“Prima di intraprendere il viaggio della vendetta scava due fosse”.
Così suggeriva Confucio qualche secolo fa. Un suggerimento che pare essere lentamente sfumato nel tempo.
Oggi, quella delle false accuse è una tematica scottante, che continua a coinvolgere specialisti del diritto e non. Avvocati, Magistrati, Psicologi, Psichiatri.
Incolpare una persona di un reato è di per sé semplice: “basta” formulare un’accusa nei suoi confronti depositando formale denuncia/querela e descrivendo i fatti.
Il legislatore, però, consapevole della possibile falsità delle accuse ne ha stabilita la punibilità ai sensi dell’art. 368 c.p. (reato di calunnia), con gravi conseguenze per il (falso) accusatore.
Capita che alcune persone si definiscano “vittime” anche se non lo sono, trattandosi in linguaggio medico di una vera e propria sindrome “false victimization syndrom”.
Le false accuse possono provenire da soggetti con aspetti irrisolti, anche patologici e con latenti disturbi della personalità.
Terreno fertile per le false accuse pare essere quello delle separazioni giudiziali, ove i reati denunciati (come i maltrattamenti psicologici o lo stalking), non si compongono quasi mai di elementi tangibili e verificabili: ciò che rileva è per lo più la percezione della vittima.
Le statistiche riconoscono che solo rare accuse si rivelano fondate: il resto costituisce unicamente arma di ritorsione allo scopo di ottenere ingiusti vantaggi.
Ed invero non è raro che “a controversia sanata”, la querela venga rimessa. Ma quali sono le conseguenze? Spesso sono impagabili.
Per la persona calunniata la “falsa accusa” è un’esperienza distruttiva, con snervante sforzo psicologico ed anche impegno di risorse economiche.
E l’accusatore? Se si pensa che raramente diventi un “paziente” della Giustizia, così non è.
La simulazione di reato e la calunnia sono le armi della giustizia contro chi denuncia un crimine inesistente, con le pesanti conseguenze previste dal Codice Penale.
In tale articolo prenderemo in considerazine un oggetto di studio molto importante per la sociologia e per la psicologia sociale: i conflitti. I conflitti possono essere divisi in due gruppi fondamentali: conflitti intrapsichici e conflitti sociali. I conflitti intrapsichici avvengono nella mente dell’individuo e vedono coinvolti l’Io, il Super Io e l’ID, le tre istanze psichiche che compongono la psiche degli individui. I conflitti sociali vedono contrapposti due o più individui oppure due o più gruppi sociali. <<<=== Prof. Giovanni Pellegrino
I conflitti sociali si dividono in due gruppi: conflitti a livello microsociologico, che coinvolgono un numero limitato di individui e conflitti a livello macrosociologico che vedono coinvolti un grandissimo numero di persone. Riguardo ai conflitti intrapsichici dobbiamo dire che essi causano un forte spreco di energie nervose. Di conseguenza se durano per troppo tempo oppure se sono particolarmente violenti possono determinare un blackout energetico con conseguente adinamia ed anergia psichica. Particolarmente dannosi sono i conflitti intrapsichici tra tendenze avversative che possono condurre a gravi alterazioni psicologiche dovute all’accumulo di stress. Vogliamo precisare che si parla di conflitto intrapsichico tra due o più tendenze avverastive quando l’individuo deve scegliere tra due o più opzioni tutte negative.
In pratica egli deve scegliere il male minore. Meno destabilizzanti per l’equilibrio psicologico del soggetto sono i conflitti intrapsichici tra due o più tendenze attrattive in quanto il soggetto deve scegliere tra opzioni considerate tutte positive. Molto destabilizzanti sono anche quei conflitti intrapsichici che nascono dal fatto che l’individuo deve scegliere tra due tendenze di cui la prima è avversativa e la seconda è attrattiva ma la cui attuazione scatenerebbe dei complessi di colpa molto dispendiosi dal punto di vista energetico.Spesso i conflitti intrapsichici tendono a cronicizzare esponendo l’individuo a rischio di raggiungere il breack point (punto di rottura dell’equilibrio psichico). A volte i conflitti sociali che perdurano nel tempo possono causare conflitti intrapsichici scatenando sensi di colpa o minando l’autostima dell’individuo. Per risolvere i conflitti intrapsichici non sempre è sufficiente una personalità forte e ben strutturata ma a vole è necessario il concorso di favorevoli circostanze esterne al soggetto. Tali circostanze favorevoli sono: conoscenza di nuovi dati e opzioni, modifica del contesto sociale in cui agisce l’individuo, collaborazione di persone con le quali il soggetto interagisce, etc..
Riguardo ai conflitti sociali dobbiamo dire che essi sono più frequenti nei periodi storici nei quali sono più forti i fenomeni di mutamento sociale dal momento che i mutamenti causano sempre conflitti tra tradizionalisti e modernisti. Molto importante nel pensiero sociologico è la teoria del conflitto che ha dato luogo ad una interessante lettura della realtà umana. A tale riguardo Wolf afferma che la teoria del conflitto considera la società un’arena nella quale gli individui e i gruppi sociali lottano per la conquista del potere. La società è dunque per i teorici del conflitto un campo di battaglia e i rapporti interpersonali sono in realtà conflitti sociali più o meno intensi. La teoria del conflitto si basa su tre presupposti fondamentali tra loro collegati. In primo luogo tutti gli individui possiedono degli interessi fondamentali da difendere e realizzare. Proprio per difendere tali interessi gli individui entrano in conflitto con altre persone che hanno interessi opposti o comunque non compatibili con i loro. In secondo luogo i teorici del conflitto considerano la lotta per il potere il primum movents delle relazioni sociali dando molta enfasi al carattere egoistico della natura umana. Essi dividono gli uomini in due categorie, ovvero vincitori e vinti. Di conseguenza i teorici del conflitto attribuiscono molta importanza allo studio di quelle caratteristiche che permettono all’individuo di conquistare i vari tipi di potere e di perseguire i propri interessi nei vari sistemi sociali.
Per i teorici del conflitto il desiderio di potere in tutte le sue forme è innato negli uomini dal momento che fa parte del loro codice genetico. A volte la lotta per il potere è manifesta e dà luogo a conflitti manifesti nei quali le parti in lotta ammettono di volere perseguire determinati interessi non compatibili con quelli della controparte. Altre volte la lotta viene compiuta in maniera non manifesta, in modo diplomatico e velato, dando luogo a conflitti latenti nei quali vengono utilizzate strategie subdole A volte gli in dividui preferiscono cercare di ottenere il potere con strategie manipolative: tali strategie sono estremamente subdole e molto spesso si basano sul presupposto macchiavellico che “il fine giustifica i mezzi”. Molto interessanti per quanto riguarda differenziazione dei conflitti sono le teorie di Coser. Egli divide i conflitti in due gruppi: “conflitti “realistici” e conflitti “non realistici”. I conflitti realistici sono caratterizzati dal fatto che gli individui utilizzano il conflitto come uno strumento per ottenere quello che desiderano. Al contrario i conflitti non realistici sono finalizzati esclusivamente a diminuire le tensioni psichiche esistenti negli individui.
Coser mette in evidenza che spesso nei conflitti sono presenti sia elementi realistici che non realistici. Coser, inoltre, ha studiato con molta attenzione i rapporti esistenti tra conflitti e coesioni di gruppo. A tale riguardo egli distingue tra conflitti esterni e interni al gruppo. Entrambi, a suo parere, possono aumentare la stabilità e la coesione di gruppo, rafforzandone l’identità. Coser sostiene che il conflitto esterno rafforza l’identità di gruppo in quanto introduce un nemico esterno al quale è possibile contrapporsi. Tale contrapposizione aumenta il senso di appartenenza e la coesione di gruppo, facendo passare in secondo piano eventuali problemi interni al gruppo. Tali problemi in assenza di conflitti potrebbero a lungo andare compromettere seriamente la coesione di gruppo e far venir meno il senso di appartenenza degli individui al gruppo. Coser ritiene che anche i conflitti interni possono aumentare la stabilità del gruppo in quanto la lotta contro i devianti è un modo per riaffermare le regole e la morale di gruppo. Vogliamo precisare che i devianti sono quei membri del gruppo sui quali si concetra l’aggressività dgli altri componenti del gruppo dal momento che i devianti rifiutano le regole e la morale di gruppo.
A nostro avviso non sempre i conflitti interni aumentano la coesione e la stabilità di gruppo. Ciò è vero solamente se i devianti sono dotati di risorse limitate che non permettono loro di opporsi con successo agli altri membri del gruppo. Qualora non fosse così i devianti potrebbero scatenare una guerra interna al gruppo che potrebbe portare alla disgregazione del gruppo oppure al mutamento delle regole e della dinamica interna. Dopo aver esposto il pensiero di Coser torniamo ad interessarci dei presupposti della teoria del conflitto enunciando il terzo presupposto: i teorici del conflitto considerano i valori e le idee uno strumento utilizzato dai vari gruppi per difendere i loro interessi e per mantenere o conquistare il potere in tutte le sue forme. Per dirla in altro modo i detentori del potere userebbero la forza delle idee per legittimare il loro dominio, mentre i dominati si servirebbero delle idee per delegittimare il potere dei loro avversari. A nostro avviso non è sempre vero che le idee siano semplici riflessi degli interessi di potere, dal momento che possono nascere anche da esigenze conoscitive che niente hanno a che vedere con le esigenze di legittimazione o di delegittimazione dello status quo esistente in un dato sistema sociale.
In ogni caso il problema della legittimazione sociale è senza dubbio un problema importante sia a livello micro sociologico che macro sociologico. Per fare degli esempi un individuo deve legittimare il fatto che emargini un altro individuo mentre una nazione deve legittimare il fatto che scateni una guerra contro un’altra nazione. Soprattutto nella società contemporanea nella quale l’opinione pubblica è diventata sempre più importante, il problema della legittimazione sociale ha assunto un notevole rilievo. Molti sociologi mettono in evidenza che il potere dell’opinione pubblica è diventato una delle forme di potere più forti nei sistemi democratici. Tuttavia bisogna mettere in evidenza che l’opinione pubblica non è sempre un giudice attendibile in quanto è facilmente manipolabile ed inoltre è particolarmente incostante e volubile nelle sue valutazioni. Chiudiamo il nostro discorso sui conflitti sociali affermando che esistono vari modi per giungere alla risoluzione di essi.
In primo luogo un conflitto termina quando una delle due parti in lotta viene sconfitta. In secondo luogo un conflitto si esaurisce se le parti giungono ad un compromesso accettabile da entrambe. In terzo luogo un conflitto si esaurisce quando le parti non hanno più energia e motivazioni sufficienti per continuare la lotta. In quarto luogo un conflitto può esaurirsi anche momentaneamente quando si presentano dei fatti che abbassano il livello di attenzione nei riguardi del conflitto stesso. Se non si verifica nessuna di queste tre condizioni il conflitto diventa cronico. Vogliamo evidenziare che tendono a cronicizzare soprattutto quei conflitti che presentano minore violenza e intensità La violenza di un conflitto dipende dal tipo di armi utilizzate nella lotta mentre l’intesità del conflitto dipende dalla percentuale di risorse che ciascuna parte inpegna nel conflitto. A volte un conflitto si cronicizza perché tale cronicizzazione è funzionale agli interessi delle parti. Per fare un esempio un conflitto può diventare cronico perché l’esistenza di tale conflitto permette alle parti in lotta di distogliere l’attenzione da importanti problemi presenti nei sistemi sociali delle parti in lotta.
Per essere ancora più chiari possiamo dire che una guerra tra due nazioni nel momento in cui si protrae nel tempo permette ai governi delle due nazioni di far passare in secondo piano i problemi di politica interna presenti nei due sistemi sociali.
Nel 1966 fu proiettato nei cinema un film dal titolo “Viaggio allucinante”. La pellicola di fantascienza era tratta da un racconto, scritto a quattro mani, dal produttore cinematografico Otto Klement e da Jerome Bixby, uno scrittore e sceneggiatore statunitense. Per la sceneggiatura fu incaricato addirittura Isaac Asimov, il famoso biochimico e scrittore sovietico autore di tanti successi editoriali. La trama del film è davvero fantastica.
<<== Dott.ssa Emilia Urso Anfuso
Ambientato nel periodo della cortina di ferro, frontiera politica imposta sul territorio europeo e che, dopo la Seconda Guerra Mondiale e fino alla fine della Guerra Fredda, permise agli URRS di controllare l’Europa orientale, in contrapposizione al potere politico statunitense che aveva in mano il controllo del versante occidentale, vede protagonisti un gruppo di scienziati russi e americani che lavorano a un progetto di nanotecnologie dedicato alla miniaturizzazione del corpo umano. Riescono nell’intento, ma con un limite: l’effetto dura solo 60 minuti. Uno dei ricercatori scopre il modo d‘estendere all’infinito l’effetto della riduzione delle misure corporee, e in una rocambolesca serie di azioni, durante la sua fuga subisce un attentato e viene colpito quasi mortalmente, rimanendo in stato comatoso e con un embolo cerebrale. Pur di salvarlo, un team di scienziati statunitensi decide di operarlo con una soluzione incredibile: miniaturizzare un sottomarino alle dimensioni di un chicco di riso con, a bordo, lo staff medico necessario ad agire per rimuovere l’embolo.
In 60 minuti, e con una serie infinita di contrattempi, l’operazione riesce. Il gruppo di microscopici specialisti, a missione compiuta, riesce a salvarsi grazie all’intervento esterno degli altri scienziati, e appena in tempo per ritornare alle dimensioni umane… Incredibile, vero? O forse no…Le nanotecnologie non interessano esclusivamente il settore informatico. Da molto tempo i ricercatori di tutto il mondo lavorano per trovare soluzioni atte a sostenere la salute umana con minor dispendio di tempo, e con tecniche non cruente e meno invasive. I risultati ottenuti sono ormai così soddisfacenti da averci abituato a realtà che, fino a qualche decennio fa, potevano essere incluse unicamente nei romanzi e film fantastici.
Ecco quindi una di quelle informazioni che ci spinge a riflettere sull’evoluzione e il progresso che l’umanità sta continuando a compiere: è già in uso da un paio di anni, in alcuni reparti di gastroenterologia e in particolari modo nei centri diagnostici privati, la capsula da ingerire che permette a uno specialista di vedere il nostro tratto gastrointestinale senza dover ricorrere a metodi diagnostici quali la gastroscopia o la colonscopia. Si tratta di una capsula da ingerire come un qualsiasi farmaco e la cosa incredibile è che al suo interno è installata una microtelecamera in grado, nelle ore successive all’assunzione orale, di far vedere al medico le condizioni del nostro corpo dall’interno.
Questo permette di non dover subire l’introduzione di tubi e tubicini per via orale o peggio anale. Ingollando una capsula con un sorso d’acqua si permette la visione endogena, che con questa soluzione rende possibile di scrutare anche gli anfratti, cosa che con le tradizionali metodologie non è concesso di ottenere. Questa “magia” della scienza si chiama PillCam, ed è una capsula ovviamente monouso. Presentata pubblicamente nel 2018 durante un incontro con la stampa organizzato da MedTronic, azienda statunitense leader a livello mondiale per la ricerca e lo sviluppo di tecnologie biomediche, permette non solo di risparmiare tempo durante le attività diagnostiche, bensì di impattare meno sui costi che il SSN deve affrontare ogni anno per le patologie gastroenterologiche.
Diagnosi per arrivare alle quali sono necessari altri esami – almeno quattro o cinque – prima di giungere alla risoluzione finale di “guardare” dentro il corpo umano. I prezzi adottati presso i centri privati di diagnostica si aggirano sui 1.000 euro, e ancora non esiste la possibilità di poter passare per il Sistema Sanitario Nazionale , anche se già nel 2017 il metodo fu inserito nei LEA – Livelli Essenziali di Assistenza. Per ora, a livello ospedaliero, se ne avvalgono presso l’Ospedale Niguarda di Milano, tra i primi in Italia, il centro ospedaliero di Ravenna e altri poli sanitari pubblici. Il futuro è già qui…
La cultura sta morendo? Questa preoccupante domanda capita di sentirla formulare in orazioni più o meno esplicite durante convegni, dibattiti, trasmissioni radiofoniche, interviste e così via. Ovviamente la cultura non sta morendo, basti pensare solo al fatto che tutti noi continuiamo a utilizzare la nostra lingua. E se la cultura fosse morta non ci sarebbero più parlanti. Tuttavia, se la domanda si pone ormai da diversi anni e non trova una risposta, vuol dire che qualcosa di importante è accaduto e questo qualcosa ha un effetto catastrofico tanto da ricorrere all’immagine della morte.
<<=== Prof. Patrizio Paolinelli
Prima di individuare le cause della catastrofe e capire cosa
ha lasciato al suo passaggio è necessario indicare anche solo sommariamente le
basi materiali su cui si è edificato l’immaginario culturale del nostro recente
passato. Quello ricordato con una punta di nostalgia da anziani, da uomini e
donne di mezza età e che va dagli anni ’50 agli anni ’70 del secolo scorso. Un
battito di ciglia dal punto di vista della storia, un abisso per un giovane di
oggi.
In quel passato l’espressione artistica e la lotta politica
formavano un sodalizio che produceva l’intellettuale impegnato tra i cui
compiti c’era quello di scandalizzare la
borghesia benpensante. Non solo: gli stessi partiti politici avevano una
precisa idea di società e un progetto a realizzare. Per non andare troppo
indietro nel tempo si pensi agli scritti di Enrico Berlinguer, di Aldo Moro e dei
leader di gruppi e movimenti extraparlamentari. Accanto ai partiti di massa (o
aspiranti tali) si affermavano poi istituzioni quali la scuola e l’università. Che
non solo si radicavano nella società ma proliferavano con la moltiplicazione di
discipline, cattedre, istituti, dipartimenti e così via. Conseguenza: il
professore di scuola media e delle
superiori godeva di un forte prestigio sociale, che diventava fortissimo per il
docente universitario. Altra conseguenza: il libro costituiva un oggetto
circondato da un’aura quasi sacrale. Era grazie a questo mezzo di comunicazione
che il sapere veniva trasmesso e gli scrittori guerreggiavano tra loro
rafforzando simbolicamente il ruolo sociale dello studente e dell’autore.
A costruire l’immaginario di una cultura come motore della civiltà e opportunità di emancipazione per i ceti popolari ha contribuito il mercato editoriale. Negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso le case editrici nascevano come funghi, andavano a caccia di talenti e scommettevano sulle novità. Le major dell’editoria nazionale fiutata l’euforia del mercato si adeguavano producendo collane memorabili: per tutte ricordiamo il “Nuovo Politecnico” dell’Einaudi. Sempre in quei due decenni alcune discipline godevano di altissima reputazione. Ad esempio: la vecchia filosofia, la giovane sociologia e la ancor più giovane antropologia culturale. Tutte e tre, si badi bene, erano vissute come strumenti per il cambiamento del mondo. La cultura espressa da queste branche del sapere si presentava come una leva per spingere all’azione (politica e non). La millenaria filosofia con le sue idee sulla società giusta, la rampante sociologia con le sue verifiche sulla disuguaglianza, e l’ultima arrivata, l’antropologia culturale, con le sue indagini sui nostri modelli interpretativi dell’Altro diventavano armi intellettuali di cui tutti in qualche maniera si appropriavano orientando un senso comune che, ad esempio, si esprimeva con cantautori impegnati come Giorgio Gaber, Francesco Guccini, Fabrizio De Andrè solo per citare alcuni nomi. Insomma, tra gli anni ’50 e gli anni ’70 del Novecento ha raggiunto la sua massima espansione una koinè culturale fondata sull’idea di progresso, di critica del presente e di emancipazione sociale.
Ed è su questo terreno che le organizzazioni sindacali da un lato e il femminismo dall’altro hanno dato luogo a un’intensa produzione di libri e riviste, ricerche e riflessioni sul lavoro, il movimento operaio, i movimenti delle donne. Ultima architrave degli anni ruggenti della cultura è data dall’espansione del welfare state. Il quale non solo ha finanziato direttamente o indirettamente tante delle iniziative e delle istituzioni di cui abbiamo fatto cenno, ma ha creato un clima, appunto culturale, per cui era considerato automatico che all’aumento di solidarietà sociale corrispondesse un miglioramento della qualità della vita di tutti.
A partire dagli anni ’80 iniziano a sgretolarsi le basi di un
immaginario che viveva la cultura come un’esperienza viva, un’esperienza che
metteva in discussione molti aspetti della vita quotidiana in vista di una
società più giusta. Come noto la spinta propulsiva alla “rivoluzione
conservatrice” è stata data dalle politiche di Ronald Reagan negli Usa e da
quelle di Margaret Thatcher in Inghilterra. Il resto della storia è ancora più
noto: in Europa il socialismo reale collassa, gli Stati Uniti vincono la guerra
fredda e il liberismo si impone su scala mondiale. Di quel mondo, il mondo
della cultura intesa come mezzo per la trasformazione della propria vita e
della società oggi non resta quasi più nulla. Ed è per questo motivo che si
sente parlare di morte della cultura. In senso lato effettivamente una cultura
è davvero in via di estinzione. Le cause politiche le abbiamo appena accennate.
La conseguenza forse più importante di tali cause è che dagli anni ’80 ad oggi
il capitale ha stabilito la propria egemonia sul lavoro. Ed è a partire da
questo progressivo squilibrio di rapporti di forza tra classi sociali che ad
una ad una sono attaccate, demolite e trasformate le basi che sorreggevano i codici
culturali del Novecento.
Tuttavia la messa in crisi del lavoro salariato e a tempo
indeterminato, così come l’implacabile demolizione del welfare state imposta
dal neoliberismo non bastano a elaborare il lutto di una cultura che non c’è
più. Ad essa si è sostituita un’altra visione
del mondo. Una visione che non molto tempo fa ha fatto affermare a Giulio
Tremonti, allora importante ministro della Repubblica, che con la cultura non
si mangia, e più recentemente al presidente Barack Obama che è meglio lavorare
in fabbrica anziché prendere una laurea in storia dell’arte (Obama si è poi
scusato per la sua affermazione, il nostro ministro no). Come si è giunti a
questo rovesciamento di senso in tempi tutto sommato così rapidi? Attraverso il
crollo più o meno rovinoso delle colonne che sorreggevano il precedente
immaginario. Un immaginario in cui la cultura è precondizione all’agire
collettivo indipendentemente da qualsiasi appartenenza. Ed ecco una ad una le
colonne che crollano.
L’arte si è separata dai movimenti politici antisistema. I partiti
politici sono fagocitati dall’economia e non ipotizzano più un progetto sociale
(non fanno più sognare). La scuola pubblica è il primo bersaglio da colpire
quando i governi decidono di ridurre la spesa. La piccola editoria muore mentre
le major hanno fatto del libro una merce come le altre. Il libro stesso, con la
diffusione dei media elettronici e l’avvento di Internet, ha perduto il suo
privilegio di strumento principe per la trasmissione del sapere. La filosofia,
la sociologia e l’antropologia culturale
si sono trasformate in discipline per addetti ai lavori, discipline incapaci di
parlare a un vasto pubblico, meglio, a un pubblico concorrenziale rispetto a
quello della Tv; i cantautori impegnati invece non ci sono più e se ci sono si
ritrovano frullati nella più che abbondante offerta di musica pop. Il sindacato
è sulla difensiva a causa della diffusione del precariato, delle
delocalizzazioni e del potere assunto dall’economia finanziaria, mentre il
femminismo è quasi scomparso dal nostro habitat culturale. In quanto al nostro
arretrato welfare state è sottoposto da vent’anni a continue cure dimagranti
tanto che la maggioranza dei pensionati italiani percepisce oggi un reddito di circa
500 euro al mese. E gli intellettuali impegnati? Definitivamente scomparsi. E
con loro è finita la guerra dei libri.
Tutti questi crolli dell’immaginario novecentesco hanno aperto il passaggio a un inedito immaginario fondato sul consumo, sulla mercificazione e la spettacolarizzazione di ogni cosa. Tuttavia, nonostante il passaggio d’epoca, ci ritroviamo oggi senza un’idea del futuro, anzi, peggio ancora, ci ritroviamo ad aver paura del domani. Per di più il mondo attorno a noi è sempre più complesso e incomprensibile. Ma quel che è peggio è che le parole hanno perso valore. In una società dello spettacolo ogni libro che esce è un capolavoro, ogni film meriterebbe l’Oscar, ogni canzone è indimenticabile, ogni performance artistica imperdibile e così via. Paradossalmente è vero anche il contrario: il prodotto culturale di alto profilo viene rapidamente dimenticato. E’ la sindrome del successo. E siccome per arrivare al successo ci sono dei costi da sostenere molta produzione culturale si trova incanalata nelle strategie del marketing. Strategie per le quali il consumo viene prima della cultura. Sicuramente si tratta di un modo per fare profitti, ma in alcuni settori ha condotto a una evidente crisi della creatività. Prendiamo l’industria dei best seller. Sforna libri pianificati a tavolino, magari con un sapiente mix di generi letterari, per un prodotto vendibile a livello planetario.
Ciò implica una preoccupante uniformità di stile che si insinua nel circuito della cultura di massa. Basti pensare ai romanzi di Stephen King che, con la supervisione dello stesso autore, si trasformano ipso facto in serie televisive. O alle saghe cinematografiche: sempre più prevedibili con la loro teoria di prequel e sequel. O ai remake, sempre del grande schermo, basati su originali poco conosciuti, se non addirittura sconosciuti, a un pubblico privo di memoria.
Da questi processi viene fuori che in una società incredibilmente frammentata come la nostra una parte significativa della cultura segua il movimento opposto e si condensi. Tra gli effetti principali effetti c’è quello conformare i gusti del pubblico alla logica dell’intrattenimento. E intrattenimento diventa sinonimo di semplificazione dei linguaggi: dall’italiano standard della TV ai romanzi dal volo radente che rinunciano ad affrontare sul serio le problematicità della vita. Insomma, tiranneggiano le dee attualità, novità, mediocrità. Si vive confinati nell’orizzonte del presente, tanto che l’ideologia del corpo ha preso il sopravvento su ogni trascendenza. Nel migliore dei casi le esigenze di utopia e di spiritualità vengono dissolte nel calderone della New Age o di quel che ne resta. Il corpo glamour, con tutto il suo contorno di vita mondana e viaggi esotici, costituisce oggi una delle massime aspirazioni collettive. E l‘investimento principale da fare non è sugli altri ma su se stessi. Come sa bene qualsiasi attore queste sono le dure regole dello spettacolo. E queste regole sono diventate oggi habitus mentale. Il vantaggio di tale pragmatismo è dato da una radicale semplificazione della vita: se il tuo prodotto (culturale e non) non ha successo lascia perdere.
Insomma, l’umanesimo è finito da un bel po’ ed è finito anche
il tempo delle avanguardie. Il grande pubblico del terzo millennio chiede
modelli culturali per passare da un’identità all’altra. Certo ricorre ancora al
testo scritto quando è in crisi. Ma sotto forma di manuali di auto-aiuto e di
rubriche per i lettori. Ci sono in commercio ormai così tante verità che ognuno
compra la sua finché non si stanca e cambia. Tutto questo produce piccole e
grandi mode cultuali in continua fluttuazione nel firmamento mediatico tanto
che la parola “rivoluzione” è talmente abusata che non si sa più bene cosa voglia
dire. Persino il principe Harry è definito un ribelle. In questo traffico di
icone lo stilista, il tecno-scienziato e la rockstar sono rivoluzionari di professione
in servizio permanente effettivo. E offrono verità provvisorie al pubblico. Verità
buone per il qui e ora in attesa della prossima rivoluzione.
La produzione tecnica dell’immaginario collettivo ha
trasformato il modo di lavorare e di
consumare il prodotto culturale (ad esempio dando vita al romanzo natalizio e a
quello scritto per essere sceneggiato), e ha generato un nuovo tipo di consumatore.
Di più: una nuova figura sociale perennemente assetata di novità da divorare
rapidamente. E le industrie culturali sono pronte a soddisfare tale domanda. Se
si aggiunge l’enorme pressione esercitata dai visual media, la generalizzata
contrazione della carta stampata e le trasformazioni del modo di comunicare
indotte dalla rete comprendiamo quanto siano solide le colonne dell’immaginario
culturale fondato sullo spettacolo. E quanto sia penoso lo scacco in cui è
costretto l’immaginario fondato sul libro. Tutto questo suggerisce che forse siamo
alle battute finali di una guerra per l’egemonia culturale. Al momento il
consumatore di immagini assedia il lettore impegnato.
Patrizio Paolinelli, VIAPO, inserto culturale del quotidiano Conquiste del Lavoro.
Come l’immigrazione viene gestita dai governi centrali o a livello internazionale? Generalmente le politiche pubbliche in materia di immigrazione si suddividono in due grandi classi: le politiche migratorie rivolte alla regolazione del flussi migratori e al controllo dell’ammissione sul territorio di cittadini stranieri, e le politiche relative agli immigrati, che comprendono quelle di integrazione e di ammissione alla cittadinanza .
Dott./ssa Alessia Maria Lambaerti ==>>
La questione del controllo dei flussi migratori assume una posizione di rilievo nelle agende politiche dei governi, in particolare a partire dal blocco dell’immigrazione nei primi anni Settanta. Negli ultimi decenni, infatti, si è verificato un noto paradosso per cui sono stati liberalizzati molti tipi di scambi e flussi attraverso le frontiere, mentre i movimenti di persone sono stati sottoposti a regimi restrittivi e sempre più stringenti, con l’intento di dimostrare di poter tenere sotto controllo i confini dello Stato, per evitare di incorrere in crisi di fiducia da parte dei cittadini che chiedono di essere protetti da potenziali terroristi, fiancheggiatori o reclutatori. La letteratura sul tema ha sottolineato la de naturalizzazione dei confini mediante la crescente dotazione di strumenti tecnologici per l’identificazione dei viaggiatori e la sorveglianza dei punti di passaggio, ma anche con il ricorso all’antichissima tecnica dei muri. Ambrosini, ci propone l’evoluzione di tale controllo in tre direzioni: verso l’alto con l’accresciuto ricorso ad agenzie ed organismi sovranazionali ( il Frontex); verso il basso con la richiesta alle autorità locali di collaborare all’attuazione di politiche più stringenti di controllo del territorio; verso l’esterno, con il coinvolgimento di attori privati, a cui viene richiesto sotto pena di sanzioni, di verificare con scrupolo la validità dei documenti degli stranieri.
Facendo riferimento allo scenario Europeo, la priorità viene attribuita alla repressione dell’immigrazione irregolare: l’Unione Europea promuove una chiusura verso Sud e verso l’immigrazione scarsamente qualificata, resistenza nei confronti dei rifugiati, apertura verso l’Est Europa e completa libertà nel caso dei nuovi paesi membri. Le possibilità di ingresso legale oggi disponibili nei maggiori paesi Europei, si collocano ai due poli opposti della struttura occupazionale: o si tratta di autorizzazioni per lavori stagionali, oppure di lavoratori ad alta qualificazione. Le restrizioni, in particolare, si sono abbattute sul diritto d’asilo e sulla possibilità di ingresso per ragioni umanitarie; tra le svariate misure misure volte ad ostacolare l’ingresso dei richiedenti asilo, la più incisiva e discussa riguarda la responsabilizzazione dei paesi di transito o di primo ingresso ( Convenzione di Dublino): è qui che il rifugiato deve presentare la domanda di asilo, e in caso di riconoscimento questi paesi hanno l’obbligo di accoglierlo. Alessandra Corrado, in Migrazioni per lo sviluppo, infatti, ci ricorda due principali strumenti adottati dalla cooperazione europea: la politica europea di vicinato ( PEV) e la politica di co-sviluppo. La PEV rappresenta il quadro strategico per l’intensificazione della cooperazione con i paesi prossimi, permettendo di realizzare un sistema di cogestione delle frontiere. La politica di co-sviluppo, invece, è rivolta ai paesi in via di sviluppo; in particolare è da annoverare il piano di azione adottato a Rabat nel 2006 composto da tre assi: la promozione dello sviluppo, promozione della migrazione legale, repressione della migrazione illegale attraverso il rafforzamento della capacità di controllo delle frontiere nazionali dei paesi di transito e di partenza. I progetti messi in atto a livello istituzionale, per la promozione del co-sviluppo, però, sono spesso complessi e di difficile realizzazione, non riscuotono fiducia ma sospetto nella gestione dei fondi ecco perché i migranti scelgono attività informali di natura individuale o comunitaria.
Infatti gli stessi, anziché sottomettersi ai vincoli imposti dai paesi riceventi, hanno perseguito strade alternative, ma spesso sono stati intercettati e fermati nel corso del viaggio, altri sono caduti preda di organizzazioni criminali, molti sono arrivati ma hanno avuto la possibilità di inserirsi in qualche interstizio dell’economia sommersa. Di conseguenza, si registra un divario tra immigrazione autorizzata ed immigrazione effettiva, che rimane aperto nonostante la capacità degli Stati nel controllo dei flussi migratori si sia rafforzata nel corso del tempo; i governi di questo ne prendono coscienza assumendo provvedimenti per superare tale divario. L’ICMPD, a tal proposito, ci fornisce due principali classi di sanatoria della condizione di soggiorno irregolare degli immigrati: i programmi di regolarizzazione, validi per periodi di tempo limitati e mirate su specifiche categorie di stranieri in condizione irregolare; e i meccanismi di regolarizzazione, ovvero l’insieme di procedure attraverso cui gli Stati garantiscono uno status legale agli stranieri presenti irregolarmente sul territorio, sulla base di una lunga permanenza o per caratteri umanitari.
Ma osserviamo, in particolare, i caratteri rilevanti dei provvedimenti di sanatoria attuati in Italia: il carattere collettivo e di massa ( nel nostro paese non sono stati adottati provvedimenti individuali, concessi caso per caso, ma la strada adottata è stata quella di provvedimenti con termini rigidi nella presentazione delle domande, che comportano lunghi tempi di attesa, difficoltà di esame approfondito delle istanze, e l’inevitabile ricerca di escamotage e soluzioni di comodo); la ricorrenza periodica ( la media è stata fino al 2012 circa una sanatoria ogni tre anni e mezzo. Questo comporta una costante precarietà degli immigrati presenti nel territorio Nazionale); elevati livelli di discrezionalità ( lasciati alla macchina burocratica e ai funzionari che esaminano concretamente le istanze, gli immigrati subiscono disparità di trattamento e persino peregrinazione delle istanze da una questura ad un’altra).
Tutto ciò, ci permette di avanzare due osservazioni: la prima
fa riferimento al dilemma delle democrazie liberali; la seconda, invece, fa
riferimento alla precarietà evidente a causa delle sanatorie. Per quanto
riguarda il dilemma delle democrazie liberali possiamo dire che per diventare
più efficienti nella repressione dell’immigrazione irregolare, gli stati
dovrebbero diventare meno liberali. E’ per tali ragioni che hanno messo in atto
delle Sanatorie rivolte alla regolarizzazione, ma che hanno generato maggiore
precarietà: è quasi surreale pensare che gli immigrati per poter conservare lo
status di regolari, devono avere un’occupazione stabile, quando il mercato li
richiede in riferimento all’economia sommersa e quindi per lavori instabili e
precari. Diventa sempre più complicato riuscire a conservare il permesso di
soggiorno, ma, anche riuscire a ritornare nel proprio paese d’origine.
Il secondo versante delle politiche migratorie, riguarda, come anticipato precedentemente, l’integrazione degli immigrati nelle società riceventi. La letteratura sull’argomento ha individuato tre principali modelli d’inclusione delle popolazioni immigrate:
il primo modello è quello dell’immigrazione temporanea in cui la stessa è vista come un fenomeno funzionale, ovvero gli immigrati sono considerati lavoratori chiamati, in quanto necessari per rispondere a certe esigenze del mercato del lavoro, ma che non devono mettere radici. Questo è il caso della Germania che si riteneva un paese di lavoratori ospiti; Castels a tal proposito parla di un modello di esclusione differenziata, in quanto gli immigrati sono incorporati in certe aree della società, ma si vedono negato l’accesso ad altre ( come la partecipazione politica e la cittadinanza);
il secondo modello può essere definito assimilativo che ha trovato in Francia una sua manifestazione convinta. Qui il criterio fondamentale è l’omologazione anche culturale dei nuovi arrivati: è aperta l’ammissione ai nuovi venuti, a patto che aderiscono alle regole della politica democratica adottando la cultura della nazione ospitante. Per entrare a far parte a pieno titolo della nazione, gli immigrati devono avere alcuni anni di soggiorno, la fedina penale pulita, la conoscenza della lingua, e alcune conoscenze di base circa la storia e i fondamenti costituzionali. Le seconde generazioni acquistano a pieno titolo la cittadinanza secondo il principio dello ius soli: chi nasce sul territorio ne acquisisce la nazionalità;
il terzo modello è quello pluralista o multiculturale, in cui convergono esperienze storiche, matrici culturali e orientamenti politici differenti. Questo terzo modello può essere distinto in due varianti: quella liberale, tipica degli Stati Uniti, in cui si è tolleranti verso le differenze culturali, ma non sono favorite dall’impegno statale; e quella delle politiche multiculturaliste esplicite che implicano la volontà del gruppo di maggioranza di accettare le differenze culturali. Gli aspetti positivi di questo terzo modello, seppur nelle sue varianti, sono quello di attribuire un primato ai diritti individuali rispetto le norme comunitarie promuovendo una concezione multiculturale di cittadinanza, e quello di eliminare le forme discriminatorie e gli atteggiamenti ostili nei confronti degli immigrati.
Ma in questo panorama, dove si colloca l’Italia? Possiamo partire definendo i caratteri delle politiche migratorie in materia di inclusione, nella nostra Nazione: non ci sono politiche di reclutamento, vi è una scarsa regolazione istituzionale, vi è un’influenza rilevante degli attori sociali, una ricezione contrastante che va da aperture umanitarie a fenomeni di chiusura e rigetto, una diffusa rete di mutuo aiuto spontaneo tra connazionali, un inserimento nel mercato del lavoro informale. Pertanto, secondo queste premesse, Ambrosini ci suggerisce di parlare di un modello implicito di inclusione, in riferimento all’Italia, caratterizzato da politiche per lo più di carattere emergenziale. Tra queste ricordiamo la legge Turco-Napolitano, che poneva l’enfasi sulla parità giuridica e il rispetto delle differenze culturali, e introdusse l’istituto dello sponsor, per fornire maggiori garanzie per consentire l’accesso e il soggiorno a immigrati per motivi di lavoro; la legge Bossi-Fini che ha eliminato quest’ultimo istituto, ponendo alternative più stringenti. Per arrivare, poi, al governo di centro destra eletto nel 2008 che promuove il collegamento immigrazione e ordine pubblico, ancora oggi al centro del dibattito pubblico e politico e oggetto delle future politiche migratorie, in particolare quelle relative al governo M5S-Lega.
La logica emergenziale, infatti, ha caratterizzato tutte le forme di inclusione nel nostro paese, come ad esempio: le strutture di prima accoglienza e smistamento (CPSA, CDA, CASA) situate soprattutto nelle regioni meridionali, che avrebbero compiti di primo soccorso, identificazione e raccolta delle domande di asilo; i centri del sistema SPRAR istituito nel 2003 e rinominato SIPRIOMI nel 2018, che prevede un’accoglienza integrata per gruppi limitati di persone, in collaborazione con i Comuni che si candidano presentando appositi progetti ( dal 2018,però, possono accedervi solo persone in condizioni di vulnerabilità); i centri di accoglienza straordinaria che sono stati istituiti come soluzione di emergenza per tamponare la mancanza di posti nel sistema SPRAR. L’accoglienza, in sostanza, è stata ridotta alla risposta ad esigenze minimali, che candida, inoltre, gli immigrati alla quasi totale esclusione sociale.
Abbiamo parlato della cittadinanza, e abbiamo visto come differenti modelli di inclusione, hanno concezioni differenti di cittadinanza in rapporto all’immigrazione. Vi sono tre diversi criteri di attribuzione della cittadinanza: il diritto di sangue, il diritto di suolo e il diritto di residenza ( si può aggiungere anche lo ius culturae, ovvero l’attribuzione della cittadinanza a chi frequenta almeno 5 anni di scuola nel nostro paese e consegue un titolo di studio). Ma cosa vuol dire cittadinanza in rapporto ai processi migratori? Riprendendo Zincone, consideriamo i principali significati: il primo riguarda l’appartenenza ad uno Stato, quindi risiedere liberamente sul territorio, uscire e rientrare dai suoi confini. Il secondo fa riferimento all’emancipazione, soprattutto alla possibilità di partecipare alle decisioni pubbliche ( diritti politici di Marshall); con il terzo intendiamo, invece, la possibilità di godere della protezione e dei benefici garantiti dai poteri pubblici ( diritti sociali di Marshall); infine, vi è il quarto significato per cui si registra un uguaglianza tra i cittadini, in cui non si esclude il pluralismo. Ma, se nel campo degli studi, si considera sempre la cittadinanza dall’alto, è importante anche la cittadinanza attribuita dal basso, ovvero l’insieme di relazioni tra individui, gruppi e istituzioni che si costruisce giorno dopo giorno nel tempo.
Tra le pratiche di cittadinanza dal basso emergono le pratiche di volontariato, formali e informali a cui partecipano gli immigrati con l’intento di presentarsi come cittadini attivi, solleciti del bene comune e impegnati a migliorare la qualità della vita sociale. A tal proposito, è importante sottolineare anche gli aspetti positivi della nostra nazione, l’Italia, citando l’esperienza di Camini. Dal 2010, e ancora nel 2016 e 2018, il comune calabrese, è stato protagonista di vari progetti volti a garantire l’inclusione della popolazione immigrata. Questi progetti hanno avuto impatti positivi non solo dal punto di vista degli immigrati, ma anche della popolazione autoctona: la presenza di giovani e bambini migranti ha contribuito ad evitare la chiusura dei servizi educativi di un paese ormai in spopolamento; vi è stata una ripresa degli esercizi commerciali,e grazie all’aumento di manodopera si è promossa la ristrutturazione del centro storico, sono stati recuperati terreni abbandonati per la produzione dell’olio extravergine d’oliva, sono stati creati laboratori artigianali di cucina, legno, pittura, sartoria, ferro battuto e ceramica.
Possiamo concludere questo capitolo, pertanto, affermando che a livello nazionale e internazionale, in rapporto ai processi migratori, si è registrata una crescente deresponsabilizzazione dei governi centrali e delle istituzioni, mentre un ruolo centrale viene attribuito ai governi locali, al terzo settore e alle associazioni di volontariato. Ciò a cui puntano le politiche migratorie è un controllo delle frontiere, mediante un’azione di esternalizzazione: bloccare i flussi migratori ai confini degli Stati membri e bloccare le domande di asilo, deresponsabilizzandosi, attribuendo responsabilità nella valutazione delle domande e nell’accoglienza ai paesi di transito dei migranti. Ma perché i flussi migratori sono al centro dei discorsi politici, ma poi vengono depoliticizzati attraverso l’implementazione di tali politiche? Tutta la visione migratoria sembra essere Eurocentrica, mai si considerano le condizioni dei paesi in via di sviluppo o non sviluppati a cui si riversa questa responsabilità, non ci si chiede perché le persone decidono di emigrare dal loro paese d’origine, e quali possono essere i giusti mezzi per fronteggiarla. La migrazione viene dibattuta con carattere emergenziale, lo stesso carattere che fa emergere l’ostilità della popolazione autoctona, utilizzata per giustificare le politiche di esternalizzazione e deresponsabilizzazione.
Tutte queste dinamiche occultano gli effettivi numeri della popolazione immigrata ( nel 2017 circa il 3% della popolazione mondiale), ma soprattutto la costante precarietà e incertezza, sembra essere la principale causa per cui diminuisce il numero di immigrati regolari, ma viene avvantaggiato l’arrivo dei migranti illegali o la permanenza dei migranti irregolari.
Ora, concentriamoci ai sistemi di welfare in Italia, e quindi alle garanzie dei diritti sociali rivolti agli immigrati. Come suggerisce Alessandro Sicora, per comprendere la situazione attuale e le prospettive future, è utile volgere uno sguardo al passato. Solitamente i diritti di cittadinanza vengono indicati in un pacchetto di servizi, detti welfare, che riguardano i livelli minimi essenziali per una vita decente delle persone e delle famiglie, ossia: l’istruzione, la sanità, la sicurezza sociale, l’alloggio, e in caso di necessità, i servizi particolari alle persone. A partire dal 1861, anno dell’Unità d’Italia, possiamo riconoscere tre fasi del sistema di welfare: la fase della beneficienza privata, dove una serie di realtà private, religiose o laiche, effettuano un’attività di beneficienza rivolta a persone in stato di difficoltà, dove lo Stato non ha alcuna responsabilità. La fase della beneficienza pubblica, che prende avvio con la legge Crispi, che inserisce la beneficienza entro le funzioni pubbliche; la fase dei servizi sociali pubblici, contestualizzabile intorno agli anni ’70, che porta alla transizione dal concetto di beneficienza a quello di servizi sociali, visti come un vero e proprio diritto.
Infine vi è la fase dei servizi sociali integrati, che prende avvio con la legge-quadro 328-00; l’obiettivo è qui rilanciare una situazione caratterizzata dalla compresenza di realtà pubbliche e private, considerate componenti necessarie per “ la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”. Con questa ultima fase, si passa dall’espressione welfare State, che sembra essere divenuta inadeguata, a quella di Welfare mix, che evoca la compresenza tra sfere diverse, quindi tra pubblico e privato. Ma come le due sfere gestiscono gli interventi e i servizi di welfare? La programmazione e l’organizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali sono di pertinenza dell’ambito pubblico, mentre alla gestione e all’offerta dei servizi provvedono sia i soggetti pubblici che il privato. In particolare, i Comuni sono tenuti a svolgere le attività volte a soddisfare gli interessi della collettività locale, riconosciuti dalla legge; accanto ai Comuni vi sono le Aziende Unità Sanitarie Locali, che si occupano delle prestazioni socio-sanitarie e collaborano per la stesura dei Piani di Zona.
Le Regioni, infine, esercitano la funzione di coordinamento, organizzazione e valutazione dei servizi erogati a livello locale. Per quanto riguarda il Terzo settore, invece, il campo è più diversificato; all’interno di questo, infatti, troviamo espressioni di solidarietà organizzata che possono assumere la forma di organismi senza scopo di lucro, cooperative, associazioni di volontariato, fondazioni, associazioni ed enti di promozione sociale. Ma come vengono inseriti i migranti nel complesso sistema dei servizi sociali? La finalità del Welfare Mix, in riferimento ai migranti, è l’ integrazione sociale, culturale ed economica degli stranieri immigrati in Italia, dei richiedenti asilo e (…) la lotta alla tratta e le vittime dello sfruttamento della prostituzione. Tale tipologia di utenza fa riferimento a due macrocategorie del sistema integrato dei servizi sociali: “ Interventi o servizi sociali” e “ centri e strutture residenziali, semiresidenziali e diurne”. Per quanto riguarda la prima macrocategoria citiamo: i centri telematici di ascolto, gli interventi per l’integrazione sociale dei soggetti deboli o a rischio, le attività ricreative di socializzazione, il sostegno socio-educativo scolastico, i servizi di prossimità/buon vicinato/ gruppi di auto-aiuto. Nella seconda macrocategoria, invece, gli immigrati ricevono una protezione sociale prevalentemente orientata all’accoglienza abitativa, oppure orientata ad accoglienze di emergenza.
Oggi, però, il fenomeno migratorio appare eterogeneo, sia nelle sue caratteristiche ( Stato di provenienza, modalità d’arrivo), sia nelle sue motivazioni ( per ragioni economiche, per ricongiungimento familiare, per ragioni politiche o altro), di conseguenza vi è la necessità di costruire, talvolta, percorsi individuali di inserimento socio-economico. Ma la crisi economica, come scrivono Morniroli e Pugliese, “ ha fatto fallire migliaia di progetti migratori che ormai sembravano essersi stabilizzati in condizioni di successo e inclusione (…). Fallimenti che in molti casi hanno spinto i migranti ad accettare (…) condizioni di lavoro caratterizzate da forte sfruttamento e precarietà di vita (…).”. Ecco, in questo contesto, emerge la differenza tra “noi” e “loro”: differentemente dal caso in cui a cadere al di sotto della soglia minima di reddito sono i cittadini italiani, quando a trovarsi in difficoltà è il lavoratore straniero, in una fase di soggiorno precaria, lo Stato è legittimato ad imporre il rimpatrio, non essendo un appartenente alla comunità, non essendo un cittadino, ma soprattutto un non cittadino che non può mantenersi. Elena Spinelli propone un momento di riflessione a partire dal concetto di discriminazione e come questo influenza le politiche migratorie, ma anche l’accoglienza degli immigrati nel Welfare.
Discriminazione significa separazione, e deriva dal latino “discriminatio”: distinguere, fare una differenza; in sociologia la discriminazione è un comportamento non favorevole verso gruppi sociali che hanno particolari peculiarità. Nel caso del sistema di Welfare, vediamo un sistema legale che è discriminatorio nei confronti dei “non italiani” in quanto li esclude o ne limita il godimento di alcuni dei diritti civili, come il voto, il diritto alla libera circolazione, il diritto di accedere ai servizi pubblici o ,ancora, la libertà professionale. La studiosa Lidia Morris a tal proposito, parla di “stratificazione civica”, facendo riferimento ad una crescente complessità con un accesso differenziato alla distribuzione delle risorse tra cittadini, semi-cittadini e stranieri. Le principali variabili che condizionano l’accesso ai servizi sono: la sussistenza del diritto d’accesso, la consapevolezza di questo diritto e l’effettivo esercizio del diritto; ma in realtà se ci pensiamo bene, i diritti nel caso degli immigrati diventano frutto di una negoziazione politica. Con la Legge 94 del 2009, ad esempio, vi è l’introduzione del reato di ingresso/ o soggiorno illegali, che ha tra le innumerevoli conseguenze, anche quello di imporre agli operatori socio-sanitari, la segnalazione per l’espulsione di coloro che si rivolgevano ai servizi non in possesso del soggiorno.
L’accesso e la fruibilità dei servizi sanitari e sociali, inoltre, sono resi complicati anche dalla scarsa informazione degli operatori sulla normativa che regola le diverse possibilità e modalità di accesso alle prestazioni per stranieri; tutto ciò deve essere confrontato, ancora, con il quadro burocratico formale, permeato da pratiche informali: una Asl prevede la riabilitazione anche per stranieri irregolari con il tesserino “Straniero Presente Temporaneamente”, altre Asl no; un Municipio prevede l’erogazione dell’assegno di maternità con il permesso di soggiorno, altri chiedono la carta di soggiorno. La non conoscenza della normativa e la differente applicazione della stessa, ha aumentato il potere dell’operatore, che manca di riferimenti culturali sull’organizzazione del Welfare italiano. A rendere difficile l’accesso ai servizi, inoltre, sono le barriere organizzative, le barriere economiche, che sono frutto di incompetenza e discriminazione istituzionale. In tutto questo contesto gli immigrati, per l’implementazione di politiche a carattere emergenziale, vengono percepiti dagli autoctoni come privilegiati nell’ambito delle politiche sociali, facendo sorgere movimenti xenofobi e anti-immigrati, che vengono utilizzati dal dibattito politico per giustificare i processi di espulsione e categorizzazione dei flussi migratori tra “ migranti utili allo Stato” e “ migranti da controllare perché minano lo sviluppo dello Stato stesso”.
Ma, pensare che gli immigrati, secondo i criteri di povertà e precarietà, rappresentano un costo particolare sul sistema di Welfare e, in generale, sull’economia dei Pesi di arrivo, non fa altro che ingigantire la portata della povertà degli immigrati, attribuendo meno attenzione ai processi di inclusione e inserimento.
La pratica dell’accoglienza, infatti, richiede in primo luogo un atteggiamento di apertura e di disponibilità nei confronti di una utenza immigrata, già a partire dal primo contatto con i servizi affinché il migrante riesca ad esprimere la propria soggettività, il proprio codice culturale, al fine di ricevere accoglimento della propria esperienza nella sua complessità e stabilire una relazione di fiducia. In effetti, è necessario non dimenticare che l’immigrato è prima di tutto un emigrato, che sta affrontando quello che viene definito “trauma migratorio”; la prima conseguenza dell’emigrazione è che la persona passa da un luogo in cui possedeva un’identità sociale, una storia, dei legami affettivi solidi, ad un altro in cui la stessa svanisce totalmente in un luogo in cui diventa un “nessuno”. Domande quali “ da dove viene, da quanto tempo è qui, cosa faceva lì, chi della sua famiglia sta ancora lì, come risolveva tali bisogni nel suo paese d’origine”, sono la base per un intervento d’aiuto, per un ascolto emotivo della persona che si ha di fronte.
Al contrario, osservazioni come “ signora ma un altro figlio!…”, ad una donna immigrata incita, con altri quattro figli al seguito, può far sentire la stessa “diversa”, facendo nascere sentimenti come l’imbarazzo, l’umiliazione, la delusione, il sentirsi sbagliati; nello stesso tempo tutto ciò può avere come conseguenza la paura di instaurare un rapporto con le istituzioni, e quindi il non utilizzo dei servizi di welfare anche quando ne hanno pieni diritti. Non va dimenticato, infine, che la categoria “migranti”, non deve essere analizzata secondo una visione eurocentrica, perché nella stessa vi sono una varietà di persone, non solo in riferimento alla provenienza, ma perché ognuno costruisce i proprio orizzonti di senso in maniera originale, ognuno ha una propria storia “lì”, ed una storia “qui”. Ma soprattutto ognuno da un significato differente alla sua storia “lì” ed alla sua storia “qui”. Probabilmente le istituzioni, per avanzare un welfare in grado di garantire a tutti la stessa sicurezza, dovrebbero comportarsi così come Weber insegna a noi sociologi: considerare l’agire dotato di senso, cioè tutte quelle azioni determinate da interessi e valori a cui gli individui attribuiscono uno specifico significato soggettivo.
Concludo questo capitolo, e la mia tesina, con le parole di
Lorenz: “ La diversità culturale non
rappresenta una questione di ordine culturale in quanto tale, ma diviene una
critica per il fatto che evidenzia l’esistenza di una crisi della solidarietà
in seno alle società contemporanee”.
Dott.ssa Lamberti
Alessia Maria
BIBLIOGRAFIA
Maurizio Ambrosini, Sociologia delle migrazioni, terza edizione, il Mulino, Bologna, 2020;
Alessandra Corrado, Migrazioni per lo sviluppo. Modelli di cooperazione e politiche di co-sviluppo;
Mariafrancesca D’Agostino, Alessandra Corrado, Francesco Caruso, a cura di, Migrazioni e confini. Politiche, diritti e nuove forme di partecipazione, Rubbentino Editore srl, 2016;
Su una facciata del Palazzo della Civiltà che si trova a Roma in zona Eur, è incisa una scritta riferita agli italiani: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori”. Sono parole tratte dal discorso che Benito Mussolini tenne il 2 Ottobre 1935, in risposta alle Nazioni Unite che condannarono l’Italia per aver aggredito l’Abissinia.
Dott.ssa Emilia Urso Anfuso ===>>
84 anni dopo è necessario modernizzare la descrizione con un più indicato “Popolo d’indignati, incazzati e collerici verso le élite”. È un dato di fatto e spiego le ragioni.
Il seme della trasformazione è riconducibile all’inchiesta
Mani pulite, quando gli italiani furono informati delle ruberie e
dell’illegalità maturate in seno al mondo della politica. Diversi di essi si
rivelarono errori giudiziari, ma la macchina dell’indignazione era ormai
lanciata. Le monetine gettate addosso a Bettino Craxi davanti all’Hotel Raphaël
di Roma certificò una convinzione collettiva: i politici sono tutti ladri. Appresa
la cattiva novella, l’opinione pubblica maturò un profondo rancore contro il
sistema e a prescindere.
Movimenti popolari comparirono sulla scienza nazionale, come
il “Popolo dei fax”, che nel 1993 quasi bloccò le comunicazioni del belpaese a
causa dell’invio smodato di fax all’indirizzo di giornali e procure italiane, con
lo scopo di manifestare apprezzamento al pool di Mani pulite.
Così come nacque morì, ma il sentimento negativo rimase appiccicato
al DNA di molti connazionali, in prevalenza di sinistra, che ritengono di essere
la parte buona del paese per volontà divina. La collera si mantenne sonnacchiosa
per qualche anno, anche se in realtà covava come la brace sotto la cenere in
attesa di un refolo di rabbia, che giunse puntuale nel 2002 con l’avvento dei
Girotondi, un gruppo di cittadini che per contrastare il governo Berlusconi arrivarono
a comporre una catena umana di circa 4.000 persone, per abbracciare il palazzo
di giustizia di Milano in segno di sostegno dei magistrati.
A essi si unirono personaggi pubblici come Nanni Moretti ed
esponenti di sinistra che non persero l’occasione di farsi notare in mezzo alla
gente. Tutto questo durò il tempo di uno sbadiglio, e nel Gennaio del 2003, a
un anno dalla creazione, l’estinzione avvenne per cause naturali. D’Alema aveva
visto giusto quando dichiarò “I Girotondi sono come il vento”.
Cinque anni dopo, puntuale come la scadenza di una cambiale,
Beppe Grillo – forte delle migliaia di seguaci collezionati grazie al suo blog
personale e alla conoscenza di Gianroberto Casaleggio – arringa la folla dal
palco del primo Vaffa Day. I motivi delle proteste non cambiano, all’origine
dei guai degli italiani c’è una sola malattia e si chiama illegalità. Contemporaneamente
il Popolo viola si genera attraverso un tam-tam su Facebook allo scopo di
cacciare Berlusconi, una vera fissazione. Scomparsi nel nulla in breve tempo.
In pochi anni i grillini sono riusciti a salire al governo, pur
non avendo aperto il parlamento come una scatoletta di tonno, e assimilando
molto delle devianze che propagandavano di voler sconfiggere.
Storia finita? Quando mai…il 2011 è il momento dei Forconi,
un gruppo di agricoltori e allevatori meridionali che risalgono lo stivale per
dar battaglia al governo Monti e alle misure economiche e fiscali lacrime e
sangue. E’ stato un fuoco di paglia, a tratti a tinte fosche, finito nel
dimenticatoio.
Ora è tempo di sardine, e se Di Maio e i suoi vi erano
apparsi impreparati, la dimostrazione che al peggio non c’è fine è protagonista
nelle piazze d’Italia. Rivelatisi alla pubblica opinione il 4 Dicembre 2019
grazie a una manifestazione organizzata a Bologna, quest’ennesima sollevazione
di popolo nasce ancora una volta per abbattere un leader di partito, ma stavolta
tocca a Matteo Salvini parare i colpi di un odio nato per nulla e che porta a niente.
Verificheremo la durata di questo ennesimo sollevamento popolare.
In ognuna di queste organizzazioni nate dal basso, albergano
alcuni elementi fissi. Il primo è il nemico, rappresentato da esponente
politico. Il secondo è la mancanza di contenuti, se non quelli generici che
parlano di democrazia e libertà. Il terzo è forse il più importante: queste
organizzazioni non fanno del bene alla popolazione perché non generano proposte
concrete. La gente si convince d’aver fatto la rivoluzione e non si accorge di
aver perso un’occasione per chiedere il dovuto alla classe dirigente. Un po’
come accade con certi sindacati, che da anni portano i lavoratori in piazza non
per risolvere i problemi quanto per farli sfogare e tutti a casa. Un metodo gattopardesco:
sembra che tutto cambi ma resta esattamente com’è.
La pandemia fa male. Uccide, chiude, blocca, isola, impoverisce. E, naturalmente, fa parlare. Tanto. Praticamente all’infinito. Ma accanto alle paginate dei giornali e agli interminabili sproloqui dei talk-show, stimola anche qualche parola diversa, qualche riflessione su quello che sta avvenendo e come sta avvenendo, sul modo in cui si sta gestendo questa fase drammatica e sulle sue prospettive.
<<== Prof. Patrizio Paolinelli
Sono diversi gli studiosi che in questo periodo si stanno esprimendo con le loro analisi e, per fortuna, non mancano coloro che non si fermano al coronavirus, ma scavano nel profondo di una società che era già alle corde. Eccone alcuni.
Iniziamo con due arrabbiati: il filosofo Giorgio
Agamben e il sociologo Andrea Miconi. Il primo ha dato alle stampe “A che
punto siamo? L’epidemia come politica”, (Quodlibet, Macerata, 2020, 106
pagg., 10,00 euro). Il secondo, “Epidemie e controllo sociale”, (manifestolibri,
Roma, 2020, 127 pagg., 10,00 euro). Entrambi gli autori polemizzano violentemente
con le decisioni del governo in merito alle restrizioni alla libertà di
movimento dei cittadini per frenare la diffusione del contagio. Ovviamente non
negano la pericolosità del Covid-19, ma contestano come le misure di contenimento
del virus sono state imposte e sospettano che nascondano ben altre intenzioni. Quali
sarebbero? Per svelarle ricorrono alla categoria foucaultiana di biopolitica,
ossia il governo degli esseri umani attraverso la regolazione della vita
biologica (sessualità, riproduzione, morte e così via). Nel caso dell’epidemia in
corso la biopolitica si esprime tramite pratiche di controllo della salute pubblica
quali: l’obbligo al distanziamento interpersonale e all’uso dei dispositivi
sanitari di protezione individuale, la quarantena, la limitazione degli orari
degli esercizi pubblici, la chiusura di una lunga serie di attività culturali,
ludiche, sportive, della scuola e dell’università, restrizioni nella libertà di
spostamento sul territorio.
Agamben connette la nozione di biopolitica con quella di stato di eccezione, celeberrima categoria della dottrina politica di Carl Schmitt e con la quale si intende la sospensione dell’ordine giuridico a cui segue l’esercizio di un potere sganciato dal diritto. Nei mesi della pandemia sono state infatti messe tra parentesi le garanzie costituzionali trasformando ogni individuo in un potenziale untore. Situazione che per il filosofo romano ricorda molto da vicino gli anni del terrorismo e i provvedimenti d’emergenza che allora vennero presi. Con una differenza sostanziale rispetto a ieri: mentre la fine dell’estremismo extraparlamentare riportò l’ordine giuridico più o meno allo statu quo ante, oggi è cresciuta enormemente la tendenza a fare dello stato d’eccezione il paradigma di governo in nome della sicurezza pubblica. In altre parole, l’eccezione diventa regola. Per Agamben la nuova normalità è costituita da crisi perenni e da perenni misure di emergenza, dalla progressiva separazione degli individui gli uni dagli altri e dalla continua erosione delle libertà costituzionali.
Andrea Miconi è assai vicino
alle posizioni di Agamben. Utilizza la nozione di stato d’eccezione e alla
critica nei confronti delle azioni di contrasto al contagio aggiunge quella
rivolta alla rappresentazione mediatica dell’epidemia. Nel suo pamphlet arriva
a parlare del 2020 come dell’anno che ha inaugurato lo stato di polizia. Per dimostrarlo
riporta un lungo elenco di fatti di cronaca che la stampa ha rubricato nell’ordine
del pittoresco, del bizzarro e della curiosità. Mentre per Miconi indicano un
eccesso di controlli, un preoccupante potere discrezionale delle forze di
sicurezza, la violazione dei diritti della persona e lo sconvolgimento del clima
sociale. Ecco alcuni di questi fatti: una donna è stata multata mentre pregava
in chiesa da sola, stessa sorte è toccata a una psicologa che si recava a
visitare un paziente, a una coppia che accompagnava la figlia a una visita
oncologica dopo un trapianto di midollo spinale e a un uomo che accompagnava la
moglie disabile a fare la spesa. Al lungo elenco di Miconi si possono
aggiungere i video circolati sui social network dopo la pubblicazione del suo
pamphlet e in cui si assiste a pesanti interventi delle forze dell’ordine nei confronti
di cittadini colti per strada senza mascherina sanitaria. A questo proposito ci
sarebbe da osservare che durante la pandemia le morti sul lavoro sono
proseguite come prima, ma da parte dello Stato non si sono viste all’opera la
stessa determinazione e la stessa energia per combattere il fenomeno.
Ma torniamo a Miconi. Il
succo della sua critica è il seguente: con la pandemia è stata messa in atto una
strategia di colpevolizzazione del cittadino e di deresponsabilizzazione della
classe dirigente (potere politico, potere mediatico, potere economico). Ha
preso così forma una sorta di populismo alla rovescia tramite il quale l’opinione
pubblica si è assunta la colpa di quanto accadeva anziché prendersela con le
élite. Per esempio, non si è troppo indignata dinanzi alla scarsa attenzione
degli imprenditori per la salute di lavoratori e che nel bergamasco ha portato
a consumare una vera e propria strage. Tuttavia ha accettato di essere sigillata
in casa, di sentirsi dire dai media che tutto sommato la reclusione domiciliare
è una cosa bella e di sottoporsi all’umiliante rituale dell’autocertificazione.
Ancora: ha abbracciato lo slogan “C’è troppa gente in giro” anziché pretendere dei
servizi di trasporto pubblici adeguati all’emergenza sanitaria. In definitiva,
per Miconi lo scopo sommerso delle misure anti-contagio è duplice: da un lato, la
normalizzazione di una pervasiva forma di controllo sociale; dall’altro, la
possibilità per classe dirigente di togliere ai cittadini libertà fondamentali
senza subire alcun scossone.
Anche Donatella Di Cesare si è occupata della pandemia
dando alle stampe un tascabile intitolato “Virus sovrano? L’asfissia
capitalistica”, (Bollati Boringhieri, Torino, 2020, 89 pagg., 9,00 euro). A
differenza di quanto potrebbe lasciar supporre il sottotitolo del libro l’astro
nascente dell’italica filosofia prêt-à-porter non muove una critica al
capitalismo inteso come modo di produzione. Pertanto la sua riflessione risulta
fortemente depotenziata. Tuttavia è utile dato il terrificante clima culturale in
cui ci troviamo in termini di conformismo, adesione all’ideologia liberale e negazione
dello spirito critico (in questo senso, sempre in tema di pandemia, un caso
esemplare è il libro intitolato “Nella fine è l’inizio” di Chiara
Giaccardi e Mauro Magatti).
L’asfissia capitalistica di cui parla Di Cesare riprende il tema dell’accelerazione
dei ritmi di vita nelle nostre società radicalizzando l’analisi critica. Avendoci
costretti a un’esistenza rallentata, se non addirittura sospesa, la pandemia
mette in luce “l’aberrazione della frenesia di ieri” e “la maligna velocità del
capitalismo”. In quanto al virus, è sovrano sia per l’aureola che lo circonda
sia perché ha oltrepassato ogni confine facendosi beffe proprio dei sovranisti.
L’aspetto più interessante del libro della Di Cesare consiste nella correlazione
costante tra le contraddizioni della nostra società prima della pandemia e durante
la pandemia. Destano tuttavia qualche perplessità diverse affermazioni assai
generiche e la tendenza a mettere sullo stesso piano la narrazione mediatica degli
eventi con la realtà effettuale delle cose. C’è poi un altro aspetto che lascia
ancor più perplessi. E cioè, mentre le riflessioni di Agamben e Miconi invitano
il lettore a prendere coscienza della gravità della situazione e dunque alla
mobilitazione, quelle della Di Cesare non si sa bene dove vadano a parare. Le abbondanti
critiche che muove al rapporto tra società pre-pandemica e società pandemica non
indicano una direzione e sembrano esaurirsi nell’autocompiacimento di una brillante
scrittura.
L’ultimo tascabile della
nostra carrellata è quello di Mariana Mazzucato: “Non sprechiamo questa
crisi”, (Laterza, Bari-Roma, 2020, 160 pagg., 12,00 euro). Il libro è
composto da tredici interventi di cui otto scritti a quattro mani con altri studiosi
e ripropone il pensiero dell’economista italiana applicandolo al dramma scatenato
dalla pandemia. Semplificando al massimo la tesi centrale della Mazzucato si
articola su alcuni punti: 1) da sempre le grandi imprese private beneficiano di
enormi finanziamenti pubblici, diretti o indiretti che siano; 2) numerosi colossi dell’economia non sarebbero
neanche nati senza i massicci investimenti dello Stato, a iniziare dalla grandi
corporation della Silicon Valley; 3) in parecchie occasioni banche e multinazionali
sono state salvate dal fallimento con i soldi del contribuente; 4) i famosi imprenditori
restituiscono pochissimo alla società che pur gli ha permesso di nascere, prosperare
e sopravvivere.
Il timore della Mazzucato
è che con la pandemia si rimetta in moto il circolo vizioso di privatizzazione
dei profitti, socializzazione delle perdite, accaparramento delle risorse
pubbliche, scarsi ritorni per la collettività, recessione economica. Il suo
intento non è quello di superare il modo di produzione capitalistico ma di “fare
capitalismo in modo diverso” correggendo le storture provocate dai mercati
lasciati a sé stessi. E per questo occorre che le risorse pubbliche siano
indirizzate nell’interesse pubblico e non del profitto. Non certo per realizzare
il socialismo, ma per salvare il capitalismo dalla spirale autodistruttiva in
cui è finito col neoliberismo. Detto con una battuta, troppo successo porta al
decesso. E allora come intervenire? La ricetta della Mazzucato prende le mosse
dalla necessità di riconoscere che la ricerca di base in campo farmaceutico è
largamente a carico dello Stato (40 miliardi di dollari nel 2019) ed è sempre
lo Stato che è intervenuto economicamente sui sistemi sanitari per combattere
il Covid-19. Non solo: gli enormi stimoli
all’economia per scongiurare la catastrofe (negli Usa oltre 2mila miliardi di
dollari) derivano dalle tasse dei contribuenti, pertanto il sostegno pubblico
alle imprese non può più essere incondizionato come è accaduto fino a oggi. E
ancora: lo Stato deve tornare a essere un protagonista attivo dell’economia e
non più un soggetto passivo che elargisce soldi alle imprese nella speranza che
queste creino ricchezza per tutti. Speranza mal riposta: da decenni nelle società
occidentali la povertà aumenta, così pure le disuguaglianze e si passa da una
crisi economica all’altra precipitando in lunghe fasi di stagnazione.
Per la Mazzucato la
pandemia è un’occasione per voltare pagina e dar vita a un circolo virtuoso
dell’economia. Come? Attraverso l’implementazione di misure quali il dividendo
di cittadinanza, che consiste in una remunerazione dei cittadini per gli investimenti
statali nell’economia privata, premiando le aziende che creano davvero valore,
plasmando i mercati affinché la ricchezza creata collettivamente sia messa al
servizio di scopi collettivi, favorendo una green economy centrata sui lavoratori,
rivedendo il sistema fiscale e così via. Come si vede le proposte della Mazzucato sono
piene di buon senso e data la situazione sembrerebbe irragionevole non
accoglierle. Certo, non ci si può nascondere che il potere economico dovrebbe
rinunciare almeno in parte al potere assoluto che ha a lungo perseguito e
conquistato. I prossimi anni ci diranno se la ragione prevarrà sull’anarchia
del capitale.
Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano
Conquiste del Lavoro, gennaio 2021.
Un tempo per spiare una persona era necessario pedinarla, oppure ficcare di soppiatto le mani nei cassetti e nella rubrica telefonica cartacea per scoprire nomi sospetti o preziosi dati, come il di codice per aprire una cassaforte o per accedere alla cassetta di sicurezza.
<<== Prof. Michele Miccoli
Le agenzie investigative fino all’inizio del terzo millennio
hanno fatto soldi con la pala, pagati per tanare tradimenti sentimentali o segreti
industriali. Altri tempi. Oggi, con la diffusione delle tecnologie informatiche,
persino l’arte di ficcare il naso nella vita altrui si è trasformata.
Il congegno mobile è ormai utilizzato per fare un mucchio
cose, tra cui navigare sul web, accedere al conto corrente, spostare somme di
denaro, acquistare beni e servizi, vedere film, ascoltare musica, chattare.
Solo marginalmente è usato per lo scopo primario per cui fu creato: telefonare.
L’integrazione della tecnologia che permette la connessione al web li ha trasformati
in piccoli computer, con tutti i rischi del caso.
Quali? Gli stessi che si possono subire usando il PC: essere
controllati non più attraverso i metodi descritti in apertura, quanto con l’uso
di piccoli software che i cyberpirati sono in grado di inoculare nei sistemi
operativi. Fatto questo, è come se i delinquenti avessero in mano il nostro telefonino
per farsi gli affari nostri in santa pace.
Chiacchierate in chat con gli amici, o peggio con l’amante,
codici di accesso all’internet banking salvati nella rubrica e tutto ciò che
può svelare di noi e della nostra esistenza, in un battibaleno si apre alla
lettura da parte di esimi sconosciuti dalle intenzioni poco oneste. Al solo
pensarci si rizzano i capelli in testa! Che fare?
Tranquilli, ecco una piccola guida dei metodi utili per capire se qualche spione sta conoscendo tutto su di noi, conversazioni comprese.
Innanzitutto è bene sapere che è possibile che il cellulare possa
essere stato infettato senza la necessità di installare un’APP. Significa che
anche da remoto è possibile operare l’attacco informatico e senza rendersene
conto.
Comprendere se siamo sotto controllo, e se i nostri dati
sono in pericolo, può essere più semplice di quanto s’immagini. Iniziamo dalla
batteria: da qualche tempo si scarica con maggiore velocità? Potrebbe essere
uno dei segnali che siamo sotto intercettazione tramite un’applicazione-spia,
installata magari quando si è lasciato il telefono incustodito per qualche
minuto. Queste APP per funzionare hanno necessità di energia, ed è il motivo
per cui all’improvviso la carica dura meno del solito.
Altro punto che può mettere in allarme: se durante le
conversazioni s’iniziano ad avvertire rumori anomali di sottofondo, come
gracchiamenti o rumori di tipo elettronico, e se questa situazione diventa
costante, forse qualcuno sta ascoltando le nostre comunicazioni.
Il consumo di Giga compreso nel pacchetto dei dati è molto
maggiore della media? Occhio! Queste applicazioni hanno necessità di essere
connesse al web per operare, di conseguenza succhiano gigabyte.
Ultima cosa da verificare: se all’improvviso quando si
digitano i messaggi, per esempio su una chat, si compiono strani errori di
battitura mai accaduti in precedenza, si potrebbe trattare dell’azione di un
cosiddetto keylogger, un programma in
grado di captare tutto ciò che si digita sulla tastiera virtuale.
Se una o più di queste azioni capitano con frequenza, si può
seriamente dubitare di essere sotto attacco cibernetico. Che fare? L’unica
soluzione è di procedere con il reset, senza dimenticare di fare una copia dei
dati importanti, come la rubrica o le conversazioni in chat. Non si sa come
fare? E’ sufficiente rivolgersi a un centro di assistenza che, in pochi minuti
e in nostra presenza, potrà procedere al reset.
E se vi chiedessero di lasciarlo per qualche ora e voi non
vi fidate? Collegatevi al web e cercate “Procedura per il reset dello
Smartphone”. Troverete molti tutorial spiegati in maniera semplice e
comprensibile a tutti. Meglio non rischiare.
In tale articolo prenderemo in considerazione il ruolo e l’importanza della religione nella società contemporanea. <<==Prof.Giovanni Pellegrino
Dobbiamo premettere che la dimensione religiosa nonostante la secolarizzazione continua a rivestire un ruolo importante nella vita degli individui. Bisogna anche dire che se alcune religioni sono in crisi (vedasi la religione cristiana nel mondo occidentale) altre hanno resistito benissimo all’ impatto della secolarizzazione (vedasi la religione islamica e molte nuove religioni). Vernette mette in evidenza che oggi assistiamo al “ritorno del religioso” sottoforma di una nuova religiosità basata sul neopaganesimo multiforme e sulle nuove religioni. Vernette afferma altresì che la nuova religiosità rappresenta una sfida durissima per la chiesa cattolica.
A sua volta Del Re mette in evidenza che la diffusione dei nuovi movimenti religiosi avviene oggi nella Stimmung sempre più coinvolgente del new Age, che influenza l’atteggiamento e il comportamento dell’uomo occidentale contemporaneo. Il New Age è un movimento neopagano che propone la metamorfosi evolutiva dell’uomo e della società mediante il rovesciamento dei paradigmi religiosi, sociali, filosofici e scientifici. In un nostro libro abbiamo scritto che il New Age è la religione dell’uomo che vuole diventare Dio, mentre la religione cristiana è la religione del Dio che diventa uomo. Inoltre vogliamo affermare che molti sociologi sostengo che il mondo contemporaneo può essere definito post cristiano, in quanto è caratterizzato dalla crisi profonda della religione cristiana.
Prima di prendere in considerazione i segnali di tale crisi vogliamo precisare che la religione cristiana nella sua lunghissima storia ha attraversato diversi periodi critici. In primo luogo il Cristianesimo attraversò un momento difficilissimo durante le persecuzioni ordinate dagli imperatori romani sebbene in quel periodo storico l’eroismo di massa dei cristiani fece in modo che il Cristianesimo riuscisse a superare quei momenti difficilissimi diventando la religione ufficiale dell’impero romano. Un altro momento difficile che dovette affrontare il Cristianesimo fu il periodo storico compreso tra l’ 800 e il 900, periodo nel quale le principali famiglie romane cercavano di conquistare il papato con mezzi leciti ed illeciti, ragion per cui l’elezione dei vari papi non dipendeva certamente dall’ispirazione dello Spirito Santo.
In questo periodo tristissimo della storia del Cristianesimo alcuni papi vennero assassinati per favorire l’elezione di nuovi papi appartenenti ad altre famiglie della nobiltà romana. Un altro periodo estremamente difficile fu quello in cui si verificò lo scisma di Lutero. In tale periodo il nepotismo, la simonia, la vendita delle indulgenze, la corruzione e l’ignoranza del clero nonché la negazione da parte di Lutero di importanti dogmi della religione cristiana gettarono la chiesa in un baratro profondissimo. Oggi a nostro avviso la religione cattolica attraversa una crisi gravissima, forse la più grave della sua storia dal momento che i livelli di scristianizzazione raggiunti nella società moderna non hanno precedenti nella storia del Cristianesimo. Inoltre nel mondo contemporaneo si ha un fortissimo ritorno di credenze pagane in tutte le classi sociali.
Prenderemo ora in considerazione i principali segnali della crisi della religione cattolica. In primo luogo la crescente diffusione del New Age e delle nuove religioni. In secondo luogo il bassissimo livello di ortoprassia e di ortodossia rilevabili nei cristiani. In terzo luogo il gravissimo analfabetismo religioso presente in quasi tutti i cristiani. In quarto luogo il crescente successo della magia e dell’astrologia nella società contemporanea. In quinto luogo il fortissimo aumento dei divorzi che ha frantumato il concetto cristiano di famiglia. L’elenco dei segnali della crisi del Cristianesimo potrebbe continuare ancora ma è preferibile fermarsi qui. Dopo aver illustrato brevemente il ritorno del paganesimo nella società contemporanea cercheremo di definire che cos’è la religione e i motivi che giustificano la sua presenza in tutte le società e in tutti i periodi storici. La religione può essere definita dal punto di vista degli storici delle religioni e dei sociologi un tentativo di rispondere alle grandi domande metafisiche presenti nell’animo degli uomini fin dai primordi della storia dell’umanità. Bernardi afferma che ci sono grandi domande metafisiche alle quali tutte le religioni cercano di dare una risposta come ad esempio il significato della vita, del bene e del male, della sofferenza, della morte, nonché il desiderio di sapere se esiste una vita oltre la morte. Proprio perché le religioni cercano di dare una risposta a tali domande, esse hanno continuato ad essere una parte importante dell’esperienza umana, influenzando il modo di percepire la realtà sociale, nonché di reagire ad essa in tutti i periodi storici.
Dal punto di vista sociologico bisogna anche dire che le religioni sono state la causa di intense lotte e conflitti sia tra i membri dello stesso sistema sociale sia tra le nazioni (vedasi le crociate e le varie guerre di religione scoppiate tra cattolici e protestanti). Tuttavia in alcuni casi la religione è stata usata come pretesto per giustificare guerre che in realtà erano conflitti che dipendevano da cause politiche ed economiche (vedasi alcune crociate che solo apparentemente erano guerre di religione). Nella sociologia della religione e nell’antropologia culturale riveste grande importanza la differenza tra religione e magia.Nella religione l’uomo adotta nei confronti della dimensione soprannaturale un attegiamento di umiltà e sottomissione ammettendo la propria indegnità. Al contrario nella magia l’uomo si propone di dominare ed asservire le forze soprannaturali piegandole al proprio volere mediante i riti magici. In definitiva sia la religione sia la magia mettono l’uomo in contatto con la dimensione soprannaturale. Tuttavia mentre l’uomo religioso chiede con umiltà senza pretendere niente dalla divinità, l’uomo magico è caratterizzato da una forte volontà di potenza. Gli storici delle religioni e i sociologi della religione affermano che la religione è una forma di “ierofania” (manifestazione del sacro) mentre la magia è una forma di “cratofania”( manifestazione di potenza).
Vedremo ora le teorie intorno alla religione elaborate da Marx, Durkheim e Weber, cominciando dalla teoria di Marx.
Marx ha elaborato una concezione molto negativa della religione da lui considerata “l’oppio dei popoli” in quanto a suo dire rimanda la felicità e le ricompense alla vita ultraterrena. Inoltre per Marx la religione insegna una rassegnata accettazione delle condizioni presenti nell’esistenza terrena cosicchè scoraggia ogni tentativo dei popoli di ribellarsi allo sfruttamento messo in atto dai potenti. In estrema sintesi possiamo dire che per Marx la religione è un qualcosa di funzionale agli interessi della classe sociale che detiene il potere dal momento che tale classe ha tutto l’interesse a mantenere inalterato lo status quo esistente nella società. Al contrario per Marx la religione è in contrasto con gli interessi del popolo che deve avere lo scopo di modificare lo status quo esistente nella società, al fine di far cessare lo sfruttamento da parte dei detentori del potere.
Durkheim a sua volta definisce la religione in base alla distizione tra la dimensione sacra e la dimensione profana. Per Durkheim gli oggetti e i simboli sacri sono tenuti separati dagli aspetti ordinari della vita che costituiscono il regno del profano. Secondo il sociologo francese le cerimonie e i riti religiosi sono essenziali al fine di stabilire un legame tra i membri della società. Per dirla in altro modo per Durkheim la religione è il collante che mantiene uniti i membri della società. Weber d’altro canto mette in evidenza i rapporti che esistono tra religione e mutamento sociale. A dire del sociologo tedesco alcune religioni inibiscono il mutamento mentre altre lo favoriscono.
L’induismo è per Weber una religione che impedisce il mutamento sociale in quanto vede la realtà come un velo per nascondere i veri problemi che dodvrebbero preoccupare gli uomini. Per Weber l’Induismo e le altre religioni orientali favoriscono un atteggiamento di passività rispetto al mondo materiale, inibendo il mutamento sociale. Weber mette in evidenza che l’induisno ha determinato una forte cristallizzazione della società a causa della divisione in caste esistente nella società . Per l’induismo che nasce in una determinata casta sociale non può per nessuna ragione cambiare casta nel corso della sua vita, ragion per cui tutti gli individui devono accettare i vantaggi e gli svantaggi derivanti dall’appartenenza a una determinata casta sociale in maniera totalmente passiva.
Weber sostiene che il Cristianesimo, dal momento che si basa su un contino conflitto contro il peccato può stimolare la lotta contro l’ordine sociale determinando fenomeni di mutamento sociale.Di conseguenza gli ideali del Cristianesimo possono avere un impatto destabilizzante sull’ordine sociale. Weber cita come esempio il caso del Calvinismo che pensava che il successo nella vita materiale fosse segno del favore divino cosicchè l’etica calvinista ha promosso intensi fenomeni di mutamento sociale.I sociologi della religione hanno dedicato negli ultimi decenni molta attenzione al problema della secolarizzazione. Per secolarizzazione intendiamo la perdita di importanza della dimensione religiosa delle società occidentali contemporanee.
La secolarizzazione determina quello che Weber definisce il “disincanto del mondo” ovvero il crollo della visione metafisica del mondo. La secolarizzazione presenta aspetti e dimensioni molteplici. Uno di tali aspetti è rappresentato dalla diminuzione del numero degli individui che partecipano alle cerimonie e ai riti di una religiosi. Considerando questo indicatore della secolarizzazione la religione cattolica è in crisi in quanto in questi ultimi decenni si è verificata una forte diminuzione del numero dei cattolici che vanno in chiesa la domenica. Un altro indicatore della secolarizzazione è dato dalla misura in cui una determinata religione conserva influenza sociale e prestigio. Anche tenendo conto di questo indicatore appare evidente che la religione cattolica ha subito l’effetto della secolarizzazione in quanto la chiesa cattolica ha progressivamente perduto gran parte dell’influenza politica e sociale che esercitava in passato.
Il terzo indicatore della secolarizzazione è dato dai livelli di ortoprassia e ortodossia degli adepti di una determinata religione. Chiariamo che per livelli di ortoprassia si intende il numero di adepti di una data religione che mette in pratica i precetti religiosi. Invece per livello di ortodossia si intende il numero di adepti che ha credenze compatibili con i dogmi della religione in questione. Appare chiaro che quando i livelli di ortoprassia e di ortodossia diminuiscono una religione è soggetta a fenomeni di secolarizzazione. Anche tenendo conto di questo indicatore è evidente che la religione cattolica è interessata da forti fenomeni di secolarizzazione. Per concludere il nostro discorso sulla religione vogliamo mettere in evidenza che nelle nazioni occidentali dominano incontrastati il sincretismo e l’indifferentismo religioso. Col termine sincretismo religioso si intende la tendenza degli individui a costruirsi un sistema religioso personale prendendo a prestito elementi dottrinali derivanti da religioni diverse. Molti cattolici nella società contemporanea praticano il sincretismo religioso. Per indifferentismo religioso si intende, invece, la tendenza a considerare tutte le religioni vie ugualmente valide per raggiungere Dio, minimizzando le notevoli differenze dottrinali che esistono tra le principali religioni mondiali. Detto ciò riteniamo concluso il nostro discorso sulla religione nel mondo contemporaneo.
Questi giorni difficili e turbati che stiamo trascorrendo, fra crisi di governo e un’ emergenza sanitaria senza precedenti, questa pandemia ha acuito le discrepanze già esistenti fra uomini e donne, rendendo ancora più marcata questa diversità e la posizione che entrambi ricoprono all’interno della sfera sociale (il termine posizione rimanda ad un concetto delle prerogative sociali che la donna ha conquistato durante il decorso del tempo come l’emancipazione).
<<== Dott.ssa Francesca Santostefano
Ebbene, la scienza in tale contesto ha avuto un ruolo basilare, oggi giorno dai media apprendiamo scoperte scientifiche elargite dai migliori esponenti operanti in ambito scientifico quali biologi, virologi, esperti di genere prettamente maschile. La domanda dunque sorge spontanea, ma donne che hanno supportato la scienza e la medicina durante la pandemia ce ne sono state? Se il responso è positivo, per quale motivo non viene conferita loro notorietà per una qualche scoperta scientifica? Già prima della pandemia mondiale molteplici differenze di genere erano ordinariamente diffuse, a cominciare dalla posizione detenuta dalle donne nel contento lavorativo le quali subiscono continue vessazioni e disuguagliane a livello di stipendi, trattamenti non equi ed altro, atteggiamenti che mirano ad un fattore di stigma diffuso dal pensiero comune.
L’analisi di questo mio elaborato, seppur breve, propone di valutare quello che è emerso da un punto di vista di dati quantitativi da questa pandemia in relazione alla diversità di genere e soprattutto volge uno sguardo al passato affrontando un excursus storico delle donne scienziate maggiormente famose che hanno fatto la storia grazie alle loro scoperte scientifiche, a fronte di quello che è la mia valutazione, riportiamo il seguente estratto dei dati statistici rilevati dal “McKinsey Global Institute” il quale ha pubblicato un report secondo cui, a causa di Covid-19, più donne hanno perso il loro lavoro rispetto agli uomini. Questi dati indicano come il 2020 abbia allargato il divario di genere uno studio pubblicato su “eLife Sciences” conferma che negli articoli scientifici pubblicati su Covid-19 ci sono meno donne come primi autori di quanto ci si aspettasse, mentre un articolo pubblicato recentemente su “Nature Astronomy” denuncia che, nel periodo tra gennaio e giugno del 2020, rispetto agli anni precedenti, le pubblicazioni curate da scienziate siano diminuite dell’8% sul totale. Durante i tempi passati, vi sono state innumerevoli epidemie o talvolta nuove malattie in cui si ravvisa un contributo non indifferente di donne che hanno apportato il loro sapere scientifico alla scoperta di nuove cure, pertanto sento il dovere ed il rispetto di citare alcune fra le tante:
Marie Curie (1867-1934)
La famosissima Marie Curie fu una delle prime scienziati riconosciute come tali a livello mondiale. Insieme al marito Pierre infatti compì importantissimi studi sulle radiazioni e i materiali radioattivi.Tali ricerche le valsero non uno, ma ben due Premi Nobel: per la Fisica nel 1903 e per la Chimica nel 1911 in seguito alla scoperta del radio e del polonio.
Dorothy Crowfoot Hodgkin,
Biochimica inglese pioniera nella tecnica della cristallografia a raggi X. Nasce a Il Cairo nel 1910. Sua madre, Grace Mary Hood, era un’archeologa e il padre John Winter Crowfoot era un “funzionario dell’Impero”, anch’egli archeologo. Ella da bambina aiuta negli scavi archeologici e poi precocemente, a soli 10 anni si interessa di mineralogia e chimica. Si laurea nel 1932 in chimica ad Oxford e nel 1937 ottiene il dottorato di ricerca in chimica a Cambridge. Il suo progetto di ricerca riguardava la cristallografia a raggi X e la chimica degli steroli. Attraverso questa tecnica scopre la struttura tridimensionale del colesterolo, insulina e penicillina e della vitamina B12. Gli studi sulla penicillina furono fondamentali per la progettazione e sintesi di altri antibiotici, indispensabili per la cura delle malattie infettive. Grazie ai suoi studi, soprattutto quelli volti all’identificazione della struttura della vitamina B12, nel 1964 vince il Nobel per la chimica.
Gertrude Belle Elion
Farmacologa e biochimica statunitense. Nata a New York nel 1918 ha vinto il Nobel per la medicina nel 1988 insieme a James Whyte Black e George H. Hitchings per lo sviluppo di numerose terapie farmacologiche. In particolare è grazie ai suoi studi che è stato prodotto il primo farmaco contro l’AIDS, AZT, e l’aciclovir, primo farmaco antivirale contro l’infezione da herpes.
Françoise Barré-Sinoussi
L’immunologa francese che ha identificato ed isolato il virus dell’immunodeficienza umana (HIV) che è la causa dell’AIDS. E per tale scoperta ha ricevuto il premio Nobel per la medicina nel 2008 con Luc Montagnier. Fu una cardiologa pediatrica di fama internazionale che, tra le altre cose, offrì un apporto decisivo all’identificazione del “morbo blu”, una malformazione del cuore che provocava molte morti tra i neonati.
Barbara
Mcclintock(1902-1992)
La
biologa statunitense Barbara McClintock fu
una delle menti che cambiarono lo studio della genetica.Studiando
le pannocchie di granturco infatti giunse a scoprire l’esistenza dei
transposoni, piccoli segmenti di DNAcapaci
di spostarsi da un cromosoma all’altro. Tale traguardo le valse il Premio Nobel per la medicina nel 1983. Le
ricerche della McClintock
anticiparono di decenni il riconoscimento dell’epigenetica,una
recente branca della biologia molecolare.
Rita Levi Montalcini (1909-2012)
Rita
Levi Montalcini fu neurologa, filantropa e senatrice a vita della
Repubblica italiana. Nel 1986 questa
importantissima scienziata ricevette il Premio Nobel per la medicina per le ricerche che
portarono all’identificato del fattore di accrescimento della
fibra nervosa Ngf, una piccola proteina coinvolta nello
sviluppo del sistema nervoso. Questa scoperta contribuisce ancora oggi allo
studio di malattie come tumori, Sla e morbo di Alzheimer.
Gli stereotipi di genere continuano ad avere un forte impatto
sul lavoro. La società e la famiglia nel corso degli anni sono cambiate,
si sono trasformate in strutture più complesse e diversificate. Questi
mutamenti all’interno della società e delle tipologie familiari non sono stati
tuttavia sempre recepiti dal mercato del lavoro. Per queste ragioni esiste per
le donne una difficoltà strutturale che impedisce loro di realizzarsi
pienamente e di godere di pari opportunità in ambito occupazionale. Ancora la
persistenza di stereotipi di genere continuano ad ostacolare la partecipazione
delle donne al mercato del lavoro e a creare effetti perversi come la
segregazione delle donne in settori scarsamente retribuiti o in posizioni più
basse rispetto agli uomini. Al termine di questi crisi posso solo augurarmi il rafforzamento
delle politiche sociali e di pari opportunità di genere nei confronti delle
donne e che determinati stereotipi siano lasciati a quei secoli bui ove
l’ignoranza regnava, una società coesa e collaudata ha bisogno sia di donne che
di uomini, nella politica, nel mercato del lavoro, ai vertici di aziende
portanti, nell’ambito della ricerca scientifica e della medicina, contrastare
il cosiddetto matrimonio precoce nelle aree più povere e degradate del pianeta,
eliminare tali barriere in modo tale da camminare verso una nuova era del
positivismo scientifico.
SITOGRAFIA
Galileo.net.,“Scienza
covid disparità genere”.
Scambi.Prospettive sociali e sanitarie.it.,“Diseguaglianze di genere
per la parità di uomini e donne”.
Wineeurope.eu., “Le
scienziate al tempo della pandemia da coronavirus covid 19”.
Dott.ssa
Santostefano Francesca – Sociologa – Socia ASI