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Il finanzcapitalismo che avvelena il calcio

di Giampaolo Latella

Il senso comune vince per cappotto: la vicenda della SuperLega europea di calcio fa inorridire anche i più indulgenti. Eppure no, non basta indignarsi. Occorre riflettere, perché se si è arrivati a questo punto non può essere solo a causa del vizio capitale dell’ingordigia.

<<== Giampaolo Latella

La gestazione del progetto risale di qualche anno: tutti lo sapevano e tutti ne scrivevano. Ma cosa è stato fatto per impedire che venisse alla luce l’idea – certamente deprecabile – di creare un calcio per soli ricchi, appartenenti al club esclusivo dei club esclusivi, al novero opulento delle squadre opulente?   La risposta, disarmante, è racchiusa in una sola parola: nulla. Oggi le 15 maggiori società europee hanno deciso di staccarsi dalle altre perché non si reggono più in piedi, sepolte da debiti a nove cifre espressi in euro. Per l’impresa calcistica europea – che presenta un’alea di gran lunga maggiore delle altre imprese, legata al risultato del campo – l’alternativa è tra evolvere verso il modello NBA del basket, e così sopravvivere, o rimanere attaccata alla zavorra e soccombere.

Tutto questo stride con i valori sportivi con cui siamo cresciuti, a partire dal più nobile, quello dell’eguaglianza sostanziale tra tutti i partecipanti al gioco – ché sempre di gioco si tratta – raccontato nello spot che l’Uefa realizzò lanciando la campagna #equalgame.Di “equo”, nel calcio professionistico di oggi, non c’è nulla. Di solidale, invece, sì, almeno tra i club della diaspora: hanno stretto un patto per andare avanti e forse, un giorno, raggiungere un equilibrio tra costi e ricavi oggi paragonabile a una chimera. La “bolla” finanzcapitalistica è pronta a esplodere, la Lehman Brothers del calcio è dietro l’angolo e non bastano gli steroidi anabolizzanti dei diritti televisivi, gonfiati all’inverosimile, per garantire la tenuta di un sistema ormai al collasso.

Stadio

Non è sufficiente, dicevamo, ammonire e condannare. Bisogna anche domandarsi perché. Il motivo principale di questa condizione è la mancata riforma di un sistema che da anni non funziona più e continua ad accumulare passività spaventose. 

Il modello del calcio europeo di vertice è drogato da ingaggi folli, da plusvalenze più che discutibili, dalle carenze del sistema dei controlli su un mercato incapace di autoregolarsi. Si parla da anni di salary cup, contrappeso decisivo per garantire la sportività della competizione, ma perché non è stato introdotto? 

Oggi ci indigniamo tutti, giustamente. I più colpiti sono i tifosi delle tre squadre che hanno aderito alla SuperLega: Juventus, Inter e Milan, rispettivamente citate per numero di tifosi. Quasi 9 milioni di fan bianconeri, 4 milioni di nerazzurri, altrettanti rossoneri.  Un popolo che va rispettato perché il calcio è una questione tremendamente seria, sul piano sociale prima ancora che sul versante economico: la passione per questo sport è stata infatti per molti anni, prima della pandemia, l’unico fattore in grado di generare una mobilitazione popolare su larga scala.

Ma se i tifosi meritano considerazione, i cittadini hanno diritto di essere rispettati. Come la metteremmo se, un giorno, i signori del calcio pensassero nuovamente di presentarsi al cospetto dello Stato rivendicando un aiuto economico per il prossimo e probabile tracollo del sistema?  I debiti del calcio non possono ricadere sulla collettività, per una questione etica e per la drammatica contingenza economica causata dal coronavirus, che pure ha pesantemente danneggiato le aziende calcistiche, oggi ridimensionate in due fonti di ricavo fondamentali: il botteghino e le sponsorizzazioni. 

Per tutte queste ragioni, è auspicabile che il dibattito sul calcio vada oltre il senso comune e assuma connotati di maturità, per una riforma profonda della governance, dei campionati professionistici, dei requisiti tecnico-economici per la partecipazione alle competizioni e delle garanzie di solvibilità finanziaria da prestare al momento dell’iscrizione.

Senza comprendere che si è toccato il fondo, si continuerà a guardare il dito, mentre la luna del pallone sarà prossima a una dolorosa e desolante eclissi totale.


Sport e pandemia

INTERVISTA AL PROF. NICOLA RINALDO PORRO

di Patrizio Paolinelli

Nicola Rinaldo Porro è uno dei più importanti sociologi italiani dello sport. Docente universitario, ha al suo attivo numerosi studi e ricerche. Lo incontriamo per una breve riflessione sullo sport al tempo del Covid-19.

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

La pandemia ha inciso negativamente su gran parte dei comparti economici. Quali sono state le principali ricadute sull’industria dello sport professionistico?

L’impatto economico della pandemia sul grande sport professionistico è stato sicuramente più rilevante per l’indotto interessato agli eventi che non per i club professionistici. Questi ultimi hanno sviluppato da almeno due decenni straordinarie capacità di diversificazione commerciale dell’offerta di sport spettacolo. Gestire un pacchetto di eventi televisivi per un pubblico confinato fra le pareti domestiche non è meno redditizio ed è assai meno operativamente impegnativo che governare il complesso e delicato sistema dello sport campionistico “in presenza”. Senza contare i risparmi realizzati dalle società in materia di costi, talvolta assai rilevanti, per garantire la sicurezza dentro gli stadi e nelle loro immediate vicinanze. A soffrire l’impatto maggiore in termini di fatturato commerciale non sono dunque i grandi club calcistici, garantiti dai diritti televisivi, quanto piuttosto la pulviscolare offerta di servizi legati alla mobilità delle tifoserie e ai servizi di ogni genere rivolti al pubblico degli stadi, ormai malinconicamente condannato a consumare un tifo da divano.

Lo sport è anche un grande anestetico sociale. Nel senso che serve a canalizzare l’aggressività e a distrarre il pubblico. Da questo punto di vista, la pandemia ha cambiato qualcosa?

Non credo. È anzi probabile che l’efficacia anestetica – che peraltro non vorrei considerare il tratto dominante dell’esperienza sportiva che costituisce un caleidoscopio di emozioni, bisogni di identità e forme di socialità variegato e non privo di contraddizioni – sia addirittura cresciuta. A parere di tutti gli osservatori competenti – psicologi, giornalisti, operatori sociali – la pandemia sta inducendo a tutte le latitudini effetti depressivi su larga scala. Forse anche lo sport formato Sky, l’esperienza del tifo da divano, può addirittura assolvere una funzione surrogatoria nella impossibilità materiale di sperimentare alternative più gratificanti. Quanto all’aggressività, la distanza fisica ne riduce l’impatto concreto e quindi la “pericolosità” nel caso di comportamenti inappropriati che conosciamo e che non dovremo rinunciare a contrastare.

Non dobbiamo però illuderci che siano state rimosse le dinamiche profonde che innescano la violenza. Sono fenomeni carsici, indagati ormai da decenni dalla psicologia sociale. Si alimentano della subcultura comunitaria del tifo, che a sua volta eccita e riproduce dinamiche di aggressività “a spirale” che di quando in quando sfociano in vere e proprie simulazioni della guerra. Le radici sono profonde e richiederebbero strategie di contrasto anche in condizioni di normalità. Guai però, lo ripeto, a liquidare anche i fenomeni più inquietanti come l’inevitabile prodotto del consumo di sport. Le ascendenze dello sport sono nella civiltà classica, non nella barbarie. Bisogno far leva piuttosto sulle potenzialità civiche, solidaristiche, relazionali – soprattutto dello sport praticato, ma anche della fruizione agonistica degli eventi – sviluppando in maniera non precettistica o banalmente moralistica una vera e propria pedagogia della condotta sportiva. Un compito che spetta anche, e direi soprattutto, alle agenzie di socializzazione come la scuola e alle reti familiari e amicali troppo spesso disimpegnate in materia.

Da un anno a questa parte l’attività sportiva amatoriale è stata fortemente limitata dalle misure anticontagio. Con quali conseguenze sul piano dei rapporti sociali?

Questo è un aspetto della pandemia fra i più drammatici e preoccupanti. Da molti mesi ormai gli impianti sono deserti e l’accesso ad essi è comprensibilmente sottoposto a drastiche limitazioni. Ciò compromette necessariamente la preparazione degli atleti e i programmi di allenamento, soprattutto per le specialità in cui è quasi impossibile prescindere dalla vicinanza fisica, dal contatto, da quella felice contaminazione di emozioni condivise e di esercizio disciplinato della corporeità che fa dello sport praticato un fenomeno di ineguagliabile rilevanza sociale.

Ancora di più, però, dovrebbe preoccupare la forzata regressione alla sedentarietà che, senza scomodare le rilevazioni statistiche, sta dilagando in questi mesi. Ciò è particolarmente preoccupante in un Paese come l’Italia che ha istituito un rapporto schizofrenico con la galassia dello sport. Rimaniamo pur sempre la quinta o la sesta potenza olimpica al mondo, occupiamo un rango prestigioso in una vasta gamma di discipline competitive. Allo stesso tempo, però, l’Italia arranca al terzultimo posto nell’Unione Europea per tasso di cittadini attivi. L’educazione fisica rimane la cenerentola dei programmi scolastici. La sedentarietà è una sorta di religione civile nel Paese dei pigri. Il confronto con i contesti nazionali a noi più vicini è sconfortante.

Qualcuno però potrebbe maliziosamente obiettare che lo sport fa male, dato che il Paese dei pigri registra uno dei tassi di longevità tra i più alti al mondo…

E direbbe una fesseria. Gli italiani sono effettivamente ai primissimi posti in Europa per aspettative di vita alla nascita, ma se osserviamo le aspettative di vita in buona salute e in condizioni di piena autosufficienza precipitiamo in bassa classifica. Gli epidemiologi, per fare un esempio di attualità, non si sono meravigliati più di tanto dell’alto tasso di letalità segnalato nel Covid fra la popolazione anziana. Sembra che il nostro sistema sanitario garantisca efficacemente la “sopravvivenza anagrafica” ma assai meno la qualità della vita e l’efficienza fisica che ne rappresentano la condizione primaria. Non pochi studiosi cominciano a prendere seriamente in considerazione l’ipotesi che l’elevato tasso di sedentarietà degli italiani in tutte le età della vita rappresenti un fattore significativo di vulnerabilità in presenza di situazioni come quelle che stiamo vivendo.

Quali consigli può dare ai cittadini che amano praticare l’attività fisico-motoria al tempo del Covid-19?

In coerenza con quanto ho appena sostenuto, il mio è un appello a “non mollare”. Ovviamente non va trascurata alcuna necessaria precauzione. Ci si dovrà vaccinare appena possibile. Andranno osservati con la dovuta premura comportamenti igienico-sanitari corretti. Ma il mio invito e il mio augurio è di non rinunciare a quell’insostituibile pratica di prevenzione e di ben-essere che è rappresentata dall’attività fisico-motoria. Il ventaglio di possibilità è talmente ampio da permettere a ciascuno di noi, a qualunque età della vita, di scegliere come, quando e con quale – prudente – livello di intensità regalare al proprio corpo e alla propria mente la felicità dell’azione motoria. Non arrendiamoci al virus!

Via Po cultura, settimanale del quotidiano Conquiste del Lavoro, marzo 2021


La riforma della democrazia arriva dal basso

di Emilia Urso Anfuso

Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo. Ancora oggi molti affibbiano questa frase a Voltaire, ma è un errore tra i troppi che oggi si compiono, per ignoranza e superficialità. La frase è da attribuire alla scrittrice inglese Evelyn Beatrice Hall, che nel suo libro “The friends of Voltaire”, pubblicato nel 1906, commise una sorta di errore di cui poi si scusò: mise tra virgolette la famosa frase, che in tal modo fu attribuita a François-Marie Arouet, il cui  pseudonimo è Voltaire.

dott.ssa Emilia Urso Anfuso ==>>

Oggi dovremmo vivere in una società moderna, ripulita dalle costrizioni del passato, dalle chiusure mentali derivanti, anche, da contesti storici in cui il diritto umano, o concetti quali la libertà di espressione e di pensiero erano impensabili. Invece ci ritroviamo immersi in un pantano soffocante, privati della libertà di esistere se solo ci azzardiamo a meditare sui fatti che accadono nel mondo attivando la capacità critica, divenuta ormai mercanzia rara.

Una sorta di riforma della democrazia è avvenuta senza scomodare costituzionalisti e parlamentari, perché è stata acclamata a maggioranza dal popolo, che diviene sovrano solo nel momento in cui la massa non riesce a progredire e preferisce condividere un pensiero unico, metodo assai più semplice e meno stancante del dover utilizzare i neuroni ed attivare le sinapsi.

Per avere una riprova di questo stato di cose oggi possiamo analizzare i comportamenti di un gran numero di persone grazie ai Social network. Guai a dissentire dalle convinzioni comuni e su qualsiasi tema. La calda e comoda cuccia del rigido pensare comune, dettato con metodi sapienti da chi governa il paese, è difficile da abbandonare per chi ha scarsa propensione alla curiosità, allo spirito critico, alla ricerca della verità.

Pensare pesa e stanca il cervello di chi ne è fornito in scarsa misura. Essere trainati dal mucchio salva non intende perder tempo a ragionare, analizzare e riflettere. Il pensiero comune è la cura all’ignoranza, all’incapacità di mettere insieme un ragionamento proprio. È l’espressione di un sistema che si riempie la bocca di frasi fatte, o dette da altri, che fanno scena e mettono a riposo la mente e la coscienza.

Se diverremo tutti uguali, non sarà necessario combattere per un ideale diverso. Se ci omologheremo al pensiero comune, non avremo necessità di agire. Quanta pochezza in queste assolute convinzioni.Oggi, se non vuoi rischiare l’emarginazione – seppur in forma virtuale – dalla società civile, devi evitare di esprimerti liberamente, devi evitare di regalare le tue riflessioni attente e meditate ai cittadini di maggioranza, che possono “democraticamente” disattivarti dal mondo parallelo sul web chiedendo la tua estromissione, temporanea o perenne, dai Social network. Che puntualmente approvano l’istanza.

Parallelamente, chi gestisce questi contenitori virtuali di varia umanità, non procedono mai contro i violenti, contro chi ingiuria pubblicamente, contro chi non permette la libera espressione del pensiero. Il popolo della maggioranza, composto da quelli che hanno il coltello dalla parte del manico per il fatto di pensare poco con la loro testa e quindi sono elementi perfetti in un sistema imperfetto, ha vinto. Non sanno di aver vinto contro se stessi. Per costoro l’importante è stare dalla parte della maggioranza, senza mai chiedersi se stanno dalla parte giusta.


ADOZIONI OMOGENITORIALI: TRA LEGGE E GIURISPRUDENZA.

di Martina Grassini

Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con la recente pronuncia depositata il 31 marzo 2021 n. 9006, intervengono sul riconoscimento in Italia dell’adozione da parte di una coppia omogenitoriale maschile avvenuta all’estero.

Avv. Martina Grassini ==>>

La Suprema Corte ha ritenuto di formalizzare e riconoscere la genitorialità della coppia omosessuale, escludendo così che il principio di eterosessualità  della coppia vigente nel nostro ordinamento, possa essere inteso quale principio di ordine pubblico internazionale.

Nel caso in esame la Cassazione si è pronunciata sul ricorso del Sindaco di un Comune lombardo, che impugnava la trascrizione in Italia di un adoption order emesso dalla Surrogate Court negli Stati Uniti, che attribuiva alla coppia omogenitoriale lo status di genitori adottivi di un minore.

Dopo ampio excursus sul concetto di ordine pubblico internazionale, la Corte di Cassazione afferma come la condizione soggettiva costituita dall’eterosessualità della coppia, vigente ancora all’interno del nostro ordinamento, non costituisce principio di ordine pubblico internazionale. Per tale motivo il provvedimento straniero che riconosce il figlio adottivo di coppia omogenitoriale deve essere riconosciuto e trascritto anche in Italia.

In conclusione la Cassazione afferma come le condizioni di accesso alla genitorialità adottiva previste  dal nostro ordinamento (e dunque l’eterosessualità) nono possono introdursi tra “i principi di ordine pubblico internazionale” che possano limitare il riconoscimento di un atto straniero in Italia.

Viceversa la Suprema Corte evidenzia come sia necessario garantire l’applicazione dei principi di derivazione costituzionale che si pongono in una condizione di sovraordinazione in quanto diritti inviolabili della persona.


Le forze centripete nei gruppi sociali

In questo articolo prenderemo in considerazione le forze centripete presenti nei gruppi sociali. Tali forze permettono ad un gruppo di continuare ad esistere nonostante il fatto che i gruppi come gli individui siano soggetti a continui cambiamenti.

<<== Prof. Giovanni Pellegrino

Le principali forze centripete sono la coesione e la conformità: la coesione è quella forza che tiene unito il gruppo nonostante le situazioni problematiche siano inevitabili nella vita dei gruppi. Mentre la conformità è quella forza che rende il più possibile uniforme la visione del mondo dei componenti del gruppo.

Ciò premesso dedicheremo la nostra attenzione alla coesione che può essere definita quella forza, quel collante, quel sentimento che tiene unito il gruppo anche nelle situazioni difficili. Palmonari defisce la coesione la risultante di quel processo sociale per cui un insieme di individui diventa un gruppo e si mantiene come tale resistendo alle forze che tendono a provocarne lo scioglimento. Tuttavia dobbiamo precisare che la coesione non è esclusivamente una forza centripeta di gruppo dal momento che è riscontrabile anche nel rapporto tra due amici. Essi certamente non costituiscono un gruppo ma una diade fermo restando che alla base della coesione vi è un’attrazione interpersonale.

A questo punto dobbiamo fare un’importante distinzione tra attrazione personale e attrazione sociale. Infatti possiamo affermare che tra due amici che costituiscono una diade esiste un’attrazione personale ma non esiste un’attrazione sociale. Possiamo affermare che tra due amici esiste attrazione personale in quanto essa è frutto del rapporto interpersonale che esiste tra due individui e delle caratteristiche psicologiche da essi possedute, anche se essi appartengono a due gruppi in conlitto tra loro. L’attrazione personale può esistere anche tra individui che fanno parte di gruppi che sono in aperto conflitto tra loro perché non è assolutamente collegata all’identità sociale dell’individuo.

Vogliamo precisare che col termine identità sociale si intende in psicologia sociale e in sociologia la concezione che un individuo ha di se stesso in quanto membro di gruppi o di catagorie sociali. In estrema sintesi possiamo che l’attrazione personale è collegata e dipende dall’identità personale dell’individuo mentre l’attrazione sociale dipende dall’identità sociale dell’individuo. In psicologia sociale e in sociologia col termine identità personale si intende la concezione che un individuo ha di se stesso come essere unico e distinto dagli altri, ivi compresi gli appartenenti al suo gruppo sociale.

Per rendere chiara al lettore la differenza esistente tra attrazione personale e attrazione sociale ipotizziamo che due grandi amici facciano parte di due partiti politici in conflitto tra loro. Ipotizziamo anche che il fatto di avere idee politiche opposte non crei nessun problema al loro rapporto. Nell’esempio da noi citato possiamo affermare che tra due persone esiste un’attrazione personale ma non esiste attrazione sociale in quanto i soggetti fanno parte di gruppi che sono in aperto conflitto tra loro.

Quindi ci può essere attrazione sociale solamente quando due individui fanno parte dello stesso gruppo sociale. Tuttavia in nome della sua identità personale un individuo può decidere di diventare amico di una persona che è membro di un gruppo che è in conflitto con il suo. Naturalmente l’individuo in questione sa bene che tale scelta potrebbe non essere approvata dai membri del suo gruppo dal momento che tale scelta entra in contrasto con la sua identità sociale. Appare evidente che se in un individuo l’identità sociale è più forte dell’identità personale egli non stringerà mai rapporti di amicizia con individui che appartengono a gruppi o categorie che hanno un rapporto conflittuale col suo gruppo o con la sua categoria. In sintesi vogliamo precisare che l’attrazione personale dipende dall’identità personale, mentre quella sociale dipende dall’identità sociale.

Riteniamo di aver spiegato al lettore i quattro concetti di fondamentale importanza nella psicologia sociale e nella sociologia quali l’identità personale, l’identità sociale, l’attrazione personale e l’attrazione sociale. Vogliamo altresì precisare che solo l’attrazione sociale è un fenomeno di gruppo dal momento che produce la coesione di gruppo. Invece l’attrazione personale non è un fenomeno di gruppo in quanto non determina la coesione di gruppo ma semplicemente coesione all’interno di una diade (di amici, di colleghi, di fidanzati o coppia di marito e moglie). Dobbiamo anche mettere in evidenza che l’attrazione sociale è un’attrazione depersonalizzata, dal momento che i sui oggetti sono intercambiabili tra di loro poiché essi suscitano sentimenti positivi dal momento che appartengono allo stesso gruppo dell’individuo e non per le loro caratteristiche personali. In alcuni casi può anche accadere che si trovi attrazione sociale per un individuo, in quanto membro del proprio gruppo ma non si trovi attrazione.

Vogliamo mettere in evidenza che la forza dell’attrazione sociale è determinata da una grande quantità di fattori quali le relazioni intergruppi e le relazioni intragruppo. Per fare un esempio nel caso che sia in corso un conflitto intergruppo l’attrazione sociale che un individuo prova nei confronti dei membri del proprio gruppo tende ad aumentare, determinando di conseguenza un aumento della coesione di gruppo. Bisogna evidenziare che la coesione di gruppo riveste molta importanza nella vita del gruppo dal momento che solamente quei gruppi che presentano una forte coesione interna riescono ad ottenere importanti vittorie e risultati gratificanti. Riguardo al legame esistente tra coesione interna e risultati positivi ottenuti dai gruppi, Palmonari afferma che le squadre costituiscono un ambito privilegiato per studiare tale rapporto.

Le ricerche svolte da molti sociologi hanno dimostrato che esiste una relazione positiva tra coesione e prestazioni sportive. Nell’ambito sportivo risulta determinante non solo la coesione esistente ma anche la coesione presente tra gli atleti e l’allenatore. Anche nelle squadre di calcio la coesione è la condizione indispensabile per vincere le partite. Non dimentichiamo che nelle squadre di calcio accade spesso che le divisioni e i conflitti esistenti tra i giocatori oppure tra i giocatori e l’allenatore determinano una serie di sconfitte anche se la squadra è formata da ottimi calciatori. A volte la scelta del presidente di una squadra di calcio di esonerare l’allenatore permette alla squadra di ottenere una serie di vittorie. Tali vittorie sono determinate dal fatto che il nuovo allenatore riesce ad aumentare il grado di coesione esistente tra i giocatori nonché il grado di coesione esistente tra allenatori e giocatori. Comunque se è vero che la coesione aumenta le possibilità di vittoria di una squadra di calcio è altrettanto vero che le vittorie delle partite aumentano la coesione tra i giocatori e tra i giocatori e l’allenatore.

Al contrario una lunga serie di sconfitte finisce per determinare una forte diminuzione della coesione tra i componenti della squadra dal momento che quando si verificano delle sconfitte si formano dei sottogruppi tra i giocatori che si attribuiscono a vicenda le colpe delle sconfitte. Inoltre le sconfitte inducono molti giocatori a non aver più fiducia nelle scelte dell’allenatore, ragion per cui nascono conflitti tra allenatore e una parte dei giocatori. I sociologi dello sport hanno compiuto interessantissimi studi su come i cosiddetti fattori ambientali possono influire sulle prestazioni sportive dei calciatori ed anche di altre tipologie di atleti Tuttavia in questa sede non possiamo affrontare dettagliatamente tali problematiche complesse per ragioni di spazio.

A questo punto del nostro articolo riteniamo opportuno prendere in considerazione la seconda forza centripeta ovvero la conformità. Lucia Zani definisce la conformità come l’adesione ad un’opinione o ad un comportamento che predominano in un gruppo anche quando questi sono in contrasto con il modo di pensare di alcuni membri del gruppo. Nella vita sociale capita abbastanza spesso che alcuni membri di un gruppo aderiscano in nome della conformità a scelte effettuate dal loro gruppo di appartenenza, anche se sono convinti che tali scelte sono sbagliate o comunque sono in contrasto con il loro principio morale.

Diversi sono i motivi che possono indurre i membri del gruppo a conformarsi alle decisioni prese dalla maggioranza dei membri anche se tali decisioni non sono condivise dal soggetto. Il primo di tali motivi è rappresentato dalla compiacenza. In questo caso il membro del gruppo si conforma alle decisioni prese dalla maggioranza per evitare di apparire diverso dagli altri componenti del gruppo. Infatti i sociologi e gli psicologi sociali sanno bene che molte volte la diversità viene considerata all’interno dei gruppi un vero e proprio stigma, un sinonimo di stranezza. Altre volte il soggetto si conforma alle decisioni della maggioranza anche per la paura di essere oggetto di ritorsioni da parte dei membri del gruppo dotati distatus elevato.

Dobbiamo anche dire che tale paura è molto spesso basata su considerazioni realistiche in quanto in molti gruppi individui che hanno il coraggio di contestare le decisioni della maggioranza o del leader e dei suoi collaboratori subiscono ritorsioni di vario tipo. Infine nel caso della compiacenza l’individuo si conforma alle decisioni del gruppo anche per non essere giudicato male dagli altri. Accade molto spesso che giudizi negativi derivanti dal fatto che il soggetto non si è conformato alle decisioni del gruppo, non sono espressi in presenza della persona diffidente ma in sua assenza, assumendo a volte la forma di calunnie nonché di pettegolezzi. In ogni caso dobbiamo dire che non è una scelta facile quella di non conformarsi alle decisioni e ai comportamenti della maggioranza dei membri di un gruppo. Ciò espone il soggetto a notevoli rischi psicosociali non facilmente gestibili e controllabili da parte del soggetto dissidente.

Un altro motivo che induce il soggetto a conformarsi alle decisioni del gruppo è l’accettazione. In tal caso i membri del gruppo che non condividono la posizione della maggioranza o quella del leader accettano tale posizione perché la questione sulla quale il gruppo ha espresso la propria opinione è ambigua e di difficile valutazione. Di conseguenza l’individuo pur pensandola in maniera diversa dal gruppo non è sicuro di essere nel giusto proprio a causa dell’abiguità della questione. Per tale ragione l’individuo sceglie di conformarsi alla posizione del gruppo temendo di avere un’idea sbagliata intorno alla questione. Dobbiamo evidenziare che nel caso di questioni ed opinioni ambigue è normale che l’individuo abbia paura di sbagliare facendo di testa propria e cerchi di conseguenza il supporto psicologico derivante dall’adeguarsi alle opinioni della maggioranza.

Infine un terzo motivo induce gli individui a conformarsi alle decisioni dl gruppo è la convergenza. La convergenza è una motivazione alla conformità di tipo affettivo, dal momento che è un’esperienza sgradevole, nonché stressante opporsi ad una maggioranza concorde. Per dirla in altro modo il fatto di opposi alle decisioni del gruppo causa all’individuo forte spreco di energia nervosa. Tale spreco energetico soprattutto in soggetti che si trovano in uno stato di ipoergia nervosa (deficit di energia nervosa dovuta ad una serie di situazioni stressanti od ansiogene) può causare vari tipi di problemi psicologici. Proprio per evitare questi problemi psicologici che non sono dovuti alla ritorsione del gruppo ma alla struttura della personalità dell’individuo, l’individuo si autoconvince che il gruppo ha ragione e che la sua opposizione è priva di senso.

Dobbiamo dire che molto spesso tale autoconvinzione è dovuta solamente ad auto suggestioni e non è basata su motivazioni oggettive ma anche sulla necessità di evitare penosi sensi di colpa derivanti dal non essersi conformato alle decisioni del gruppo. Concludiamo il nostro articolo mettendo in evidenza che le forze centripete hanno soprattutto la funzione di preservare la realtà sociale condivisa dai membri del gruppo. Come afferma Festinger la costruzione di una realtà sociale condivisa è tipica di ogni gruppo che voglia avere una certa durata nel tempo.

Giovanni Pellegrino e Mariangela Mangieri

Bibliografia

F. D’Agostino, Il codice deviante, Armado,Roma,1984;

G. Pellegrino, Una lettura sociologica della realtà contemporanea, New Grafic Service, Salerno,2003;

G.Pellegrino, I miti della società contemporanea, NewGrafic Service, Salerno, 2005;

G. Pellegrino, Una introduzione allo studio dei gruppi sociali, New Grafic Service,2004;

H.Reimann, Introduzione alla sociologia, Il Mulino, 1978;

P. Sneider, Psicologia medica, Milano, Feltrinelli,1988;

C. Speltini- A. Palmonari, I gruppi sociali, Il Mulino, Bologna, 1999;

P. Sneider, Psicologia medica, Milano, Feltrinelli,1988;

L. Zani, Psicologia e vita, Fratelli Fabbri Editor, Milano R.Wallace- A. Wolf, La teoria sociologica, Il Mulino, B. –


L’ASSEGNO UNICO E UNIVERSALE

di Martina Grassini

Tra le novità del 2021 nell’ambito della famiglia spicca una nuova misura, seppur attualmente non ancora in vigore: l’assegno unico familiare. Dal 1° luglio 2021 i nuclei familiari con figli a carico sino al ventunesimo anno di età dovrebbero poter godere di tale beneficio.

L’assegno unico e universale è previsto con cadenza mensile per ogni figlio nascituro a decorrere dal settimo mese di gravidanza, per ogni figlio minorenne a carico, per ciascun figlio disabile anche dopo il compimento del ventunesimo anno di età, qualora risulti ancora a carico.

L’assegno sarà riconosciuto inoltre per il figlio maggiorenne a carico sino al compimento del ventunesimo anno di età. L’importo sarà però inferiore e potrà essere corrisposto direttamente al figlio qualora ne faccia richiesta, al fine di favorirne l’autonomia.

I requisiti per il figlio maggiorenne saranno i seguenti:

  • frequenza di un percorso di formazione scolastica;
  • svolgimento di un tirocinio o un’attività lavorativa limitata;
  • stato di disoccupazione;
  • svolgimento del servizio civile.

L’ammontare dell’assegno sarà modulato sulla base della condizione economica della famiglia (rilevate dall’ISEE) e potrà essere concesso sia nella forma di somma di denaro a cadenza mensile, che come credito d’imposta.

I richiedenti dovranno essere in possesso di alcuni requisiti quali:

  • residenza e domicilio con i figli a carico in Italia;
  • cittadinanza italiana o di uno Stato membro dell’Unione europea;
  • soggezione al pagamento dell’imposta sul reddito in Italia;
  • residenza in Italia per almeno due anni consecutivi e/o titolarità di un contratto di lavoro a tempo indeterminato o determinato di durata biennale.

L’assegno sarà riconosciuto ad entrambi i genitori, tra i quali verrà ripartito in egual misura o al soggetto che esercita la responsabilità genitoriale.

E per i genitori separati?

In caso di separazione legale o divorzio l’assegno, i genitori potranno concordemente decidere chi dei due avrà diritto alla fruizione. In mancanza di accordo il beneficio sarà corrisposto al genitore affidatario, mentre in caso di affidamento congiunto e condiviso, invece, l’assegno sarà ripartito in egual misura tra i genitori.

Avv. Martina Grassini

Comunicazione ed educazione nell’era dei new media: una prospettiva sociologica

di Michele Petullà

Parlare di comunicazione, oggi più che mai, vuole anche dire confrontarsi con luoghi comuni, credenze sedimentate e, più in generale, con il nostro sapere implicito su di essa. È abbastanza evidente, ormai, che oggi la comunicazione umana – con la continua e progressiva diffusione dei new media digitali – costituisce uno dei fenomeni più importanti e determinanti che caratterizzano la nostra vita sociale e la società tutta.

<<=== dott. Michele Petullà

Una realtà, questa, che, tanto nel dibattito specialistico quanto nel sentire comune, diventa spesso oggetto di critiche o esaltazioni – dividendo le posizioni tra apocalittici e integrati – circa il potere dei media di manipolazione e/o rappresentazione della realtà. Nell’analisi di questo fenomeno sociale, improntata secondo una prospettiva di carattere sociologico, pertanto, non si può prescindere dal fatto che la convivenza con i media è divenuta sempre più stretta e che, oggi, la dipendenza dai loro contenuti in-formativi è progressivamente aumentata. Attraverso il loro uso, infatti, ci teniamo in contatto con quanto accade nel mondo, acquisiamo informazioni e conoscenze, intratteniamo relazioni interpersonali – sia pure indirette e mediate – superando i tradizionali vincoli spazio-temporali.

In questo contesto, che è in continua e rapida evoluzione, anche il mondo della scuola, e dell’educazione in generale, è chiamato a confrontarsi con esigenze e realtà nuove, ridefinendo il suo ruolo e le sue pratiche educative. Buona scuola, da questo punto di vista, è sicuramente quella che è capace di formare ed educare donne e uomini che sappiano leggere ed interpretare i segni di questo tempo, cittadini di questo mondo – sempre più contrassegnato dalla comunicazione massmediologica digitale e virtuale – che bisogna necessariamente imparare ad abitare. La comunicazione, in ambito educativo-formativo, è l’essenza dell’azione didattica stessa. Secondo l’assunto di Paul Watzlawick – psicologo e filosofo, esponente della scuola statunitense di Palo Alto – “è impossibile non comunicare”: ogni atto umano è un atto di comunicazione, anche quando non espresso attraverso la parola; anche il silenzio è un atto comunicativo; i gesti e la postura parlano per noi; il corpo è una fonte silenziosa, ma molto efficace, di comunicazione non verbale. La comunicazione rappresenta la condizione fondamentale per la creazione di relazioni sociali.

Il docente, l’educatore di oggi, e ancor più quello di domani, pertanto, deve sapere utilizzare tutti gli strumenti della comunicazione e conoscere tutti i codici linguistici e di significazione che vengono utilizzati dagli allievi per comprendere, indirizzare, saper ascoltare, valorizzare, in una parola e-ducare, cioè portare a compimento e realizzazione le loro potenzialità. Questo moderno campo di indagine e pratica sociale, noto come Educazione Mediale (o Media Education, come di solito si preferisce dire nel dibattito specialistico internazionale), si colloca a cavallo tra la Sociologia dell’educazione e la Sociologia della comunicazione. Una prospettiva secondo la quale i media, soprattutto quelli digitali, producono cambiamenti consistenti nel modo in cui i soggetti modellano il proprio pensiero e lo condividono con i loro simili.

Tipica di questo schema è l’idea che i media producano la genesi di un nuovo tipo di pensiero, un pensiero “parallelo” che va a prendere il posto di quello “sequenziale” coltivato dalla scrittura e dalla stampa (è questo uno degli argomenti che hanno condotto Marc Prensky – scrittore statunitense, consulente e innovatore nel campo dell’educazione e dell’apprendimento – a formalizzare la differenza tra “nativi” e “immigrati” digitali). Questo campo di ricerca (teorico-pratico, fatto di riflessioni e di azioni) potrebbe essere coperto anche dall’espressione “Pedagogia dei media”, intesa come elaborazione teorica, in prospettiva formativa, che assume i media come oggetto dell’azione educativa; una pedagogia, dunque, generata dalla cultura in cui i media sono i soggetti fondamentali.

C’è da dire che le ricerche condotte negli ultimi anni, sul duplice versante delle scienze della comunicazione e delle scienze dell’educazione, hanno messo in evidenza che esiste un profondo legame, di tipo circolare, tra i sistemi comunicativi (media) e i sistemi educativi. Da una parte i processi di formazione trovano sempre più nei media il proprio ambiente relazionale, per quanto riguarda la dimensione pratica della trasmissione del sapere (sul versante degli educatori, siano essi genitori o insegnanti o formatori) e la sua elaborazione (sul versante dei processi di apprendimento attivati dagli educandi); dall’altra parte i media vengono a loro volta “de-formati” e “in-formati” dalle dinamiche culturali originate dal sistema educativo come parte costituente e determinante di ogni cultura nel suo sviluppo storico-sociale.

La relazione tra comunicazione ed educazione, dunque, è ormai un dato di fatto, sempre più evidente è il ruolo determinante dei media come ambiente relazionale dei sistemi educativi. Questa relazione, inoltre, mette in gioco alcuni elementi teorici e pratici che hanno a che fare con i processi di formazione e di apprendimento e che sollecitano un’attenta riflessione sul carattere problematico dell’”educare nella società dei medi”. I new media, infatti, ci restituiscono una Società segnata dalla comunicazione non verbale e multimediale, caratterizzata da un flusso informativo continuo depositato su sistemi linguistici differenti, che coinvolgono suoni, immagini – fisse e in movimento – e testi scritti: una tale ricchezza segnica provoca una complessa ristrutturazione nella rappresentazione dei saperi, riorganizzando in parallelo anche il set mentale e le strategie cognitive dell’individuo.

Gli individui, di fatto, si nutrono dell’elaborazione culturale che abita nei mass media, rendendo tale sistema comunicativo lo spazio comune per la trasmissione degli orizzonti cognitivi e valoriali della società. Di fatto l’educazione dell’”oralità secondaria” vive nell’ibridazione tra ambienti formativi formalizzati (scuola) e ambienti (mediali) informali. Sempre più i processi formativi, anche quelli formalizzati, possiedono uno sfondo comune, quello mediatico, capace di dotare di nuovi significati l’esperienza socioculturale e di modellizzare i processi cognitivi.

Non è un caso che le cosiddette “agenzie educative tradizionali” (famiglia, scuola) – come generalmente riconosciuto, ormai, non solo dagli specialisti del settore – siano entrate, per certi versi, in crisi, perdendo il controllo dell’informazione educativa di fronte a un così potente concorrente. Il sistema mediale, infatti, si offre come spazio alternativo non formale, dotato di una pluralità linguistica e di una ricchezza rappresentativa che soddisfa la curiosità cognitiva delle molteplici intelligenze, anche se inevitabilmente porta alla contemporanea frammentazione/omogeneità dei contenuti informativi all’interno del flusso mediale, aprendo allo sviluppo di un pensiero più intuitivo rispetto a quello logico-argomentativo.

I nuovi media depositano su un solo supporto, sempre più miniaturizzato e personalizzato, tutta la molteplicità di codici rappresentativi in un unico ipertesto, che costituisce oggi l’ambiente comunicativo e cognitivo abitato non solo dai giovani. Un solo spazio comunicativo, nel quale convivono molti e diversi linguaggi, che apre a nuovi tracciati cognitivi. La struttura reticolare dell’ipertestualità e la sua plurilinguisticità rispecchiano non solo una nuova organizzazione dei saperi, ma anche una nuova idea di conoscenza. La natura connettiva e interattiva della Rete telematica (il ciberspazio) determina una serie di conseguenze nella riflessione odierna sull’educare: una nuova idea di alfabetizzazione, che tiene conto delle aperture connesse al leggere e allo scrivere nella Rete ipermediale; nuovi spazi “virtuali” di apprendimento, che provocano una tendenza alla delocalizzazione della “scuola”; la personalizzazione dell’apprendimento, che supera la standardizzazione dei processi imposti dalla struttura scolastica; il ripensamento del ruolo del docente, da intendere non più come colui che “scrive” nella mente dell’allievo (in-signum) ma come colui che allestisce situazioni atte a favorire/facilitare il processo di apprendimento (tutor), punto di orientamento nella vastità dell’informazione disponibile, orchestratore o regista della “drammatizzazione della comprensione”.

L’educazione mediale, pertanto, va contestualizzata oggi nell’ambito di una scena socioculturale in cui la presenza dei media digitali – dai media portabili, come il cellulare o l’iPod, agli applicativi del web 2.0, come i blog, Facebook e tutti i social media – è sempre più massiccia. Questa ricchezza del panorama che ci offre l’ambiente dei new media, ci pone di fronte a una realtà: la centralità del sistema neo-mediale nella costruzione della società e della sua cultura è oggi sempre più dominante. Un progetto educativo che abbia di mira la formazione della persona nella sua integrità non può, dunque, dimenticare una completa competenza mediale. Ciò vuol dire, in sostanza, che l’educatore contemporaneo dovrà possedere sempre più competenze da media educator.

Sulla base di questa prospettiva, l’Educazione mediale deve necessariamente declinarsi secondo tre prospettive fondamentali.

La prima è la prospettiva del Formare ai media digitali: assumerli, cioè, come oggetto della riflessione educativa per promuovere nei soggetti in formazione-educazione degli atteggiamenti di consumo corretti e, possibilmente, una consapevolezza critica al riguardo. Questa prospettiva è quella pedagogicamente più indispensabile. Essa fa riferimento alla riflessione e alla sperimentazione didattica riguardo ai media come risorsa integrale al servizio dei processi formativi-educativi e mira soprattutto alla promozione del senso critico dei soggetti. L’idea da veicolare è che i media non sono semplicemente una necessità cui tocca far fronte, ma un’opportunità cui non rinunciare; non sono una minaccia ai valori tradizionali della cultura, ma la possibilità di fornire ad essi una nuova articolazione; non sono una minaccia da cui difendersi, ma una risorsa cui attingere, sia pure con equilibrio e cautela.

La seconda prospettiva è quella del Formare con i media digitali: ricorrere ad essi come strumento, supporto per l’intervento formativo-educativo e veicolo dell’istruzione. I vantaggi di questa prospettiva vanno ricercati nelle possibilità offerte dal multimediale di operare attraverso una molteplicità di linguaggi, rompendo la monotonia della lezione frontale, innalzando i livelli medi di attenzione, moltiplicando i punti di accesso ai problemi.

La terza prospettiva è quella del Formare nei media digitali:assumerli, cioè, come contesto naturale di tutte le attività, come vero e proprio ambiente all’interno del quale l’attività di insegnamento/apprendimento avviene, secondo la logica implicita nel concetto di scuola digitale. Una scuola in cui la classe viene ripensata nei termini di una comunità di apprendimento, dove il computer, la LIM, i dispositivi mobili sono oggetto d’uso comune e non relegati a spazi deputati (l’aula informatica). A questo proposito giova fare riferimento a quella modalità particolare di formazione detta “a distanza”, che viene oggi indicata come online education: qui i media digitali sono realmente l’ambiente “in cui” si fa formazione; la piattaforma telematica, l’aula virtuale o il corso online costituiscono per gli studenti – che non condividono lo stesso spazio fisico – l’unico habitat all’interno del quale l’attività didattica si svolge, dove lo spazio dell’apprendimento è maggiore rispetto a quello dell’insegnamento, le attività di tipo collaborativo prevalgono rispetto a quelle di tipo trasmissivo e il docente assume più la funzione del facilitatore che di colui che trasmette le informazioni.

Queste prospettive, secondo cui intendere l’educazione mediale digitale, non vanno pensate in termini autoesclusive, ma vanno viste secondo un’ottica necessariamente integrata, tenendo a mente due indicazioni essenziali per ogni educatore: è necessario praticare e contestualizzare. Praticare, perché la debolezza delle idee di chi parla senza aver mai “navigato” una sola volta si vince solo facendo “navigare” e dimostrando che può essere un’esperienza produttiva dal punto di vista formativo-educativo. Contestualizzare, perché i media non vanno assunti come oggetto assoluto, ma sempre collocati nel contesto (socio-culturale) più appropriato, sullo sfondo di un ben preciso tipo di società e nella relazione con e tra i soggetti che concretamente ne fanno uso. Non esistono i media digitali: esistono i loro usi ed esistono le loro “ambientazioni sociali”.      

Michele Petullà, sociologo


Il caso Weinstein tra la Waterloo del giornalismo e il lavoro servile

di Patrizio Paolinelli

All’improvviso le luci di Hollywood sono letteralmente esplose e la più importante fabbrica dei sogni dell’Occidente si è rivelata al mondo come una tenebrosa casa degli orrori per tante, tantissime donne che lavorano nel celeberrimo quartiere di Los Angeles.

<< === prof. Patrizio Paolinelli

A fare da detonatore è stato il caso del molestatore seriale Harvey Weinstein, potentissimo produttore cinematografico statunitense, fondatore di una macchina da Oscar come la Miramax e in altri tempi definito “Dio” da Meryl Streep. Il caso è esploso grazie a un’inchiesta del New Yorker condotta per oltre un anno da Ronan Farrow (figlio di Mia Farrow e Woody Allen). Dall’inchiesta è emerso che per decenni Weinstein ha molestato attrici, impiegate e collaboratrici. Da parte del magnate sono seguite scuse contrite, qualche smentita e il momentaneo ritiro dall’attività. Lo scoop di Ronan Farrow non si è fermato al cinema e ha varcato i confini della città degli angeli generando un effetto domino in diverse nazioni e settori produttivi: il cinema appunto, ma poi la televisione, il mondo dell’alta tecnologia, quello della politica. Il sexgate parla anche italiano. L’attrice Asia Argento ha accusato Weinstein di averla stuprata nel 1997 in un hotel di Cannes, poi è scoppiato il caso del regista Fausto Brizzi e le molestie hanno lambito anche il mondo dello sport.

Tornando negli USA lo scandalo si è esteso a macchia d’olio nel mondo dei media e un discreto numero di dirigenti maschi sono stati denunciati. Nomi che dicono poco al grande pubblico, ma dietro i quali ci sono i grandi burattinai di quanto tutti noi vediamo su ogni tipo di schermo. Harvey Weinstein è uno di questi. Ma nella lunga lista possiamo segnalare John Lasseter, fondatore della Pixar e direttore creativo dell’animazione Disney. Il quale si è preso sei mesi di congedo dopo aver essersi scusato pubblicamente per i suoi abbracci un po’ troppo calorosi, “abbracci indesiderati” come lui stesso li ha definiti. Anche diversi divi del pantheon hollywoodiano ne sono usciti con l’immagine seriamente incrinata per non dire devastata. Rivelazione dopo rivelazione è venuto fuori che allungare le mani su donne (attrici e non) che gravitano nell’ambiente dello spettacolo è una pratica diffusa e sono fioccate denunce nei confronti di star del calibro di Ben Affleck, Dustin Hoffman, Sylvester Stallone e altri ancora, mentre Kevin Spacey accusato di molestie sessuali da un altro attore si è scusato e ha rivelato di essere gay. Certo, non mancavano precedenti terrificanti come quello di Bill Cosby, geniale uomo di spettacolo accusato da decine di donne di averle stuprate. Allo stesso tempo alcuni libri quali “Hollywood Babilonia” (1959), “Hollywood Babilonia II” (1984) di Kenneth Anger e “Sul sofà del produttore. Il rito del «Pedaggio sessuale» nella storia di Hollywood” (1990) di Selwyn Ford avevano acceso i fari sugli eccessi, gli abusi, le debolezze di tanti personaggi hollywoodiani a partire dall’alba dei grandi Studios. Ma fino a ieri i casi che emergevano erano di volta in volta presentati dalla stampa come un problema soggettivo e non come un problema sociale all’interno della numerosa comunità dello spettacolo. Mentre i libri alla fin fine hanno avuto più l’effetto di alimentare il mito di Hollywood che di dare il via a inchieste giornalistiche e giudiziarie.

Dinanzi ai sistematici ricatti sessuali subiti dalle donne nella mecca del cinema internazionale dai suoi esordi a oggi la prima cosa che salta in mente è che si tratta del segreto di Pulcinella. Lo stesso Ronan Farrow ha sostenuto che Weinstein ha potuto molestare indisturbato per anni perché protetto da una vera e propria “congiura del silenzio”. D’altra parte, senza andare in California, chiunque abbia anche solo sfiorato il mondo dello spettacolo di casa nostra si rende immediatamente conto di quante pressioni sgradite debbono subire le donne che circolano in quell’ambiente. Ambiente nel quale per molti è considerato del tutto normale che per fare carriera una donna debba andare a letto con qualcuno che conta. E pensare che Ed Wood nel 1966 scrisse un libro (pubblicato nel 1998 e in Italia nel 2000) dal provocatorio titolo “Hollywood: la corsa dei topi. Istruzioni ad uso di aspiranti divi“. Si tratta di un vero e proprio vademecum per riuscire a sfondare nel mondo del cinema. Ma si tratta anche di un manuale di autodifesa. Scrive Wood: “Posso dirvi che sono molto poche le persone che ottengono la loro prima occasione a Hollywood, New York e in qualche altro posto del mondo senza che capiti loro di essere inseguite intorno a un tavolo o due (o anche tre o quattro) da qualche produttore sudicione. Questo vale non solo per le ragazze, ma anche per i ragazzi. E non parlo di donne produttore; ce ne sono molto poche. … Da qualsiasi luogo veniate, da una grande città o da una piccola, o da qualsiasi posto del mondo, badate di portarvi le scarpe da tennis, perché sarà più facile catturarvi se avete i tacchi alti”.

Molte donne non sono riuscite a correre abbastanza in fretta eppure il caso Weinstein sembra indicare la rottura di un globale muro di omertà. Per questo in tanti fingono di cascare dalle nuvole. Che lo facciano i politici, ad esempio i Clinton e gli Obama, può essere comprensibile anche se difficilmente giustificabile. Ma la stampa? Bisognava aspettare il 2017 per sapere quel che tutti, al di qua e al di là dell’Atlantico, sapevano da sempre? Possibile che la cosa sia sfuggita ai giornalisti che si occupano di costume, spettacolo, moda, cultura? Per fortuna non a tutti. Difatti in passato diversi cronisti avevano provato, senza riuscirci, a rivelare le malefatte di Weinstein. Nel 2004 ci provò una giornalista che all’epoca lavorava per il New York Times, Sharon Waxman. Ma la sua indagine venne insabbiata forse per timore di perdere importanti inserzionisti o forse per l’intervento di un paio di noti attori. Comunque sia non venne pubblicata. Lo stesso Ronan Farrow si è vista rifiutata la sua inchiesta da parte del colosso radiotelevisivo NBC prima di pubblicarla sul New Yorker. E se non fosse una catastrofe per l’informazione mainstream ci sarebbe da ridere nell’apprendere che, pochi giorni prima dell’esplosione dello scandalo, Harvey Weinstein sia stato insignito del titolo di “Uomo verità” dai giornalisti del Los Angeles Press Club. Quantomeno la scoperta che il New York Times abbia insabbiato un’inchiesta sgradita ai potenti dovrebbe costituire una notizia-bomba, un vero e proprio Watergate alla rovescia e dunque un serio motivo di riflessione per tutta la stampa visto che la testata statunitense è indicata come un modello da seguire. Al momento così non è. Non resta che sperare in qualche sussulto deontologico.

Sul piano dell’informazione la vicenda nata con lo scandalo Weinstein purtroppo conferma che la stampa deve rendere conto a poteri più forti, in primo luogo quello economico, e che dunque la sua libertà è limitata e il suo ruolo di cane da guardia della democrazia dipende dalle situazioni. Parole queste, libertà e democrazia, che vengono ripetute ogni giorno innumerevoli volte sui media per convincere il grande pubblico di vivere in una realtà che nei fatti è diversa, ma intanto i fatti sono sostituiti da una realtà mediatica che diventa più vera della realtà fattuale. E così delle donne impegnate nel mondo dello spettacolo la fabbrica del consenso mostra quasi esclusivamente i sorrisi, la vita mondana, le gioie del successo. Finché un giorno accade l’irreparabile, o meglio qualcosa molto complicato da riparare come l’emersione di un violento e generalizzato machismo nel mondo dei media. Naturalmente c’è chi parla di una nuova inquisizione, chi soffia sul fuoco di un probabile complotto politico, chi ipotizza regolamenti di conti tra élite del cinema e qualche filisteo prova persino a sostenere che in fondo è grazie alla stampa che il caso Weinstein è venuto fuori. Mi è persino capitato di leggere l’articolo di una corrispondente italiana da New York in cui sosteneva di essere stata più volte abbracciata da John Lasseter senza mai percepire secondi fini. Anche il pressappochismo aiuta a rimettere insieme i cocci del mito hollywoodiano. Mentre l’informazione mainstream gestisce con grande professionalità la memoria e l’oblio del grande pubblico. E in direzione dell’oblio si muovono le preoccupazioni di Joseph Nye, politologo di Harvard a teorico del soft power, la strategia morbida di penetrazione dello stile di vita statunitense su tutto il pianeta. Nye in una breve ma molto chiara intervista rilasciata a Francesco Semprini il 14 novembre scorso e pubblicata su La Stampa di Torino ha dichiarato che lo scandalo degli abusi danneggia soprattutto Hollywood, ma se dovesse perdurare potrebbe mettere a rischio l’efficacia di un’arma strategica come il soft power. Il messaggio implicito non lascia spazio a dubbi, soprattutto se si tiene conto che Hollywood è integrata col Pentagono a tutela degli interessi statunitensi nel mondo tramite quello che Jean-Michel Valantin ha definito il “cinema di sicurezza nazionale”.

Tralasciando la stampa di destra impegnata a colpevolizzare le vittime, il dibattito pubblico innescato dallo scandalo Weinstein si è concentrato su aspetti importanti. Ad esempio l’onda lunga del patriarcato, il rapporto uomo donna, quello tra sesso e potere e così via. In poche parole ci si è interrogati quasi esclusivamente sulla natura culturale del fenomeno molestie sessuali. Il che è senz’altro importante, anzi decisivo. Ma da quanto ho letto e ascoltato un elemento centrale è passato in secondo piano. E cioè il fatto che le donne molestate, abusate e violentate cercavano lavoro o stavano lavorando. Occorre allora porsi la seguente domanda: qual è il modello occupazionale imperante nel mondo dello spettacolo visto che le molestie nei confronti delle donne sono una routine? E’ presto detto. Il lavoro è a chiamata e temporaneo, il contratto è individuale e una volta concluso ci si ritrova a spasso, le ferie retribuite non esistono e l’assistenza sanitaria è a proprie spese così come i contributi per la pensione. Bastano queste poche pennellate per immaginare in quale gorgo di ricatti, compromessi e autosfruttamento precipitino tante aspiranti dive e divi.

Certo per chi diventa star del piccolo o del grande schermo la fortuna economica è assicurata. Ma spesso il prezzo è alto. E a proposito di prezzo, cari lettori, ora vi rivelo un altro segreto di Pulcinella che, chissà, tra una ventina d’anni potrebbe assurgere alle cronache internazionali grazie all’inchiesta di qualche giornalista statunitense permettendogli forse – come già si vocifera per Ronan Farrow – di vincere il Premio Pulitzer. Il segreto è il seguente. Abbiamo tutti notato che da molti anni praticamente la quasi totalità dei film destinati al grande pubblico e le serie televisive di prima serata contemplano inderogabilmente diverse scene di attrici senza veli e più o meno lunghe sequenze porno-soft. Le attrici che sono indisponibili a girarle semplicemente non lavorano e la loro carriera è compromessa o quantomeno molto rallentata. D’altra parte c’è un esercito di attrici disoccupate pronte a tutto pur di avere una parte. Attendiamo il prossimo scoop internazionale.

Cosa ricorda il modello occupazionale fondato sulla tournée, sul contratto personale attore-produttore e sul piegare la testa dinanzi a qualsiasi vessazione, molestie sessuali comprese? Ricorda le politiche di deregolamentazione del lavoro in atto da una trentina d’anni a questa parte in tutto l’Occidente. Ricorda il trionfo del neoliberismo, ovvero l’affermarsi di una nuova edizione del lavoro servile che nel caso del grande schermo convive con l’alta tecnologia degli effetti speciali. E forse non è un caso che Ronald Reagan provenisse dal mondo del cinema. In fondo, per quanto concerne il lavoro, la sua politica non ha fatto che riprodurre su larga scala il sistema occupazionale hollywoodiano. Sistema in cui chi cerca lavoro è letteralmente in balia di chi lo offre. Una vera e propria condizione di sudditanza medioevale che fa strame dei diritti più elementari conquistati nel corso della modernità. Uma Thurman ha rivelato le molestie subite da Weinstein dopo anni e come lei tante altre attrici. Perché hanno aspettato così tanto tempo? Perché se lo avessero denunciato subito la loro carriera si sarebbe bruscamente interrotta e in altri casi neanche iniziata. Arrivati a questo punto resta un interrogativo: finiranno le molestie sulle donne nel mondo dello spettacolo? Nell’immediato sicuramente molti maschi si terranno le mani in tasca. Ma finché i rapporti di forza tra domanda e offerta di lavoro saranno così squilibrati c’è da dubitare che l’autocontrollo reggerà a lungo.

Patrizio Paolinelli, via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, 9 dicembre 2017.


15 MARZO, GIORNATA NAZIONALE SUI DISTURBI ALIMENTARI

 “Siamo ciò che mangiamo” L. Feuerbach

di Francesca Santostefano

Il 15 Marzo si celebra la Giornata nazionale di sensibilizzazione sui disturbi alimentari, una problematica che colpisce quasi il 40% dell’intera popolazione italiana, spesso a soffrire di tale disturbo sono gli adolescenti e spesso da un punto di vista del genere sono le ragazze tra le più colpite. Cosa si intende nello specifico per disturbo alimentare o correlato all’alimentazione?

<< == dott.ssa Francesca Santostefano

I disturbi del comportamento alimentare (DCA) sono delle patologie connotate da una sorta di alterazione delle normali abitudini alimentari e da un’ossessione per le proprie forme del corpo al fine di mantenere il proprio peso corporeo negli standard che spesso una società troppo perfezionista pretende. Tali disturbi, i quali hanno correlazioni psicologiche e sociali, insorgono durante il periodo adolescenziale, un periodo di transizione ove il corpo muta e si hanno molteplici conflitti con il mondo circostante. Vi sono dei comportamenti tipici riguardo il disturbo alimentare quali il digiuno, la minor quantità di cibo consumato, vomito per controllare il proprio peso, l’uso talvolta di lassativi o diuretici.

Fra i disturbi alimentari più diffusi vi sono l’anoressia nervosa, la bulimia nervosa ed il disturbo da alimentazione incontrollata (o Binge Eating disorder, BED); tali disturbi sono riportati dal DSM 5 e vi riporta anche i disturbi della nutrizione (Feeding disorders). Le condizioni psico-sociali sono un terreno fuorviante a favorire l’esplosione di tali disturbi, pertanto, da un punto di osservazione sociologica, il corpo o meglio ancora la percezione di esso e la percezione del mondo esterno sono condizionati ininterrottamente dalle forme congetturate dalla società. Altresì si afferma che le condotte sociali siano “parte strutturale del nostro modo di recepire il corpo: i modelli culturali appaiono letteralmente incarnati nel corpo stesso”, dunque noi siamo quello che mangiamo, ostentiamo ciò che mangiamo attraverso il nostro comportamento che dipende altresì dalla cultura di soggiorno. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’anoressia nervosa colpisce con maggior incidenza le donne.

Dagli anni ’50 del secolo scorso si comincia a parlare di anoressia nervosa definendola come un disturbo etnico ovvero un disturbo tipico di una certa cultura, secondo Gordon l’interiorizzazione del modello fisico dominante rappresenta una soluzione patologica del problema dell’identità in quanto consente di ridurre il disagio causato dai sentimenti di debolezza e dal conflitto interiore. L’identità femminile si concretizza in una donna più sicura e consapevole di sé tuttavia rinchiusa nello spazio dell’effimera apparenza, l’aspetto estetico è divenuto un must per poter scalare la strada del successo o della carriera. Sempre da un punto di vista sociologico, i mass media giocano un ruolo cruciale in tale prospettiva influenzando i soggetti predisposti a questi tipi di disagi incentivando con i modelli che propongono come la pressione sulla magrezza e la stigmatizzazione della grassezza. La donna di oggi è sottoposta a pressioni e contraddizioni dettate dall’esigenza di assumere ruoli che possano contrastare con le sue abitudini, un conflitto morale tra identità personale e modelli imposti dalla società.

CORRELAZIONE FRA DISTURBI ALIMENTARI E PANDEMIA DA COVID-19

L’incidenza fra disturbi alimentari e Covid 19 è aumentata del 30% ma non a causa del virus bensì dalle restrizioni sociali a cui abbiamo dovuto attenerci. Secondo una recente valutazione nei pazienti già in cura per i disturbi alimentari prima pandemia da Covid 19, vi è un peggioramento di essa causato soprattutto dall’isolamento sociale, la permanenza forzata a casa, la chiusura delle scuole e tutte le iniziative di coinvolgimento sociale. Inoltre le strutture atte all’assistenza ed al supporto socio relazionale dei pazienti durante il lock-down hanno dovuto sospendere le attività e dunque il piano terapeutico volto al sostegno non ha avuto, in tal periodo, riscontri positivi. Diciamo un’emergenze nell’emergenza poiché i colloqui psicologici e clinici sono stati sostituiti dalle video-call che non hanno la stessa valenza, a ciò si aggiungono in tali pazienti stati di perenne angoscia, insonnia e depressione. Sul cibo proiettiamo le nostre inquietudini più profonde, ci ingozziamo se siamo ansiosi o ci si chiude lo stomaco per qualche pensiero di troppo, un paradigma piuttosto emblematico, uno specchio in cui riflettiamo noi stessi. Cibo è conflitto e noi siamo conflitto, tale commemorazione è un monito per sensibilizzare questo disturbo e soprattutto per fomentare la prevenzione che da poco tempo è stata sottovalutata.

Dott.ssa Santostefano Francesca – Sociologa – Socia ASI

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI – SITOGRAFIA

Disturbialimentariveneto.it., Cosa sono  i DCA disturbi del comportamento alimentare.

Thebottomup-it.cdn.ampproject.org., Anoressia,,bulimia e il rifiuto del cibo.  

Www.nelfuturo.com.,  L’aspetto sociale dell’anoressia.

Www-avvenire-it.cdn.ampproject.org., Boom dei disturbi alimentari, ecco il virus degli adolescenti.


Il borghese e lo sguardo. Mutazioni dei sensi nella civiltà capitalistica

Saggio di Patrizio Paolinelli

prof. Patrizio Paolinelli

1. Il capitalismo è un modo di produzione fondato sulla merce. La civiltà capitalistica è un sistema di riproduzione sociale della forma-merce in forma-pensiero. Questo tipo di riproduzione si fonda sull’instabilità e la trasformazione, sullo sviluppo e la sua crisi. Qualità che trovano nella città il luogo di affermazione. E la città ha esteso ovunque la sovreccitazione sensoriale come modo di vivere, ha esteso in chiunque un sistema di bisogni percettivi corrispondente a quella sovreccitazione. Vettori dell’estensione sono i mass-media. Il loro ruolo è oggetto di molteplici analisi. Quelle critiche hanno generato concetti interni alla nozione di riproduzione sociale quali: la trasmissione ideologica dell’individualismo borghese, l’induzione al consumismo, la spettacolarizzazione della merce, la manipolazione dell’opinione pubblica, il pensiero unico. I risultati sono notevoli: nessuno si aspettava che i riproduttori della civiltà capitalistica dessero vita a un poderoso movimento transnazionale di opposizione sociale alla globalizzazione neoliberista. Una sorpresa della storia che ha affrontato a viso aperto la marcia trionfale del capitalismo dopo il crollo del socialismo reale e le forsennate retromarce della sinistra moderata europea colpevolmente incapace di cogliere le occasioni spalancate da quel crollo.

2. Uno dei libri che ha gettato le basi per una definizione delle istanze del movimento è No Logo, di Naomi Klein: inchiesta giornalistica che individua nel marchio aziendale una merce-immagine il cui valore simbolico è immediatamente politico. E la politica dei marchi aziendali contiene un elemento illiberale del controllo sociale: lo scambio a senso unico che trasferisce la personalità del prodotto nell’identità delle persone. La riduzione dell’esistenza a una <vita sponsorizzata>, <la piena integrazione tra pubblicità e arte, marchio e cultura>, l’espansione coloniale del marchio nello spazio mentale, l’innesto dell’immagine del prodotto nel modo d’essere e di apparire sono effetti che segnalano il profondo mutamento di statuto della merce, la radicale trasformazione del rapporto tra percezione e pensiero, lo stretto rapporto tra liberismo e totalitarismo. Rapporto che emerge dalla congiura del silenzio da parte dei mass-media sulla notevole quantità e qualità di forme di resistenza al potere del branding puntualmente descritte nell’inchiesta della Klein. Ma i mass-media non si limitano a pilotare l’informazione. Fanno molto di più: si appropriano delle icone nate dalle linee di fuga dell’immaginario critico e le mercificano assegnandogli un valore simbolico che entra in concorrenza con altre icone. Per evitare di finire nel ciclo della riproduzione No-Logo è un marchio registrato. Buona mossa. Commercializzandosi ha evitato la commercializzazione. Ha evitato la sicura sconfitta. A conferma della guerra tra griffe per catturare lo sguardo. A conferma della sottigliezza metafisica della merce.

3. La riproduzione della civiltà capitalistica è oggi l’oggetto del modo di produzione capitalistico: le idee dominanti sono le merci principali vendute dai dominatori. Sul piano pratico-ideologico obiettivi della borghesia sono: la prevalenza del mercato sulla società, il conseguente sogno liberale di estinguere lo Stato e l’altrettanto conseguente mercificazione di ogni cosa. In buona misura gli obiettivi sono stati centrati generando anche il loro contrario: un’opposizione mondiale contro il pensiero unico. Forze antisistema propongono modelli di sviluppo alternativi alla globalizzazione capitalistica, rapporti più equilibrati tra centro e periferia, tra produzione e consumo, tra società e ambiente. Lo scontro è aperto. Rispetto al passato la dimensione del conflitto sociale è su scala planetaria. In continuità con il passato la riproduzione della civiltà capitalistica avviene attraverso strutture profondamente antidemocratiche identificate da Samir Amin in cinque monopoli <che consentono al centro di polarizzare il mondo a proprio esclusivo vantaggio>: il monopolio tecnologico, il controllo finanziario dei mercati finanziari di tutto il mondo, l’accesso monopolistico alle risorse naturali del pianeta, il monopolio sulle armi di distruzione di massa, il monopolio sui media e la comunicazione.

4. La riproduzione della civiltà capitalistica avviene grazie al monopolio borghese dei media e della comunicazione: monopolio strategico per la combinazione di forze degli altri monopoli. Ed è a questo livello che si esercita una vasta opposizione. Lo strumento teorico del movimento e dei comunisti che sono dentro il movimento è la critica alle idee dominanti. E il discorso critico è in genere organizzato intorno ai seguenti postulati: demistificazione ideologica (della retorica sul pluralismo dell’informazione, sulla sovranità del consumatore ecc.), denuncia di una condizione asimmetrica e/o d’ingiustizia, rivelazione delle minacce più o meno occulte alla libertà, smascheramento della realtà, enunciazione di proposte alternative. A questa struttura discorsiva è plausibile agganciare nuovi postulati, nuove enunciazioni in grado di cogliere fattori di forza e di debolezza del monopolio capitalista dei media e non ancora precisamente individuati. Il punto di partenza è costituito da una domanda tanto macroscopica quanto semplice: è possibile superare la cultura borghese?

5. Le ondate tecnologiche producono maree di tecno-ottimisti. E le varie tribù di tecno-ottimisti sono divise tra loro da visioni radicalmente opposte. Due esempi: il Media-Lab del MIT di Boston capitanato da affaristi come Nicholas Negroponte schierato con la commercializzazione della convergenza tra informatica e media; i sostenitori della democrazia elettronica schierati con le comunità virtuali e ispirati da guru come Howard Rheingold. In genere entrambi i poli si attestano sulla nozione di società dell’informazione. Nozione di successo adottata persino nei documenti ufficiali dell’Unione Europea e nella versione del cyberspazio o ciberia da trasgressori impenitenti come Timoty Leary: <La funzione principale dell’essere umano del Secolo XXI sarà l’immagigneria –ingegneria dell’immagine- e la fabbricazione di realtà elettroniche; per imparare a esprimere, a comunicare e a condividere con altri le meraviglie del nostro cervello>. L’obiettivo è nobile. Ma al momento l’imagigneria è ad esclusivo appannaggio di una ristretta élite. Per favorirne l’estensione le profezie progressiste hanno un lavoro di autoconoscenza da compiere. Lavoro che parte dallo scrollarsi di dosso un elemento della cultura borghese: l’ideologia del determinismo tecnologico che presiede al concetto di società dell’informazione. Si tratta di un atteggiamento pseudorazionale che suppone la digitalizzazione di ogni cosa come un progresso in sé senza alcuna considerazione delle scelte politico-economiche che hanno determinato tale sviluppo e senza considerarne l’impatto sociale reale. Senz’altro entro un paio di generazioni l’Information Communication Technology (ICT) stravolgerà l’attuale ordine visivo: su Internet la tradizionale pubblicità dei vecchi media non funziona. Ma da questo a presagire una società svincolata dalle grandi corporation in virtù del solo progresso tecnologico ce ne passa. La battaglia contro i meccanismi di riproduzione della civiltà capitalistica si combatte sul terreno della politica e non su quello delle applicazioni tecnologiche per il semplice fatto che l’attuale tecno-scienza è un punto di vista semiotico e materiale. In una parola: non è oggettiva. In due parole: l’oggettività non esiste. In definitiva: l’osservatore è sempre di parte. Ciò non toglie che l’ICT non sia una buona occasione per i movimenti antisistema: per restare in Italia le reti di comunicazione alternativa presenti nel Web costituiscono una delle poche opportunità per lottare contro la dittatura mediatica di Berlusconi.

6. La cultura aziendale e la mercificazione della cultura diffusa dal monopolio capitalista sui media determinano l’essere prima ancora della coscienza. È una presa di posizione del pensiero critico che presenta tre vantaggi: permette di evitare il meccanicismo che interpreta la cultura come cinghia di trasmissione dell’economia; riconosce alla semiosfera, ossia l’ambiente culturale in cui circolano, si integrano e si trasformano i singoli atti della comunicazione, il triplo ruolo di: produttori di consenso sociale, contestatori del consenso sociale, merci immateriali generatrici di comportamenti materiali; il terzo vantaggio consiste nel ricondurre la critica alle radici bio-culturali dell’essere, al rapporto tra i sensi umani e le merci-immagine destinate a soddisfarli. Il telecomando che permette di accedere a decine di canali richiede una base fisica non ancora sviluppata dallo spettatore ottocentesco che nel buio delle prime sale cinematografiche si spaventa e fugge all’avanzare del treno sullo schermo. La mise super-sexy da italica soubrette televisiva con cui si abbigliano oggi ragazzine in età pre-puberale è un’altra manifestazione del riorientamento sensoriale. Cosi come lo sono le brucianti sconfitte che i bambini infliggono ai genitori quando gareggiano davanti ai videogiochi. Certo: l’addestramento dell’occhio e del cervello per muoversi in nuovi ambienti visivi è un dato ricorrente, basti pensare ai passaggi che vanno dall’introduzione della prospettiva nella pittura alla visione mobile e delocalizzata permessa da handy-cam, fotocamere digitali, videofonini. Ma la coevoluzione bio-culturale conosce fasi di accelerazione. Oggi attraversiamo una di queste fasi. E i processi di adattamento alle merci-immagini premiano nuove esperienze sensoriali. Una conferma dalle neuroscienze: il rapporto tra cervello e ambiente è un circolo virtuoso. Jean Pierre Changeux: <La macchina cerebrale costruisce rappresentazioni mentali perché essa è rappresentazione del mondo circostante>.

7. Il potere della merce-immagine consiste in questo: segni e simboli, marchi e linguaggio sono materie prime costantemente lavorate per gestire il mercato e le sue crisi. Esempio: nell’economia della riproduzione capitalistica il ruolo immateriale di dimensioni quali il design, il colore, il look diventa essenziale per la conquista dell’occhio: cavallo di Troia per espugnare il gusto e il tatto. La merce-immagine ha tendenze olistiche: tutto è in rapporto con tutto: bisogni e cultura, esperienza e denaro. La merce-immagine: un inquieto rapporto sociale che fa interagire funzionalmente percezioni e realtà. La merce-immagine: una sintesi mai compiuta, un’ecologia del valore che determina il remix del sistema sensitivo umano. Conseguentemente: odori, sapori, paesaggi, suoni e cose sono sottoposti a una mercificazione che non si esaurisce nella compravendita. Sconfina nella politica perché tutto è mercato: la comunicazione e la socializzazione, l’informazione e lo spettacolo, l’attività biologica e l’attività culturale, il piacere e il dolore.

8. La riproduzione del capitalismo è nel segno della trasformazione dell’esperienza sensoriale, include dominati e dominatori ed è oggi concentrata sulla produzione di un nuovo essere e di una nuova coscienza, di un nuovo sistema percettivo e di un sistema di idee. La presa del potere borghese sull’apparato sensoriale umano profila un’inedita sinestesia, una nuova coordinazione dei sensi integrata ad un immaginario generato da vecchi e nuovi media: processi di mutazione che alcune correnti dell’arte contemporanea stanno sondando da tempo. Sul piano della riflessione critica siamo in ritardo. Troppe volte non si prende atto che il liberismo prima di costituire un’ideologia è una pratica di adattamento in grado di servirsi di ogni ideologia, in grado di prosperare sotto ogni circostanza politica. Camaleontica capacità che gli permette la tanto gridata quanto silenziosa rivoluzione sensoriale al cui vertice impera un sesto senso assai eccentrico: lo sguardo mediatizzato.

9. I sensi umani sono una società naturale. Cooperano tra loro così come cooperano i meccanismi della mente. In quanto società ogni senso è dotato di ragioni e passioni, saperi e poteri: è dotato di una storia. La separazione dei sensi è un artificio conoscitivo. Nella prassi attaccano in branco rispettando ruoli, gerarchie e aspettative. Nella prassi prevale la natura sinestetica del gesto che si appropria di determinate merci-immagine: aprire la lattina della bibita preferita, guidare la motocicletta a lungo sognata, indossare jeans attillati… La ricerca del piacere unifica i sensi e li coordina dando modo al cervello di assegnare significati alla realtà. Il mondo esterno sfida continuamente gli organi percettivi in una partita senza fine. Si potrebbe elaborare una nuova psicologia, una psicologia materialista partendo dalle pratiche percettive. Gli sguardi più o meno innamorati preludono all’incertezza del tatto, all’intimità del gusto e dell’olfatto, agli stimoli delle parole e ai dolorosi dubbi che alimentano il desiderio o lo stroncano. Gli sguardi giudicano e selezionano l’altro, le mani maneggiano carta-moneta e materiali innaturali, i consiglieri d’amministrazione delle multinazionali del fast-food non si nutrono di hamburger e patatine fritte, odori e profumi stabiliscono differenze, distanze e vicinanze, le parole trasformano la realtà agendo sotto forma di ordini, raggiri, menzogne, insulti. La mortificazione o la soddisfazione dei sensi concorre a determinare l’umore di un individuo, di un gruppo, di una società. In genere sono considerate raffinate quelle civiltà che ordinano i sensi intorno a elaborate visioni del piacere. E l’occhio la fa da padrone. La versione attuale del suo dominio ha compiuto un salto nel cammino della coevoluzione bioculturale: nella civiltà capitalistica non c’è separazione tra merce-immagine e immagine della merce.

10. La civiltà capitalistica è un sistema vivente attualmente in grado di accelerare i mutamenti bio-culturali. Domanda: se le conseguenze dello sviluppo industriale e della modernizzazione hanno modificato la direzione evolutiva della natura perché il repertorio percettivo umano sottoposto alla pressione dei media sarebbe dovuto restare inalterato? È noto: le funzioni cerebrali possono essere modificate dall’esperienza. Di conseguenza: spettatori e internauti hanno sviluppato capacità decodificatrici multimediali parallele allo sviluppo di tecnologie che trasmettono simultaneamente codici di tipo polisemico attraverso spot pubblicitari, video-musicali, ipertesti, pagine Web. Le nuove abilità indicano due percorsi da esplorare sulla percezione visiva compatibile con l’ICT: 1) lo sguardo si è evoluto in relazione agli effetti reversibili tra merci e immagini; 2) il rapporto dello sguardo con i meccanismi di riproduzione della civiltà capitalistica è autoalimentante. L’origine di entrambi i percorsi è conflittuale: il borghese lavora la coevoluzione bio-culturale ai fianchi. Il primo punto di attacco è di vecchia data nella storia del razzismo/colonialismo di tipo capitalistico. Consiste nella rendita dell’eugenetica e nei salti di soglia resi probabili dai futuri sviluppi dell’intreccio tra ingegneria genetica, rivoluzione informatica, business. Il secondo punto di attacco è meno eclatante. Consiste nella capitalizzazione di nuove performance sensoriali che indirizzano in maniera diseguale l’evoluzione biologica della specie umana per mezzo della riproduzione culturale.

11. Molti pensano che ai progressi scatenati dall’irruzione della tecnologia in ogni aspetto dell’esistenza umana non corrisponda un’altrettanta crescita della coscienza. Il punto è un altro: la civiltà capitalistica ha aperto una falla bioculturale che non distingue: il sistema dei valori dai mutamenti sensoriali, il cervello dall’ambiente, la percezione dall’esperienza. Se questa nuova finestra apre in maniera plausibile a un orizzonte conoscitivo allora: all’evoluzione biologica determinata dal rapporto tra media e merci-immagine corrisponde un’evoluzione culturale fondata su nuove forme di cooperazione: tra i sensi, tra i sensi e la realtà. L’attenzione critica può così spostarsi verso l’alto: dalla coscienza all’essere; e verso il basso: dall’essere alla riconfigurazione sensoriale. In ogni caso restiamo sul piano dell’immanenza: nella nicchia ecologica abitata dai mondi sensoriali dell’Homo sapiens si combatte una battaglia tra un ottimo performativo di tipo capitalista e l’emancipazione dell’intera specie umana. Bisogna prenderne definitivamente atto: il sistema borghese dei valori è esclusivo ed escludente. Ma pragmatico: l’habitat è chiuso a differenti modi di produzione e aperto a differenti modi di riproduzione: l’homo oeconomicus è uno e molteplice. Precisazioni necessarie: per il borghese la negazione dell’etica non è storicamente costante, non è volontaria, non riguarda i borghesi in quanto individui, non è il risultato di un progetto preordinato o effetto di un’inclinazione particolarmente malvagia, infine: coinvolge pienamente gli oppositori della borghesia. Sono le trasformazioni della merce a spingere l’agire del borghese e la lotta contro l’agire borghese. La domanda conseguente è: in quali direzioni il capitalismo dirige l’evoluzione dello sguardo?

12. Lo sguardo mediatizzato è una modificazione della percezione amministrata dal potere dei mass-media. Dipende dagli altri sensi ma li domina, è di tipo tattile, impone la partecipazione sensoriale attiva di individui, gruppi, società, comprende i principali modi del guardare, è immediato, è mediato dalla tecnologia, comunica principalmente per immagini, è interclassista, intergenerazionale e non conosce distinzioni sessuali, è plurale ma non democratico, è strutturato per reti, è difficilmente traducibile a parole, è tendenzialmente antistorico, è il guardiano della memoria, è anticipatore della conoscenza, seleziona il meraviglioso e i suoi contrari, influenza la struttura del sentire, agisce sull’immaginario collettivo, stimola aspettative, aspirazioni, emozioni e trasforma il dolore di aspettative mancate, aspirazioni tradite ed emozioni irrealizzate in creatività artistica, iniziativa politica, movimento critico. Lo sguardo mediatizzato privilegia il tempo dell’accelerazione, vive il cambiamento come bisogno, soffre per l’inflazione di stimoli visivi, definisce l’identità soggettiva e collettiva, costituisce l’ordine visivo dominante, proviene dalla vita reale e si risolve nella vita reale, evolve storicamente, evolve biologicamente, scaturisce dall’agire politico del principe della modernità e della post-modernità: il borghese.

13. Per gran parte della sua vita Marshall McLuhan ha lottato contro Satana. Questo inconsueto ritratto emerge dalla corrispondenza privata pubblicata postuma. McLuhan ritiene Tv, radio e telefono strumenti del Maligno annidato negli ambienti elettronici. Posizione mantenuta segreta al grande pubblico che peraltro non si è mai impegnato troppo a discutere se il villaggio è globale o locale. Non è strano che da un visionario e da un reazionario della portata di McLuhan siano emerse intuizioni utili al materialismo. Proprio perché sentiva di avere una missione da compiere a McLuhan il coraggio intellettuale non faceva difetto e rompeva gli schemi cercando relazioni e significati dove pochi o nessuno pensavano di trovarli. In questo senso non era un conservatore. Tutt’altro. L’idea dei media come estensione dei sensi e l’immagine di equilibrio sensoriale sembrano uscite dalla testa di un ateo. Invece no. Sono uscite da quella di un fervente cattolico. Per McLuhan ogni ambiente mediatico privilegia un particolare equilibrio sensoriale. La cultura orale favorisce l’orecchio. Quella scritta l’occhio. La cultura delle immagini l’esperienza audio-tattile. La Tv è uno dei vari agenti tattili perché guardare un’immagine è un’esperienza che chiede la partecipazione totale di tutti i sensi e: <Il tatto è un senso integrale, quello che porta tutti gli altri in rapporto tra loro>. A partire da questa riconversione della percezione non viviamo più in un mondo visivo ma tribale. Un mondo teso al recupero di esperienze ancestrali, orientali, occulte. Nell’epoca della televisione e di Internet il passato è facilmente attualizzato in una compresenza di tempi storici che conduce alla tribalizzazione della società. Qui finisce la canzone di McLuhan.

14. La perturbazione percettiva causata dallo sviluppo del monopolio borghese sui media e la comunicazione ha provocato un riorientamento dei domini di validità sensoriali così articolato: la vista gusta, l’udito fiuta, l’olfatto ascolta, il gusto tocca, il tatto vede. Lo slittamento percettivo verso nuove specializzazioni segna l’appartenenza dell’individuo ad un’epoca. Nella nostra il centro percettivo è lo sguardo mediatizzato: risultato della combinazione tra la vista che gusta, il tatto che vede, l’udito che annusa. Una simile riconfigurazione della costellazione sensoriale non è pacifica per il rapporto tra cultura e biologia. Tutt’altro. Nella civiltà capitalistica l’udito è costretto a nuove dislocazioni delle proprie utilità: da organo prioritariamente deputato a permettere la riconoscibilità del mondo assegnando coerenza ai suoni a organo specializzato nel fiutare il pericolo e la salvezza dal pericolo: dalla necessaria identificazione del rumore di un’automobile per non essere stirati, agli inviti delle parole d’amore nelle canzoni trasmesse in ogni dove. È l’udito che scatena quell’abbraccio simulato che è l’applauso. E non si è mai applaudito tanto come in un’epoca di solitari che guardano a sé stessi qual è la nostra. La sensibilizzazione dell’udito è un’allerta tanto continuo quanto improvviso stimolato dai media e soprattutto dalla loro grande madre: la pubblicità. Un tempo il suo modo di accendersi e spegnersi apparteneva all’olfatto: oggi alle promesse degli spot televisivi. Evoluzione o disagio della civiltà che mette in moto due processi: attente disattenzioni e comunicazione dell’incomunicabilità. Risultato: il monologo interiore ha spodestato il dialogo. Ma l’udito resiste, si mette all’ascolto di tutte le differenze e crea i pubblici di massa e di nicchia. Che ascoltano e si ascoltano. L’udito crea il problema delle relazioni umane. Crea il soggetto autonomo e l’aspirazione alla qualità della vita. Crea l’attenzione verso la consumer technology e la fuga dalla consumer technology. Nella civiltà capitalistica i sensi si fanno concorrenza.

15. L’olfatto è il senso umano maggiormente negato dai processi più recenti della coevoluzione bio-culturale. Diane Ackerman lo definisce: <il senso muto, l’unico privo di parole>. Tra linguaggio e odorato il contatto è debole. Tra odorato e memoria il contatto è forte. Ecco trovati due filoni da sfruttare per la riproduzione della civiltà capitalistica: il potere di censurare gli odori e l’insopprimibile potere evocativo degli odori. Ma come mettere al lavoro la volatile comunicazione olfattiva? Collocando in posizione subordinata i suoi messaggi e riconvertendo le sue funzioni nell’ascolto. È un’attività segreta, solitaria, selettiva. Che tratta molecole, oggetti immateriali tanto quanto lo sono i suoni. L’olfatto convertito in udito non è privo di una socializzazione rovesciata: gli odori respingono più delle parole, i profumi aggregano senza dire una parola. Guerra agli odori e guerre tra odori. È il generale igiene a chiedere dalle Tv di tutto il mondo di vigilare su invisibili molestie: taci l’odore ascolta. È la concorrenza commerciale tra profumi che chiede al naso di catalogare e paragonare, decidere e acquistare: sorridi la dolce fragranza di sandalo è a portata di tutti. All’olfatto spettano ormai pochi piaceri pubblici: il naso primitivo che tutto sentiva è capitolato dinanzi alla supremazia dello sguardo.

16. L’industria del palato fa parte della maggiore industria della post-modernità: l’industria del piacere. Grazie all’ingresso nel febbricitante circuito lavoro/consumo/lavoro la crisi del gusto è sempre dietro l’angolo e il suo rilancio sempre all’ordine del giorno. Sapori genuini o sapori artificiali? Weekend enogastronomico o pranzo domenicale dai genitori? Bacio sicuro o bacio protetto? La trasformazione del gusto in quel che un tempo era il tatto coincide con la massiccia riduzione del lavoro manuale e del rapporto diretto con le cose. Gli oggetti che prolungano la mano come ad esempio la falce e il martello spariscono in virtù della tecnologia, si fanno pensanti, sono il risultato del design e il tatto ha sempre più a che fare con la plastica o suoi derivati. Il contatto della bocca con il cibo è ancora un coinvolgimento diretto: lavora e trasforma come la falce e il martello. È un appuntamento obbligato tra individuo e materia. È un lavoro di tipo operaio, artigianale. Il che solleva specifici conflitti: sciopero della fame, fame nel mondo, contestazione del geneticamente manipolato. E specifiche patologie: bulimia, anoressia, paure collettive per il junk-food e il Frankstein-food. La specialità del gusto che tocca risiede nella memoria del piacere: ricamare sui ricordi dei bei sapori andati, accarezzare la nuova cultura alimentare: artificiale o naturale che sia. Nostalgia e fine della nostalgia. In ogni caso: buoni affari.

17. La psicologia del vedere ha dimostrato la capacità del sistema visivo umano ad adattarsi rapidamente a nuove condizioni: la percezione è un processo attivo che si confronta con processi attivi. Le merci-immagini che sollecitano lo sguardo da dietro le vetrine, dagli schermi televisivi, dalla pubblicità ambientale sono fonte di stimoli e depositarie del tempo presente: è la loro presa sul principio di realtà. Ma il rapporto tra i nostri organi periferici e gli oggetti ha sempre comportato l’intervento coordinato di tutti i sensi e il superamento dell’esperienza sensoriale diretta: lo sguardo è un processo dinamico che dà vita a trascendenze extrasensoriali. Konrad Lorenz osserva con affetto i suoi vecchi pantaloni, la sua superata automobile e a molti capita di litigare con il proprio personal computer. Un tipo di animismo il cui significato è assai semplice: lo sguardo s’innamora. Sentimento dilatato a dismisura dalle abilità visive nate dall’incontro tra vista, merci-immagine, vecchi/nuovi media: da quest’incontro la morsa del borghese sul principio di piacere.

18. Lo sguardo mediatizzato sorvola lo spazio errante offerto dai perenni e postmoderni flussi di immagini e informazioni proiettate e trasmesse da fotografia, televisione, cinema, computer, pubblicità. Lo sguardo mediatizzato è l’apertura dello spazio interiore nello spazio esteriore: è il movimento di continuità dell’uno nell’altro. Cosa c’è di più piacevole per i sensi della maledizione di Baudrillard che dissolve la Tv nella vita e la vita nella Tv? Lo spazio errante è un ambiente artificiale e vivente. In quanto tale non è identificabile come un punto finale perché il tempo è movimento, la realtà conflitto, la vita è scorrere, i media eserciti in guerra, la vista è il punto di vista. Lo spazio errante è un ecosistema altamente complesso. È un oceano che contiene il divenire dell’essere ed è contenuto dall’essere del divenire tipici della civiltà capitalistica. Energie che non si lasciano imbalsamare dalla variante nichilista della cultura post-moderna.

19. L’integrità compiuta tra io e mondo, tra sensi umani e realtà vede la luce nell’attuale sintesi tra mediascape e realscape, tra identità e vivente. Volendo essere pignoli non è una novità: la relazione tra l’essere e la società, tra l’essere e la natura è di reciproca appartenenza. Ma proprio perché fedele a se stesso il vecchio principio si rinnova dentro la morfologia dello spazio errante. Che in quanto movimento di riproduzione della civiltà capitalistica è di tipo materialista. Materialismo negativo che trova nel senso della vista la prima fonte di appagamento dell’essere. L’occhio scivola sullo spazio errante tramite lo sguardo mediatizzato. Sguardo sintetizzato nel perfetto slogan: la vita è un film. E l’idea che la vita sia un film è una riorganizzazione strategica del reale non il suo de profundis.

20. Lo sguardo mediatizzato assume le caratteristiche dell’ambiente in cui si è adattato: lo spazio errante. Accelerazione, ubiquità, simultaneità, turbolenza costituiscono forze che abbattono i vincoli visivi e territoriali: tutto può essere visto dappertutto e ovunque si vedono agire le stesse tendenze. Non c’è alcun giudizio di valore in quest’affermazione né l’adesione acritica all’idea di globalizzazione. Per i marxisti è cosa risaputa: l’affermazione del capitalismo comporta di per sé la mondializzazione del suo modello socio-economico. E le novità della mondializzazione non risiedono nel nominalismo ma nelle trasformazioni del modo di produzione e del modo di riproduzione. Una formula per leggere le trasformazioni: la merce-immagine ha rilanciato il modo di produzione capitalistico perché non c’è niente che non sia possibile convertire in merce-immagine. Altra formula: lo sguardo mediatizzato ha rivitalizzato il modo di riproduzione della civiltà capitalistica perché non c’è niente che non sia possibile vedere attraverso lo sguardo mediatizzato. È evidente che entrambe le pratiche sono di tipo coloniale, non conoscono regole e dove passano si lasciano alle spalle morti e feriti. Ma non segnano confini. Lo spazio errante è potenzialmente infinito.

21. Il dolore è una qualità della percezione che si somma ai classici cinque sensi. Senza dolore fisico non potrebbe esserci vita naturale: è un’appartenenza del principio di realtà. Senza sofferenza psichica non potrebbe esserci vita sociale: è un’appartenenza del principio di piacere. Come ogni senso anche il dolore è un mondo dentro il mondo. La sofferenza psichica che ha accompagnato la febbre della modernità e della post-modernità è un fenomeno ricorrente che limita i sensi e contemporaneamente li espande. Quentin Fiore e Marshall McLuhan localizzano il dolore provocato dai nuovi media e dalle nuove tecnologie, in quanto <auto-amputazioni del nostro stesso essere>, nella categoria del dolore riferito: la sofferenza mentale che sopravvive anche dopo la scomparsa della fonte del dolore. Recentemente il contorto Luc Boltanski ragiona sul fatto che quanto più la sofferenza presentata quotidianamente dai media è geograficamente lontana dalla sede dello spettatore tanto più questi è spinto all’azione tramite la presa di posizione, eventualmente la manifestazione in piazza, la partecipazione a gruppi umanitari. Implicazione per nulla inedita. Lo stesso coinvolgente meccanismo mediatico agisce sul fronte del principio di piacere: quanto più è irraggiungibile la bellezza dell’attore o della soubrette al di là dello schermo tanto più viene imitata dallo spettatore e dalle spettatrici al di qua dello schermo. Lo sguardo mediatizzato non è vissuto da un occhio epicureo: è un utilitarista privo di saggezza.

22. Lo sguardo mediatizzato conosce l’esperienza del dolore perché nell’epoca dell’intimità esibita e della guerra mediatica nessuna immagine è inaccessibile. La fortuna/sfortuna dello sguardo mediatizzato è tutta qui: non è osservato. Svincolato dal panopticon, il luogo da cui tutto si vede e da cui la visibilità si trasforma in trappola, lo sguardo mediatizzato sprigiona la soggettività borghese. Che: evade rispondendo al bisogno innato di guardare ovunque per sopravvivere ovunque; è invasiva come capita a tutti gli osservanti costretti ad assumere tutti i punti di vista; è in perenne fuga dalla propria condizione come capita a tutti i cercatori di un’età dell’oro. Il sogno americano, il sogno borghese non è fatto di nient’altro che colpi d’occhio: equivalenti ai segreti colpi di stato dello spettatore e dell’internauta che vedono senza essere visti. Così il dolore si vince con la produzione di sguardi che guardano ma non vedono. È il sogno compiuto della merce. Ma nell’epoca del voyeurismo di massa è un drammatico errore politico pensare di trovarci gettati nella visibilità totale come ipotizzano diversi teorici post-moderni, Baudrillard in testa. È sovraesposto l’intero universo della soggettività e del desiderio confezionati su misura per i ceti medi. Nient’altro. L’élite borghese non guarda la televisione. E la vita materiale delle classi popolari è esclusa dalla rappresentazione mediatica della realtà.

23. Nella materialità vivente: poveri, prostitute e disagiati mentali popolano in quantità sempre maggiori le città e sono sempre più visibilmente invisibili quanto più assediano gli avamposti del benessere. Nella fantasia: la saga cinematografica di Alien: il mostro che ti invade da dentro; Videodrome: la Tv che ti incorpora; The Truman Show: la televita. L’omeopatia non c’entra. Neanche l’anestesia. Abituato a guardare il dolore che ancora non c’è e a rifiutare di vedere quello che lo circonda lo sguardo mediatizzato produce solide disabitudini. Alla fin fine il suo bisogno inconfessabile è la rinuncia agli altri sensi. Un bisogno che sconfina in un sogno impossibile. Al momento un disegno a malapena abbozzato dalla civiltà capitalistica delle immagini. Opera incompiuta perché uno sguardo simile sarebbe costretto a un dolore smisurato per il quale non è pronto un adeguato ambiente tecnologico: un nuovo territorio abitato da individui capaci di fare a meno dell’attuale equilibrio sensoriale. Le biotecnologie sono forse su questa strada. E la poetica di molti artisti-performer la indicano con precisione. Ma solo le élite borghesi possiedono informazioni in proposito. Per il momento sul grande schermo compare il dolore disumano rappresentato in Blade Runner e la riumanizzazione post-quello-che-ti-pare rappresentata nel primo Matrix.

24. La coincidenza tra mediascape e realscape transita indifferentemente dal piacere al dolore e viceversa. Non c’è soluzione di continuità tra le due condizioni. Sicuramente entrambe hanno perduto la loro aura. La sofferenza non coincide più con i piaceri visivi offerti dallo spettacolo circense degli antichi romani né con lo splendore dei supplizi narrato da Michel Foucault. Alla fame sessuale corrisponde il digiuno del dolore. È una conquista dello spettatore post-moderno non una rinuncia. Dinanzi alle atrocità, all’indigenza e alla morte lo sguardo mediatizzato si trova nella condizione allucinata dell’eremita: l’isolamento sensoriale lo conduce a percezioni extrasensoriali. Nel caso dello sguardo mediatizzato la mossa dell’osservante è di segno negativo: il miraggio è rovesciato, la visione apre le porte all’invisibilità. In una parola: il dolore altrui è visto e contemporaneamente negato. Il rifiuto di vedere la sofferenza sociale è un comportamento intelligente che richiede complicate strategie organizzative di azione e inazione da parte di individui, gruppi, istituzioni. Per spiegare i castelli mentali con cui la normalità si protegge, giustifica e razionalizza il dolore Stanley Cohen utilizza il temine <diniego>. I più impegnati osservatori del diniego del dolore sono i mass-media perché producono e gestiscono la <sindrome da stanchezza da immagini> del pubblico nei confronti di guerre, carestie, crudeltà, calamità naturali. A questa risposta si affianca la <stanchezza da compassione>, la <stanchezza da verità>. Tre forme di esaurimento della risorsa attenzione che l’approccio cognitivista spiega e cura e che il giornalismo di regime amministra: come ogni fiaba che si rispetti tutti i Tg si concludono con un lieto fine.

25. Da buon materialista il borghese lo sa perfettamente: non si pensa solo con il cervello. Per questo il principio di realtà allestito dalla civiltà capitalistica dà vita a trascendenze extrasensoriali. Le forme che possono assumere sono molteplici e di segno opposto perché mettono in movimento sia processi di desensibilizzazione, sia processi di risensibilizzazione. Esempi di desensibilizzazione: la <trance metropolitana> di individui completamente chiusi in se stessi anche quando sono in mezzo agli altri; l’<oblio selettivo> di chi passa a fianco dei mendicanti senza vederli. Esempi di risensibilizzazione: immagini estreme corrispondenti a sofferenze estreme quali la morte per inedia di bambini africani o la fuga di profughi kurdi e utilizzate da organizzazioni umanitarie per sollecitare l’altruismo del pubblico occidentale. Entrambe le pratiche funzionano. Ma i rapporti di forza non sono gli stessi. I mass-media e in particolare la Tv generalista detengono di fatto il monopolio della produzione di immagini della sofferenza. Le organizzazioni umanitarie, il mondo dell’ambientalismo, i partiti di sinistra, il movimento antiglobalizzazione, i sindacati si affidano principalmente alla parola scritta, alla fotografia, al Web, alla manifestazione di piazza. La lotta è impari. E si stabilizza sull’impossibilità del pubblico di assorbire oltre una certa soglia ulteriori immagini di sofferenza. In questa crisi da sovrabbondanza risiede il potere del monopolio borghese della comunicazione rispetto alla sofferenza geograficamente lontana: il ritratto di una madre palestinese che piange il figlio ucciso è risucchiato nel campo gravitazionale delle merci-immagine. Da buon materialista il borghese lo sa perfettamente: non si pensa solo con il cervello.

26. L’efficace metafora della <belva dei media> è utilizzata da Stanley Cohen per descrivere una regia che tiene insieme la produzione televisiva di immagini del dolore con l’inimmaginabile: la possibilità che quel dolore possa investire la vita reale dello spettatore. È l’hollywoodiano modo di produzione delle immagini con cui la belva dei media familiarizza il pubblico al dolore che produce il diniego del dolore. L’insensibilità come costante comportamentale è innaturale. Viceversa, la desensibilizzazione del grande pubblico rientra in un ordine visivo applicato dagli individui nella realtà e nella rappresentazione della realtà. Ma gli ordini visivi non sono neutrali. Non è l’opinione pubblica ad abituarsi a vedere la sofferenza di chi patisce la fame e la sete in Africa. È l’elaborazione attuata dalla belva dei media a rendere il patimento di quei popoli un evento visivo normale per il quale non è il caso di commuoversi più di tanto. Selezione arbitraria dell’informazione, sovraccarico di messaggi, sensazionalismo: ecco tre modalità gestionali dell’immagine applicate a sofferenze lontane che aumentano la distanza psicologica dello spettatore dalle persone che soffrono. Così il déjà-vu della disperazione si rivela una tecnologia del controllo sociale doppiamente capace: 1) di saldare i messaggi televisivi della sofferenza umana con quello che accade nelle strade rendendo l’osservatore vulnerabile non tanto <al sovraccarico di informazione, bensì al sovraccarico di richiesta>; 2) di utilizzare uno stesso sguardo, lo sguardo mediatizzato per osservare e negare la vita nello schermo e la vita fuori dallo schermo. Il déjà-vu della disperazione è la messa in pratica di un potere la cui ragione <è che una qualunque attenuazione della compassione, ogni calo di preoccupazione per altre persone distanti è proprio ciò che lo spirito individuale del mercato globale vuole incoraggiare>.

27. Stanley Cohen: <C’è un triangolo dell’atrocità: in un angolo le vittime, coloro che subiscono qualcosa; nel secondo i colpevoli, coloro che infliggono qualcosa; nel terzo gli osservatori, coloro che vedono e sanno quel che sta succedendo>. Nel luglio del 2001 in occasione delle manifestazioni genovesi dei new-global contro la riunione del G8 la democrazia in Italia è sospesa e reparti di squadristi appartenenti alle cosiddette forze dell’ordine mettono in atto una violentissima repressione in perfetto stile cileno. Ma i nostrani picchiatori in divisa sono inconsapevoli del dissolvimento della linea rossa tra attori e pubblico: le vittime delle loro brutali violenze coincidono con gli osservatori. Mille occhi digitali li filmano mentre compiono i loro crimini: cariche immotivate, manganellate a manifestanti inermi, cacce all’uomo, pestaggi, lacrimogeni sparati dagli elicotteri, l’omicidio di Carlo Giuliani. A registrarli è uno sguardo che irrompe nel mondo della comunicazione: il media attivista. Sguardo molteplice che si esprime con un largo ventaglio di professionisti: videomaker, fotografi, giornalisti, hacker, redattori, scrittori, programmatori. Tutti uniti da una cultura politica che manda a pezzi le icone del neo-liberismo. DeeDee Hallek sostenitrice di Indymedia: <Sicuramente abbiamo cambiato la percezione del pubblico rispetto alle organizzazioni del mercato globale. Nessuno più guarda al Wto o alla Banca mondiale come a organismi caritatevoli: questo già rappresenta una vittoria immensa>. Durante i fatti di Genova le major dell’informazione si rivolgono ai media indipendenti per ottenere e trasmettere immagini. Non potrebbe essere altrimenti: calibrando frequenza e durata della trasmissione di immagini della sofferenza i big media ammaestrano lo sguardo del pubblico sui significati da assegnare al dolore.

28. Nel caso della repressione del movimento compiuta a Genova nell’estate del 2001 l’addomesticamento dello spettatore televisivo non è riuscito. Certo anche in quest’occasione è stato rispettato il principio: <la tortura è sempre nascosta e sempre difesa>, dai torturatori e dai loro mandanti istituzionali. E come al solito la maggior parte delle sevizie sono state commesse al riparo da occhi indiscreti. Ma impossibile nascondere il terrorismo di stato espresso nelle piazze. Gli attori del dramma visivo consumato a Genova si sono appropriati dell’opera: anzi: l’hanno scritta mentre la vivevano. Per milioni di persone il corpo straziato di Carlo Giuliani è diventato un’immagine indimenticabile di sofferenza. Con i fatti di Genova il <triangolo dell’atrocità> ha iniziato a modificarsi. Quale forma assumerà non è dato ancora saperlo. Ma non si tratta di una metamorfosi facilmente arrestabile. Non è certo la prima volta che le produzioni indipendenti organizzano la registrazione visiva delle violazioni mentre si stanno compiendo. A facilitarla sono intervenuti processi tecnologici: l’avvento delle minicamere digitali a basso costo, la convergenza video/Internet; e processi politici: l’integrazione tra movimento e new-media. Sul piano della produzione sociale di immagini la repressione fascista del luglio 2001 ha segnato un punto di svolta che indica l’ingresso in una nuova fase della guerra mediatica: la contestazione non più oggetto della comunicazione ma soggetto capace di fare comunicazione. Il passo successivo del media attivista è quello più difficile da compiere: non più testimone oculare della sofferenza ma produttore capace di fare media.

29. La guerra mediatica è una componente della <guerra senza limiti>. Concetto che dà il titolo a un libro scritto da due ufficiali dell’aviazione militare cinese, Qiao Liang e Wang Xiangsui. Guerra senza limiti significa che <la guerra è tornata a invadere la società in modi più complessi, più estesi, più nascosti e sottili>. Significa anche che la sofferenza sociale non ha confini perché le armi non detengono più l’esclusiva della guerra. Con la deterritorializzazione del dolore intervengono altri tipi di forza <che trascendono l’ambito militare ma che possono comunque essere impiegate in operazioni di combattimento>: pirateria informatica, turbative dei mercati azionari, scandali. <Ciò che va detto chiaramente è che il nuovo concetto di armi sta creando dispositivi che sono strettamente legati alla vita della gente comune. … le cose ordinarie, quelle a loro vicine, possono anch’esse diventare armi con le quali ingaggiare una guerra>. Ambiente, risorse, reti telematiche, religione sono aree militarizzate utilizzate per difendere ed attaccare in nome della sicurezza nazionale. Non si salva niente: la cultura è un campo di battaglia e la manipolazione dell’opinione pubblica un fatto scontato. Nella guerra senza limiti il ruolo dei militari è ridimensionato, precisato ed esteso. La guerra è mobilità. E penetra nello spazio errante mentre ne è penetrata. Il soggetto e l’oggetto si fondono: tutti indossano una divisa. Anche i civili: pirati informatici, analisti di sistemi, ingegneri software, magnate dei mass media, famosi editorialisti, conduttori di programmi televisivi… Per ognuna di queste figure: <La sua filosofia di vita è diversa da quella di alcuni terroristi ciechi e disumani, ma spesso è incrollabile e la sua fede, in termini di fanatismo, non è inferiore a quella di Osama Bin Laden. … Partendo da questi presupposti, chi può dire che George Soros non sia un terrorista finanziario?>. Già, chi può dirlo. Per farla breve: la nuova guerra è parte del capitalismo come modo di produzione e della civiltà capitalistica come modo di riproduzione. La scomparsa della pace è stata a lungo preparata: da tempo lo sguardo mediatizzato è integrato in uno spazio errante in cui nulla impedisce di passare dai film di guerra alla guerra dei film. Il pubblico? Si conquista.

30. La belva dei media vive nello spazio errante e combatte una guerra senza limiti contro tutti e contro tutto per inventare l’immaginazione. La belva dei media si nutre di comunicazione e nutre i comunicatori. Ma i ruoli non sono quelli tipici del circo tradizionale. Non è il domatore ad ammaestrare la belva. È la belva che ammaestra il domatore per esibire un numero universale: usare e scambiare immagini. Per quanto renda bene l’idea, la metafora del circo va immediatamente sospesa perché circoscrive uno spazio ben definito e fornisce un’idea antiquata del valore. Mentre lo spazio errante è la terra di tutti e di nessuno. È un luogo senza punto di arrivo e senza punto di partenza. Possiamo mentalmente materializzarlo in un aeroporto: contatto tra il ritorno della preistoria e le fughe in avanti della storia. Che vuol dire ‘sta frase sibillina? Che lo spazio errante è smisurato. Che per gestire uno spazio smisurato è necessaria una forza smisurata. Che questa forza non può essere data né governata dalla ragione e da criteri di giustizia sociale. Che tende a polarizzarsi lo squilibrio tra individuo e territorio, tra individuo e individuo. Che la belva dei media controlla la produzione e la riproduzione squilibrata di merci-immagini. Che le merci-immagini controllano il movimento degli occhi. E che in ultima istanza questa lunga catena domina il movimento dei corpi, delle merci e delle macchine dentro uno spazio indeterminato e illimitatamente conflittuale. Dominare le immagini significa dominare il movimento. E nell’immaginario generato dalla civiltà capitalistica c’è un solo dominatore: lo sguardo mediatizzato.

Autori citati

Diane Ackerman, Storia naturale dei sensi, Frassinelli, Milano, 1992

Samir Amin, Il capitalismo nell’era della globalizzazione. La gestione della società contemporanea, Asterios, Trieste, 1997.

Jean Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Raffaello  Cortina, 1996.

Luc Boltanski, Lo spettacolo del dolore. Morale umanitaria, media e politica, Raffaello Cortina, Milano, 2000.

Stanley Cohen, Stati di negazione. La rimozione del dolore nella società contemporanea, Carocci, Milano, 2002.

Jean Pierre Changeux, L’uomo neuronale, Feltrinelli, Milano, 1983.

Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1976.

Naomi Klein, No Logo. Economia globale e nuova contestazione, Baldini & Castoldi, Milano, 2001.

Timoty Leary, Caos e cibercultura, Urra Apogeo, Milano, s.d. (edizione originale 1994).

Qiao Liang, Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, LEG, Gorizia, 2001.

Konrad Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, Adelphi, Milano, 1974.

Marshall McLuhan, Corrispondenza 1931-1979, Sugarco, Varese, 1990.

Marshall McLuhan, Quentin Fiore, Guerra e pace nel villaggio globale, Urra Apogeo, Milano, 1995.

Nicholas Negroponte, Essere digitali, Sperling & Kupfer, Milano, 1995.

Howard Rheingold, Comunità virtuali, Sperling & Kupfer, Milano, 1995.

Ugo Vallauri, Indymedia dopo l’11 settembre. Intervista con DeeDee Halleck, in, Matteo Pasquinelli, (a cura di) Media Activism. Strategie e pratiche della comunicazione indipendente, DeriveApprodi, Roma, 2002.

Il borghese e lo sguardo. Mutazioni dei sensi nella civiltà capitalistica, è stato pubblicato sulla rivista, Homo Sapiens, Marzo, Teseo Editore, Roma, 2004, pagg., 195-224.

Rispetto all’edizione del 2004 sono sta apportate alcune lievi modifiche al testo per renderlo maggiormente fruibile.


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