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Il crepuscolo della gioventù

di Patrizio Paolinelli

aggregazione giovanile

Per molti giovani dare del vecchio a qualcuno significa insultarlo, irriderlo, snobbarlo. Una tale attribuzione di senso ribalta il ruolo sociale della vecchiaia così com’era inteso nelle società tradizionali e per gran parte della modernità. Se oggi gli anziani hanno perso il prestigio d’un tempo si potrebbe supporre che siamo dinanzi a un giudizio largamente condiviso nella nostra società. Il che è vero solo in parte perché a un’indagine a malapena approfondita, ci si accorge che più che dinanzi a un ethos storicamente costruito, sedimentato generazione dopo generazione, siamo dinanzi a un’efficace tecnologia del potere economico. Che nella sua versione capitalistica si caratterizza per distruggere ciò che crea, età della vita comprese. Ma procediamo con ordine.

Innanzitutto sarebbe fuorviante pensare che i giovani costituiscano un fronte compatto. Per un adolescente un venticinquenne è già vecchio e per un venticinquenne un quarantenne è un matusa. Eppure ognuno di loro si considera giovane. Dunque le fila dei giovani sono divise, come peraltro gli spazi pubblici che frequentano: i locali dei diciottenni, ad esempio le discoteche, sono di fatto preclusi ai trentenni. Ciononostante c’è qualcosa che tiene uniti i giovani in quanto idea. Questo qualcosa è la cultura. Ma la cultura è un’astrazione se non la si collega alle sue pratiche. Perciò la prima domanda da porsi è: quale tipo di cultura tiene insieme il frammentato fronte dei giovani che però è unanime nel prendere le distanze dai vecchi? E la risposta è una sola: la cultura di massa. I cui prodotti determinano comportamenti apparentemente eterogenei. Ad esempio, tra un surfista e un punk, tra un dark e un rapper ci sono notevoli differenze. Ciò che li unifica è il fatto di essere subculture inglobate nella cultura di massa; la quale, a sua volta, è prima di tutto un’attività economica gestita in termini capitalistici.

Qui incontriamo un altro nodo critico, perché a determinare la cultura di massa non sono i giovani, ma l’industria culturale (cinema, radio, Tv, fotografia, stampa, editoria, moda, sport, pubblicità, videogiochi, musica pop, nuovi media ecc.). Su questo aspetto occorre essere chiari: dal secolo scorso ad oggi sono gli adulti a decidere ciò che per i ragazzi è bene e ciò che è male, ciò che devono vedere, ascoltare, leggere, desiderare e persino pensare. D’altra parte, proprietari e manager delle industrie culturali sono in genere individui in là negli anni. I quali utilizzano a man bassa i giovani – come protagonisti e come promotori – per allargare il mercato dei loro coetanei. Per capirci, è difficile che lo stilista abbia la stessa età della modella e lo stesso meccanismo vale per i guru della pubblicità, per i proprietari di discoteche e palestre. Tanto è così che i teenager (13-19 anni) nascono negli anni Cinquanta del secolo scorso quando gli imprenditori si accorgono della loro capacità di spesa. Prima di allora i teenager non esistevano, semplicemente perché avevano pochissimi soldi in tasca. Non basta. Dagli anni Cinquanta a oggi i consumi culturali dei giovani sono prevalentemente pagati dagli adulti, sotto forma di genitori, nonni e parenti vari che dispensano ai propri ragazzi paghette sempre più crescenti e si accollano le spese per i loro bisogni, consumi, desideri peraltro sempre più differenziati e sempre più costosi: abbigliamento, scuola, attività sportive, divertimenti, prodotti tecnologici, mezzi di trasporto, corsi di ogni tipo, vacanze e così via. Detto in parole povere, gli imprenditori usano i giovani per far aprire il portafogli agli anziani.

La dinamica descritta suggerisce che più che la dialettica sociale è la ricerca del profitto a creare il mito dei giovani. Perché di mito si tratta. Dal punto di vista dell’età anagrafica i giovani esistevano anche al tempo degli antichi romani ma non erano considerati una categoria sociale a parte. In breve, le differenti età della vita e la sensibilità collettiva che ne deriva sono prodotti storico-culturali e non naturali, anche se tali possono apparire. In proposito è arcinota la tesi di Philippe Ariès, secondo il quale l’idea e il sentimento dell’infanzia appaiono solo tra il XVII e il XVIII secolo e costituiscono pertanto invenzioni della modernità̀ (per secoli in Europa l’abbandono dei neonati era una pratica diffusa che non comportava una condanna sociale e non suscitava sensi di colpa da parte di chi la metteva in atto). Col che siamo arrivati a una domanda cruciale: i giovani di oggi possono essere ancora considerati giovani? Ovviamente sì sul piano anagrafico, ma diversi segnali indicano il declino di un’età della vita largamente costruita dal mercato.

I killer dell’idea di gioventù sono parecchi. Il principale è forse il giovanilismo. Termine con cui si ritiene che la giovinezza sia un modo d’essere svincolato dal corso del tempo. Così come i teenager sono un’invenzione del mercato anche il giovanilismo è il risultato della caccia al profitto. Le aziende dello spettacolo, delle emozioni, della cura del corpo e più in generale del tempo libero si sono accorte che potevano estendere ai non giovani il mercato dei propri prodotti/servizi inizialmente destinati ai giovani. E così oggi gli interventi di chirurgia estetica sono praticati dalle adolescenti e dalle cinquantenni, i nonni indossano i jeans, le mamme fanno a gara con le figlie per apparire seducenti, i padri con i figli per apparire in buona forma fisica ed entrambi i genitori si regalano un bel tatuaggio perché nessuno possa dire che non sono alla moda.

Col giovanilismo sia il narcisismo primario (quello dei bambini) sia la maniacale erotizzazione della vita quotidiana diventano fenomeni di massa e trasversali alle età della vita: se gli adulti fanno di tutto per restare giovani e attraenti, a differenziare i giovani resta sempre più l’anagrafe. D’altra parte i costumi invecchiano e con essi anche i giovani che li adottano. Short, topless e minigonne entrano in scena nei lontani anni ’60 del secolo scorso. Allora ruppero con la società patriarcale in nome della liberazione del corpo mentre oggi fanno parte della normalità. Una normalità che contribuisce a rendere precocemente anziani i giovani perché: 1) si trovano senza un soggetto da contestare in quanto gli adulti si propongono e si atteggiano in maniera non molto dissimile dalla loro; 2) perché la perdita della spinta contestatrice li rende conformisti e dunque integrati nella società (la quale non subisce alcun scossone per le intemperanze di qualche rockstar, gli eccessi della movida, le vacanze trasgressive).

A contribuire al crepuscolo della gioventù è la crisi della stessa industria culturale che della gioventù ha fatto un mito e un gigantesco mercato. Da tempo la musica pop è incapace di esprimere vere novità. Ormai è tutto un revival, ristampe, remake e ruminazioni a cui fanno da contraltare divetti e divette di plastica costruiti a tavolino dagli adulti nei piani alti dell’industria discografica. La mediocrità la fa da padrona anche al cinema dove è tutto un sequel, prequel e rimasticature varie. Per quanto riguarda i libri, i giovani sono stati istruiti a stargli alla larga perché in passato hanno formato rivoluzionari in grado di far tremare il capitalismo, cosa che non accade, né con tutta probabilità accadrà, con i social network, i tablet e i telefoni cellulari.

E tuttavia i giovani restano biologicamente giovani, ossia tendenzialmente pieni di energia e di entusiasmo. Energia ed entusiasmo che vanno canalizzati in qualche sogno. La cosiddetta rivoluzione tecnologica è servita allo scopo. La Silicon Valley, con i suoi giovani imprenditori diventati miliardari dalla sera alla mattina, è un mito portante dei Millennial. Peccato che non rivoluzioni nulla, peggiori le disuguaglianze sociali e per di più sia un bluff. La Silicon Valley chiuderebbe i battenti in pochi mesi se non fosse sostenuta da massicci investimenti statali decisi da attempati politici. Tanto per dirne una, la Apple è, di fatto, un’azienda parastatale mentre la quasi totalità della tecnologia dell’i-Phone è stata realizzata in larga misura con denari pubblici. E Steve Jobs? Un gran venditore e nulla più. Ma tutto questo i Millennial non lo sanno e la stampa va avanti con la propaganda del mito mentre il potere resta gerontocratico nell’Hi-tech come altrove.

A rendere i giovani adulti anzitempo ci sono poi le terribili condizioni materiali in cui si trovano da un paio di generazioni: disoccupazione di massa, precariato dilagante, degrado della scuola pubblica, progressiva demolizione del welfare-state, alto costo della vita, basse retribuzioni e così via. Dinanzi a una situazione del genere come mai i giovani non si sono comportati da giovani facendo la rivoluzione? Perché non sono più giovani. D’altra parte non hanno una coscienza politica, né tantomeno di classe, e sono molto meno istruiti dei giovani degli anni ‘60 e ’70 del secolo scorso. Al di là delle opinioni, mediamente uno studente universitario dei nostri giorni non è in grado di fare un’analisi sensata della condizione sociale e politica della città, della regione, del Paese in cui vive. Insomma, i giovani sono stati abbondantemente americanizzati. Le università ormai sfornano ragazzi incapaci di immaginare un mondo diverso da quello in cui vivono. Per esempio, parlare con un bocconiano è un’esperienza avvilente: ti trovi davanti a un anziano di vent’anni tanto è normalizzato e ossequioso nei confronti della vecchissima ideologia liberale (assai più vecchia del marxismo, se vogliamo metterla sul piano temporale). Naturalmente, il bocconiano pensa di essere giovane perché la sua aspirazione è far quattrini, perché padroneggia l’inglese, parla in aziendalese e dice “mandami un feedback” anziché “rispondimi”.

Ma come hanno fatto anziani politici al servizio di anziani imprenditori a far accettare il barbarico modello sociale statunitense ai giovani italiani e più in generale ai giovani europei? In mille modi ovviamente. Innanzitutto smontando anno dopo anno i diritti sociali conquistati dai padri (il posto fisso? Che noia! La sanità pubblica? Privatizziamola!) e poi, ad esempio, inventando la “generazione Erasmus”. Come è noto l’Erasmus è un programma di mobilità per studenti universitari che possono compiere in un’università straniera un periodo di studio. Trattasi in larga misura di giovani privilegiati destinati a svolgere professioni altamente qualificate e ben retribuite. E casomai a qualcuno non andasse bene sul piano occupazionale durante gli scambi Erasmus è assai probabile che se la sia spassata in piccanti avventure sessuali. Questa minoranza di ricchi o futuri ricchi cosmopoliti sono utilizzati dai mezzi di comunicazione di massa per mostrare alla maggioranza dei giovani senza futuro quanto è bello emigrare, trovarsi senza lavoro per parecchie volte nella propria vita, smarrire la propria identità culturale e vivere in una condizione di perenne incertezza.

Le età della vita sono soggette ai processi storici. Non è solo la gioventù a entrare in una fase di declino. Anche l’infanzia si sta avviando al crepuscolo. Basti vedere i bambini trasformati in adulti in miniatura dalla pubblicità, il loro generalizzato addestramento al consumismo, l’indottrinamento alla religione del look, la loro precoce erotizzazione (col consenso dei genitori, a loro volta figli della Tv commerciale). I giovani d’altra parte sono sempre più squattrinati (tranne i privilegiati) ed ecco che a sostituirli arrivano i bambini per far aumentare i consumi delle famiglie (fino al 30% annotano soddisfatti gli esperti di marketing). Per assolvere a questo compito i piccoli vanno drogati di pubblicità, televisione, videogiochi, frivole mode e quant’altro.

Il capitalismo ha necessità di riorganizzare il ciclo della vita e lo sta facendo con la ferocia che lo contraddistingue. Dunque ha vinto e i giovani sono tutti irretiti? Sarebbe sbagliato e ingiusto pensarla così. Quella che abbiamo esaminato è una tendenza che i media presentano come dominante. Lo sarebbe meno se la stampa non fosse asservita al potere economico. Ma così non è. E tuttavia esistono giovani che sono rimasti tali. E sono quelli che si impegnano per il prossimo, per l’ambiente, la pace, la giustizia sociale e che operano nel volontariato, nelle Ong, nel mondo dell’associazionismo, della cooperazione e speriamo prima o poi anche in qualche partito politico, com’era un tempo, quando i giovani non erano anziani.

Prof. Patrizio Paolinelli,
Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro

Per una sociologia trasformativa e di posizione

di Fabio de Nardis e Anna Simone

Questi mesi di distopia pandemica sono stati un‘occasione di riflessione per molte studiose e studiosi che, nelle lunghe settimane di reclusione, hanno avuto modo di riprendere in mano i grandi classici del pensiero sociologico. Confrontandoci, ci siamo resi conto di come le scienze sociali siano state realmente efficaci solo quando sono rimaste agganciate ai processi storici, senza rincorrere fittizi steccati disciplinari o la chimera di un finto neutralismo scientifico.

Prof. Fabio de Nardis ===>>

I grandi sociologi del passato erano dotati di una forte soggettività storica, capaci di contaminare e farsi contaminare dalle condizioni materiali dell’esistenza sociale, generando anche una cassetta degli attrezzi utile a determinare i nuovi modelli politici, giuridici e sociali. Anche gli specialismi scientifici, originariamente pensati per ricostruire l’intero spazio dei mondi sociali, hanno poi finito per spezzettarlo dentro rigidi schemi accademici, polverizzando il tutto in tante piccole scatole nere sempre meno comunicanti tra loro. A partire da queste considerazioni, abbiamo sentito l’esigenza di rilanciare il ruolo pubblico, emancipatorio, politico, trasformativo della sociologia attraverso la costruzione di una rete di sociologhe e sociologi “di posizione”.

Condividiamo l’idea di una sociologia intesa come una scienza sociale al contempo “trasformativa” e “generativa”, in grado analizzare il presente per determinare un’agenda critica necessaria a immaginare un’alternativa di società. Da questo punto di vista, il compito della sociologia è fare emergere contraddizioni laddove tutti vedono normalità ed elementi di regolarità laddove tutti vedono contraddizioni. In questo senso essa è, per sua stessa natura, intimamente sovversiva, dunque posizionata. Se per tutto l’arco del Novecento la nozione di “classe” e di “sapere critico” costituivano coordinate imprescindibili per studiare e comprendere la composizione sociale nei suoi rapporti con il potere, la politica, il diritto e la cultura, oggi bisogna fare i conti con una “scomposizione” sociale e con una forma di “individualismo metodologico” che, anziché andare verso la rivalorizzazione di una genealogia storica e sociale dei nostri classici e del loro “stile” di pensiero, per ridare energia critico-propositiva ai saperi sociali, tende a diventare sempre più un’ancella al servizio dei decisori. Tale processo tende a favorire una sociologia fredda, neutra, rassicurante e di servizio e si innesta acriticamente in un processo più grande che, a sua volta, genera un divario ulteriore e preoccupante tra bisogni sociali reali e forme della decisione politico-istituzionale.

Per “sociologia di posizione”, noi intendiamo un triplice movimento: da un lato, vogliamo rilanciare quell’idea di sociologia pensata dai nostri classici, aggiornando la loro cassetta degli attrezzi per riposizionarci e riposizionare la sociologia in direzione di un pensiero trasformativo e generativo contro l’ordine linguistico dell’opinione e dei saperi al servizio del potere; dall’altro lato, vorremmo anche che la sociologia abbia una maggiore visibilità nel dibattito pubblico proprio grazie alla sua natura meramente critico-interpretativa, ma anche propositiva dei e sui contesti sociali, al fine di tornare a determinare i grandi mutamenti di scala, anziché esserne solo spettatrice passiva, se non addirittura già determinata da essi. Infine, riteniamo che il termine “posizione” sia in grado di tradurre sia i saperi sociologici che i saperi delle soggettività che compongono le società contemporanee fornendo finalmente una risposta all’interrogativo che si poneva Gayatri Spivack, femminista indiana immigrata negli Stati Uniti e studiosa di Gramsci, in un mondo fortemente determinato dal neoliberismo: «I subalterni possono parlare?». La risposta sarebbe affermativa se la sociologia tornasse a rivestire il suo ruolo di tramite, al contempo relazionale e conflittuale, tra l’interpretazione degli assetti economici, politici e giuridici e gli stessi mondi sociali situati e posizionati, sia sotto il profilo geografico, sia sotto quello delle soggettività.

Gli esseri umani hanno spesso difficoltà a trascendere i confini stretti delle proprie relazioni interindividuali. Vivono la propria vita nella convinzione che la causa dei propri disagi sia da rintracciare in se stessi o nel perimetro delle relazioni interpersonali, cedendo sempre più alla deriva individualista e concorrenziale determinata dall’antropologia neoliberista. Pur non negando l’importanza degli aspetti psico-sociali e micro-
sociologici, la nostra prospettiva inserisce le dinamiche della vita sociale dentro una dimensione macro, fatta di processi economici, politici e culturali in cui si configurano vecchi e nuovi rapporti di forza nonché le relazioni di potere che non possono mai essere scisse dalle fasi e dalle contingenze storiche. Diventa dunque centrale comprendere i mutamenti strutturali dentro cui gli esseri umani sono immersi. La capacità di leggere il riflesso dei processi storici sulla vita interiore degli individui e sul loro comportamento esteriore è tra l’altro uno dei presupposti di quella “immaginazione sociologica” ben delineata da Mills nel suo tentativo di definire i parametri di una nuova sociologia critica. Allo stesso modo, la sociologia di posizione si pone l’obiettivo di ricondurre il comportamento sociale e i disagi personali ai turbamenti oggettivi delle società contemporanee, trasformando dunque l’indifferenza pubblica in interesse attivo per i problemi collettivi al fine di restituire processi di soggettivazione possibili ad attori sociali utilizzati solo come mere individualità statistiche o merci di consumo. Il presupposto materialistico di questo approccio risiede nell’idea che ogni individuo possa realmente comprendere la propria esperienza solo collocandola nella propria epoca storica, concentrandosi sugli aspetti che lo accomunano agli altri anziché solo su quelli che lo distinguono da essi. Ogni biografia individuale è collocata in una particolare sequenza storica e solo connettendo individui e storia nell’ambito del complesso sistema di relazioni sociali possiamo gettare luce sul presente e sul futuro dell’umanità.

La domanda fondamentale a cui un sociologo o una sociologa di posizione deve rispondere è: che tipi di donne e uomini prevalgono in un determinato periodo storico, al netto della sua configurazione strutturale? E che tipo di relazioni mettono in campo? Che tipo di modelli sociali determinano? Quanto e come sono invece determinati da quegli stessi modelli sociali? L’abilità sta dunque nel passare da una dimensione micro a una dimensione macro, dunque politica, economica e culturale, per poi eventualmente tornare a quella micro su cui si collocano le singole soggettività umane, al fine di farle interloquire per interrompere quella lunga sequenza di scissioni tra il sé e gli altri, il sé e le società, le società e gli assetti politici, economici, giuridici e culturali. Questo presuppone un’analisi sistematica dei processi di mutamento e una certa capacità di muoversi agilmente su diversi livelli di astrazione per restituirgli forza materiale.

I fondamenti teorici del nostro tentativo di gettare le basi di una nuova sociologia trasformazionale sono da rintracciare nell’opera di Karl Marx depurata dalle incrostazioni ideologiche di quegli interpreti che, al fine di “completare” il suo pensiero, hanno in realtà finito per negarlo. Il nostro punto di partenza è dunque la prospettiva del materialismo storico secondo cui è possibile arrivare alla costruzione di una scienza unitaria della società sulla base di tre parametri fondamentali: 1) storicità delle categorie teoriche; 2) composizione materiale dei rapporti sociali; 3) possibilità di rintracciare le leggi causali della transizione storica da un tipo sociale a un altro e quindi anche da un modello culturale a un altro. Tuttavia, se Marx è un punto di partenza fondativo per comprendere il capitalismo e i rapporti di forza che strutturano le società moderne, riteniamo altrettanto importante utilizzare la cassetta degli attrezzi consegnataci anche da altri interpreti del Novecento come Foucault e i suoi studi sul potere; Bourdieu per le sue ricerche sempre “situate” e “posizionate” che hanno restituito parola e valore a tutti quei soggetti relegati ai margini delle società capitalistiche; Gramsci per comprendere i rapporti di forza egemonici e contro-egemonici; la Scuola di Francoforte per i loro studi sul capitalismo, il desiderio, il consumo e la “personalità autoritaria”; infine, ma non meno importante, il pensiero femminista e le sue numerose stratificazioni pratico-concettuali.

Concepiamo quindi la storia come un succedersi di discontinuità che portano alla successione di tipi sociali assorbiti nella materialità delle relazioni. La storia è dunque in sé promotrice di mutamento e le scienze storico-sociali hanno il compito di individuare le leggi che governano questo mutamento per criticarle o per trasformarle. Nessun “tipo sociale” può considerarsi eterno e immutabile. Al contrario, la sua provvisorietà diventa la premessa necessaria per ogni indagine sociale sul presente. Dentro questa logica, il presente è il punto di approdo della discontinuità storica che si è realizzata nel passato e il punto di partenza della discontinuità storica che si realizzerà nel futuro. Il cambiamento diventa dunque scientificamente necessario e si realizza attraverso la sostituzione di un tipo sociale (non ideale perché già materiale) con un altro. L’accento sulla dimensione della provvisorietà del presente e sulla necessità storica del mutamento coniuga dunque la dimensione della scienza con quella della politica e dei bisogni delle soggettività. La mediazione tra pensiero e realtà, tra logica e storia diventa così reale, concretizzandosi nella connessione logico-storica tra teoria e prassi.

Attraverso un approccio critico è dunque possibile connettere i processi culturali direttamente alla pratica dell’esistenza umana, fornendo di questa esistenza una spiegazione che parta dall’esistenza stessa. Come fece Marx per la sua epoca, oggi si tratta di ricostruire un’interpretazione della modernità a partire dal suo impianto materiale connesso alla capacità umana di produrre coscienza e organizzazione. Non si tratta di speculare sull’esistenza del mondo, né di spezzettarla in compartimenti stagni, ma di ricondurre la spiegazione del mutamento sociale alla connessione necessaria tra pensiero e azione. Non è un caso che la stessa critica marxiana investisse tutte le componenti intellettuali del diciannovesimo secolo disvelandone la causazione storica, in modo che la critica della teoria diventasse critica della pratica, la critica dell’economia politica diventasse critica del capitalismo e la critica della teoria politica diventasse critica della politica e del diritto borghesi. Lo stesso approccio posizionato è rintracciabile negli studi delle autrici e degli autori menzionati i quali, senza le basi fondative del pensiero marxiano, non avrebbero potuto pensare e studiare gli effetti sulla società e sugli attori sociali del capitalismo, del potere, dei consumi e dei conflitti che hanno reso il Novecento un secolo tanto intenso.

Dal punto di vista della sociologia trasformativa e di posizione, la politica va studiata come un insieme di idee e comportamenti che si strutturano nei rapporti materiali, identificando le connessioni che storicamente si realizzano tra istituti politico-giuridici e rapporti socioeconomici. Questa concezione ci allontana dall’idea formalistica e normativa secondo cui la politica e la democrazia siano solo un modo di produrre decisioni sradicate dalla realtà strutturale dei rapporti sociali. Definire la democrazia come un semplice corpus di regole, vuol dire sganciarla dalla dimensione sociale degli interessi, vincolando la volontà popolare a un meccanismo formalistico che si realizza nella scissione istituzionalizzata tra governanti e governati. Così facendo, si decapita la politica di significatività sociale. I mezzi formali di espressione della delega e della sovranità si trasformano in fini, impedendo che essi possano essere sostituiti da mezzi nuovi e sclerotizzando l’organizzazione democratica nella sua variante minima espressa storicamente dal liberalismo. Il popolo viene ridotto a entità sociale il cui unico compito è quello di adeguarsi alla volontà politica delle élites. Si tratta di scegliere se il focus vada posto sulla sovranità popolare o sui mezzi per esprimerla. Appare evidente che l’ipotesi formalistica dei mezzi-fini, per quanto sia proposta come neutrale, nella realtà sia molto “storica” nel senso gramsciano, dal momento che è l’espressione teorica e istituzionale di una società costruita attorno alla centralità individuale che si articola nell’asimmetria dei rapporti sociali tipica di un modello di organizzazione capitalista, dentro cui il potere è esercitato in modo elitistico.

Società di massa e società di élites sono due facce della stessa medaglia. Se le masse partecipassero alla politica non sarebbe necessaria un’élite illuminata né una massa conformista. L’apatia politica non è semplicemente una reazione cognitiva delle masse verso gli istituti della politica, ma è al contrario una “concezione” elaborata dalle élites neoliberali che si fonda sulla scissione tra sfera della politica e sfera dell’esistenza sociale. Dentro la concezione neoliberale, le masse possono essere attivate sporadicamente solo al fine di legittimare il potere delle élites. Per far questo, esse devono essere passivizzate durante l’esercizio di quel potere attraverso la manipolazione della loro struttura morale e politica che si realizza oggi soprattutto attraverso l’industria culturale e i vecchi e nuovi mezzi di comunicazione, nonché attraverso le relazioni digitalizzate e un’idea sempre più “prestazionale” della vita, del lavoro e della comunicazione che genera, a sua volta, nuove forme di alienazione e scissione tra la dimensione percepita delle società e la dimensione reale nelle quali si dispiegano le vite materiali degli attori sociali.

A queste dinamiche occorre anche aggiungere la questione della “mortificazione” alla quale è condannata la grande stagione novecentesca dei conflitti politici e sociali. Quei diritti sanciti in nome della cittadinanza e del lavoro oggi sono diventati sempre meno esigibili, mentre aumenta esponenzialmente un processo di pauperizzazione delle vite e dello stesso lavoro che trasforma i “soggetti di diritto” in “bisognosi”, “marginali”, in parte come già accaduto nell’Inghilterra ottocentesca del primo capitalismo con le Poor Law, una sorta di filantropismo di carattere disciplinare, talvolta persino meritocratico, atto a eliminare ogni forma di conflitto sociale nella allora neonata società industriale.

La concezione liberale della società intesa come somma di individui dissociati e impegnati nelle attività produttive ha creato le condizioni per cui non si possa concepire altra forma di reggimento politico da quella che si attua per mezzo dei governi tecnocratici. “Individualismo” e “proprietà” diventano i due attributi indissociabili della “persona pre-sociale” che la legge avrebbe il compito primario di difendere. Ma in questa logica, anche la cosiddetta eguaglianza giuridica diventa una forma compiuta di disuguaglianza. La stessa idea di democrazia si riduce a insieme di forme, oggi tra l’altro duramente incrinate dalla politica emergenziale nel nome della quale possiamo identificare un processo di evidente involuzione delle condizioni democratiche, imbrigliate nei parametri di un neoliberismo autoritario, inteso come quell’insieme di strategie statali attraverso cui i parametri del sistema neoliberista sono tenuti al riparo da ogni possibile pressione popolare.

Tuttavia, se il liberismo nella sua concezione classica mirava a ridurre le funzioni dello Stato all’interno delle economie di mercato, ma concedeva spazi politici di manovra alla politica e alla rappresentanza, tenendo in piedi un apparato giuridico minimo in grado di contenere le stesse derive del mercato, nel neoliberismo si registra un ulteriore processo di intensificazione della presenza del mercato nella sfera pubblica e sociale. Il diritto privato mira ad avere la meglio sul diritto pubblico considerato come un ostacolo alla piena realizzazione del principio di libera concorrenza. Il valore e l’estrazione del valore avviene non più solo attraverso la forza lavoro, ma attraverso l’intera esistenza umana e sociale (desideri, gusti, preferenze, identità della popolazione) mercificata e sussunta pienamente dal capitalismo. Il vecchio controllo sociale si è totalmente ricodificato e ramificato attraverso il potere degli algoritmi a loro volta strumentalizzati dalla comunicazione politica, le piattaforme e gli standard di valutazione e produttività su base aziendalistica. Le vecchie forme di organizzazione del lavoro hanno ceduto il passo al Management che trasforma l’umano stesso in “risorsa”, mentre la politica cede sempre più alla sua dimensione Io-cratica e neo autoritaria.

Il neoliberismo prende forma e si rinforza, in primo luogo, attraverso pratiche statali coercitive finalizzate a disciplinare, marginalizzare e sovente criminalizzare le forze sociali di opposizione; in secondo luogo, attraverso gli apparati giuridico-amministrativi degli Stati che limitano i percorsi lungo i quali le politiche neoliberali possono essere messe in discussione e sfidate. Nel connettere crisi democratica, depoliticizzazione e neoliberismo autoritario, assumiamo dunque che quest’ultimo operi attraverso meccanismi di disciplinamento preventivi che isolano e proteggono le politiche pubbliche neoliberali attraverso strumenti giuridici, amministrativi e coercitivi finalizzati a mettere al riparo il decisore politico da ogni forma di dissenso sociale. Da questo punto di vista, appare evidente come il neoliberismo si discosti anche dal pensiero liberale classico. Le politiche neoliberali hanno infatti bisogno di uno Stato forte, ma di una democrazia debole.

È dentro questi presupposti teorici che rivendichiamo l’esigenza della costituzione di una rete di scienziate e scienziati sociali che, non rinunciando al rigore metodologico, si pongano oggi il problema della critica dello stato di cose presente, senza per questo scadere in uno sterile ideologismo che attiene a un sapere dottrinario, uno stile che non ci riguarda. L’emergenza pandemica sta tragicamente mostrando gli effetti perversi dei processi di mercatizzazione dello Stato e delle politiche pubbliche. I sistemi sanitari mostrano le loro fragilità per effetto dei processi di privatizzazione a cui sono stati sottoposti. Le ricchezze vengono delocalizzate e concentrate tramite il capitalismo delle piattaforme. L’emergenza ha rafforzato i processi di personalizzazione e centralizzazione del potere prestando il fianco alla proliferazione di modelli di riferimento neo-autoritari. Questi processi si innestano in dinamiche di crescita delle disuguaglianze e criminalizzazione delle povertà che rischiano di trovare un’ulteriore accelerazione nei prossimi anni.

La pandemia ha aggravato disuguaglianze e divari sociali. È per questo che non basterà essere “resilienti”. Se esserlo significa tornare a un modello di sviluppo centrato sull’accelerazione dei cicli di produzione e consumo, sul primato del capitalismo finanziario, su un fisco regressivo, su insopportabili asimmetrie di potere, sull’individualismo competitivo e sulla normalizzazione della disperazione, noi preferiamo rifiutare la logica della resilienza, abbracciando piuttosto una pratica di resistenza generativa, trasformativa e posizionata.

L’Europa che verrà merita equità politica, sociale e fiscale, dignità del reddito, tutela del lavoro, un benessere fondato su beni e servizi collettivi, di qualità, accessibili a tutti. Sanità, istruzione, servizi di cura, acqua ed energie, infrastrutture sociali, abitazioni, investimenti in cultura e ricerca sono quei bisogni radicali e necessari per rendere la vita degna di essere vissuta.

Dedicheremo gli anni che verranno a un duplice impegno. Da un lato, ci daremo il compito, proprio della sociologia posizionale, di analizzare le conseguenze sociali e politiche della pandemia a partire dal cosiddetto Recovery Plan. Dall’altro, useremo gli strumenti della ricerca sociale per disegnare un’altra vita per l’Italia e l’Europa, a cominciare da una nuova idea di cura collettiva, non affidata agli attori della grande finanza, ma restituita ai suoi stessi beneficiari. L’innovazione di cui abbiamo bisogno non è quella predefinita dalle élites tecnocratiche, ma un cambiamento reale fondato sui desideri, i bisogni e gli interessi collettivi degli attori sociali.

Fabio de Nardis
Università di Foggia

Anna Simone
Università di Roma 3


Dalla società del benessere alla società del disagio

di Patrizio Paolinelli

Perché pubblicare oggi in Italia una corposissima inchiesta sul campo che ha per oggetto il disagio sociale nella Francia degli anni ’90 e per di più condotta con metodi criticati dall’accademia? La risposta è semplice: perché continua a parlare di noi, noi europei sempre più impoveriti, spaventati e disorientati man mano che avanzano il neoliberismo, la globalizzazione e l’americanizzazione del pianeta. L’inchiesta a cui ci riferiamo si intitola “La miseria del mondo” (a cura di Antonello Petrillo e Ciro Tarantino, Mimesis, Milano, 2015, 854 pagg., 38,00 euro).

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

La ricerca è il frutto di tre anni di lavoro d’équipe ed è stata ideata Pierre Bourdieu, che ha diretto ventuno collaboratori (venti nell’edizione italiana a cui sono stati apportati diversi tagli). Abbiamo dunque a che fare con un testo corale che riporta e analizza le testimonianze di uomini e donne sulla loro vita e le difficoltà ch’essa comporta.

Contrariamente a quel che potrebbe lasciar presagire il titolo del libro l’oggetto di studio di Bourdieu non è la povertà estrema di chi non dispone di risorse per sfamarsi, vestirsi e alloggiare. Ma è la “miseria di posizione”. Categoria che raggruppa una vasta e differenziata platea di attori sociali uniti dal fatto di condurre una vita quotidiana satura di difficoltà e angosce, ma i cui bisogni minimi di esistenza – come il cibo e un tetto sulla testa – sono bene o male garantiti. Si tratta di una moltitudine di persone che appartengono ai ceti popolari e che vivono chiuse nel loro microcosmo: operai, disoccupati, casalinghe, pensionati, stranieri, studenti senza un futuro professionale, lavoratori a basso reddito, precari, stagisti, piccoli artigiani e piccoli commercianti che lottano ogni giorno contro la crisi dei consumi, la grande distribuzione, le tasse da pagare, le politiche dell’Unione Europea. Una popolazione concentrata prevalentemente in quartieri periferici, degradati, o, peggio ancora, a rischio e che si scontra ogni giorno con problemi irrisolvibili. Ad esempio la convivenza con gli immigrati, o con i figli di immigrati nati in Francia ma le cui possibilità di ascesa sociale sono ridottissime finendo così per alimentare le aree del disagio e della marginalità.

In estrema sintesi la povertà fotografata dal concetto di “miseria di posizione” si riferisce al depauperamento delle relazioni sociali, all’impossibilità di uscire dalla propria condizione economica e, conseguentemente, alla mancanza di opportunità per costruire una posizione sociale migliore. Per milioni di europei (la maggioranza?) il piccolo mondo in cui vivono si presenta come una gabbia da cui non c’è verso di evadere. Le conseguenze più immediate sono una vita quotidiana infernale, un alto tasso di microconflittualità, la progressiva lacerazione dei legami di solidarietà. Legami che nella società del benessere si strutturavano intorno alla famiglia, la scuola, la fabbrica, il partito, il sindacato, la parrocchia, le associazioni di massa. Alcune di queste istituzioni erano sostenute dal Welfare state, mentre altre lottavano per l’allargamento dello stesso Welfare state. Pratiche in via di estinzione nell’attuale società del disagio. E a osservarla oggi, a così tanti anni di distanza dalla sua formulazione, la categoria “miseria di posizione” sembra costituire un tassello della riproduzione nel Vecchio continente del modello sociale statunitense. Una sovrapposizione dagli effetti epocali che pone il problema dell’identità dei popoli europei. In questo l’inchiesta diretta da Bourdieu è stata per così dire profetica perché ha messo in luce sin dai suoi esordi la corrosione dell’identità e della dignità delle persone spinte nel girone dei perdenti. Lo ha fatto dando voce ai soggetti che conducono una vita di privazioni e attraverso le parole di educatori, presidi, giudici di sorveglianza, magistrati, ispettori di polizia, sindacalisti, femministe.  

Nonostante la mole “La miseria del mondo” ha avuto oltralpe un grande successo di vendite e ne sono state ricavate persino numerose pièce teatrali.

<< == Pierre Bordieu

D’altra parte l’inchiesta offre una straordinaria quantità di materiale. Raccoglie infatti numerose interviste che forniscono al lettore un ritratto coinvolgente e approfondito sull’esistenza di un’umanità sofferente e in perenne conflitto: con i vicini di casa, la burocrazia statale, la scuola che non funziona, il quartiere sempre meno socievole, i colleghi di lavoro senza il senso della solidarietà. “La miseria del mondo” regge l’urto del tempo in virtù delle storie degli intervistati andando a costituire una vera e propria miniera di informazioni sui loro bisogni materiali, le loro continue rinunce, la loro estenuante lotta per la sopravvivenza. Al di là delle specifiche differenze tra le singole vicende la paura sembra essere uno dei tratti principali che accomuna i racconti degli intervistati: paura di non farcela a pagare i debiti, paura dello straniero e soprattutto paura del domani. Le stesse paure che attanagliano ancora oggi la vita di tanti cittadini che vivono nelle cosiddette società avanzate.

Se la ricerca diretta di Bourdieu è diventata un punto di riferimento della sociologia critica, grazie alla ricchezza dei documenti raccolti e alla qualità delle riflessioni che contiene, la politica e i mass-media hanno invece una comprensione assai modesta della “miseria di posizione”. Entrambe le istituzioni affrontano in maniera approssimativa un fenomeno devastante che ormai data da lunghissimo tempo, a partire dalla desertificazione industriale iniziata nella seconda metà degli anni’80 e dall’imposizione dei diktat neoliberisti. La politica fornisce risposte parziali ai giovani delle banlieue mostrando così di essere chiusa in se stessa e incapace di risolvere i problemi sociali posti dalle loro proteste, silenziose o gridate che siano. Problemi che sono essenzialmente di integrazione, reddito e vivibilità dei quartieri periferici. I mass-media addirittura contribuiscono a produrre queste stesse proteste come mostra Patrick Champagne in un capitolo del volume dedicato al modo in cui l’informazione tratta il  disagio sociale: “Si potrebbe dire quasi che l’enumerazione dei “disagi” che con il trascorrere delle settimane si manifestano nella stampa, offre soprattutto l’elenco dei “disagi dei giornalisti”, ossia di quei disagi la cui rappresentazione pubblica è stata esplicitamente fabbricata per interessare i giornalisti, o di quelli che attirano di per sé l’attenzione dei giornalisti, essendo “fuori del comune” o drammatici o commoventi, e di conseguenza commercialmente redditizi, quindi conformi alla definizione sociale dell’evento degna di occupare “le prime pagine”. E’ il caso ad esempio delle prime manifestazioni dei liceali che nell’ottobre del ’90 protestavano contro la mancanza di professori e la violenza nelle scuole. Gli scioperi degli studenti si moltiplicarono “in gran parte per l’effetto della loro mediatizzazione televisiva”. Una conclusione è che “I dominati sono i meno preparati a controllare la rappresentazione di se stessi”. A costoro non rimane allora che l’auto-ammonimento consolatorio: “C’è di peggio, sai”.

E a proposito di rappresentazione, nel suo “Post-scriptum” al volume Bourdieu esprime un giudizio severissimo sui giornalisti per la loro sottomissione al potere e per la loro superficialità nel trattare i problemi sociali. Passa così a interrogarsi sulle conseguenze pratiche della conoscenza sociologica. Scrive il sociologo francese: “Rendere coscienti i meccanismi che rendono la vita dolorosa, persino invivibile, non significa neutralizzarli; portare alla luce contraddizioni non significa risolverle. Ma, per quanto scettici si possa essere sull’efficacia sociale del messaggio sociologico, non si può considerare inconsistente l’effetto che può esercitare, permettendo a chi soffre di scoprire la possibilità d’imputare la propria sofferenza a cause sociali, e sentirsi così discolpato, e facendo conoscere in modo più ampio l’origine sociale, collettivamente occultata, della disgrazie, in tutte le sue forme, comprese le più intime e segrete”. Occorre dunque che il mondo sociale si armi di questo sapere. Occorre che la politica sfrutti “le pur ridotte possibilità di azione che la scienza può aiutare a scoprire” pena l’essere “considerata colpevole di omissione di soccorso nei confronti di una persona in pericolo”. A ventidue anni di distanza dalla pubblicazione dell’imponente inchiesta sulla “miseria di posizione” non sembra che le cose siano molto migliorate in Francia. Di sicuro in Italia sono peggiorate.

Quest’estate è emerso in tutta la sua drammaticità il fenomeno del caporalato: tre braccianti agricoli morti nei campi per il caldo e la fatica. Si tratta di un fenomeno molto esteso, che nel nostro Paese coinvolge circa 400mila persone disposte a lavorare in condizioni paraschiavistiche per paghe che si aggirano sui 3 euro l’ora. Da noi è andata perduta la consapevolezza che le sofferenze personali hanno radici sociali, mentre la politica tratta il disagio in termini elettorali e la stessa sociologia è diventata perlopiù una disciplina al servizio del potere (accademico, politico, economico, mediatico). Questo non significa che non ci siano chance per una sociologia e una politica impegnate a ricostruire legami sociali a sostegno dell’identità e della dignità delle persone. In tale direzione “La miseria del mondo” costituisce uno strumento utile per uscire dalla trappola della “miseria di posizione”. Una trappola che fa tornare alla mente un brano scritto da Elio Vittorini in “Conversazioni in Sicilia”: “Tutti soffrono ognuno per se stesso, ma non soffrono per il mondo che è offeso e così il mondo continua a essere offeso”.

Patrizio Paolinelli, via Po, inserto culturale del quotidiano Conquiste del Lavoro.


Le cause sociologiche del successo dell’astrologia

di Giovanni Pellegrino e Mariangela Mangieri

In questo articolo prenderemo in considerazione le cause sociologiche e psicologiche del successo dell’astrologia nella società contemporanea. Appare chiaro a tutti che l’astrologia riscuote un grandissimo successo tra gli uomini contemporanei.

Prof. Giovanni Pellegrino ==>>

Appare chiaro a tutti che l’astrologia riscuote un grandiissimo successo tra gli uomini contemporanei. Tale successo è un fenomeno sociale di grande importaza che non può essere imputato ad una sola causa ma ad una costellazione di cause: la paura del futuro, il ritorno del paganesimo, il rapporto tra psicologia e astrologia, la funzione parareligiosa dell’astrologia, la concezione olistica dell’universo, ricerca di punti di riferimento e di certezze, bisogno di vincere la solitudine esistenziale, l’influenza dei mass media, il legame esistente tra astrologia e personaggi famosi, l’aumento delle situazioni frustranti, il successo delle religioni orientali nel mondo occidentale, la ricerca di nuove motivazioni derivanti dalla lettura dell’oroscopo.                 

 Per quanto riguarda la paura del futuro dobbiamo dire che essa rappresenta certamente una delle caratteristiche più importanti della forma mentis degli uomini contemporanei. Vernette afferma che il ritorno in grande stile della paura del futuro nel cuore degli uomini moderni spiega almeno in parte il successo dell’astrologia.    La grande paura che gli individui dimostrano nei confronti del futuro trova la sua ragione d’essere nel carattere labirintico della società contemporanea nella quale non esistono più le certezze e i punti fermi che caratterizzavano la vita degli uomini del passato. Per dirla in altro modo il mutamento sociale che contaddistingue la società moderna ha notevolmente aumentato i margini di incertezza e i rischi psico sociali nella vita degli individui.          

L’aumento della paura del futuro dipende soprattto dal fatto che non è facile prevedere i rischi psicosociali che si nascondono nelle varie situazioni. Appare chiaro che in un contesto sociale di questo tipo l’astrologia diventa molto importante in quanto viene considerata una disciplina in grado di diminuire la paura  nei confronti del futuro.   L’astrologia come tutte le altre arti divinatorie ottiene il massimo successo in tutte quelle società complesse nelle quali gli  individui non sono in grado di controllare e prevedere in manierà accettabile gli eventi futuri.                                                            

Un’altra causa sociologica per il successo dell’astrologia è il neopaganesimo imperante nella società moderna, dal momento che l’astrologia occupava un posto importante nelle società pagane. Non dimentichiamoo che i pagani credevano che gli astri fossero manifestazioni delle divinità e in quanto tale esercitavano un fortissimo potere sulle vicende esistenziali degli individui.  Vogliamo mettere in evidenza che nelle società pagane gli uomini pensavano che esisteva un destino già scritto per tutti gli individui cosicchè non aveva senso cercare di opporsi a tale destino ma bisognava trovare il modo di conoscere in anticipo  la volontà del fato ( concezione fatalistica del mondo, tipica del paganesimo).

L’astrologia era cosiderata dai pagani uno dei modi migliori per conoscere in anticipo la volontà del fato. Oggi, anche se siamo in una società formalmente cristiana molti individui la pensano allo stesso modo cosicchè l’astrologia è tornata ad essere con il paganesimo l’arte divinatoria preferita dagli individui per conoscere in anticipo la volontà del destino.  Per quanto riguarda i rapporti tra psicologia ed astrologia dobbiamo dire che molti astrologi moderni hanno creato rapporti con la psicologia appoggiandosi alle teorie di Jung. Tali astrologi ritengono che l’astrologia possa fornire delle informazioni sulla personalità degli individui che potrebbero aiutare gli psicologi a comprendere meglio chi si rivolgono a loro.                             

 A dire degli astrologi gli psicologi dovrebbero tenere conto nella scelta delle tecniche psicologiche da applicare ai loro clienti dei suggerimenti degli astrologi. Questo matrimonio tra astrologia e psicologia di stampo Junghiano è senza dubbio un altro punto di forza degli astrologi dal momento che contribuisce ad aumentare il succeso dell’astrologia nel mondo contemporaneo.  Tale legame tra astrologia e psicologia aumenta il prestig degli astrologi nella società moderna in quanto attribuisce all’astrologia delle possibilità che certamente in passato non le venivano attribuite. Essa diventerebbe un mezzo per sondare i misteriosi meandri dell’inconscio e per gettare luce su alcuni aspetti della personalità degli individui che sfuggono sia agli psicologi sia agli stessi soggetti. Appare inoltre evidente che sostenere che esiste un rapporto tra astrologia e psicologia aumenta il grado di legittimazione sociale nonché il prestigio degli astrologi già sufficientemente elevato.                                                                                          

Possiamo addirittura affermare che il rapporto tra astrologia e psicologia finisce per creare le premesse per la nascita di un nuovo concetto di scienza non basato sui principi dell’illuminismo e de positivismo.Vogliamo mettere in evidenza che il New Age è convinto che bisogna ridefinire i criteri che stabiliscono se una data disciplina può essere o non può essere considerata una scienza. Una delle cause sociologiche più importanti del successo dell’astrologia è rappresentata dal fatto che essa ha assunto nella società moderna una funzione parareligiosa che riesce a soddisfare il bisogno di accedere ad una dimensione metafisica senza dover aderire ad una religione.                                                                                

Cecilia Gattotrocchi sostiene che la dimensione parareligiosa dell’astrologia è da molti messa al di sopra delle religioni esistenti  in quanto non implica difficili questioni teologiche quali l’esistenza di un Dio personale,l’enigma della creazione, il problema dell’origine del male nel mondo. Per dirla in altro modo gli individui credendo nel potere delle stelle non sono costretti ad affrontare dubbi e problematiche religiose non sempre facili da gestire. Tuttavia coloro che credono nell’astrologia si sentono parte di un gigantesco teatro cosmico nel quale sono collegati con l’intero universo.                                                                          

In estrema sintesi quelli che credono nell’astrologia sono caratterizzati dalla volontà di avere una visione metafisica dell’universo dal momento che sono convinti che pianeti e stelle posseggono delle energie di tipo metafisico.Proprio questa credenza è alla base della funzione parareligiosa dell’astrologia dal momento che l’influenza che gli astrologi attribuiscono alle stelle può essere considerata un’influenza metafisica e religiosa non misurabile con strumenti scientifici.Il successo dell’astrologia nella società moderna trova la sua ragion d’essere anche nell’accetazione da parte di numerose persone di una concezione olistica dell’universo, tipica del New Age, nonché di alcuni gruppi magici delle religioni orientali. Tale concezione del cosmo parte dal presupposto che l’universo è come un gigantesco organismo nel quale tutto ciò che avviene in qualsiasi punto influenza l’intero universo. Quelli che credono nel potere delle stelle sentono di essere delle cellule dell’infinito organismo cosmico (macrocosmo). Essi inoltre sono convinti che l’uomo sia un microcosmo, che contiene in scala ridotta tutte le caratteristiche del macrocosmo.                                                                                                                                            

Un altro punto del successo dell’astrologia è il forte bisogno degli uomini contemporanei di punti di riferimento e di certezze che vengono a mancare in una società eraclitea come la nostra caratterizzata da veloci ed intensi fenomeni di mutamento sociale. Oggi gli individui sono costretti a ridefinire la propria visione del mondo, la propria identità e il modo di gestire i rapporti interpersonali. Di conseguenza gli individui devono continuamente ristrutturare il loro campo cognitivo ed affettivo, fatto questo estremamente problematico.Pertanto, l’uomo moderno è alla continua ricerca di salvagenti psicologici ai quali aggrapparsi per evitare di affogare nella complessa e labirintica società moderna. Ebbene uno di tali salvagenti psicosociali può essere considerata l’astrologia dal momento che essa fornisce ai credenti degli oroscopi un punto di riferimento in base ai quali decidere le proprie strategie comportamentali.                                              

 Vernette afferma che il rapporto con le stelle rappresenta per molti individui un punto di forza psicologico ed un riferimento costante utile per difendere l’equilibrio psichico. Per dirla in altro modo preferiscono credere di essere dipendenti dal potere delle stelle piuttosto che essere costretti a vivere senza nessun punto di riferimento in grado di gettare luce sulla loro vita (trattasi di un punto di riferimento di tipo metafisico). Uno dei problemi più importanti dell’uomo contemporaneo è senza dubbio la solitudine esistenziale. L’astrologia può servire a superare tale problema dal momento che la credenza che tutti gli individui  che appartengono allo stesso segno zodiacale sono molto simill tra loro, può creare un ponte psicologico chre unisce le persone. Può accadere che molte persone cerchino di vincere la propria solitudine esistenziale leggendo l’oroscopo e cercando di instaurare rapporti esistenziali con individui compatibili con il proprio segno zodiacale.                                                                                                

Infine dobbiamo mettere in evidenza che il comune interesse per l’astrologia spinge molti individui a costituire delle associzioni astrologiche nelle varie città che costituiscono un centro di aggregazione sociale che permette di creare nuovi rapporti interpersonali. Inoltre accade spesso che i credenti nel potere delle stelle, frequentino conferenze e seminari tenuti da famosi astrologi avendo la possibità di fare nuove conoscenze. I mass media hanno giocato senza dubbio un ruolo di notevole importanza nel boom dell’astrologia nella società contemporanea. I media non perdono occasione per enfatizzare l’importanza dell’astrologia. Molte riviste e giornali importanti riportano l’oroscopo e dedicano molto spazio alle temtiche astrologiche.  Inoltre molte televisioni e molte radio dedicano molto spazio alle trasmissioni astrologiche mentre numerose riviste di astrologia organizzano conferenze e convegni. Due teorie dei sociologi della comunicazione possono spiegare l’influenza dei mass media nel successo dell’astrologia: la teoria della “ coltivazione” e la teoria della funzione di “ agenda setting” dei mass media.                                                                                   

 Per quanto riguarda la teoria della coltivazione di Gerbner dobbiamo dire che tale teoria sostiene che i mass media “coltivano” ovvero rafforzano le credenze, il modo di interpretare la realtà degli individui. Applicando tale teoria al boom dell’astrologia possiamo dire che i mass media rafforzano la tendenza già presente nella società a dare credito ed importanza all’astrologia. Per quanto riguarda la teoria della”funzione di agenda setting” dei mass, essa sostienen che esiste una forte corrispondenza tra la quantità di attenzioni data dai mass media ad un particolare fatto, fenomeno sociale e il livello di importanza attribuito a tale fenomeno dagli individui esposti all’influenza dei mass media. Applicando tale teoria all’astrologia possiamo dire che la grande attenzione data dai mass media all’astrologia aumenta il livello di importanza attibuito alle affermazioni degli astrologi da parte degli individui esposti all’azione dei mass media.                                               

 Un’altra causa sociologica del successo dell’astrologia va ricercata nel fatto che molti personaggi del mondo dello spettacolo e dello sport affermano di credere nell’astrologia determinando in tal modo tra i loro ammiratori fenomeni di imitazione sociale e di contagio psichico che favoriscono il successo dell’astrologia a livello di massa. Per dirla in altro modo la credenza nel potere delle stelle facilita la creazione di fenomeni di proiezione psicologica tra l’ammiratore e il divo del mondo dello spettacolo che dichiara di credere nell’astrologia.  Una delle caratteristiche più significative della società contemporanea è l’aumento delle situazioni frustranti dovuti ad almeno tre cause: l’elevato grado di competitivitità presente nel mondo moderno, la difficoltà di gestire in maniera adeguata le situazioni sociali, l’influenza della pubblicità. 

L’aumento delle situazioni frustranti causa indirettamente l’aumento del successo dell’astrologia dal momento che gli individui cercano nel determinismo astrologico un salvagente psicosociale per resistere meglio all’impatto psicologico delle situazioni frustranti. Inoltre molti individui pensano di evitare di essere coinvolti in situazioni frustranti chiedendo consiglio agli astrologi e dando credito alle loro parole. In altri termini molti individui pensano che non tener conto del determinismo astrologico significhi aumentare di molto il rischio di essere coinvolti in situazioni frustranti dal momento che è una partita persa in partenza andare contro le inclinazioni dipendenti dal potere delle stelle.                                                                          

 Un’altra ragione del successo dell’astrologia va ricercata nel grande interesse che riscuotono nel mondo occidentale le religioni orientali. Tali religioni favoriscono il successo dell’astrologia in quanto si basano sulla credenza nell’esistenza del karma. Secondo tale legge gli eventi favorevoli o sfavorevoli della vita di un individuo dipendono invece dal comportamento che l’individuo ha avuto nelle vite precedenti. Di conseguenza il destino degli indiIvidui è già segnato dalla legge del karma prima della nascita. Appare evidente che le religioni orientali favoriscono la credenza nel potere delle stelle perché sono conciliabili col determinismo astrologico che a sua volta ritiene che il tema natale determi il destino degli individui al momento della nascita.            

In sintesi sia il determinismo astrologico, sia la credenza nel karma sostengono che esiste un destino già scritto per tutti gli individuiu. Vogliamo mettere in evidenza che esiste un tipo di astrologia denominata astrologia karmica che ritiene che il tema natale di ogni inviduo sia determinato dal suo karma. Per dirla in altro modo per l’astrologia karmica gli influssi positivi o negativi che le stelle esercitano sui vari individui sono diretta conseguenza del loro karma. In estrema sintesi le stelle avrebbero il compito di far pagare agli individui i loro debiti karmici e di far loro riscuotere i crediti karmici favorendo in tal modo la loro evoluzione spirituale.                                                                                                                   

 L’ultima causa sociologica del successo dell’astrologia è il bisogno di trovare nuove motivazioni. Può infatti accadere che si abbia in alcuni individui un crollo dei livelli motivazionali dovuti a due cause principali: una serie di insuccessi oppure la necessità di ricoprire ruoli che non forniscono stimoli psicologici in grado di motivare l’individuo. In entrambi i casi l’astrologia può fornire nuove motivazioni agli individui demotivati.  Nel primo caso essi possono motivarsi se vengono a sapere che l’oroscopo dice che è finito il loro periodo astrale negativo. Nel secondo caso è possibile che l’inviduo trovi nuove motivazioni dal momento in cui l’astrologo gli dice che le stelle determineranno importanti cambiamenti nella sua vita lavorativa o sentimentale.  Detto ciò riteniamo concluso il nostro discorso sulle cause sociologiche del successo dell’astrologia nella società contemporanea.

Prof. Giovanni Pellegrino

Prof.ssa Mariangela Mangieri

                                                 Bibliografia

C. Gattotrocchi, Viaggio nella magia, Laterza, Bari, 1993

G. Pellegrino, Il New Age, Edisud, Salerno, 2003

G. Pellegrino, Il neopaganesimo nella società moderna, Edisud, Salerno, 2000

G. Pellegrino, Il ritorno dell’astrologia, New Grafic Service, Salerno, 2004

J. Vallèe, Messaggeri di illusioni, Sperling- Kupfer, Milano,1980

J. Vernette,Occultismo, magia, sortilegio, Elledici, Torino, 1991

J.Vernette, Il New Age, Edizioni Paoline, Milano, 1992


SEPARAZIONE E DIVORZIO: NOVITA’ IN TEMA DI ASSEGNO DI MANTENIMENTO DEL CONIUGE

di Martina Grassini

Le capacità lavorative del coniuge separato o divorziato possono incidere sul riconoscimento di un assegno a titolo di mantenimento in sede di separazione  o divorzio.

<<== Avv. Martina Grassini

In alcuni casi, però, la previsione di un assegno diventa motivo per “l’ex” per rifiutare offerte di lavoro ritenute “inadeguate” rispetto alla propria formazione professionale. I giudici di legittimità, con la recente ordinanza del 4  marzo 2021 n. 5923 hanno posto un freno al mantenimento per il coniuge che rifiuta proposte di lavoro solo perché considerate “inadeguate”.

La Suprema Corte, con sentenza del 4 marzo 2021 n. 5932, ha accolto il ricorso del marito e cassato con rinvio la decisione della Corte d’Appello di Trieste, che aveva riconosciuto in capo alla moglie il diritto ad un sostanzioso assegno di mantenimento.

Nel caso di specie i Giudici di legittimità evidenziano l’errore, nei precedenti gradi di giudizio, nel ritenere che una persona “laureata” non potesse essere condannata “al banco di mescita o al badantato”, affermando così il diritto del coniuge a rifiutare proposte non ritenute pertinenti od adeguate.

La Cassazione ha rilevato la contrarietà di un simile ragionamento all’art. 156 c.c. ed ha evidenziato come lo scopo dell’assegno di mantenimento non sia quello di “garantire il medesimo tenore di vita avuto durante il matrimonio” , ma rappresenta unicamente un contributo alla parte più debole della coppia priva di un lavoro con cui mantenersi.La Suprema Corte ribadisce, dunque, come anche chi riceve un assegno a titolo di mantenimento abbia il dovere di rendersi autosufficiente dal punto di vista economico, attivandosi per la ricerca di un qualsiasi lavoro.


Italia e povertà energetica: l’11,9% dei nuclei familiari non può permettersi il riscaldamento. Le regioni peggiori: Sardegna, Lazio e Calabria

di Emilia Urso Anfuso

Secondo i dati che sono emersi dall’ultimo rapporto realizzato dall’OIPE – l’Osservatorio Italiano sulla Povertà Energetica – i costi che le famiglie devono mettere in bilancio per scaldare gli appartamenti negli ultimi anni sono lievitati al punto che l’11,9% dei nuclei familiari non possono permettersi di scaldare le loro case.

<<==dott.ssa Emilia Urso Anfuso

La situazione peggiora in presenza di bambini. Se poi si analizzano i dati sulle famiglie mono genitoriali, la maggior parte delle quali è composta da madre e uno o più figli, la percentuale di chi stenta a potersi permettere il riscaldamento in casa sale addirittura al 15%. L’impatto è maggiore per chi vive in affitto, e scende a una percentuale del 7,1% per chi è proprietario.

A peggiorare questa situazione nazionale conosciuta da molti anni, si è aggiunto l’aggravamento della crisi economica – che era già pesante ben prima dell’avvento della pandemia mondiale – e che le misure restrittive che coinvolgono le attività produttive nazionali hanno contribuito a peggiorare. È stato calcolato che lo scorso anno sono state 300.000 le attività costrette a chiudere i battenti, con la conseguenza di infoltire la schiera di disoccupati e poveri.

Tornando al tema centrale, nella civilissima Italia un numero troppo alto di persone non è in grado di potersi permettere inverni riscaldati tra le pareti domestiche, e a farne le spese sono i più piccoli. L’avvento del Sars Cov2 e dei conseguenti periodi di restrizione della circolazione dei cittadini, ha svelato una situazione dai contorni inquietanti.  Solo grazie alle misure che obbligano i nuclei familiari a restare in casa, anche per lavorare, è stato possibile fotografare più chiaramente il fenomeno. Essere costretti a restarsene a lungo tra le mura domestiche ha evidenziato le oggettive difficoltà abitative di molti italiani.

A livello europeo da molti anni si lavora al fine di migliorare la qualità della vita nelle abitazioni, in special modo quando si parla della condizione di vita dei minori. Nel 1989 l’ONU ratificò la Convenzione sui diritti dell’infanzia, e all’interno di questo importante documento è presente un’intera sezione dedicata al patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali dell’infanzia.  Tra gli impegni sottoscritti a livello internazionale, vi è quello di garantire di vivere in un ambiente dignitoso, riscaldato e con spazi adeguati.

L’Osservatorio italiano sulla povertà energetica, attraverso l’ultimo rapporto pubblicato, ha fatto emergere le criticità che aggrediscono milioni di famiglie che non sono in grado di sostenere i costi troppo alti delle tariffe energetiche, che rappresenta una spesa incomprimibile non potendo risparmiare su una necessità fondamentale. A questo va aggiunto un altro problema: per risolvere la situazione sarebbe urgente attuare un piano di riqualificazione delle abitazioni in cui vivono le persone meno abbienti, ma che a causa dello stato d’indigenza non possono procedere in tal senso, ed è quanto sostengono le indicazioni della SEN – la Strategia Energetica Nazionale – che suggerisce una serie di misure atte a sostenere l’abbattimento delle diversità energetiche residenziali, come per esempio quelle legate al reddito e anche alla zona climatica di residenza.

Per ciò che concerne la situazione a livello territoriale, secondo i dati Istat pubblicati nel 2018 le tre regioni che presentano le percentuali maggiori di appartamenti poco o per nulla riscaldati sono la Sardegna, la Calabria e il Lazio. Quelle con minori problemi di povertà energetica, invece, sono la Valle D’Aosta, la Lombardia e la Puglia. Le disuguaglianze non permettono al paese di essere moderno e civile. Lo siamo sulla carta, non ancora nella realtà.


“I sogni non finiscono mai”

Agitu Ideo Gudeta amava spesso fare questa affermazione che sembrava ispirare, in qualche modo, la sua vita.

di Nadia Gambilongo

Abbiamo deciso di proporre alle amministrazioni comunali di dedicare degli spazi pubblici alla sua  storia esemplare, poiché pensiamo che abbia molto da insegnarci in termini di capacità di adattamento a condizioni di vita durissime, nella sperimentazione di un’economia sostenibile e nella lotta al patriarcato. Inoltre, vorremmo intitolare ad Agitu studi, ricerche e laboratori di sociologia per rendere viva la sua memoria.

dott/ssa Nadia Gambilongo (sociologa)

La tragica fine di Aghi, così la chiamavano i suoi amici, non ha fermato i suoi progetti multiculturali,  ambientalisti e di cambiamento sociale, altre giovani donne stanno dando continuità al suo lavoro, al suo impegno. Noi stesse-i vogliamo farci portavoce e testimoni della sua breve ma intensa esistenza. Nei prossimi mesi faremo in modo che la sua memoria non si disperda e chiederemo che le vengano intitolati e dedicati spazi pubblici nel nostro territorio. Il Comune di rende ha già deliberato in tal senso intitolando un Parco giochi e un giardino ad Agitu.

La storia di Agitu Ideo Gudeta inizia nel 1977 ad Addis Abeba in Etiopia. Nasce in una famiglia benestante e colta; il padre è docente universitario, ma nonostante queste condizioni di base che in altri paesi del mondo determinerebbero agiatezza e serenità,  in Etiopia la vita è turbolenta e affannosa. I governi corrotti e inefficienti, che si sono susseguiti nel tempo, hanno ridotto un paese bellissimo in brandelli,  sempre in preda ai conflitti economici, sociali ed etnici.

A diciotto anni, Aghi parte da Addis Abeba, piena di entusiasmo e di speranza con un borsa di studio  alla volta dell’Italia.

Si laurea in Sociologia a Trento e, dopo aver completato con successo il suo percorso formativo, decide di ritornare in Etiopia per occuparsi di progetti di cooperazione e sviluppo per un’agricoltura sostenibile, in modo da dare un suo personale contributo allo sviluppo sostenibile del paese. Insieme ad altri compagni di lavoro  tenterà il recupero di terreni espropriati dalle multinazionali. Realizza progetti innovativi con i pastori nomadi nel deserto, parteciperà a numerose manifestazioni contro le condizioni di sfruttamento dei contadini e della Regione dell’Oromia.

Nel 2000 il padre è costretto a lasciare l’Etiopia a causa  della recrudescenza della repressione governativa e si trasferisce negli Stati Uniti. Nel 2005 le battaglie di Agitu per il land grabbing si intensificano e l’opposizione al regime diventa netta, i suoi compagni impegnati nei progetti di cooperazione incominciano ad essere perseguitati, alcuni vengono uccisi, di altri si perdono le tracce, fino a quando  nel 2010 è costretta a scappare,  minacciata anche lei di morte, e con un mandato di cattura per essersi opposta all’esproprio della terra ai contadini.

Per sfuggire alle persecuzioni,  decide di lasciare l’Etiopia e ritornare in Italia. Con un permesso di soggiorno per motivi di studio e appena 200 euro in tasca, ritorna in Trentino. Nei primi tempi lavorerà  in un bar per mantenersi; ma, il suo carattere coraggioso e determinato le consentirà dopo non molto di accantonare un po’ di denaro per mettere a frutto il suo amore per la terra e gli allevamenti naturali. Inizia a  prendersi cura di terre demaniali abbandonate e incolte. Aderisce al progetto di salvare le capre di razza mochena. Una razza antica, molto rustica, importata probabilmente in Trentino dai carbonai tedeschi e attualmente a rischio di estinzione.

Agitu aveva iniziato il suo esperimento di allevamento di capre allo stato brado con solo 15 capre, poi  erano diventate 70, negli ultimi tempi addirittura  180. La mattina lavorava nell’orto, il pomeriggio al bar, poi la sera mungeva le capre, e fino a tarda ora si prendeva cura della sua fattoria. Con grande fatica e determinazione riesce a realizzare un caseificio, apre una bottega per la vendita diretta dei suoi formaggi freschi e stagionati a km zero. Sul suo sito, tutt’ora attivo, è possibile recuperare notizie sulle sue attività sempre in crescita. Apre la prima Bottega della “Capra Felice” e poi via via altri punti vendita, partecipa a numerose fiere e organizza  iniziative didattiche con i ragazzi per far conoscere il suo allevamento di capre con metodi naturali.

In una intervista recente, Aghi descrive le caratteristiche delle sue capre, sfatando così il pregiudizio che le vuole stupide e testarde. In realtà, le capre sono dotate di grande intelligenza e sensibilità, il loro comportamento metodico e disciplinato, legato ai tempi del pascolo e della mungitura, consente un’organizzazione del lavoro agevole; ma per renderlo possibile è necessario entrare in sintonia con loro, comprenderne profondamente i bisogni e donare loro benessere.

La pratica millenaria della domesticazione si fonda prima di tutto su un’empatia istintiva e profonda, tra gli umani e gli animali allevati,  non danno la stessa quantità di latte a chiunque. Si affidano alle mani di chi le ama, di chi si prende cura di loro, poi successivamente vengono le tecniche (…)(Donatella Di Pietrantonio, La Repubblica) e le specializzazioni.

Solo chi ha a che fare quotidianamente con gli animali sa quanto siano diversi l’uno dall’altro, nel temperamento, nella condotta, proprio come le persone. Agitu riusciva a ricordare il nome di tutte le sue capre e anche il loro carattere.

Era una donna colta e consapevole, aveva appreso in Francia le tecniche migliori per produrre formaggio collaborando come ragazza alla pari. In un mix formidabile, aveva mescolato questo sapere all’esperienza della pastorizia africana. Era diventata un’imprenditrice famosa per la produzione di prodotti bio a chilometro zero. Produceva formaggi, latte crudo e yogurt di capra, cosmetici che vendeva nei suoi punti vendita e nelle fiere.

Agitu Idea Gudeta

La rete Slow food, all’insegna del “buono, pulito e giusto”, aveva iniziato a sostenerla e la sua fama era cresciuta. Certo l’arretratezza culturale dei suoi vicini e di alcuni rifugiati che accoglieva non le avevano certo reso la vita facile, ma non sembrava che la scoraggiassero più di tanto, anzi le difficoltà le erano come da sprono. Negli ultimi tempi le capre erano diventate tantissime, prima di morire stava progettando di aprire per la prossima primavera un agriturismo.

Dopo la sua tragica morte, un gruppo di amici si sta prendendo cura della fattoria, si stanno impegnando per mantenere in vita le sue attività. Una giovane donna di soli 19 anni, Beatrice Zott, ha adottato le capre rimaste orfane, ci auguriamo tutti che riusciranno nell’intento di onorare la sua memoria e i suoi sacrifici all’insegna della ricerca di armonia tra gli esseri umani e la natura, ricerca  che le stava molto a cuore.

Agitu Ideo Gudeta ha ricevuto riconoscimenti da Legambiente, da SlowFood, e noi tutte-i dobbiamo ringraziarla per il suo esempio e per la sua determinazione, per quel suo particolare modo di stare al mondo. Aghi è morta a 43 anni nella Valle dei Mocheni, a Frassilongo per mano di un suo ex dipendente ganese che ha confessato quasi subito di averla uccisa pare perché non le avesse pagato una mensilità.

In realtà, la rabbia che lo ha armato di martello e il disprezzo che ha manifestato nella foga di violentarla mentre era agonizzante, parlano di un’ira, suscitata da affronto personale ben più grave e importante, tutto maschile e razziale nei confronti di una donna bella, intelligente, e per giunta imprenditrice di successo e  nera come lui. Tutto questo è stato  veramente troppo per uno che nato e cresciuto sotto l’egida patriarcale e che non può sopportare di essere un dipendente di una donna di tale rilevanza.

“Aghi era troppo” anche per i vicini che le avevano ucciso una capra, avevano tagliato le gomme della sua auto, e per questo erano stai condannati per stalking. Una donna come Aghi era ed è troppo a qualsiasi latitudine, a nord come a sud del mondo ancora fortemente patriarcale e razzista. Per questo motivo c’è ancora tanto da fare nella direzione del cambiamento e il movimento femminista non si è ancora stancato di proporlo.

Per questo motivo vogliamo intitolare dieci, cento, mille piazze a Agitu Ideo Gudeta per non dimenticare, per replicare la sua vita esemplare dieci, cento, mille volte, affinché il suo sapere e la sua determinazione diventino un faro che illumini le nostre vite, e quelle delle ragazze e delle giovani donne, affinché anche gli uomini si interroghino sulle loro relazioni e sulle contraddizioni quotidiane che vivono con l’altro sesso.

E’ necessario riscrivere insieme il finale della storia di Aghi.

E insieme lo faremo!


Più Umanisti In Parlamento

ARETE’

di Elisabetta Festa

La nostra è una Repubblica parlamentare attualmente composta da 630 deputati e 315 senatori, a questi vanno aggiunti i senatori a vita che possono essere massimo 5 e i senatori di diritto a vita ossia i Presidenti emeriti della Repubblica.  Dico attualmente perché la vittoria dei sì al referendum sul taglio dei parlamentari, vittoria avvenuta con un quasi 70% di voti favorevoli, ha portato alla modifica di ben tre articoli sul numero degli eletti 56, 57 e 59 della nostra Carta Costituzionale.

<<=== dott. ssa Elisabetta Festa (sociologa)

Dalla prossima legislatura, dunque, i deputati scenderanno da 630 a 400 mentre i senatori passeranno da 315 a 200. Si tratta del quarto referendum costituzionale della storia italiana e del secondo ad essere approvato dal voto popolare. Saremo pure un popolo di santi, poeti e navigatori ma a scorrere uno per uno i profili dell’attuale formazione del nostro Parlamento si scopre come vada di gran lunga per la maggiore un’altra professione: quella dell’avvocato. A cominciare proprio dalla Presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati esponente di Forza Italia nonché matrimonialista, specializzata nelle cause di nullità davanti alla Sacra Rota. Ma non solo. Di avvocati, infatti, se ne contano in tutto 132: 85 a Montecitorio e i restanti 47 a Palazzo Madama. Diciannove in più rispetto alla XVII Legislatura, quando il conto si fermò a 113.

Al secondo posto nella classifica delle professioni ci sono gli imprenditori. Balzati dai precedenti 93 a 116, di cui 68 a Montecitorio e 48 a Palazzo Madama. Sull’ultimo gradino del podio salgono invece gli impiegati. Nei due rami del Parlamento ce sono 114 (erano 99 nella passata Legislatura). Novanta sono invece insegnanti e docenti universitari, 20 in meno rispetto al precedente quinquennio quanto toccarono quota 110. A 44 si fermano i giornalisti (meno 4 unità). A un’incollatura dalle penne prestate alla politica ci sono i consulenti, che si attestano a 45: 26 a Montecitorio e 19 Palazzo Madama. I medici passano da 44 a 31, mentre 24 sono i commercialisti. E ancora, nelle due Camere siedono – fra gli altri – 25 funzionari di partito, 21 ingegneri, 16 ricercatori, 14 commercianti e 13 sindacalisti.

 Come vediamo tante sono le professioni in campo ma sembra venir meno una categoria, quella che più genericamente potremmo definire degli “Umanisti”, che ingloba studiosi e conoscitori di saperi legati alla centralità dell’individuo nell’accezione più generica ed ampia del termine: filosofi, sociologi, ecc. Sappiamo che la base della nostra civiltà ha profonde matrici filosofiche, e la stessa politica nasce dalla filosofia, molteplici infatti sono i classici, “I padri costituenti” della filosofia politica, ne ricordiamo alcuni tra quelli più rappresentativi appartenenti a diverse epoche storiche: da Platone e Aristotele, a Macchiavelli e Hobbes da Rousseau e Kant a Hegel e Tocqueville tutti hanno lasciato un’impronta indelebile su questo tema.  Ad esempio uno dei principali interessi di Platone fu quello di dedicarsi alla filosofia proprio con l’intento di istituire una società armonica ed orientata al bene, grazie alla figura del politico che doveva saper operare “l’arte della misura”; ancora Macchiavelli secoli dopo fu considerato il fondatore della politica come scienza autonoma ecc. ecc.

Venendo poi ai sociologi, questi sono profondi conoscitori dei sistemi sociali, studiano i loro processi evolutivi ed involutivi, analizzano i fatti e la realtà in maniera oggettiva ed empirica, rappresenterebbero quindi una risorsa in termini di competenze non indifferente data la complessità della nostra realtà globale ne cito soltanto uno quello più contemporaneo Bauman noto per il suo paradigma sulla “Società Liquida”. Ritornando al nostro discorso, se è vero com’è vero che da ogni professione scaturisce una specifica competenza, una mancanza di eterogeneità di professioni, e quindi di competenze della nostra classe dirigente in Parlamento, inevitabilmente indirizza lo stesso verso meccanismi unilaterali di costruzione dell’ordinamento giuridico, basati su saperi prevalentemente di carattere tecnico-giuridici che, seppur necessari, restano comunque privi di quegli altri saperi di matrice antropo-filosofica, che garantirebbero la completezza della normativa.

Così facendo, si compromette una delle finalità più nobili del legislatore, ossia quella di emanare leggi che dovrebbero essere generate a monte da un background di competenze variegate, rispecchiando di conseguenza la eterogeneità della società, in modo da facilitarne anche la tacita e pacifica accettazione da parte del cittadino. Per dirla meglio, come si può pensare che la prassi legislativa possa essere priva di “saperi umanisti” così necessari per una costruzione olistica ed efficace della norma? Potrebbe o non potrebbe scaturire anche da questo fattore, poco o per nulla attenzionato, il caos sistemico che da sempre caratterizza la nostra politica?  Le continue crisi parlamentari che siamo abituati a vivere sempre più frequentemente, anche oggi in piena pandemia, potrebbero dipendere anche da una cristallizzazione di professioni nel Parlamento e quindi di competenze che agiscono in nome di una stessa e perenne visione? A mio parere, un approccio integrato multi-disciplinare come tratto distintivo della genesi legislativa potrebbe rappresentare la svolta significativa verso un cambiamento.

Aldilà di questo aspetto sono egualmente da condannare i toni e le condotte sempre più aspre e bellicose che ormai da decenni caratterizzano la vita parlamentare nel nostro paese, comportamenti deviati e irrispettosi del luogo in cui vengono invece indistintamente perpetrati. La dialettica, il confronto anche lo scontro costruttivo hanno ceduto il passo all’egoismo, al tatticismo cinico e utilitaristico, a condotte di bassa levatura. Bisognerebbe che fra gli scranni parlamentari sedessero personalità inclini alla mitezza, alla ragionevolezza, al dialogo costruttivo, alla mediazione, che seppure presenti non ne costituiscono di certo la maggioranza.

Che la politica ritorni ad essere la casa non più o comunque non solo di tecnocrati o di urlatori seriali  ma di uomini saggi e di ARETE’.


Marx e la critica alla religione

di Giovanni Pellegrino e Mariangela Mangieri

In quest’articolo prenderemo in considerazione le teorie  di Marx intorno alla religione, che egli definì “l’oppio dei popoli”.       

<<==Prof.GiovanniPellegrino                                                                            

Marx era ateo ragion per cui formulò dei giudizi molto duri intorno alla religione.La critica alla religione era per lui un fatto inevitabile anche perché egli pensava che sarebbe giunto il momento nel quale si sarebbe verificata la fine storica del Cristianesimo. D’accordo con Feurbach Marx rileva l’assoluta incopatibilità di tutte le norme dell’agire pratico con i precetti fondamentali del Vangelo e dei Padri della Chiesa. Marx pensava che la religione cristiana insegnava che le sofferenze di questa vita non sono nulla in confronto alla gloria della vita ultraterrena.                                                

Essa spingeva gli uomini ad assumere un atteggiamento passivo nella vita terrena rinunciando ad ogni tentativo di modificare lo status quo.  Pertanto il Cristianesimo del suo tempo è per Marx la religione del capitalismo in quanto sarebbe funzionale agli interessi della classe dominante che non vuole in nessun modo la modifica dello status quo. Marx ritieneva che bisognava opporsi con forza ai dogmi cristiani dal momento che era convinto che la liquidazione definitiva del Cristianesimo era  il primo presuposto per eliminare il dominio dei capitalisti sul proletariato.Inoltre Marx si opponeva fermamente alla credenza cristiana dell’esistenza nell’universo di un ordine voluto da Dio.                                                                                                 

Marx negava che esisteva una dipendenza dell’uomo da un ordine divino indipendente dalla volontà umana e pertanto pensava che il genere umano doveva esercitare un dominio sul proprio mondo. Marx sosteneva che bisognava sfidare i miti cristiani che a suo dire impedivano agli esseri umani di diventare padroni del mondo e del proprio destino.Partendo dal proprio ateismo Marx professava tutta la sua ammirazione per Epicuro da lui definito “ il più grande illuminista greco. Marx sosteneva che la negazione dell’esistenza di un ordine divino nell’universo era il presupposto della rivoluzione economica mondiale che doveva mettere fine al dominio dei capitalisti sugli altri uomini. Marx metteva in evidenza che non era possibie mettere fine al dominio del capitalismo se si accettava l’idea cristiana di porgere l’altra guancia in maniera passiva. Secondo Marx finchè si accettava questa idea cristiana non sarebbe mai stato possibile per il proletariato esigere il rispetto dei propri diritti nonché ribellarsi per ogni violazione della libertà personale.

Cosa possiamo dire intorno a queste affermazioni di Marx intorno al cristianesimo? Si può affermare che la fede marxiana della possibiltà dell’uomo di assumere il pieno controllo sul mondo materiale sia una pseudoforma di messianesimo laico basato sulla convinzione che il proletariato rivoluzionario possa redimere l’umanità dal dominio delle leggi del mercato mondiale capitalistico. Parliamo di pseudo messianesimo perchè Marx attribuisce al proletariato la capacità di redimere l’umanità da tutte le ingiustizie. Ma in ultima nalisi che cos’è la religione per Marx?  E’ una forma di falsa coscienza che determina l’autoalienazione dell’uomo. Marx afferma che il Cristianesimo determina l’autoalienazione dell’uomo dal momento che impedisce al genere umano di rendersi conto che nella storia non esiste la rivelazione di Dio , bensì la rivelazione dell’uomo.                                                                    

 Marx si chiede perché si creano le condizioni della genesi della falsa coscienza religiosa e dell’auto alienazione dell’uomo. Egli prende le mosse dall’affermazione di Feurbach giudicandola insufficiente per spiegare l’autoalienazione.In sintesi egli sostiene che non basta affermare con Fuerbach che la religione è una creazione dell’uomo che lo rende estraneo a se stesso e sdoppia il mondo in un universo religioso immaginario e in un mondo reale. Infatti per Marx il compito del materialismo storico consiste nell’analizzare le particolari contraddizioni e necessità esistenti nel mondo reale che rendono possibile l’esistenza della religione. In ultima analisi che cos’è per Marx che rende possibile e necessaria l’esistenza della religione nel mondo materiale?                                     

Marx precisa che bisogna giungere alla consapevolezza che la religione altro non è che l’autocoscienza dell’uomo che non è ancora rientrato dalla propria alienazione. Per dirla in altro modo Marx sostiene che la religione è resa possibile o necessaria dal fatto che l’uomo non ha ancora ritrovato se stesso nella sua esistenza terrena. Marx sostiene che la religione è “ un mondo alla rovescia” e che deve necessariamente sussistere fino a quando l’essenza dell’uomo non avrà trovato una realizzazione adeguata nel mondo materiale. Solamente quando l’uomo si sarà liberato dalle pericolose illusioni che impediscono di essere se stesso, sarà possibile a detta di Marx eliminare la religione dal mondo  reale. L’eliminazione della “beatitudine illusoria della religione mediante la critica materialistica è soltanto l’aspetto negativo dell’esigenza positiva di raggiungere una “ felicità reale. Marx è convinto che la morte definitiva della religione verrà determinata dalla volontà di felicità terrena, forma secolare dell’esigenza soteriologica.  La vera critica materialistica della religione non consiste nel suo semplice rifiuto e neppure nella sua seplice umanizzazione, bensì nell’esigenza postiva di creare le condizioni che privino la religione della sua ragione d’essere.           

In altri termini secondo Marx solamente la critica della società può permettere l’eliminazione della religione. Quindi per eliminare la  religione bisogna modificare radicalmente la struttura della società lonttando contro quelli che Marx definisce gli idoli terreni. L’idolo più importante del mondo capitalistico è il carattere feticistico delle merci, che scaturisce dal pervertimento dei mezzi di produzione, pervertimento tipico del mondo capitalistico. A causa di questo pervertimento, l’uomo, il produttore di merci diventa il prodotto della sua stessa produzione.  Marx affera che come l’uomo nella religione è dominato dal prodotto del suo stesso cervello, così nella produzione capitalistica è dominato dal prodotto delle sue stesse mani. Di conseguenza Marx sostiene che non basta ricondurre la teologia e la religione alla “cosiddetta coscienza dell’uomo”ma si deve fare attenzione all’insorgenza dei nuovi  idoli. Marx afferma che bisogna rendere impossibile l’insorgenza di tali idoli mediante una critica continuamente rinnovata delle condizioni reali, cioè storico- materiali.                                                                                    

Per Marx ed Hengels il materialismo storico rappresenta il compimento della filosofia hegeliana e il movimento dei lavoratori in Germania realizzava l’eredità della filosofia classica- tedesca. Marx rimproverava a Hegel non la sua affermazione teoretica della realtà della ragione ma la sua mancata realizzazione pratica.Marx afferma che invece di criticare teoricamente in nome della ragione l’intera realtà esistente, Hegel accetto la storia politica e religiosa come razionale in se.Dal punto di vista critico e rivoluzionario di Marx tale assunzione di Hegel è una forma di manifesto materialismo mentre il marxismo deve essere considerato il vero idealismo.                                                                                                                       Concludiamo tale articolo mettendo in evidenza che il messianesimo marxsistico trascende la realtà esistente in modo così radicale da conservare intatta la sua tensione escatologica. In confronto a Marx la filosofia di Hegel è relistica dal momento che si conciliava con il mondo quale esso realmente era.

Prof. Giovanni Pellegrino

Prof.ssa Mariangela Mangieri


INTERAZIONE SIMBOLICA E SIGNIFICATO DELLE IMMAGINI NELLA SOCIETA’ MEDIATICA

di Francesca Santostefano

Intercorre un nesso significativo e fondamentale tra le immagini e la comunicazione, tra l’arte intesa nel senso proprio del termine e l’arte della parola. “Uomo inteso come essere comunicante”. L’etimologia della parola comunicare ossia “mettere in comune” sottolinea la valenza sociale di tale atto , oppure  “azione in comune” dunque un continuo scambio di informazioni, idee e concetti, interazioni tra persone o gruppi in un determinato contesto sociale.

Dott./ssa Francesca Santostefano ===>>

Qualsiasi tipo di interazione rimanda ad uno scambio comunicativo-attivo. Occorre tenere presente che la comunicazione rappresenta un fenomeno sociale , dunque tutto ciò che è osservabile in un contesto sociale. La fine del XX secolo è contraddistinta da una grande rivoluzione “sociale” e come tutte le rivoluzioni accadute negli anni addietro, suddetta ha avuto un impatto notevole sugli effetti in primis della globalizzazione e successivamente sulle relazioni interpersonali: la tecnologia digitale ha prodotto i nuovi “Media” come il telefonino, gli smartphone, la televisione digitale e Internet o meglio noto come il w.w.w ( world-wide-web). La cosiddetta digitalizzazione la quale ha permesso agli individui di avere uno scorcio maggiore sul mondo.

Da una parte se il XX secolo è stato contrassegnato dalla nascita del web,  dall’altra oggigiorno si parla della “terza generazione informatica” , l’era del computer ubiquo in cui esso è mobile e integrato in tutti i contesti sociali. L’antropologo Marc Augè  parlava dei “non luoghi” appunto spazi i quali sono costruiti per un fine specifico, come il rapporto che viene a crearsi fra gli individui che interagiscono in questi stessi spazi. Infatti le interazioni in internet hanno luogo in un mondo virtuale del ciberspazio (incertezza dello spazio e del tempo). Sono due i filoni ideologici contrapposti per quanto concerne l’utilizzo di internet: da un lato molti considerano il web un garante di promozione di relazioni che arricchiscono o integrano le interazioni fisiche a noi note.

Benefici dunque perché quando si viaggi o si lavora all’Estero internet può servire per comunicare o mantenere la comunicazione con amici e parenti lontani (elimina le distanze mentali). Un fattore di spinta è dato dalle “chat room” dove molti account si riuniscono per discutere di interessi comuni. Ma il beneficio di internet è opinabile. Sono in molti a schierarsi dalla parte opposta. Maggiore è il tempo che si passa a comunicare online, minore è il tempo connesso alle relazioni umane/fisiche.  Da un punto di vista sociologico si nota un cambiamento molto consistente anche nel linguaggio comune, per cui alcuni dei termini quotidiani sono sostituiti dai nuovi termini “social” come like, chat, verbi come condividere, postare, taggare, linkare, una moda soprattutto diffusa fra i più giovani, i cosiddetti “millenials”.

PATOLOGIE MENTALI CAUSATE DALLA DIPENDENZA DI INTERNET.

La dipendenza dal web, come tutte le dipendenze sociali e mentali, sono classificate nel “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali” come patologie cliniche le quali prevedono una determinata diagnosi e vi sono riconosciuti dei sintomi correlati. Alla base di questa dipendenza presa in considerazione si trova una personalità a tratti fragile con una bassa autostima, una socio fobia radicata nelle relazioni e disagi legati alla sfera cognitiva che conducono spesso e volentieri a vere e proprie ossessioni. Tutte le dipendenze sono riconducibili ai disturbi della personalità. Molti sono i sintomi di un atteggiamento iniziale ossessivo- compulsivo che si ostenta verso questa realtà virtuale tra cui:

– In primis l’isolamento sociale riducendo il tempo di qualità che si trascorre nella realtà. Il fenomeno dell’Hikikomori nato in Giappone, diffuso oggi giorno in molti altri paesi industrializzati tra cui l’Italia, prevede un uso smodico di internet dove un individuo si rifugia nel suo personale ambito sociale (in questo caso la propria camera) e trascorre intere ore persino giornate a condividere il proprio quotidiano con amici virtuali.

– Il pubblicare costantemente foto, selfie e i luoghi che si visitano. Apparire perfetti come la foto di una bella famiglia felice e sorridente, ostentare un  trucco elaborato e bei vestiti, incoraggiandosi con frasi del tipo “sii forte” “sorridi sempre” maschera un vero e proprio smarrimento della propria individualità, l’apparire piuttosto che l’essere.

– Il sintomo maggiore è rappresentato da ansia e depressione diffuso soprattutto fra i più giovani. Il cyber bullismo è una conseguenza negativa dell’uso eccessivo dei social dove alcuni ragazzi sono costretti a subire della violenza virtuale/psicologica da bulli virtuali, conduce a conseguenze irreparabili e talvolta induce al suicidio.

– La mancanza di sonno dei “social addicted”. Problemi legati alla mancanza di sonno dovuti al voler continuamente controllare i social, anche di notte, e dunque ha un impatto molto negativo sulle prestazioni notturne.

– “FOMO” (Fear of missing out) ossia la paura di sentirsi tagliati fuori se ci si dovesse staccare dai social più diffusi quali  Facebook o Instangram, la paura di non essere accettati dagli amici virtuali (ad esempio 500 amici su facebook, 1000 follower su Instangram, 1 amico nella vita reale).

– Da un punto di vista del genere le ragazze adolescenti soffrono maggiormente dei disturbi ossessivi dai social in quanto ispirate da foto di modelle, mirano sempre a cercare quella perfezione fisica che spesso si tramuta in depressione, anoressia, episodi di autolesionismo, bassa gratificazione di sé stessi, bulimia cronica.

Sui social è possibile esprimere stati d’animo, condividere momenti di tristezza e felicità, scorci di vita privata cosicchè la privacy diviene un disvalore.

Dott.ssa Santostefano Francesca- Sociologa – Socia ASI

ABSTRACT IN ENGLISH LANGUAGE


SYMBOLIC INTERACTION AND MEANING OF THE IMAGES IN MEDIA SOCIETY

There is a significant and fundamental connection between images and communication, between art understood in the proper sense of the term and the art of the word. “Man intended as being communicating”. The etymology of the word to communicate means “to pool” a continuous exchange of information, ideas and concepts, interactions between people or groups in a specific social context. Any kind of interaction refers to a communicative-active exchange. It should be kept in mind that communication is a social phenomenon, therefore all that is observable in a social context. The end of the twentieth century is marked by a great “social” revolution and like all the revolutions that took place in the past, the aforementioned had a significant impact on the effects of globalization in the first place and subsequently on interpersonal relations; digital technology has produced the new “Media” such as mobile phones, smartphones, digital television and the Internet or better known as the w.w.w (world-wide-web). The so-called digitalization which has allowed individuals to have a greater glimpse of the world. On the one hand, if the twentieth century was marked by the birth of the web, on the other, nowadays we speak of the “third computer generation”, the uniquitous computer era in which it is mobile and integrated in all social contexts. The anthropologist Marc Augè spoke of the “non-places” precisely spaces which are built for a specific purpose, like the relationship that is created between the individuals that interact in those same spaces. Infact, internet interactions take place in a virtual world of cyberspace (uncertainty of space and time). There are two opposing ideological strands as regards the use of the internet: on the one hand, many consider the web a guarantor of promoting relationships that enrich or complement the physical interactions known to us. Benefits therefore because when you travel or work abroad, the Internet can be used to communicate or maintain communication with friends and distant relatives (eliminates mental distances). A boost factor is given by the “chat rooms” where many accounts come together to discuss common interests. But the benefit of the internet is questionable. Many take sides on the other side. The more time you spend communicating online, the less time you have in human / physical relationships. From a sociological point of view there is a very substantial change also in the common language, so some of the daily terms are replaced by the new “social” terms like like, chat, verbs like sharing, posting, tagging, linking, a widespread fashion among the youngest, the so-called “millenials”.

MENTAL PATHOLOGIES CAUSED BY INTERNET DEPENDENCE

Dependence on the web, like all social and mental addictions, are classified in the “Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders” as clinical pathologies which provide for a specific diagnosis and there are recognized related symptoms. At the base of this dependence taken into consideration is a personality that is at times fragile with low self-esteem, a phobia partner rooted in relationships and discomforts linked to the cognitive sphere that often lead to real obsessions. All addictions are attributable to personality disorders. There are many symptoms of an initial obsessive-compulsive attitude that shows off towards this virtual reality including:

– First and foremost the social isolation by reducing the quality time spent in reality. The phenomenon of Hikikomori born in Japan, widespread today in many other industrialized countries including Italy, provides for an immoderate use of the internet where an individual takes refuge in his personal social sphere (in this case his own room) and spends entire hours even days to share your newspaper with virtual friends.

– Constantly posting photos, selfies and places you visit. Appearing as perfect as a picture of a beautiful, happy and smiling family, showing off an elaborate make-up and beautiful clothes, encouraging oneself with phrases such as “be strong”, “smile always” masks a real loss of one’s individuality, the appearance rather than the ‘to be.

– The major symptom is widespread anxiety and depression, especially among younger people. Cyber ​​bullying is a negative consequence of the excessive use of social media where some children are forced to suffer virtual / psychological violence from virtual bullies, leading to irreparable consequences and sometimes leading to suicide.

– The lack of social addicted sleep. Problems related to lack of sleep due to wanting to continually check social media, even at night, and therefore have a very negative impact on nighttime performance.

– “FOMO” (Fear of missing out) or the fear of feeling cut off if you were to break away from the most common social media such as Facebook or Instangram, the fear of not being accepted by virtual friends (for example 500 friends on facebook, 1000 followers su Instangram, 1 friend in real life).

– From a gender point of view, adolescent girls suffer more from social obsessive disorders, as they are inspired by models’ photos, they always aim to look for the physical perfection that often turns into depression, anorexia, episodes of self-harm, low self-gratification themselves, chronic bulimia.

On social media it is possible to express moods, share moments of sadness and happiness, glimpses of private life so that privacy becomes a negative value.


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