Author Archives: Patrizio Paolinelli

Punti di vista sulla pandemia

di Patrizio Paolinelli

La pandemia fa male. Uccide, chiude, blocca, isola, impoverisce. E, naturalmente, fa parlare. Tanto. Praticamente all’infinito. Ma accanto alle paginate dei giornali e agli interminabili sproloqui dei talk-show, stimola anche qualche parola diversa, qualche riflessione su quello che sta avvenendo e come sta avvenendo, sul modo in cui si sta gestendo questa fase drammatica e sulle sue prospettive. Sono diversi gli studiosi che in questo periodo si stanno esprimendo con le loro analisi e, per fortuna, non mancano coloro che non si fermano al coronavirus, ma scavano nel profondo di una società che era già alle corde. Eccone alcuni.

Iniziamo con due arrabbiati: il filosofo Giorgio Agamben e il sociologo Andrea Miconi. Il primo ha dato alle stampe “A che punto siamo? L’epidemia come politica”, (Quodlibet, Macerata, 2020, 106 pagg., 10,00 euro). Il secondo, “Epidemie e controllo sociale”, (manifestolibri, Roma, 2020, 127 pagg., 10,00 euro).

Prof. Patrizio Paolinelli == >>

Entrambi gli autori polemizzano violentemente con le decisioni del governo in merito alle restrizioni alla libertà di movimento dei cittadini per frenare la diffusione del contagio. Ovviamente non negano la pericolosità del Covid-19, ma contestano come le misure di contenimento del virus sono state imposte e sospettano che nascondano ben altre intenzioni. Quali sarebbero? Per svelarle ricorrono alla categoria foucaultiana di biopolitica, ossia il governo degli esseri umani attraverso la regolazione della vita biologica (sessualità, riproduzione, morte e così via). Nel caso dell’epidemia in corso la biopolitica si esprime tramite pratiche di controllo della salute pubblica quali: l’obbligo al distanziamento interpersonale e all’uso dei dispositivi sanitari di protezione individuale, la quarantena, la limitazione degli orari degli esercizi pubblici, la chiusura di una lunga serie di attività culturali, ludiche, sportive, della scuola e dell’università, restrizioni nella libertà di spostamento sul territorio.

Agamben connette la nozione di biopolitica con quella di stato di eccezione, celeberrima categoria della dottrina politica di Carl Schmitt e con la quale si intende la sospensione dell’ordine giuridico a cui segue l’esercizio di un potere sganciato dal diritto. Nei mesi della pandemia sono state infatti messe tra parentesi le garanzie costituzionali trasformando ogni individuo in un potenziale untore. Situazione che per il filosofo romano ricorda molto da vicino gli anni del terrorismo e i provvedimenti d’emergenza che allora vennero presi. Con una differenza sostanziale rispetto a ieri: mentre la fine dell’estremismo extraparlamentare riportò l’ordine giuridico più o meno allo statu quo ante, oggi è cresciuta enormemente la tendenza a fare dello stato d’eccezione il paradigma di governo in nome della sicurezza pubblica. In altre parole, l’eccezione diventa regola. Per Agamben la nuova normalità è costituita da crisi perenni e da perenni misure di emergenza, dalla progressiva separazione degli individui gli uni dagli altri e dalla continua erosione delle libertà costituzionali.

Andrea Miconi è assai vicino alle posizioni di Agamben. Utilizza la nozione di stato d’eccezione e alla critica nei confronti delle azioni di contrasto al contagio aggiunge quella rivolta alla rappresentazione mediatica dell’epidemia. Nel suo pamphlet arriva a parlare del 2020 come dell’anno che ha inaugurato lo stato di polizia. Per dimostrarlo riporta un lungo elenco di fatti di cronaca che la stampa ha rubricato nell’ordine del pittoresco, del bizzarro e della curiosità. Mentre per Miconi indicano un eccesso di controlli, un preoccupante potere discrezionale delle forze di sicurezza, la violazione dei diritti della persona e lo sconvolgimento del clima sociale. Ecco alcuni di questi fatti: una donna è stata multata mentre pregava in chiesa da sola, stessa sorte è toccata a una psicologa che si recava a visitare un paziente, a una coppia che accompagnava la figlia a una visita oncologica dopo un trapianto di midollo spinale e a un uomo che accompagnava la moglie disabile a fare la spesa. Al lungo elenco di Miconi si possono aggiungere i video circolati sui social network dopo la pubblicazione del suo pamphlet e in cui si assiste a pesanti interventi delle forze dell’ordine nei confronti di cittadini colti per strada senza mascherina sanitaria. A questo proposito ci sarebbe da osservare che durante la pandemia le morti sul lavoro sono proseguite come prima, ma da parte dello Stato non si sono viste all’opera la stessa determinazione e la stessa energia per combattere il fenomeno.

Ma torniamo a Miconi. Il succo della sua critica è il seguente: con la pandemia è stata messa in atto una strategia di colpevolizzazione del cittadino e di deresponsabilizzazione della classe dirigente (potere politico, potere mediatico, potere economico). Ha preso così forma una sorta di populismo alla rovescia tramite il quale l’opinione pubblica si è assunta la colpa di quanto accadeva anziché prendersela con le élite. Per esempio, non si è troppo indignata dinanzi alla scarsa attenzione degli imprenditori per la salute di lavoratori e che nel bergamasco ha portato a consumare una vera e propria strage. Tuttavia ha accettato di essere sigillata in casa, di sentirsi dire dai media che tutto sommato la reclusione domiciliare è una cosa bella e di sottoporsi all’umiliante rituale dell’autocertificazione. Ancora: ha abbracciato lo slogan “C’è troppa gente in giro” anziché pretendere dei servizi di trasporto pubblici adeguati all’emergenza sanitaria. In definitiva, per Miconi lo scopo sommerso delle misure anti-contagio è duplice: da un lato, la normalizzazione di una pervasiva forma di controllo sociale; dall’altro, la possibilità per classe dirigente di togliere ai cittadini libertà fondamentali senza subire alcun scossone.

Anche Donatella Di Cesare si è occupata della pandemia dando alle stampe un tascabile intitolato “Virus sovrano? L’asfissia capitalistica”, (Bollati Boringhieri, Torino, 2020, 89 pagg., 9,00 euro).

A differenza di quanto potrebbe lasciar supporre il sottotitolo del libro l’astro nascente dell’italica filosofia prêt-à-porter non muove una critica al capitalismo inteso come modo di produzione. Pertanto la sua riflessione risulta fortemente depotenziata. Tuttavia è utile dato il terrificante clima culturale in cui ci troviamo in termini di conformismo, adesione all’ideologia liberale e negazione dello spirito critico (in questo senso, sempre in tema di pandemia, un caso esemplare è il libro intitolato “Nella fine è l’inizio” di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti).

L’asfissia capitalistica di cui parla Di Cesare riprende il tema dell’accelerazione dei ritmi di vita nelle nostre società radicalizzando l’analisi critica. Avendoci costretti a un’esistenza rallentata, se non addirittura sospesa, la pandemia mette in luce “l’aberrazione della frenesia di ieri” e “la maligna velocità del capitalismo”. In quanto al virus, è sovrano sia per l’aureola che lo circonda sia perché ha oltrepassato ogni confine facendosi beffe proprio dei sovranisti.

L’aspetto più interessante del libro della Di Cesare consiste nella correlazione costante tra le contraddizioni della nostra società prima della pandemia e durante la pandemia. Destano tuttavia qualche perplessità diverse affermazioni assai generiche e la tendenza a mettere sullo stesso piano la narrazione mediatica degli eventi con la realtà effettuale delle cose. C’è poi un altro aspetto che lascia ancor più perplessi. E cioè, mentre le riflessioni di Agamben e Miconi invitano il lettore a prendere coscienza della gravità della situazione e dunque alla mobilitazione, quelle della Di Cesare non si sa bene dove vadano a parare. Le abbondanti critiche che muove al rapporto tra società pre-pandemica e società pandemica non indicano una direzione e sembrano esaurirsi nell’autocompiacimento di una brillante scrittura.

L’ultimo tascabile della nostra carrellata è quello di Mariana Mazzucato: “Non sprechiamo questa crisi”, (Laterza, Bari-Roma, 2020, 160 pagg., 12,00 euro).

Il libro è composto da tredici interventi di cui otto scritti a quattro mani con altri studiosi e ripropone il pensiero dell’economista italiana applicandolo al dramma scatenato dalla pandemia. Semplificando al massimo la tesi centrale della Mazzucato si articola su alcuni punti: 1) da sempre le grandi imprese private beneficiano di enormi finanziamenti pubblici, diretti o indiretti che siano; 2)  numerosi colossi dell’economia non sarebbero neanche nati senza i massicci investimenti dello Stato, a iniziare dalla grandi corporation della Silicon Valley; 3) in parecchie occasioni banche e multinazionali sono state salvate dal fallimento con i soldi del contribuente; 4) i famosi imprenditori restituiscono pochissimo alla società che pur gli ha permesso di nascere, prosperare e sopravvivere.

Il timore della Mazzucato è che con la pandemia si rimetta in moto il circolo vizioso di privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite, accaparramento delle risorse pubbliche, scarsi ritorni per la collettività, recessione economica. Il suo intento non è quello di superare il modo di produzione capitalistico ma di “fare capitalismo in modo diverso” correggendo le storture provocate dai mercati lasciati a sé stessi. E per questo occorre che le risorse pubbliche siano indirizzate nell’interesse pubblico e non del profitto. Non certo per realizzare il socialismo, ma per salvare il capitalismo dalla spirale autodistruttiva in cui è finito col neoliberismo. Detto con una battuta, troppo successo porta al decesso. E allora come intervenire? La ricetta della Mazzucato prende le mosse dalla necessità di riconoscere che la ricerca di base in campo farmaceutico è largamente a carico dello Stato (40 miliardi di dollari nel 2019) ed è sempre lo Stato che è intervenuto economicamente sui sistemi sanitari per combattere il Covid-19.  

Non solo: gli enormi stimoli all’economia per scongiurare la catastrofe (negli Usa oltre 2mila miliardi di dollari) derivano dalle tasse dei contribuenti, pertanto il sostegno pubblico alle imprese non può più essere incondizionato come è accaduto fino a oggi. E ancora: lo Stato deve tornare a essere un protagonista attivo dell’economia e non più un soggetto passivo che elargisce soldi alle imprese nella speranza che queste creino ricchezza per tutti. Speranza mal riposta: da decenni nelle società occidentali la povertà aumenta, così pure le disuguaglianze e si passa da una crisi economica all’altra precipitando in lunghe fasi di stagnazione.

Per la Mazzucato la pandemia è un’occasione per voltare pagina e dar vita a un circolo virtuoso dell’economia. Come? Attraverso l’implementazione di misure quali il dividendo di cittadinanza, che consiste in una remunerazione dei cittadini per gli investimenti statali nell’economia privata, premiando le aziende che creano davvero valore, plasmando i mercati affinché la ricchezza creata collettivamente sia messa al servizio di scopi collettivi, favorendo una green economy centrata sui lavoratori, rivedendo il sistema fiscale e così via.  Come si vede le proposte della Mazzucato sono piene di buon senso e data la situazione sembrerebbe irragionevole non accoglierle. Certo, non ci si può nascondere che il potere economico dovrebbe rinunciare almeno in parte al potere assoluto che ha a lungo perseguito e conquistato. I prossimi anni ci diranno se la ragione prevarrà sull’anarchia del capitale.

Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro (2021).


E-learning: un’analisi secondo una prospettiva sociologica

Michele Petullà

La letteratura sulle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, e in particolare sulle “competenze digitali” e l’e-learning, è ormai abbastanza ampia, anche in Italia. Tuttavia, una pur rapida rassegna mette in evidenza una “scarsa speculazione teorica ed empirica” riguardo al tema delle ICT e delle loro “ricadute sul soggetto, sulle organizzazioni e sui sistemi educativi” (S. Capogna, 2014).

<<== Dott. Michele Petullà

La maggior parte dei lavori di studio e ricerca in quest’ambito, inoltre, sembrano essere orientati verso l’analisi degli aspetti prettamente tecnici e didattici, a discapito di uno sguardo più specificatamente sociologico.Un approccio più squisitamente sociologico al tema dell’e-learning (in particolare della sociologia dell’educazione), e ai problemi ad esso connessi, suggerisce di collocare la trasformazione tecnologica all’interno delle esperienze di rinnovamento in atto nei sistemi formativi, seguendo una lettura alla luce delle principali teorie che sono state formulate sulle istituzioni e i processi educativi.

Il punto centrale, da cui partire, è il progressivo affermarsi, in forme sempre più corpose ed efficaci, della Formazione a Distanza (FAD), di cui l’e-learning costituisce lo sviluppo più recente e l’espressione più avanzata, che assume via via un ruolo centrale nella diffusione del sapere e nella creazione delle competenze, rompendo l’unità di luogo e la sequenzialità di contenuti che caratterizzano la formazione tradizionale, “in presenza”. 

Alla base di questa trasformazione c’è sicuramente l’evoluzione delle Information Communication Technology (ICT), che hanno visto il passaggio da una comunicazione intesa come “informazione” a una comunicazione concepita come “partecipazione”. 

La maggior parte delle ricerche in questo ambito mostrano, infatti, che non è tanto la tecnologia in sé, quanto la connettività a modificare sia le strutture di apprendimento sia le aspettative di chi apprende. A questo proposito si parla, non a caso,  di connected minds per indicare il modo con cui i ragazzi si rapportano alle nuove tecnologie, che è influenzato non tanto dal supporto tecnologico quanto dalle dinamiche che operano all’interno della Rete e delle comunità di apprendimento da esse generate (V. Pandolfini, 2010).

Questa realtà, per essere pienamente e adeguatamente compresa, però, richiede di essere esaminata alla luce delle teorie pedagogiche, certamente, ma anche, e necessariamente, sulla base delle prospettive sociologiche nei confronti dei sistemi di apprendimento mediati da supporti tecnologici e dei loro risultati.  Una serie di ricerche mostra il permanere, all’interno di questa situazione innovativa, del riprodursi di dinamiche consolidate, in quanto il digital divide è sensibile alle differenze di capitale culturale, di genere, di etnia; un esame dell’attività degli studenti in rete, d’altra parte, indica che i cosiddetti “nativi digitali” non sono affatto un’entità compatta, ma evidenziano rilevanti differenze sia di utilizzo sia di competenze acquisite (M. Filandri, T. Parisi, 2013).

Il fattore principale nello sviluppo della comunicazione, da circa quindici anni a questa parte, è quello che viene definito “ibridazione-contaminazione”; un processo attraverso cui i tre settori fondamentali della comunicazione (telefonia, televisione e computer) operano in stretta sinergia, secondo una prospettiva di integrazione. Ciò ha causato diversi fenomeni di tipo prettamente sociale e di rilevanza sociologica, come per esempio l’estensione del sé attraverso la tecnologia, lo slittamento del confine fra pubblico e privato, la costruzione della propria identità in un contesto di esperienze in cui reale e virtuale non differiscono in modo preciso, una significativa trasformazione del senso del tempo e dello spazio (S. Capogna, 2014). I termini “ibridazione” e “contaminazione” ricorrono spesso ormai nella relativa letteratura, accanto alla riflessione sull’antica abitudine della scuola italiana di distinguere fra cultura “alta”, lineare e testuale, e la cultura “bassa” della reticolarità e della costruzionepartecipata, nonostante la sua crescente affermazione.

Nel complesso, si può affermare che il sistema educativo italiano sembra non essere ancora in grado di misurarsi adeguatamente con le sfide poste dai modelli alternativi che si sono ormai largamente affermati nel mondo dell’extrascolastico. Inizialmente, le tecnologie sono state adattate ed utilizzate semplicemente come modalità più efficienti per trasmettere contenuti e metodi tradizionali, senza rendersi conto che “il medium è il messaggio” (McLuhan), e un nuovo mezzo di trasmissione del sapere avrebbe inevitabilmente messo in crisi anche le metodologie didattiche e il tipo di sapere trasmesso, o quantomeno il suo ruolo sociale.  Si tratta di un “approccio senile all’innovazione”, come viene definito, che considera le ITC semplicemente come uno strumento per fare meglio, più rapidamente e a un costo minore quello che si è sempre fatto (V. Spiezia, 2010), anziché pensare ad esse come ad un ambiente tecno-sociale da vivere, all’interno del quale e per mezzo del quale, ridisegnare il proprio essere nel mondo.

Una ormai ampia e autorevole letteratura, d’altra parte, attesta che seppur le nuove tecnologie sono indispensabili per i percorsi di insegnamento volti allo sviluppo di competenze digitali, per realizzare la cosiddetta media education, e rappresentano una risorsa imprescindibile per l’e-learning, con cui siamo ormai obbligati a misurarci, è necessario sottolineare che, nella sostanza, è la metodologia didattica opportunamente adottata a fare la vera differenza per l’apprendimento, e che ogni tecnologia è potenzialmente in grado di generare rilevanti riflessioni educative o di trasformarsi in “mind tools” (strumenti mentali), se si è in grado di coglierne le potenzialità (Bonaiuti, Calvani, Menichetti, 2017).

La Formazione a Distanza, di cui l’e-learning è la versione più attuale, non richiede, dunque, semplicemente la presenza di strumenti e le competenze tecniche legate al loro uso, ma richiede anche specifiche competenze cognitive e relazionali che andrebbero meglio indagate facendo uso delle teorie pedagogiche e sociologiche di riferimento. In questo contesto, si possono considerare sicuramente come esperienze positive, pertanto, quelle in cui si è capito che adottare un sistema di e-learning comporta sostanzialmente un ripensamento generale del modello pedagogico e delle metodologie di progettazione degli ambienti di apprendimento, e che il valore aggiunto di un ambiente integrato di formazione non può risultare dalla semplice sommatoria dei vantaggi dell’apprendimento in presenza e di quelli dell’apprendimento in rete.

In un contesto in cui l’apprendimento a distanza e la trasformazione dei processi stessi di apprendimento, legati alla costruzione di un sapere partecipato in rete, secondo uno sviluppo delle logiche “costruzioniste”, rappresentano molto probabilmente un punto di non ritorno, diventa particolarmente importante e necessario quel lavoro di progettazione strategica e di riflessione critica, di vision, che è fin qui quasi del tutto mancato nelle politiche educative in Italia.

Emerge, dunque, e la relativa letteratura lo conferma, la necessità di una riflessione a tutto campo, secondo una prospettiva interdisciplinare, che comprenda anche gli aspetti sociologici della questione, sugli usi didattici dell’e-learning, in quanto l’esito con cui ci approcciamo ad esso può dare esiti diversi. Per questo è importante conoscere e sperimentare questi ambienti tecno-sociali (S. Capogna, 2011) per poter meglio gestire la relazione con loro e le relazioni/comunicazioni per cui ce ne serviamo.

A questo proposito, è bene ricordare anche che già nel 2006 il Parlamento Europeo e il Consiglio d’Europa hanno emanato la “Raccomandazione sulle Competenze Chiave” per il lifelong learning (OECD, 2006), che ha introdotto un nuovo framework per delineare le competenze di base necessarie per poter esercitare in pienezza il diritto di cittadinanza attiva nella società contemporanea: per la prima volta si fa esplicito riferimento, tra le competenze chiave, alle competenze digitali (A. Calvani, 2009).

Questa necessità si colloca e si sviluppa in quello spazio scientifico di incontro che accomuna gli sviluppi della sociologia (della sociologia dell’educazione in particolare), delle scienze della comunicazione e della pedagogia, tutte discipline direttamente interessate, sia pure con interessi diversi, dalla radicale trasformazione che gli old e i new media hanno portato all’interno dei sistemi sociali ed educativi (G. Gili, 2003). I suddetti ambiti teorici, e in particolar modo la sociologia, si sono avvicinati a questo dibattito con un significativo ritardo rispetto ad altri campi di studio. Si evince, infatti, un ritardo e una scarsa speculazione teorica ed empirica riguardo al tema delle ICT e delle loro ricadute sul soggetto, sulle organizzazioni e sui sistemi educativi.

Dal punto di vista sociologico, un aspetto molto importante sarebbe quello di comprendere, da un lato, le potenzialità di questi ambienti tecno-sociali per i sistemi educativi (Y. Punie, 2007), dall’altro, le ricadute sul soggetto e i nuovi interrogativi che queste sollecitano per una riflessione sociologica più attenta alle nuove dinamiche sociali prodotte da tali tecnologie (M. Colombo, P. Landri, 2009). Si avverte, dunque, la necessità di un approccio teorico/speculativo al problema secondo uno sguardo più prettamente sociologico (L. Ribolzi, 2012). La sociologia, e la sociologia dell’educazione in particolare, infatti, non studia semplicemente i fatti o i processi educativi, ma studia anche e soprattutto il legame che questi hanno con il più ampio sistema sociale e con i diversi aspetti o dimensioni costitutivi della società.Studiare questo rapporto educazione-società, inoltre, comporta anche l’analisi delle sue trasformazioni riguardo ai cambiamenti sociali, culturali, economici e tecnologici che incidono in maniera significativa sulla struttura sociale e sulle sue istituzioni.

Il contributo particolare e precipuo della sociologia nello studio della Rete, e delle sue implicazioni socio-educative, dunque, è quello di entrare nella “scatola nera” dell’e-learning, e più complessivamente delle ICT a uso didattico.Da questo punto di vista è possibile individuare quattro aree principali di studio della sociologia dell’educazione:

analisi delle relazioni del sistema educativo con altri settori della società (cultura, politica, economia, ecc.);

–   influenza della comunità e delle diverse agenzie di socializzazione sull’organizzazione scolastica;

–  analisi dell’influenza della scuola sul comportamento e sulla personalità dei suoi membri (corpo docenti in particolare);

–  studio delle relazioni dentro la scuola (nel gruppo classe, tra docenti, tra docenti e discenti, ecc.).

La sociologia, pertanto, può indirizzare i suoi studi a diversi livelli di complessità: a livello macro (comprendere il sistema educativo nelle sue relazioni con la società, rispetto, per esempio, al sistema di valori, al sistema di stratificazione sociale, ecc.), a livello meso (modo in cui si configurano la struttura sociale e il funzionamento dei gruppi che costituiscono il sistema scolastico al loro interno o nelle relazioni inter-organizzative), a livello micro (analisi delle relazioni sociali che si estendono all’interno delle attività educative: funzionamento della classe, relazione docente-discente, gruppo dei pari, ecc.) (S. Capogna, 2014).

Concludendo, si può dire che i più significativi e rilevanti contributi teorici maturati nell’ambito della sociologia, con riferimento al tema dell’apprendimento e dell’e-learning in particolare, hanno posto l’attenzione sulle criticità e sulle opportunità connesse a questa nuova e diversa modalità di azione educativa. La riflessione sociologica, in questo campo, si è sviluppata intorno a tre questioni principali:

– aspetti sociali della tecnologia (ricadute sulle organizzazioni e sul lavoro, sui soggetti, sulle politiche);

trasformazione del “capitale culturale” (P. Bourdieu) al tempo del web, in relazione anche al tema del digital divide;

–  tema delle disuguaglianze (in rapporto alle possibilità di accesso alla Rete).

Emerge, dunque, la necessità di studiare le tendenze attuali del fenomeno, per comprendere come l’idea di e-learning possa e debba ridefinire alcuni concetti chiave dal punto di vista del metodo. La sociologia di Internet, o della Rete, da questo punto di vista, ne è un esempio: i comportamenti e le abitudini legati alla Rete possono configurare nuove strutture nell’offerta di insegnamento e nuove/diverse modalità di apprendimento, con indubbie ricadute sulla socialità delle relazioni.


IL MEDICO SOGNATO E MAI INCONTRATO

OSSERVAZIONI SOCIOLOGICHE

di Carmela Cioffi

Leggendo le storie di Sacks nel suo saggio “l’uomo che scambio’ sua moglie per un cappello”. Mi sono emozionata e al tempo stesso ho avuto la sensazione che le malattie e le persone sono insieme.

<<== Dott./ssa Carmela Cioffi -sociologa

Sacks il medico sognato e mai incontrato, quell’uomo che appartiene insieme alla Scienza e alla malattia, che sa far parlare la malattia, che  la  vive ogni volta in tutta la sua pena e la trasforma in un intrattenimento da Mille e una notte. Molti critici cosi hanno definito le sue storie: “un intrattenimento da Mille e una notte” ., casi clinici che vengono da pensarle semplici storie di persone particolari descritte con un tono romanzesco ma pur riferenti la condizione umana più friabile che è quella della sofferenza.

Sacks nelle sue storie racconta il dramma ponendo in risalto i vantaggi e la peculiarità attraverso un processo di convivenza al disagio. La sua abilità è che lo fa con grande competenza professionale e più di tutto con grande umanità oltre che con sensibilità di narratore cogliendo le più sottili sfumature di ogni singolo individuo. Mi ha dato da chiedermi com’ era in generale il  suo mondo, quello di Martin. Era piccolo, gretto, cattivo e buio. Il mondo di un ritardato irriso ed emarginato da bambino e relegato con disprezzo da adulto, il mondo di uno che non si considerava ne veniva considerato come tutti gli altri.

Oliver Volf Sacks – medico, chimico, scrittore, accademico britannico (1933 -2015)

In un’altra delle sue storie, ho notato la profondità dei gemelli si poté esplorare solo nel momento in cui si smise di sottoporli a continui Test e di vederli come soggetti da studiare, solo vedendoli come persone, osservandole apertamente senza preconcetti, guardandoli mentre vivono, pensano; si poté scoprire ciò che possedevano di cosi misterioso. La cosa più entusiasta che in nessun caso ho mai avuto la percezione che queste persone “anormali” fossero pazze, ma sempre persone speciali, non si scorge il dramma ma sempre e solo il lato positivo perché speciali  sono agli occhi di chi li racconta. È la sua accattivante umanità, la sua capacità affabulatoria e insieme divulgativa che rende esemplare questo medico , il suo rigore scientifico difronte le  patologie che nei casi descritti nel suo saggio trova sempre la diagnosi.

Non è la malattia mentale vista come biologica in sé a fare stimolare  il mio pensiero  ma le acute e profonde riflessioni verso le quali sa condurmi l’abile medico. Come in ognuno di noi possa emergere un talento che può farci sentire speciali nonostante la malattia. In esso non ho mai intravisto casi , ma persone e non esistono ostacoli che non possano essere superati se sappiamo vedere oltre la disabilità e la malattia. Come se ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto, un racconto interiore  la cui continuità , il cui senso è la nostra vita, ognuno di noi costruisce  e vive un racconto. E che questo racconto è noi stessi, la nostra identità. Abbiamo bisogno di questo racconto, di un racconto interiore per costruire la continua sua identità.

Ogni volta che il nostro dottore è chiamato ad esaminare una persona diversa, una persona più bizzarra dell’altra e ogni volta sperimenta soluzioni azzardate e geniali per porvi rimedio. Il metodo deduttivo  di Dr.House lo abbia reso non meno affascinante di Sherlock Holmes. Per concludere posso dire che il mondo dei semplici, i cosiddetti ritardati ma sempre e  solo persone e non casi, vivono in un mondo che è semplice perché è concreto.

Le stimolazioni del sistema del cervello permettono all’immaginazione e alla memoria di trasportare altrove una persona.Il merito non ultimo, del dottore Sacks è che non usa mai una lente pietosa ma sempre curiosa trasformando le sue storie in storie per tutti, sia per gli addetti ai lavori che non. In definitiva, il dottore che tutti hanno sognato e mai incontrato: questo è Sacks!


La Generazione Z e la trasformazione dei social network

di Patrizio Paolinelli

La Generazione Z è stanca dei social network? La domanda corre da un po’ di tempo sulla stampa e tra gli esperti del marketing. Il fatto che due tra i principali sistemi di potere della nostra società drizzino le antenne significa che qualcosa non sta andando per il verso giusto. Il che costituisce un campanello d’allarme visti i cospicui  interessi in gioco, economici e politici. Come stanno esattamente le cose?

Intanto occorre dire che la Generazione Z comprende i nati dalla seconda metà degli anni Novanta fino al 2010 (dopodiché prende corpo la generazione Alpha). I ragazzi della Generazione Z sono in larga misura i figli della Generazione X (nati tra il 1960 e il 1980). Mentre quest’ultima pare fosse particolarmente tormentata e piena di interrogativi irrisolti (in proposito basti leggere il magnifico romanzo di Dougals Coupland, “Generazione X. Manuale per una cultura accelerata“, Interno Giallo, Milano, 1992), la Generazione Z ci è presentata dal marketing, dalla stampa e da numerosi youtuber come più ottimista, perdutamente innamorata delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e assai poco turbata della propria esistenza. Pochissimi – e  molto timidamente – accennano al fatto che sin dalla nascita questi ragazzi vivono in famiglie che annaspano tra una crisi economica e l’altra. In generale per gli esperti di marketing l’ottimismo della Generazione Z proviene prevalentemente dai nuovi miti dell’economia immateriale, dalla facilità di viaggiare in lungo e largo per il mondo e dalla possibilità di acquistare senza sosta nuovi prodotti – tanto più se high tech.

Disegnato questo primo quadro occorre porsi una domanda: esiste davvero la Generazione Z? In una certa misura sì e in misura assai maggiore no. Sì perché tale etichetta esprime delle tendenze effettive (ad esempio il diffuso utilizzo dell’elettronica di consumo da parte dei teenager, che tuttavia non è uguale per tutti), no perché la realtà del mondo giovanile è molto più complessa di come viene presentata e non si esaurisce minimamente in questa come in altre classificazioni similari. A inventarle è il marketing generazionale sostenuto da un’acritica stampa e da riviste specializzate in tecnottimismo (ad esempio Wired). D’altra parte, la lettura del comportamento dei consumatori in termini di fasce d’età è un’antica pratica da parte degli specialisti che si occupano di vendere merci e servizi per mercati di massa. Per tale motivo uno dei loro compiti principali è quello di raccogliere il maggior numero di informazioni sui consumatori per poi indurli all’acquisto: abitudini, atteggiamenti, preferenze, stili di vita e così via. L’obiettivo non è quello di rendere migliore la vita delle persone ma di farle spendere il più possibile. Peraltro, nel caso della Generazione Z (come delle altre), si omette sistematicamente di ricordare che il denaro dei ragazzi proviene dal portafoglio dei genitori. Omissione che fa il paio col fatto che di solito i maggiori esperti di marketing generazionale lavorano per grandi aziende che distruggono il presente e il futuro di quegli stessi giovani che coccolano a parole non pagando le tasse, devastando l’ambiente, offrendo loro prodotti spesso dannosi per la salute e altrettanto spesso spudoratamente costosi rispetto a quel che realmente valgono. Chissà perché nella società della comunicazione e dell’informazione nessun consumatore sa quanto costa all’origine il prodotto che acquista.

Chiarito il fatto che le generazioni individuate dal marketing non costituiscono un dato naturale ma sono un costrutto delle grandi aziende, quali sono le caratteristiche principali che contraddistinguono la Generazione Z? Le risposte a questa domanda possono variare sensibilmente in relazione al prodotto da vendere e alla relativa immagine da cucirgli addosso. Spesso però incontriamo veri e propri inganni. Ad esempio in diverse ricerche ci è capitato di leggere che i ragazzi della Generazione Z sono autonomi. In realtà dipendono dalla famiglia e con tutta probabilità continueranno a esserne dipendenti per molti anni a venire. Comunque sia alcune linee comuni possono essere tracciate. Innanzitutto l’individualismo. Su questo punto gli esperti di marketing si trovano generalmente d’accordo perché è il modo migliore di far sentire il giovane consumatore qualcuno mentre è un burattino addestrato a comprare e comprare come i polli in batteria sono addestrati a mangiare e mangiare. Siccome non si può nascondere più di tanto che nella realtà i teenager vedono i loro genitori vivere pieni di debiti e/o nella paura di perdere il lavoro (dipendente e non) ecco che gli esperti di marketing si trovano d’accordo nel ritenere che i ragazzi di oggi si sentono imprenditori di se stessi. Un modo tartufesco per non dire che la maggioranza di loro sarà precaria a vita. Comunque, al di là della trita ideologia borghese aggiornata al XXI secolo, ecco altre caratteristiche comuni ai giovani della Generazione Z: nuotano in Internet sin dalla prima infanzia; si relazionano tra loro in maniera molto intensa attraverso i social network; comunicano in maniera costante, rapida, contratta privilegiando la cultura visiva rispetto a quella tipografica (esattamente come fa la pubblicità); hanno una soglia di attenzione molto bassa e mediamente valutano la qualità e l’utilità delle informazioni ricevute in otto secondi.

Tutto procede secondo i piani delle imprese globali che operano nell’economia immateriale? Non proprio. Quantomeno non per tutte. In Canada e negli USA, nell’ultimo trimestre del 2017, circa 700mila persone sono uscite da Facebook e, nello stesso periodo, nel mondo le ore trascorse su questo social sono diminuite di 50 milioni al giorno. Nonostante ciò il 2017 è stato un anno positivo per la piattaforma di Zuckerberg perché la community è cresciuta arrivando a contare oltre 2,1 miliardi di utenti al mese e 1,4 miliardi di persone che si connettono quotidianamente. Per di più, rispetto al 2016, gli utili sono cresciuti in maniera significativa. Ma qualcosa non va, Facebook perde appeal se è vero come è vero che una quota di teenager migra su altri social. In particolare su Instagram, che tra il 2016 e il 2017 ha triplicato il numero dei propri utenti e ha la particolarità di essere una piattaforma esclusivamente visuale. Quali sono i motivi di questo piccolo esodo della Generazione Z da Facebook?

Gli esperti di marketing che ragionano sulla qualità delle relazioni on-line individuano parecchie cause. Ecco un elenco che oggi riguarda soprattutto la creatura di Zuckerberg ma domani potrebbe investire altri social se non i social in generale: il pericolo di diventare dipendenti; l’invidia e la gelosia che viene a ingenerarsi da parte di altri utenti;  le aggressioni virtuali; il fatto che i social non costituiscono più una novità e per qualcuno si è molto più originali se non si è iscritti da nessuna parte; un’embrionale consapevolezza che la vita on-line è uno specchio deformante di quella off-line; le violazioni della privacy.

Prof. Parizio Paolinelli – giornalista e sociologo

Nonostante tutti questi motivi di preoccupazione – a cui si aggiunge il recente scandalo Cambridge Analytica (la società accusata di aver utilizzato i dati di cinquanta milioni di utenti Facebook per creare messaggi mirati di propaganda politica) – c’è da dubitare parecchio che Facebook stia per precipitare. Così come non è precipitata Twitter, abbandonata di recente da diverse celebrities e che peraltro non ha mai funzionato come era nelle intenzioni dei suoi proprietari. E’ stata infatti un paio di volte lì lì per chiudere. Però Twitter rappresenta una delle colonne dell’immaginario made in USA e finché sarà politicamente utile continuerà a esistere (alla faccia del libero mercato). Così, stabilito che non si può affatto parlare di un riflusso dalla vita on-line da parte della Generazione Z e che allo stesso tempo l’entusiasmo per Facebook non è più quello di un tempo, per farci aiutare nella comprensione di quanto sta avvenendo nel mondo dei social network diamo la parola a un esperto di tecnologie informatiche, Adriano Rando, Country Manager Italy della società Medialogic S.p.A. di Roma.  

La Generazione Z sta riconsiderando la propria presenza sui social e in particolare su Facebook. Qual è la sua opinione in proposito?

Adriano Rando ==>>

Questa nuova generazione tende sempre meno alla condivisione pubblica dei propri contenuti e aspira alla tutela della privacy. Dunque, sotto tali aspetti, vede i social come un problema o come uno strumento poco amico. Inoltre i ragazzi a cui lei fa riferimento amano comunicare ancora più rapidamente della Generazione Y (i nati fra i primi anni ’80 e gli inizi del 2000, detti anche Millennial, ndr). Perciò preferiscono strumenti di messaggistica istantanea come Snapchat o Whisper. Tenga poi presente che utilizzano molti dispositivi, conoscono diverse tecnologie e servizi utili per comunicare tra loro e per esercitare un’influenza su temi che gli stanno a cuore. Direi che sono molto più attivi delle altre generazioni e dalle ricerche risulta che tengono molto alla loro formazione. Tutto ciò li rende molto attenti a cosa comunicano e a come comunicano. Pertanto la veridicità dell’informazione costituisce un fattore decisivo.

Il caso  Cambridge Analytica allontanerà ulteriormente da Facebook la Generazione Z e più in generale gli utenti di questo social?

Guardi, sono anni che si discute dell’utilizzo dei dati. D’altra parte tutte le piattaforme digitali, social e non social, raccolgono informazioni sui loro utenti, alcune le acquistano, altre le commerciano. Negli Stati Uniti la compravendita di dati in genere non rappresenta un problema neppure per gli utenti. E ciò si spiega con la storia di quel paese. In Europa, invece, per molti sapere che si è minutamente profilati rappresenta una preoccupazione. Lo scandalo Cambridge Analytica è sorto nel momento in cui si è fatto un utilizzo politico dei dati. Penso che questo caso probabilmente provocherà dei cambiamenti sia da parte di chi gestisce Facebook sia da parte degli utenti. Infatti lo stesso Zuckerberg ha dichiarato di aver sottovalutato questo tema e che correrà ai ripari.

Continuando con il caso Cambridge Analytica a guadagnarci sembra siano aziende come Amazon e Apple, che fondano la propria produzione su beni tangibili, al contrario dei social che si fondano sulla produzione di beni intangibili come immagini, contenuti, comunicazione. Si tratta di una rivincita dell’analogico sul digitale?

Non direi. Amazon e Apple possiedono molti più dati di un social. Diciamo che la loro riservatezza è tale da riuscire a occultare molto bene questo tesoro. In realtà utilizzano dati di ogni genere per proporre o per vendere i loro prodotti. E stia certo che non permettono a terze parti l’accesso a queste informazioni.

Mi rendo conto che questa è la domanda delle cento pistole, ma orientativamente qual è il futuro dei social network?

Ultimamente questa domanda se la stanno facendo un po’ tutti, esperti del settore e non. Sicuramente siamo in una fase di stallo se si pensa che Facebook nasce dieci anni fa, un tempo assai lungo nel mondo on-line. Al momento tutto lascia prevedere che i social diverranno dei grandi hub dove verrà offerta una vasta gamma di servizi. Già si vedono muovere i primi passi. Pensi alle prove di collaborazione tra Tv e social per la creazione di canali streaming e la trasmissione di eventi live. C’è poi tutta la partita delle nuove tecnologie come la Realtà aumentata, l’intelligenza artificiale ed altre ancora che sicuramente permetteranno ai social di evolvere. In quale direzione penso che lo vedremo nel breve termine.

Patrizio Paolinelli, via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro (2018).


ESSERE O APPARIRE. QUAL E’ OGGI LA COSA PIU’ IMPORTANTE?

di Enrica Froio

L’uomo si muove fra due poli opposti: la sua natura individuale o profana e la sua natura sociale o sacra. Come individuo, l’uomo cerca di perseguire un proprio fine particolare, come membro della società è portato a perseguire fini generali collettivi. <<=== E. Durkheim (Il suicidio, studio di sociologia).

Con questo estratto riportato dall’opera de “Il suicidio”, Durkheim rileva la sfera contraddittoria dell’individuo. La contraddizione maggiore, oggi, si vive nel mondo social. Il mondo social ha portato una rivoluzione strutturale della società, l’equilibrio sociale raggiunto prima dell’era social cade formandosene uno nuovo. L’individuo si è adattato a questo trasformando e dividendo in maniera netta e distinta chi è e chi aspira e mostra d’essere.

Qui sorgono i primi problemi; noi, come individui pubblichiamo la nostra vita, la nostra quotidianità, inviamo un messaggio tramite un codice che ha come obiettivo il dimostrare di essere sempre al meglio o ancor di più il meglio, chi riceve il messaggio, il destinatario, decide se quella pubblicazione è davvero da considerarsi come il meglio e questo è espresso tramite le visualizzazioni o i like. Una volta raggiunto l’obiettivo di ottenere quante più visualizzazioni e like possibili, all’individuo cosa resta? Quella che Durkheim chiama natura sacra o sociale dell’individuo è stata nutrita ma quella profana o individuale che importanza ha oggi per ognuno di noi?

dott.ssa Enrica Froio – sociologa

La linea di divisione tra il virtuale e il reale, tra la finzione e la verità ormai è spezzata, annullata, tutto ciò che vediamo è diventata il vero e dietro uno schermo interagiamo, creiamo, giudichiamo ed etichettiamo la società intera. La società con l’avvento dei social, e ancora più evidenziato dalla pandemia che ormai affligge la vita di tutti, ha deteriorato i rapporti umani, la presenza, la comunicazione e il comportamento. Ogni scelta è influenzata dai social. Ci sono vari esempi che possono andare dall’estetica, alla cosmesi, l’abbigliamento, la tecnologia, addirittura la scelta degli studi da seguire. Il mondo social ha dato grandi opportunità a quelli che oggi sono conosciuti come influencer, cioè individui seguiti da milioni di follower che lavorano con queste piattaforme, basti pensare che alcuni influencer guadagnino fino a 10mila€ a post pubblicato e sono proprio gli influencer per primi che indirizzano le vite dei più comuni non riuscendo, appunto, più a distinguere il reale dal virtuale. Il pensiero sul nutrire la natura profana di ognuno di noi, il nostro io, deve restare l’obiettivo di ogni individuo, non lasciandoci comprare dai like o vivendo in un mondo fantastico e non reale. Come in ogni campo, anche in questo c’è chi lavora e merita il successo che ha, ma quei pochi e meritevoli non sono nati e cresciuti scorrendo per ore le dita sugli schermi dei pc o degli smartphone ma hanno nutrito la propria individualità, si sono formati, informati, hanno creato e come in ogni ambito, rischiato di scuotere i loro equilibri e percorrere la via del successo. L’equilibrio di questa società sarà riportato nel momento in cui le sfere divise e descritte da Durkheim si ricongiungeranno e si riuscirà non solo ad apparire ma anche a essere.                                                                                                                                              


SCUOLA RADIO ELETTRA, LA FORMAZIONE A DISTANZA

di Patrizio Paolinelli

Nell’immaginario di molti italiani la Scuola Radio Elettra (S.R.E.) occupa un posto di rilievo. Dal 1951, anno della sua fondazione a Torino, fino alla prima metà degli anni ’90 tale scuola ha formato a distanza oltre un milione e mezzo di tecnici in Italia e all’estero. Purtroppo non si hanno studi approfonditi sulla storia della Scuola. E’ certo però che si è trattato di un fenomeno significativo che ha accompagnato la ricostruzione postbellica – col conseguente ingresso dell’Italia nel club delle nazioni più industrializzate – e che dagli anni ’80 ha subito i dolorosi contraccolpi dei processi di deindustrializzazione. Ma andiamo con ordine partendo dalle origini.

Oltre un milione e mezzo di giovani formati

La S.R.E. nasce per iniziativa di Vittorio Veglia (laureato in chimica) e Tomasz Carver Paszkowski (ingegnere polacco stabilitosi in Italia nel 1947). La leggenda narra che i due abbiano avuto l’idea di mettere in piedi una scuola di formazione professionale per corrispondenza dopo aver facilmente riparato una radio. Pare abbiano pensato: se potevano farlo loro avrebbero potuto farlo anche molti altri. E’ assai più probabile che l’idea sia venuta a Vittorio Veglia durante un suo viaggio negli USA, paese in cui la formazione per corrispondenza era già una realtà consolidata; o ancor più semplicemente dopo la lettura da parte dello stesso Veglia di una rivista in lingua inglese che conteneva annunci di scuole professionali per corrispondenza. Sia come sia di una scuola del genere l’Italia aveva necessità per sostenere il decollo industriale del paese. D’altra parte nel 1951 gli addetti all’agricoltura costituivano ancora la maggioranza della popolazione attiva. Ma nel ventennio successivo si assisterà a una spettacolare impennata del comparto industriale, che nel 1971 assorbirà la maggioranza della forza-lavoro. Gli operai assunti nelle fabbriche passeranno infatti da 3.400.000 unità nel ’51 a 4.200.000 nel ’61 per arrivare a 4.800.000 nel ’71. E’ nel corso di questi due decenni che la S.R.E. conoscerà la sua affermazione e il suo successo diventando uno dei miti dell’Italia del boom economico.

La carta vincente di Veglia e Paszkowski fu quella di essere stati tra i primi ad aver individuato una domanda di formazione professionale a cui la scuola pubblica non dava risposta. All’epoca gli Istituti di Avviamento Professionale erano prevalentemente a indirizzo meccanico, mentre il titolo di perito elettronico richiedeva cinque anni di studio. Tenendo conto che nei primi anni ’50 meno della metà degli italiani aveva frequentato le scuole elementari (la cui licenza era obbligatoria per iscriversi all’Avviamento) va da sé che migliaia di persone piene di buona volontà e di voglia di fare si trovassero escluse da un mercato del lavoro che con la massiccia diffusione della radio e della televisione richiedeva tecnici specializzati nel comparto dell’elettronica di consumo. La S.R.E. colmò questo vuoto offrendo corsi (che andavano da una trentina a una cinquantina di lezioni ciascuno), a costi contenuti, senza limiti di età, senza che l’allievo dovesse spostarsi dalla propria residenza, senza scadenze prefissate (era l’allievo che decideva quando inviare a Torino i compiti e le schede di esame da correggere) e rilasciando un attestato finale.

Passando dalla business idea alla sua applicazione uno dei vantaggi competitivi della S.R.E. fu quello di offrire un servizio di alta qualità e, come si direbbe oggi, personalizzato. All’iscritto giungevano via posta il materiale cartaceo consistente in dispense molto ben realizzate dal punto di vista didattico e il kit di componenti per eseguire a domicilio sia montaggi sperimentali sia la realizzazione finale dell’apparecchio sul quale ci si intendeva specializzare. A scadenze regolari (in genere ogni cinque o dieci lezioni) l’allievo doveva sostenere un test scritto che inviava per posta alla Scuola, la quale lo rinviava al mittente con le correzioni e il punteggio. Non solo. Se un’apparecchiatura montata dall’allievo non funzionava poteva essere spedita alla Scuola, che la riparava e la rimandava all’allievo gratuitamente. Inizialmente i dispositivi da realizzare erano Radio e Radio FM, ma rapidamente si passò alla Tv, alla costruzione di strumenti elettronici di misurazione e persino alla possibilità di realizzare a casa propria un piccolo motore fuoribordo.

Una volta terminato il corso per due settimane l’allievo aveva la possibilità di frequentare gratuitamente i laboratori della S.R.E. dove veniva attentamente seguito dai consulenti della Scuola. In proposito va ricordato che diversi di questi consulenti provenivano dal Politecnico di Torino, la cui vicinanza facilitò senz’altro l’iniziativa di Veglia e Paszkowski, così come la favorì il fatto di trovarsi in uno dei vertici del triangolo industriale. Trovandosi in una delle realtà più sviluppate del paese i due fondatori guidarono la Scuola secondo i criteri manageriali allora più avanzati. Basti pensare che a metà degli anni ’50 la S.R.E. disponeva di una propria litografia per la stampa delle dispense, di un impianto meccanografico IBM a schede perforate per la gestione delle spedizioni e di un ufficio postale interno (come aziende assai più grandi quali la FIAT e la RAI). Negli anni d’oro della sua esistenza la S.R.E. arrivò a contare 150 dipendenti (di cui 25 tra ingegneri, periti elettronici e tecnici) e un centinaio di collaboratori esterni.

Un altro vantaggio competitivo che permise alla S.R.E. di battere la concorrenza fu una strategia di vendita molto ben articolata. Innanzitutto i corsi potevano essere acquistati a rate. Ma c’era di più: chi non desiderava il corso completo poteva comprare singole dispense o una serie di dispense di suo interesse. Un’offerta assai elastica che però non incideva sulla qualità della didattica: che acquistasse l’intero corso o una sola dispensa, che concludesse gli studi nei tempi stabiliti o in ritardo l’allievo era seguito col medesimo impegno da parte della Scuola. La politica del prezzo era poi affiancata da una promozione che andava dalle presentazioni porta a porta agli episodi su Carosello passando per massicce inserzioni sulla stampa.

L’enfasi dei messaggi pubblicitari era posta su un insieme di fattori che alimentavano l’immaginario collettivo di un’epoca lanciata a tutta velocità verso la modernizzazione: la promozione sociale, l’autorealizzazione, la fiducia nella tecnologia e il mito del progresso. “Diventa qualcuno e stupiscili tutti”, “Ecco la tua grande occasione per dimostrare quanto vali”, “Impara a casa tua una professione vincente” sono alcuni dei numerosi messaggi promozionali con cui la S.R.E. promuoveva i propri corsi e da cui – al di là dell’insistenza sulla volontà individuale – emerge un sistema di valori fondato sulla funzione civilizzatrice del lavoro. Il risultato complessivo di questo modello d’offerta formativa a distanza furono decine di migliaia di iscritti, l’esponenziale moltiplicazione dei corsi (Transistor, Elettrotecnica, Hi-Fi Stereo, Regolo Calcolatore, Elettrauto, Fotografia, Inglese ecc.) e l’espansione della S.R.E. all’estero (Francia, Germania, Spagna e alcuni paesi africani). In un parola la Scuola Radio Elettra divenne sia un marchio rappresentativo del più complessivo sviluppo economico sia una proposta culturale che vedeva nel lavoro la base della vita personale e sociale.

La S.R.E. trovò così spazio nell’immaginario collettivo degli italiani. Dagli anni ’50 fino a tutti gli anni ’70 e oltre dire Scuola Radio Elettra significava evocare la volontà di riscatto dalla povertà e riconoscere al lavoro la sua centralità nei processi di formazione dell’identità. Veglia e i suoi soci assecondarono tali tensioni e anzi l’alimentarono più che poterono: “Ero un manovale. Ora sono un tecnico specializzato” recitava una delle tante inserzioni pubblicitarie della Scuola.  All’epoca i tecnici erano per lo più dipendenti dell’industria. Ma non era infrequente il caso di allievi della S.R.E. che dopo aver superato il corso aprivano piccole attività in proprio (ad esempio negozi per la riparazione di radio, Tv e impianti stereo). L’eccellente strategia di vendita, la qualità dei corsi, l’alta professionalità del corpo docente e i cospicui  investimenti in pubblicità crearono un legame molto stretto tra la Scuola e i suoi allievi. Tanto che sorsero spontaneamente i Club S.R.E. Il primo nacque a Roma nel 1971 e poi in numerose altre città della penisola. Alcuni Club arrivarono persino a formare squadre di calcio amatoriali.

Venne così a costituirsi una rete associativa che faceva della condivisione del sapere tecnico il motivo della propria esistenza. Veglia e Paszkowski sostennero con decisione la proliferazione dei Club S.R.E. tramite l’invio di materiali, la realizzazione di un logo (visibile insieme a tanto altro materiale sul sito museo.scuolaradioelettra.it), visite periodiche nelle sedi e delegando un proprio collaboratore al mantenimento dei rapporti con gli stessi Club. Sfortunatamente non si hanno studi di questa esperienza associativa. Possiamo però aggiungere che uno dei canali attraverso i quali i Club S.R.E. comunicavano tra loro e con la stessa Scuola era il mensile RADIORAMA (distribuito per abbonamento postale conteneva la rubrica “L’angolo del Club”). Fondato nel 1956 da Veglia fu un punto di riferimento per gli allievi della Scuola e non solo. In buona sostanza la S.R.E. diede alla passione per la tecnologia una vetrina sul mondo e alla laboriosità di tanti italiani un modo per esprimersi.

2011 Giuseppe Tusini (sx) e Vittorio Veglia

Ancora oggi in alcuni resta viva la memoria di una scuola che non aveva eguali, che alimentava la cultura tecnologica e lo spirito di intraprendenza in chi aspirava alla promozione sociale. Il più noto “custode della memoria” della S.R.E. è sicuramente Giuseppe Tusini. Modenese, classe 1942, perito elettrotecnico con un lungo trascorso alla FIAT Trattori ed ex allievo della Scuola (corso per Tv) Tusini vanta una collezione di materiali della S.R.E. davvero imponente.  Da quanto ci ha raccontato la sua raccolta (in parte visibile sul sito www.gtusini.it) comprende: 1) il materiale e le lezioni dei corsi radio, tv (sia a valvole che a transistor), Hi-Fi, strumentazione, elettrotecnica, elettrauto (escluse le dispense), antifurto e altro ancora dal 1952 sino alla prima metà degli anni ’70; 2) materiali di altre scuole quali: Radio Scuola Italiana, Scuola Politecnica italiana, Maymo Escuela Radio (spagnola); 3) il materiale delle sedi estere della S.R.E., tra cui: Eratele (spagnola), Euratele (tedesca), Eurelec (francese). Per Tusini i motivi che giustificano tanta dedizione sono diversi. Innanzitutto quello di non far cadere nell’oblio il patrimonio di un’esperienza molto importante nel campo della formazione professionale in cui il fare bene le cose si coniugava con il bene collettivo, nel senso di un progresso sociale generalizzato. Poi perché la Scuola ha permesso a molti giovani di trovare lavoro o di creare una propria attività. Infine perché le apparecchiature dell’epoca si caratterizzavano per un’estetica che è andata perduta con i processi di miniaturizzazione dei dispositivi elettronici ma che è bene non dimenticare. A quest’ultimo proposito, la recente moda del vintage ha recuperato il gusto per le vecchie radio a valvole attraverso la loro commercializzazione on-line e off-line.

Tornando alla cronistoria il passaggio dell’Italia da una società agricola a una società industriale, l’abilità imprenditoriale di Veglia e Paszkowski, l’eccellente qualità dell’offerta didattica, una promozione dei corsi molto avanzata e le concrete opportunità di lavoro che si aprivano per migliaia di persone destinate altrimenti ad attività dequalificate furono tra i motivi che decretarono il successo della Scuola Radio Elettra. Ma alla fine degli anni ’70 iniziò il processo di deindustrializzazione dell’Italia e la crescita del terziario, il quale, già maggioritario nel 1981, nel 1986 raccolse la percentuale più alta della forza-lavoro: 56,5%. In parole povere questa trasformazione significò meno posti lavoro nel comparto industriale per il quale la S.R.E. preparava i suoi specialisti. Per restare a Torino, alla fine degli anni ’70 la FIAT aveva 130mila dipendenti, mentre oggi in Italia i dipendenti della Fiat Chrysler sono meno di 23mila (contro gli oltre 43mila del 2003). A questa dinamica delle forze produttive va aggiunta la trasformazione delle stesse tecniche di produzione nell’elettronica di consumo: radio, Tv e giradischi necessitavano sempre meno di riparazioni perché era più conveniente acquistare un nuovo prodotto. Crollò così un’altra fonte di lavoro per i tecnici che uscivano dalla Scuola.

Tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 inizia il declino della S.R.E. Nel dicembre del 1981 chiude RADIORAMA. Sull’ultimo numero della rivista Vittorio Veglia firmerà un laconico comunicato intitolato “Congedo”. Nel 1982 Tomasz Carver Paszkowski lascia l’azienda per motivi di salute e successivamente la Scuola passa in mano ai figli dei due fondatori. Ma le iscrizioni ai corsi calano anno dopo anno. Nel 1995 la Scuola fallisce e nel corso del 1996 è acquistata dal CEPU (Centro Europeo per la Preparazione Universitaria). I numerosi Club S.R.E. resistono ancora per qualche anno fino a estinguersi uno dopo l’altro. Fine di una storia gloriosa? Nient’affatto. La Scuola Radio Elettra ha superato la crisi degli anni ’90 e oggi si trova a Città di Castello (in provincia di Perugia). E’ attiva in un mercato della formazione a distanza profondamente mutato con l’avvento dell’e-learning e forte di un marchio storico ancora conosciuto da molti. La Scuola possiede un proprio sito (www.scuolaradioelettra.it) ed è presente su Facebook dove è visibile anche il profilo dei Consulenti della S.R.E.

Nel corso degli anni l’offerta didattica è stata aggiornata con l’introduzione di nuovi corsi nei settori storici dell’impiantistica e dell’elettronica (ad esempio,  Tecnico fotovoltaico e Tecnico dei sistemi domotici) e con l’apertura verso altri comparti: informatica, ristorazione, bellezza, salute e servizi sociali. Dalla S.R.E. escono oggi cuochi, operatori sociosanitari, estetisti, Web-designer e tante altre figure professionali. Sul piano organizzativo la didattica prevede lezioni on-line e in aula, laboratori in presenza, possibilità di tirocinio, rilascio del titolo. Ovviamente la modalità di erogazione dei corsi si è evoluta di pari passo con la tecnologia grazie alla creazione della piattaforma Fedro per la fruizione on-line delle lezioni. La S.R.E. conta oggi 35 unità tra dipendenti e collaboratori, ha un corpo docente di 85 insegnanti e 670 allievi. Come si vede si tratta di una struttura più piccola rispetto a quella del passato ma in continuità con lo spirito dei fondatori. Una continuità senza nostalgia che punta ancora sull’importanza del lavoro per la crescita degli individui e per lo sviluppo della società.

Prof. Patrizio Paolinelli – via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro.


Solidarietà e pandemia

Intervista a Simonetta Bisi di Patrizio Paolinelli

Simonetta Bisi insegna sociologia all’Università La Sapienza di Roma. Ha pubblicato numerosi studi sulla condizione delle donne, sui temi dell’identità e dei diritti umani. La intervistiamo per una riflessione sul ruolo della solidarietà nell’anno del Covid. 

<< == Simonetta Bisi – sociologa 

Quali significati ha assunto la solidarietà durante la pandemia?

Penso che la solidarietà indichi essenzialmente il legame di ciascuno con tutti. Un’empatia che comporta la capacità di identificarsi con gli altri, in questo caso soggetti alla stessa tragedia. C’è quindi un’etica nella solidarietà che rifugge dall’egoistico “pensa a te stesso” per guardare all’altro in difficoltà. E questo vale sia a livello dei governi sia a livello individuale.

Sarebbe un bell’esempio di solidarietà togliere il brevetto ai vaccini contro il Covid per ampliarne la produzione anche in quelle nazioni che non hanno la possibilità di comprare i milioni di vaccini necessari. Così come vaccinare per primi i soggetti fragili e gli anziani.

La solidarietà si esprime pure nei gesti quotidiani, come il rispetto delle regole – mascherine, distanziamento, isolamento – il sostegno, anche semplicemente con una telefonata, ai tanti che vivono in solitudine questa necessaria reclusione, alle famiglie non più in grado di pagare affitto, mutui e bollette.

La solidarietà sociale deve cercare di mitigare le disuguaglianze che, già presenti, si sono ulteriormente aggravate, ricorrendo, per esempio, a una tassazione speciale sui grandi patrimoni, a incentivi statali, a forme di sostegno ai redditi e a capacità di creare lavoro.

Dinanzi al Covid il volontariato laico e religioso si è mobilitato in forze. Quale impatto ha avuto nel contrasto all’incremento della povertà registrato da un anno a questa parte?

La capacità di “aiuto” delle organizzazioni di volontariato è ben visibile. Il loro sforzo ha fatto da argine alle situazioni di più grave disagio, ha consentito a molti di resistere e di sperare. Non si tratta solo della possibilità di nutrirsi a pranzo e a cena – le lunghe file davanti alle mense per i poveri documentano l’entità della crisi – ma di un aiuto concreto, parlo di affitto, bollette e così via, un aiuto orientato a progetti di reinserimento lavorativo.

Le persone vanno sostenute nel trovare un loro percorso, perché non si accontentino di lavoretti in nero e ricomincino a sperare in una vita vissuta con piena dignità. Pacchi alimentari, vestiario, medicinali e generi di prima necessità servono a tamponare l’emergenza. Il volontariato deve andare oltre, e cerca di farlo.

Lei opera come volontaria al Centro ascolto Caritas della parrocchia di San Gabriele a Roma. Può raccontarci la sua esperienza?

La parrocchia si trova in un quartiere borghese e benestante. Questo contesto stimola le persone a venire da noi soprattutto per cercare un lavoro. Ma diverso è lo scopo dell’ascolto: fare emergere i bisogni profondi, comprendere situazioni familiari difficili, dare sostegno legale o psicologico secondo le necessità.

Se fino a qualche anno fa erano soprattutto donne a rivolgersi al nostro centro, adesso vengono da noi anche uomini, per la maggior parte migranti. Sono i più bisognosi perché sembrano vergognarsi, mentre dobbiamo portarli ad aprirsi in modo da comprendere le loro difficoltà e cercare anche con l’empatia di sorreggerli.

È un compito difficile, richiede attenzione e preparazione – la Caritas infatti prepara all’ascolto con corsi ad hoc – per evitare superficialità di giudizio o pietismo. Un’esperienza preziosa, arricchente e, devo dirlo, gratificante. Ogni volta che riusciamo a risolvere una situazione difficile ci si sente appagati.

Gli immigrati africani sembrano essere la categoria che in quest’anno di pandemia ha sofferto maggiormente rispetto ad altre fasce marginali della società. Per quali motivi?

In una triste graduatoria tra gli invisibili, posso affermare che i più invisibili sono proprio gli africani. Tra questi una gran parte è arrivata in Italia sui barconi, è segnata dalle sofferenze subite e dalla delusione provata all’arrivo in Italia. Non basta avere – spesso dopo anni d’attesa – il permesso di soggiorno per motivi politici o altro. Una volta entrati in possesso dell’agognato documento vengono abbandonati a sé stessi, facile preda di varie forme di schiavismo.

Situazione diversa, per esempio, di chi arriva nel nostro Paese per ricongiungimento familiare o con amici già integrati. Così giungono da noi dopo anni di peregrinazioni e di delusioni, demotivati e spesso depressi. Trovare una strada per loro è molto difficile: essere maschio e africano è un handicap per i pregiudizi e gli stereotipi di cui sono vittime. Su queste situazioni anche le organizzazioni di volontariato incontrano difficoltà: dare l’aiuto economico è necessario ma è momentaneo, non consente all’assistito di vivere dignitosamente.

Sarebbe necessario un aiuto diverso, e non solo per loro. Serve restituire dignità attraverso un percorso che tenga conto delle singole peculiarità. Per esempio, stiamo seguendo un nigeriano, fuggito dal suo Paese perché cattolico, che ha dovuto lasciare moglie, figli e il suo lavoro di maestro elementare. Dopo due anni nel centro di Lampedusa è uscito con il suo prezioso documento, ma senza nemmeno un indirizzo o un nome a cui rivolgersi. Arrivato dopo varie vicissitudini a Roma, è venuto da noi e attualmente è seguito da uno psicologo del nostro volontariato. Stiamo cercando di trovargli una sistemazione che gli ridia il senso della dignità. Ma non sarà facile: troppa chiusura da parte di chi potrebbe accoglierlo. E il suo non è certo un caso isolato. Così c’è il rischio che queste persone allo sbando, ma legalmente in Italia, si facciano coinvolgere da un sistema di solidarietà perversa: quello della criminalità.

Nella Parrocchia dove lei opera sono in larga misura le volontarie a occuparsi delle persone in difficoltà. Come spiega questo fenomeno? 

Rispondere che il motivo sta nella tendenza alla “cura” delle donne sarebbe banale e non vero. Se di attitudine femminile dobbiamo parlare è forse quella di una migliore intesa con la parola “gratuità” e con l’apertura mentale verso un lavoro motivante.

Mi sono chiesta perché a tanti uomini in pensione, quindi con maggior tempo libero, non venga in mente di sperimentare una nuova strada, di offrirsi volontario non una tantum, tipo partecipare al pranzo di Natale della Caritas, ma con lo stesso impegno di un lavoro, peraltro con modalità aperte e limitate a qualche ora settimanale. Mi chiedo: opera forse un pregiudizio? Forse perché spesso questa attività si svolge in parrocchia? Perché non ha uno status? Troviamo anche maschi tra i volontari, però con uno “status” ben definito, anche se ex professionisti: medici e avvocati soprattutto. Non saprei dare spiegazioni convincenti, però confido nei giovani. I quali, ogni volta che ne abbiamo avuto bisogno, si sono attivati. Ragazze e ragazzi in egual misura.

Patrizio Paolinelli – via Po Cultura, settimanale del quotidiano “Conquiste del Lavoro (aprile 2021)


DEVIANZA E PEDOFILIA

di Carmela Cioffi

Il soggetto della mia trattazione, dal titolo Devianza e Pedofilia, è un’analisi del processo di costruzione sociale della pedofilia e delle dinamiche ad essa correlate, è un’analisi dal punto di vista sociologico in quanto la pedofilia non si riflette solo in campo psicologico e giuridico, ma anche sociale. Attraverso l’utilizzo di metodologie di ricerca qualitative, ho trattato la Devianza e la Pedofilia come problemi sociali, per cercare di comprendere come vengono costruite le categorie dei devianti e come possono contribuire i più deboli a questa costruzione sociale.

<< == dott./ssa Carmela Cioffi

L’abuso sessuale in quanto atto grave si ripercuote sulla vittima con conseguenze altrettanto gravi. Per affrontarle e dove sia possibile superarle, si ha bisogno di un specifico supporto. Nel corso di questo mio studio ho potuto confrontare diversi autori e approcci sociologici che riflettono sulla pedofilia come realtà costruita e sugli attori e sulle pratiche che partecipano alla costruzione. Una lettura sociologica della pedofilia quindi e dell’abuso rituale, che rimanda ai fenomeni dell’amplificazione della devianza e del panico morale.                                            

Il testo di questa mia tesi è suddiviso in sei parti:

  • Il primo capitolo ripercorre quasi tutte le esperienze e le riflessioni personali che hanno ispirato questa ricerca, nonché le vari fasi di progettazione e reperimento delle fonti, autori e articoli di giornale e testimonianze.
  • Nel secondo capitolo si affronta il tema della pedofilia e ci si addentra nella tematica dell’abuso, cercando di delineare la figura del pedofilo, evitando di ridurre il tutto a una cosiddetta “caccia alle streghe”, anche se forse, in questo caso, “caccia agli orchi” sarebbe più opportuno.
  • Nel terzo capitolo si mette in evidenza come la tematica dell’abuso sessuale sui i bambini abbia assunto, negli ultimi anni, un’importanza e una dignità crescente, soprattutto grazie all’ampio rilievo offerto dai mass media.
  • Nel quarto e quinto capitolo ci si chiede come spesso sia potuto accadere che le vittime di tali abusi siano state ferite da persone che officiano nel nome della chiesa prendendo come esempio casi che hanno avuto grande risonanza e che hanno indotto sia le singole diocesi che le conferenze episcopali nordamericane ad avviare inchieste e a proporre misure preventive. Per esempio il Governo Irlandese, per scavare a fondo nel fenomeno della pedofilia ecclesiastica, nel 2010 nomina una commissione d’inchiesta chiamata “Murphy”, costituita non per accertare l’autenticità dei fatti denunciati dalle vittime, ma per analizzare il comportamento delle gerarchie davanti ad essi. Inoltre si cerca di individuare quali siano le caratteristiche che legano il fenomeno dei preti pedofili con la carica che ricoprono nella società.
  • Nell’ultimo capitolo riportano le testimonianze di bambini abusati da preti pedofili. Un resoconto durissimo, crudo, quello di David Pittit, allora bambino, ma uomo al momento della sua testimonianza, che chiama i fatti e le cose con i loro nomi, spiegando chiaramente la perversione del prete pedofilo e ciò che accade nella mente della giovanissima vittima, ma che allo stesso tempo non ha mai messo in dubbio la sua fede in Dio e la sua fiducia nella chiesa, pur essendo stato violato proprio da chi, all’interno della chiesa stessa, avrebbe dovuto proteggerlo. Nel lavoro ho riportato diverse interviste:

1- La testimonianza diretta di un abusato, che è poi diventato il motivo principale per cui ho deciso di trattare questo tema.

2- L’intervista al Dr. David Kolkò, che è considerato uno tra i maggiori esperti nel campo dell’abuso fisico e della violenza in famiglia attraverso una serie di domande e risposte sugli effetti, psicologici e non, che questi traumi possono avere sullo sviluppo del bambino.

I bambini non si toccano

3-L’intervista a Maria, la madre di Giorgio, un bambino abusato da un prete che ben descrive quali problemi ci si trova a dover affrontare anche nella propria comunità quando si è colpiti da un episodio di questo genere.

4-Una carrellata di casi di vittime di abuso, citati dalla stampa e raccolti dalla Rete L’abuso.

Quest’ultima parte definisce l’aspetto più importante ovvero “le vittime” degli abusi. I bambini che sono le vittime fragili di questi “maltrattamenti”, di tutti quegli atti e quelle carenze che turbano gravemente i più piccoli, attentando alla loro integrità corporea e al loro sviluppo fisico, intellettivo e morale. Gli eventi critici, la violenza e l’aggressività hanno effetti devastanti sulla salute fisica e mentale dei bambini, modificano radicalmente la percezione del loro stato di benessere e inducono un peggioramento significativo della loro qualità di vita futura e dell’ambiente famigliare, spesso agendo proprio sugli stili di vita e sulla modalità di comunicazione con il contesto di riferimento. L’unicità di ogni singolo abuso, delle caratteristiche del reato e di quelle della vittima richiedono studi con approcci complessi, spiegazioni e deduzioni, teorie e prassi operative non sempre di facile definizione, proprio per la complessità del contesto in cui ogni abuso avviene. La figura della vittima, per citare Quinney, ha una precisa funzione nel sistema sociale, proprio perché la definizione di vittima cambia a seconda dei modelli culturali delle classi dominanti. Molto interessante è il pensiero che la vittima, con la sua sola presenza nel sistema, dimostra quale minaccia sia stata inferta all’ordine sociale e quindi giustifica, rende giusto, l’intervento di misure repressive per il ripristino della cosa violata.

In questa mia ricerca, sempre ispirata dalla “cassetta degli attrezzi” di Marradi, mi sono riconosciuta nella persona della sociologa statunitense Mary De Young, che si è dedicata alla cura, alla prevenzione e valutazione dell’abuso sessuale sui bambini e grazie alla sua formazione sociologica ha iniziato a studiare casi di Ritual Abuse, conosciuto inizialmente come Satanic Ritual Abuse, che però negli anni ha perso via la sua accezione strettamente satanica. 

La definizione di Ritual Abuse, il concetto di panico morale, i suoi modelli tradizionali e alcuni suoi sviluppi hanno offerto una chiave di lettura interessante per l’interpretazione dei risultati della mia ricerca. Il valore e l’utilità dello studio di fenomeni di panico morale risiedono soprattutto nel disvelare informazioni relative alla strutturazione della società moderna e dei legami sociali.

La discussione attuale sui preti pedofili – considerata dal punto di vista sociologico – rappresenta un esempio di panico morale. Il concetto spiega come alcuni problemi siano oggetto di un “ipercostruzione sociale”. Più precisamente, i panici morali sono stati definiti come problemi socialmente costruiti caratterizzati da un’amplificazione sistematica dei dati reali, sia nella rappresentazione mediatica sia nella discussione politica, caratteristiche che tipiche dei panici morali. 

In primo luogo problemi sociali che esistono da decenni sono ricostruiti nelle narrative mediatiche e politiche come nuovi, o come oggetto di una presunta e drammatica crescita recente. Una caratteristica tipica dei panici morali: si presentano come nuovi fatti risalenti a molti anni or sono, in alcuni casi a oltre dieci anni fa, in parte già noti, ma con particolare insistenza, sono presentati sulle prime pagine dei giornali avvenimenti degli 1980 come se fossero avvenuti ieri, con un attacco concentrico. Ogni giorno si annuncia, una nuova scoperta volta ad infiammare polemiche, ciò mostra bene come il panico morale sia promosso da “imprenditori morali” in modo organizzato e sistematico.

I panici morali non fanno bene a nessuno. Distorcono la percezione dei problemi e compromettono l’efficacia delle misure che dovrebbero risolverli. A una cattiva analisi non può che seguire un cattivo intervento. I panici morali hanno ai loro inizi condizioni obiettive e pericoli reali, non inventano l’esistenza di un problema, ma ne esagerano le dimensioni statistiche. In una serie di pregevoli studi Jenkins, ad esempio, ha mostrato come la questione dei preti pedofili sia forse l’esempio più tipico di un panico morale. Sono presenti infatti i due elementi caratteristici: un dato reale di partenza, e un’esagerazione di questo dato ad opera di ambigui “imprenditori morali”. Il dato di partenza è che i preti pedofili esistono. Alcuni casi sono insieme sconvolgenti e disgustosi, hanno portato a condanne definitive e gli stessi accusati non si sono mai proclamati innocenti. Questi casi negli Stati Uniti, in Irlanda, in Australia spiegano le severe parole del Papa, come capo della Chiesa, e la sua richiesta di perdono alle vittime. Dal momento però che chiedere perdono, per quanto sia nobile e opportuno, non basta, occorre evitare che i casi si ripetano. Non esistono invece nella letteratura sociologica casi di Ritual Abuse avvenuti in Italia a partire dalla diffusione del panico morale. Essi si trovano però nelle narrazioni e nei discorsi dei professionisti, degli imprenditori morali e dei politici che hanno avuto in essi un qualche ruolo. 

Il problema con i casi di pedofilia legati alla Chiesa è che questi sono preclusi anche alla divulgazione scientifica: gli atti rimangono secretati per parecchi anni e ciò impedisce a chiunque di svolgere un lavoro di ricerca d’archivio per chiarire gli aspetti oscuri delle vicende. Va detto che gli abusi rituali in Italia vengono chiamati “abusi collettivi”. Tra i casi più noti, che invece contengono elementi propri dei ritual abuse, possiamo menzionare quello dei cosiddetti pedofili della Bassa Modenese, e quello dei due asili di Brescia, Abba e Sorelli.

In conclusione la mia analisi propone che il ruolo delle istituzioni e degli attori che compongono i sistemi di intervento e di controllo sociale devono riacquisire coerenza ed equilibrio all’interno di strutture condivise ed accettate da tutti gli attori sociali, capaci di assumere come proprio e riconoscere anche un ruolo attivo alla vittima. Obiettivi di salute comuni e globali che tengano al centro il benessere della vittima e riducano i costi sociali dei processi primari e secondari di vittimizzazione attraverso una prevenzione efficace ed efficiente, ma soprattutto appropriata, perchè in assenza di politiche sociali mirate, tutto è lasciato senza alcun programma alle competenze della vittima, quando ne è in possesso, e all’incrocio di esse con i pochi mezzi che la società offre per superare il trauma. Queste risorse vengono gestite su proposte progettuali dal terzo settore e difficilmente trasformate in servizio pubblico. Se la vittima vive in una comunità che ha messo in programma risorse e servizi per il superamento e la riabilitazione del trauma, che fornisce mezzi per il risarcimento del danno subito o per azioni riparative, si ha conformità con le regole sociali e con quel contesto di vita, a maggior ragione se si ha il superamento del danno causato dall’essere vittima con una certa acquisizione di sicurezza e tutela. Allo stesso modo può verificarsi una situazione di non conformità se la società fornisce i mezzi, ma la vittima di abuso non è in grado di superare il trauma o nel caso in cui la vittima di abuso non veda riconosciuti i propri diritti perché non previsto dalle norme o ancora quando la vittima di abuso, annientata dal proprio patimento e senza alcun sostegno, si chiude al mondo.

L’ultima riflessione riguarda la capacità di reazione e superamento dell’evento critico di quella vittima di abuso che ha avuto adeguati processi di socializzazione primaria e secondaria e che attraverso la strutturazione della sua personalità, indipendentemente dal suo status sociale, dalla classe di appartenenza, dal ruolo o dalle sue condizioni psico-sociali, riesce a reagire al trauma attraverso le norme condivise e con strumenti e mezzi adeguati.

Un’imperfetta socializzazione nell’ottica parsonsiana invece può determinare una vulnerabilità che può rendere il soggetto facile preda sia di rivittimizzazione che di crimini. Così è possibile che gli operatori si trovino di fronte ad un adattamento passivo e alla rinuncia quando la vittima perde la fiducia negli strumenti e nelle possibilità offerte in termini di servizi e risorse dalla società rimanendo in una situazione paralizzante e frustrante di possibilità di cambiamento. L’emarginazione delle vittime abusate all’interno del sistema di protezione e sicurezza sociale avviene quando vi è frattura dei valori del riconoscimento della dignità umana e del valore della persona in quanto membro della società. Trovare congiunzioni e congruenze relazionali nei sistemi teorici e operativi di supporto alle vittime di abuso significa costruire una sociologia della vittima abusata vicina alle persone, capace di non rimanere assunto teorico, ma di essere fonte di conoscenza, funzionale, proattiva e di reale stimolo ai sistemi di aiuto e sostegno, che ci auguriamo sempre più organici, complessi, efficaci ed efficienti, ma soprattutto rispettosi dei diritti del fanciullo, dei diritti del cittadino, di politiche sociali concrete e finalizzate al sostegno delle vittime fragili i bambini a tutela e protezione di coloro i quali presentano vulnerabilità ed esperiscono dolore a causa di un abuso subito, capaci di sguardi significativi e attenti. 

                                                                                                               


Made in Italy, la via italiana alla società dello spettacolo

di Patrizio Paolinelli

Le radici del Made in Italy affondano nella storia economica del nostro paese. Risalgono al tardo Medioevo e al Rinascimento con lo sviluppo di un artigianato di qualità che, insieme alla produzione di manufatti d’uso comune sempre più efficienti e raffinati, risultò decisivo per la realizzazione di innumerevoli capolavori d’architettura, scultura e pittura.

<< = = prof. Patrizio Paolinelli

Tra gli italiani tali capolavori hanno alimentato una diffusa sensibilità estetica che continua a palpitare ancora oggi. Passando a tempi assai più recenti il Made in Italy si intreccia con i processi di modernizzazione che hanno condotto oggi il nostro paese a diventare una nazione capitalistica avanzata, pur con tutti i suoi ritardi, squilibri e problemi.

Il Made in Italy si articola lungo tre fasi in continuità l’una con l’altra seguendo un percorso di crescita incrementale dei suoi elementi di fondo. La prima fase inizia negli anni ’50 e si conclude nella prima metà degli anni ’70. Lo sbocciare del Made in Italy è tuttavia all’ombra del miracolo economico, essenzialmente fondato sull’espansione della grande impresa nei settori metallurgico, meccanico, automobilistico e chimico. Negli anni ’50 il nostro paese è tra i primi in Europa in termini di ricostruzione nazionale dopo le devastazioni della Seconda guerra mondiale. Alcuni esempi: le acciaierie di Cornigliano sono tra le più moderne del Vecchio Continente; nella Valle Padana viene costruita un’importante rete di metanodotti e in Val di Non la più alta diga d’Europa; è posta la prima pietra dell’Autostrada del Sole (ultimata nel ’64) lungo la quale compare il primo autogrill a ponte; la stazione Termini di Roma è la più grande d’Europa e riceve ogni giorno  400 treni capaci di raggiungere 170 chilometri all’ora.

La nuova fase di industrializzazione del paese non si limita a primati quantitativi. In parecchi comparti si caratterizza per la qualità dei prodotti, il gusto estetico e l’ingegno tecnico dando vita a un singolare intreccio tra fattori economici e fattori culturali in grado di plasmare un immaginario collettivo al cui centro risplende la merce. Il nuovo spirito del tempo su cui si innesta il nascente Made in Italy è all’opera a partire dalla meccanica tradizionale. Nel 1950 il pilota Nino Farina diventa campione del mondo di Formula Uno alla guida di un’Alfa Romeo, seguito nel 1951 da Juan Manuel Fangio (sempre alla guida di un’Alfa) e sia nel 1952 che nel 1953 da Alberto Ascari su una Ferrari. Da subito entrambe le case automobilistiche si caratterizzano per la produzione di veicoli che costituiscono dei veri e propri status symbol destinati soprattutto all’esportazione. Ancora nel ’53 le moto della Gilera occupano le prime tre posizioni nella classifica del campionato del mondo, classe 500, confermando la qualità di un comparto che vedrà l’affermazione di marchi come Augusta, Guzzi, Aermacchi e non solo. Allo stesso tempo la Vespa, lo scooter della Piaggio, diventa sia un efficace mezzo di trasporto sia un simbolo universalmente apprezzato del design italiano mitizzato nel film Vacanze romane.

Questi esempi suggeriscono come prodotti meccanici quali le auto e le moto assumano un valore simbolico ben più importante del loro valore d’uso (spostarsi nello spazio). Le gare di Formula Uno spettacolarizzano la tecnologia, alimentano il mito della velocità e il pilota si trasforma in un divo dello sport assimilabile alle star del cinema. La società dello spettacolo ha già preso forma e proprio in quegli anni l’industria cinematografica italiana si svincola definitivamente dal provincialismo del Ventennio: Anna Magnani, Sophia Loren, Gina Lollobrigida, Claudia Cardinale (tanto per ricordare qualche nome) competono ad armi pari con le dive hollywoodiane. Allo stesso tempo la merce fa bella mostra di sé alla Fiera Campionaria di Milano, tra le più importanti del mondo, mentre consolidano la loro vocazione internazionale quelle di Torino, Verona e Bari.

Per molti aspetti siamo ancora all’infanzia del Made in Italy ma il corpo si è formato, la crescita sarà vertiginosa e continua fino a oggi pur tra profonde trasformazioni. Durante gli anni ’50 l’abbigliamento italiano sbarca negli Stati Uniti aprendo la strada a quella dimensione produttiva che successivamente diventerà la regina del Made in Italy: la moda. Per di più le nostre industrie tessili si espandono rapidamente producendo persino per paesi come l’Inghilterra, che pure nel settore vantava un’antica tradizione. Acquistano una dimensione via via più internazionale le produzioni di qualità come quelle delle ceramiche, delle macchine da scrivere e delle calcolatrici mentre cresce significativamente l’esportazione dei nostri prodotti agricoli.

Questa prima fase del Made in Italy farà da matrice alle successive e si caratterizza per molteplici fattori: la specializzazione delle aziende in tipologie merceologiche, la produzione concentrata su base locale e diffusa soprattutto nel Centro-Nord del paese, un modello d’impresa fondato sulla famiglia e sul basso investimento di capitale, la rapida crescita dell’iniziativa privata (tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta lo stock delle aziende passa da 490mila a oltre un milione di unità). Naturalmente non è tutto rose e fiori. Il poderoso sviluppo industriale su cui poggia il rampante Made in Italy si paga con una drammatica emigrazione interna dal Sud verso il Nord, bassi salari, l’autoritarismo padronale, il razzismo nei confronti dei meridionali, la cementificazione incontrollata del territorio e lo spregiudicato inquinamento dell’ambiente; si paga anche continuando a utilizzare lo sport e i mezzi di comunicazione di massa come strumenti per fabbricare consenso politico. Il tutto all’interno di una democrazia bloccata che esclude le sinistre dal governo nazionale. Entriamo nella conflittuale epoca del benessere: il ceto medio e il movimento operaio si irrobustiscono come non mai, il consumismo diventa un generalizzato modo di essere e di vivere contro cui si leva la critica di pochi intellettuali.

Giungiamo così alla seconda fase del Made in Italy, i cui tratti più significativi permangono ancora oggi. Durerà all’incirca fino al 2000 e trasformerà in Made in Italy in un marchio planetario contraddistinto da qualità, ingegno e creatività delle nostre eccellenze artigianali e industriali in quattro settori: abbigliamento-moda, arredo-casa, alimentari-vini, automazione-meccanica. Però nell’arco di questi anni muta radicalmente lo sfondo economico su cui aveva preso slancio la piccola e media impresa (PMI) a conduzione familiare. Da un lato, la grande industria  – pur largamente assistita dallo Stato – inizia a perdere colpi a causa degli shock petroliferi, dell’aumento dei costi di produzione, della concorrenza dei paesi emergenti e della volatilità dei tassi di cambio. Dall’altro, il grande padronato e il governo avvertono la forza del movimento operaio, dei sindacati e del PCI come una minaccia insopportabile al perpetuarsi del loro dominio sulla società.

Indisponibile a qualsiasi compromesso, per il potere economico la crisi della grande industria è l’occasione per prendere due piccioni con una fava: mandare in soffitta il modello di produzione fordista che tanti pericoli ha generato per il padronato e vincere la partita politica contro i lavoratori, i loro rappresentanti politico-sindacali, le classi subalterne. Il Made in Italy sarà uno dei protagonisti di questo passaggio epocale. E lo sarà agendo su un doppio binario: uno economico, l’altro culturale. Sul binario economico inventando i distretti industriali. Luoghi di produzione fondati su una PMI in grado di rispondere in maniera flessibile alle fluttuazioni della domanda, specializzata in una delle fasi del processo produttivo per poi vendere i propri prodotti ad altre imprese della filiera, orientata verso produzioni ad alto contenuto di conoscenza, design e creatività.

Questo modello ha permesso di recuperare centinaia di migliaia di posti di lavoro bruciati di anno in anno dalla grande industria sempre più in crisi e con le sue merci ha costituito una voce decisiva delle nostre esportazioni permettendo un surplus commerciale che consentiva e consente tutt’oggi all’Italia di finanziare l’acquisto di energia e materie prime. E’ necessario aggiungere che in numerosi comparti le PMI fanno largo uso del lavoro nero e sottopagato, a cottimo e a domicilio mentre praticano una notevole evasione fiscale, solo parzialmente giustificata da un fisco obiettivamente iniquo.

Sul binario culturale il Made in Italy trionfa sul piano internazionale negli anni ’80, il decennio che vede affermarsi su scala mondiale la controrivoluzione politica e la restaurazione culturale dell’élite economica  dopo i pericoli corsi negli anni ’60 e ’70. I grandi marchi dell’abbigliamento-moda e dell’arredo-casa promuovono il “vivere bene” e il “vivere italiano”, diventano sempre più globali e fanno del lusso alla portata di tutti l’espressione dell’umana felicità: ci si indebita per i capi d’abbigliamento, gli accessori firmati, i complementi d’arredo. E se proprio non si può si ricorre a marchi contraffatti, ai saldi e ai prodotti meno costosi. Se nella prima fase del Made in Italy merci quali il frigorifero, l’automobile e la TV entrarono a passo di carica nelle case degli italiani, da allora, in un crescendo che arriva a oggi, sono gli italiani a entrare a passo di carica dentro le merci. Il corpo glamour si impone come l’unico modello di fisicità e come il principale oggetto di investimento psichico.

Fare di se stessi uno spettacolo permanente in grado di suscitare universale ammirazione dipende da quanto si è disposti a spendere per il look e per ostentare consumi vistosi. Nonostante l’ininterrotto susseguirsi di crisi economiche lo stile di vita fondato sulla ricchezza materiale diventa egemone. In questo processo di definitiva affermazione della società dello spettacolo il Made in Italy ha alleati di ferro: la stampa, l’onnipresente pubblicità, il divismo cine-televisivo, l’industria musicale, il soft power statunitense, l’economia insegnata nelle scuole e nelle università realizzando una combinazione così ben coordinata da far invidia alle dittature degli anni ’30.

La terza fase del Made in Italy, dal 2000 a oggi, solleva nuovi interrogativi. Dal 2010 nei settori tessile, abbigliamento e calzaturiero bastano due fasi della lavorazione svolte nel nostro paese per dichiarare i prodotti Made in Italy. Per alcuni si tratta di una truffa, per altri no.  Ma soprattutto occorre tenere presente che a fare da argine alle slavine economiche degli ultimi vent’anni (deindustrializzazione e grande recessione) è stato il Made in Italy. Il quale, insieme alla finanza e alle industrie della comunicazione e dell’informazione, ha dato vita a una neoborghesia che ha sostituito le vecchie élite industriali e oggi è in larga parte al comando della società italiana. Ancora una volta però è cambiato il panorama socio-economico perché le crisi del capitalismo sono senza fine. In un’Europa impoverita sotto ogni profilo le luccicanti immagini della società dello spettacolo sopravvivono a se stesse e il Made in Italy non si coniuga più con l’idea di futuro fondato sul progresso né sul benessere diffuso né sul “vivere bene”.

E’ schiacciato su un presente in cui si vive male: la ricchezza si concentra sempre più nelle mani di pochi, la disoccupazione giovanile è un fenomeno di massa, il lavoro è precario, la vita quotidiana un inferno di preoccupazioni e il domani è all’insegna dell’incertezza se non della paura. La moda, il glamour e il consumismo sono ottimi narcotici per contenere l’angoscia generalizzata. Ma se un giorno non dovessero bastare più è probabile che a subirne le conseguenze sarà proprio quel ceto medio formatosi all’insegna del Made in Italy.

Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro.


LA MAGIA TRA PASSATO E PRESENTE: UNO SGUARDO ANTROPOLOGICO E SOCIALE

di Enrica Froio

La magia è un argomento che scaturisce da sempre curiosità e interesse per la ricerca etnografica e non solo. Sociologi e antropologi da sempre condividono i loro lavori, studi ed esperienza di ricerca su campo, per produrre quanti più dati possibili, per dare spiegazioni scientifiche di determinati comportamenti e sviluppi sociali e per svelare la verità del mondo dell’occulto.

<<== dott/ssa Enrica Froio

L’analisi di quest’argomento, è frutto di una curiosità da sempre presente in me, curiosità sul perché è nata la magia, il suo sviluppo storico e sociale, il collegamento con la religione e la scienza e come questi sono sviluppati su linee parallele e ancora oggi in epoca moderna le credenze magiche sono presenti nella società. Lo studio è stato svolto grazie a una ricerca bibliografica specifica dei più grandi antropologi e studiosi di magia quali: Frazer, Malinowski, Evans-Pritchard e De Martino. Frazer che con le sue opere “Il ramo d’oro” e “Magie e tradizione degli alberi” ha permesso di descrivere il collegamento tra la magia e il mondo della natura e i primi sviluppi magici tra i primitivi.

Malinowski, che con la sua opera “Magia scienza e religione” ha messo a confronto la differenza tra le credenze magiche e quelle religiose e ciò che per i selvaggi è la definizione di scienza. Scienza intesa non con il significato che oggi diamo al termine che è accompagnato da metodi e ricerche scientifiche ma intesa come una conoscenza che i primitivi hanno sviluppato sulla natura grazie all’adattamento nei confronti di questa per vivere e sopravvivere. Evans-Pritchard e De Martino, hanno riportato alla luce le dinamiche di vita della tribù degli Azande, per quanto riguarda l’opera di Pritchard, il quale spiega le funzioni e i metodi di uso della magia per le operazioni più importanti della vita quotidiana di questi indigeni, quali soprattutto caccia, pesca e  riti funebri.

De martino, invece, ha raccolto dati e testimonianze di come la magia arriva ancora oggi a essere un carattere distintivo di alcune regioni in Italia soprattutto nel Sud, in maniera particolare Napoli. Napoli che ancora oggi è visitata da molti turisti i quali collegano la città a riti, soprattutto scaramantici per andare contro la negatività della vita quotidiana. Lo studio della nascita della magia e il suo sviluppo vuole spiegare come questa è intrinseca nello sviluppo della società moderna, dagli uomini primitivi a oggi, attraverso cambiamenti che hanno portato all’adattamento dei gruppi sociali e soprattutto nelle tribù dei primitivi, alla divisione di poteri all’interno e all’acquisizione di status specifici per alcuni individui.

Le domande da porsi sono:  “Come si è sviluppata la magia?” e ancora “Questa esiste ancora oggi?”. Per rispondere a queste domande bisogna arrivare alla sintesi del pensiero degli antropologi descritti in precedenza. Frazer descrive la magia come un metodo evolutivo della società che inizia con la religione e termina con lo sviluppo della scienza. La magia è descritta come un modo dell’uomo di manipolare la realtà attraverso dei rapporti causa-effetto che per il loro ordine di svolgimento, ripetuto e sempre uguale ricorda un po’ il metodo scientifico. Tutto ciò però è basato su conoscenze e speranze di riuscita, irrazionali. Malinowski grazie alla sua ricerca su campo nelle isole Trobriand ha un’idea della magia differente da Frazer.

Egli non si concentra sui metodi utilizzati per operare con la magia, ma sulle finalità che questa porta. La magia sono atti, messi in pratica per affrontare le difficoltà della vita, gli imprevisti e gli ostacoli. La sua testuale descrizione della magia è: “Mette l’uomo in grado di compiere con fiducia i suoi compiti importanti, di mantenere il suo equilibrio (…). La sua funzione è di ritualizzare l’ottimismo umano”. La magia aiuta la vita dell’individuo. Evans-Pritchard con la sua ricerca su campo presso gli Azande tra il 1926 e il 1930 approfondisce il pensiero magico delle tribù. Per Pritchard la magia è la base di credenze, ogni negatività può essere ricondotta alla magia, anzi ancora più nello specifico alla stregoneria e a tale accaduto bisogna far fronte con altrettante pratiche magiche.

La magia non individua cosa è vero o falso, bensì un insieme di concetti logici legati tra di loro che devono essere ovviamente considerati in base alla società che li ha prodotti. Per ultimo, ma non meno importante occorre ricordare il pensiero di De Martino, il quale con le sue ricerche etnografiche negli anni ’50 nel Sud d’Italia elabora il suo pensiero. Per De Martino tutta la magia è legata alla perdita della presenza, cioè alla capacità e produttività culturale e decisionale che è assolutamente necessaria per ogni individuo. La magia protegge da questo rischio perché permette a livello culturale e socialmente accettato di risolvere delle situazioni critiche che non possono essere affrontate in senso materiale e dove la presenza individuale si trova in crisi. Attraverso la magia questo problema è risolto grazie ai rituali che però iniziano a viaggiare parallelamente alla religione.

De Martino afferma che magia e religione hanno la stessa funzione e l’unica differenza sta nella maggiore morale della religione, inoltre la magia opera per un singolo caso circoscritto mentre la religione riesce a operare grazie ai rituali su larga scala rispetto ai problemi degli individui. In conclusione, il concetto di magia è differente a seconda dell’ambiente culturale e può assumere significati diversi che non possono essere ricollegati tutti a un’unica funzione o definizione. Bisogna anche tener conto che i contesti culturali e sociali mutano nel tempo e questo porta a cambiamenti sia sul pensiero sia negli atti pratici della magia. Nell’epoca moderna anche il progresso tecnologico è una contaminazione per tutto ciò che è ritenuto magico, misterioso o occulto ma che nonostante tutto, lo sviluppo sociale e culturale in ogni parte del mondo, non è del tutto scomparso.

Dott.ssa Enrica Froio – Sociologa ASI


Cerca

Archivio