata non in termini di piacere/dispiacere ma di scelta e dunque in
relazione con la facoltà di agire e senza un necessario collegamento con il
benessere.
Riguardo alla ragione (b), Sen
ritiene insufficiente il criterio secondo cui il benessere della persona debba
essere giudicato solo sulla base della felicità e dell’appagamento dei
desideri.
Il benessere di una persona è
questione di valutazione: ci si trova di fronte ad una identificazione tra
utilità e benessere, e da ciò il benessere è criticabile in quanto:
esso non è l’unica “cosa” che può avere valore,
l’utilità non è sufficiente a rappresentare il benessere.
Ci si chiede se sia corretto
considerare il vantaggio di una persona basandosi solo sui risultati che questa
persona consegue? Sen propone di rappresentare questo vantaggio non solo
attraverso ciò che un individuo consegue ma anche attraverso la libertà che
egli ha nello stesso conseguire.
Nonostante in economia il
concetto di diritto sia forte, l’utilitarismo ha sempre considerato i diritti
“totalmente strumentali al raggiungimento di altri beni, in particolare delle
utilità”.
Sen guarda alla teoria di Nozick
che riconosce alla persona il diritto-libertà di perseguire l’interesse
personale quando non vengano violate le libertà altrui. L’esistenza di questa
libertà-diritto vieta agli altri di interferire su chi sta perseguendo il
proprio interesse personale ma ciò non è sufficiente a legittimare il
perseguimento dell’interesse personale in quanto si deve tenere conto anche
dell’esistenza di comportamenti volti ad aiutare gli altri.
Sen può distinguere tre elementi
essenziali della concezione utilitaristica, cioè:
(con) fusione tra benessere di una persona e la sua facoltà di agire,
Sovrapposizione tra utilità e benessere,
Insufficiente considerazione del concetto di libertà in quanto fatta coincidere solo con i risultati ottenuti attraverso il suo esercizio.
Sen evita di considerare i
diritti come doveri, come vincoli cui gli altri devono semplicemente obbedire;
secondo lo studioso, il modo migliore di procedere nella valutazione dei
risultati/conseguenze è quello di considerare il valore del rispetto dei
diritti e il disvalore delle violazioni
dei diritti.
Lo stretto legame tra Etica ed
Economia è utile sia per l’etica che per l’economia; è necessario che alcune
problematiche etiche attuali vengano analizzate in chiave conseguenzialistica
(senza sfociare nell’utilitarismo) e comprendere che il comportamento umano non è solo mosso dall’interesse personale ma è
sensibile anche alle variabili non prevedibili.
CONCLUSIONI
Si è dimostrato, come pur
nell’ostinato tentativo di voler di-mostrare altro, che la sola stessa
definizione di “teorema” in alcune occasioni non attiene ad una precisione di
significato tale per cui la si possa considerare valida senza bisogno di
analisi approfondita.
Come è apparso in questa ricerca
condotta con soli strumenti testuali e qualche colloquio individuale con il
Prof. Guglielmo Chiodi, la costruzione storica della vicenda arrowiana, se
letta con un pizzico di superficialità, può trarre in inganno, mentre, ad una
riflessione in profondità, apre lo sguardo a moltissimi interrogativi
intellettuali di estrema eleganza.
Così, il non immaginare
l’archetipo presente nel meccanismo di voto che oggi per noi è cosa comune, ci
deve far riflettere su tutti i processi di ricerca e minuziosa analisi
susseguiti nel corso dei secoli, passati tra dottrine filosofiche e
speculazioni economiche, fino ad arrivare alla polemica di base che ha mosso il
sentimento e l’interesse di questa ricerca e che banalmente sintetizzo: la
democrazia non esiste!
Flavia
Munafò
Scienze
politiche, Sociologia, Comunicazione
DissE
– Dipartimento Scienze Sociali ed Economiche