Author Archives: Antonino Calabrese

Devianze minorili

di Antonino Calabrese

La devianza minorile è un fenomeno complesso e di grande rilevanza sociale. Questo fenomeno suscita spesso preoccupazione e richiede un’analisi approfondita per comprendere le sue cause e trovare soluzioni efficaci. La devianza minorile può manifestarsi in diverse forme, come il bullismo, la delinquenza, l’abuso di sostanze, la violenza domestica e altre forme di comportamento antisociale. Questi comportamenti possono avere conseguenze nefaste sia per i minori stessi che per la società nel suo complesso.

Esaminando le cause della devianza minorile, emerge che esse sono molteplici e interconnesse. Fattori individuali, familiari, sociali ed economici possono contribuire alla sua comparsa. Ad esempio, un ambiente familiare instabile, la mancanza di una figura genitoriale di riferimento, la povertà, l’esposizione a modelli di comportamento devianti e l’accesso facile alle droghe possono aumentare il rischio di devianza minorile. È importante sottolineare che la devianza minorile non sia un fenomeno isolato, ma è strettamente legata al contesto sociale in cui si sviluppa. La società ha un ruolo fondamentale nel prevenire e affrontare la devianza minorile. È infatti necessario promuovere politiche sociali e interventi educativi mirati a fornire opportunità di sviluppo positivo, supporto emotivo e strumenti per gestire in modo costruttivo le difficoltà che si possono incontrare. È essenziale coinvolgere la famiglia, la scuola, le istituzioni e la comunità nel processo di prevenzione e intervento. La collaborazione tra questi attori può favorire la creazione di un ambiente sicuro e stimolante, in cui si promuovono valori come il rispetto, l’empatia e la responsabilità.

Nel contesto della devianza minorile, è fondamentale adottare un approccio che tenga conto delle specificità di ogni caso. Non esiste una soluzione universale, ma è necessario valutare attentamente le circostanze individuali e fornire interventi personalizzati. Questo può includere programmi di riabilitazione, consulenza psicologica, supporto familiare e opportunità di reinserimento sociale. La devianza minorile rappresenta indubbiamente una sfida complessa per la società. È un fenomeno che richiede un’analisi approfondita e una risposta integrata da parte di tutti gli attori coinvolti. La prevenzione e l’intervento precoce sono fondamentali per garantire il benessere dei minori e la costruzione di una società più giusta e sicura.

La devianza minorile è un argomento di grande interesse per la sociologia. Una delle teorie più influenti sulla devianza minorile è la teoria dell’etichettamento, sviluppata da Howard Becker. Secondo questa teoria, la devianza dipende dal punto di vista di chi osserva. Ciò significa che il comportamento di un giovane può essere considerato deviante solo se viene etichettato come tale dalla società. Ad esempio, se un adolescente viene etichettato come delinquente, potrebbe iniziare a comportarsi in modo deviante perché si identifica con questa etichetta. La teoria dell’etichettamento mette in discussione la nozione di devianza come un tratto intrinseco dei giovani e sottolinea l’importanza del contesto sociale nella definizione della devianza.

Un’altra teoria sociologica sulla devianza minorile è la teoria del conflitto sociale. Secondo questa prospettiva, la devianza dei giovani è il risultato di disuguaglianze sociali e conflitti di potere. Ad esempio, i giovani provenienti da famiglie a basso reddito potrebbero essere più inclini a comportamenti devianti a causa delle limitate opportunità economiche e sociali a loro disposizione. La teoria del conflitto sociale mette in luce l’importanza delle disuguaglianze strutturali nella comprensione della devianza minorile.

Un’altra teoria interessante è la teoria del controllo sociale, sviluppata da Travis Hirschi. Secondo questa teoria, la devianza dei giovani è il risultato di una mancanza di controllo sociale. Il controllo sociale può essere esercitato attraverso legami familiari solidi, supervisione adeguata e norme sociali chiare. Quando i giovani non hanno un adeguato controllo sociale, sono più inclini a comportarsi in modo deviante. Ad esempio, se un adolescente non ha una figura genitoriale presente nella sua vita o se vive in un ambiente in cui le norme sociali sono deboli, potrebbe essere più incline a comportamenti devianti.

Un’altra teoria importante è la teoria della socializzazione primaria inadeguata. Secondo questa prospettiva, la devianza dei giovani è il risultato di processi di socializzazione primaria inadeguati. Ciò significa che i giovani che non sono stati adeguatamente socializzati durante l’infanzia possono sviluppare comportamenti devianti. Ad esempio, se un bambino cresce in un ambiente violento o in una famiglia disfunzionale, potrebbe essere più incline a comportamenti devianti. La teoria della socializzazione primaria inadeguata sottolinea l’importanza delle prime esperienze di socializzazione nella formazione del comportamento deviante.

Le teorie sociologiche sulla devianza minorile offrono diverse prospettive per comprendere il comportamento deviante dei giovani. Dalla teoria dell’etichettamento alla teoria del conflitto sociale, dalla teoria del controllo sociale alla teoria della socializzazione primaria inadeguata, queste teorie ci aiutano a esplorare le cause e le dinamiche della devianza minorile. È importante ricordare che queste teorie non sono esclusive, ma possono interagire e influenzarsi a vicenda. La comprensione della devianza minorile richiede un approccio multidimensionale che tenga conto dei fattori sociali, economici e culturali che influenzano il comportamento dei giovani.

dott. Antonino Calabrese


Il ritiro sociale nell’adolescenza

di Antonino Calabrese

Il ritiro sociale nell’adolescenza è un fenomeno complesso che può manifestarsi in vari modi e avere diverse cause sottostanti. Bisogna sottolineare come il ritiro sociale può manifestarsi a seconda della personalità e delle circostanze individuali. Alcuni adolescenti possono ritirarsi in modo evidente, evitando attivamente situazioni sociali e isolandosi dagli altri, mentre altri possono manifestare un ritiro più interno, nascondendo i propri sentimenti di solitudine e isolamento. Personalmente, ho sperimentato momenti in cui mi sentivo distante dagli altri e ho cercato di comprendere le ragioni di questo atteggiamento.

Le cause del ritiro sociale in adolescenza possono essere molteplici e complesse. L’ansia sociale, la bassa autostima, l’intimidazione e le difficoltà familiari possono contribuire a questo fenomeno. Dall’analisi delle ricerche condotte su questo argomento, emerge chiaramente che il ritiro sociale in adolescenza può avere conseguenze significative a livello emotivo, sociale e scolastico. Gli adolescenti che si ritirano socialmente possono sperimentare un senso di isolamento e solitudine, che a sua volta può contribuire a problemi di salute mentale come l’ansia e la depressione. Inoltre, il ritiro sociale può influenzare negativamente le relazioni interpersonali e l’impegno scolastico degli adolescenti. Queste implicazioni a lungo termine sottolineano l’importanza di affrontare il ritiro sociale in adolescenza in modo empatico e comprensivo.

Il ritiro sociale in adolescenza è un fenomeno complesso che può avere un impatto significativo sulla vita degli adolescenti. Attraverso l’analisi personale e l’esplorazione delle ricerche esistenti, è possibile comprendere meglio le cause e le conseguenze di questo comportamento. È fondamentale fornire sostegno e comprensione agli adolescenti che sperimentano il ritiro sociale, al fine di favorire un ambiente in cui possano sentirsi accettati e supportati mentre affrontano le sfide di questa fase della vita. Il fenomeno dell’hikikomori, diffuso soprattutto in Giappone, suscita un grande interesse a livello sociologico e psicologico. Si tratta di individui, prevalentemente giovani, che scelgono di isolarsi completamente dalla società, rinunciando alle relazioni sociali e trascorrendo la maggior parte del loro tempo confinati nelle proprie abitazioni. Questo comportamento può durare mesi, anni, e in alcuni casi anche decenni, con gravi conseguenze sul piano emotivo, relazionale e lavorativo.

Dal punto di vista sociologico, l’hikikomori può essere interpretato come una risposta estrema alla pressione sociale e alle aspettative della società. In un contesto culturale come quello giapponese, in cui il successo e la conformità alle norme sociali sono fortemente valorizzati, alcuni individui potrebbero sentirsi sopraffatti e incapaci di soddisfare tali aspettative. Il ritiro totale dalla vita sociale potrebbe essere quindi una forma di ribellione o di fuga da un ambiente che si percepisce come ostile e alienante. Dall’ottica psicologica, l’hikikomori potrebbe essere considerato come un sintomo di profonda sofferenza emotiva e psicologica. L’isolamento sociale potrebbe essere la manifestazione estrema di ansia, depressione o altri disturbi mentali, che portano l’individuo a cercare rifugio nella solitudine come unica via di sopravvivenza emotiva. Inoltre, la mancanza di fiducia in se stessi e nelle proprie capacità potrebbe contribuire a rinchiudersi in un mondo interiore, lontano da ogni forma di giudizio esterno. È importante sottolineare che l’hikikomori non è un fenomeno limitato al Giappone, ma si manifesta in varie forme in diverse parti del mondo, Italia compresa. Inoltre, il rapido sviluppo delle tecnologie digitali e dei social media potrebbe avere un impatto significativo sull’isolamento sociale, offrendo agli individui la possibilità di interagire senza dover necessariamente uscire di casa, complicando ulteriormente la comprensione e il trattamento di questo problema.

L’hikikomori rappresenta una complessa manifestazione di disagio sociale e psicologico, che richiede un’approfondita analisi interdisciplinare per essere compresa appieno. La sua natura multi-dimensionale rende necessaria un’attenzione costante da parte della comunità scientifica e sociale, al fine di sviluppare strategie adeguate per prevenire e affrontare questo fenomeno, offrendo sostegno e possibilità di reinserimento a coloro che ne sono colpiti.

dott. Antonino Calabrese


La gestione dei rifiuti: un punto di vista sociologico

di Antonino Calabrese

Lo smaltimento dei rifiuti è un argomento di grande rilevanza nella sociologia ambientale e territoriale. Negli ultimi vent’anni, sono emersi diversi filoni di ricerca che si occupano della gestione dei rifiuti e delle sue implicazioni sociali. Qui di seguito, andremo a indicare alcune delle principali tematiche legate al tema dello smaltimento dei rifiuti dal punto di vista sociologico.

Uno dei principali aspetti da considerare è la crescente massa di rifiuti che circonda la nostra società. Questa massa rappresenta uno scarto sempre più evidente tra ciò che produciamo e ciò che consumiamo. La dimensione dei rifiuti è un indicatore del nostro stile di vita e dei nostri comportamenti di consumo. Attraverso lo studio dei rifiuti, possiamo analizzare le dinamiche sociali e culturali che caratterizzano la nostra società. Un altro aspetto fondamentale è il coinvolgimento dei cittadini nella gestione dei rifiuti. È ampiamente riconosciuto che il coinvolgimento attivo dei cittadini è essenziale per affrontare la sfida della riduzione dei rifiuti domestici. Ciò implica non solo la corretta separazione dei rifiuti, ma anche la promozione di comportamenti sostenibili e la sensibilizzazione sulla necessità di ridurre, riutilizzare e riciclare. Il coinvolgimento dei cittadini può avvenire attraverso campagne di informazione, educazione ambientale e la creazione di infrastrutture adeguate per la raccolta differenziata.

Un altro aspetto interessante da considerare è il legame tra consumismo e problema dei rifiuti. Il consumismo è un fenomeno sociale che promuove l’acquisto e l’accumulo di beni materiali. Questo comporta un aumento della produzione di rifiuti, poiché molti oggetti vengono utilizzati solo per un breve periodo di tempo e poi gettati via. La sociologia può analizzare il fenomeno del consumismo e il suo impatto sulla produzione di rifiuti, evidenziando le dinamiche culturali ed economiche che lo alimentano. Infine, è importante considerare come lo smaltimento dei rifiuti possa rivelare nuovi stili di vita. Attraverso la raccolta differenziata e il riciclo, è possibile individuare modelli di comportamento e di consumo che riflettono una maggiore attenzione all’ambiente e alla sostenibilità. Lo studio degli stili di vita legati alla gestione dei rifiuti può fornire importanti spunti per la progettazione di politiche pubbliche e per la promozione di comportamenti sostenibili.

Lo smaltimento dei rifiuti è un tema complesso che richiede un approccio multidisciplinare. La sociologia offre strumenti e prospettive utili per comprendere le dinamiche sociali e culturali che caratterizzano la gestione dei rifiuti. Attraverso lo studio dei rifiuti, possiamo analizzare i nostri comportamenti di consumo, promuovere il coinvolgimento attivo dei cittadini e individuare nuovi stili di vita sostenibili. È fondamentale affrontare questa sfida in modo collaborativo, coinvolgendo istituzioni, cittadini e operatori del settore per promuovere una gestione responsabile dei rifiuti e un futuro più sostenibile. Le teorie sociologiche offrono una prospettiva interessante per comprendere i processi sociali e culturali che influenzano la gestione dei rifiuti.

Una delle teorie sociologiche che può essere applicata allo smaltimento dei rifiuti è la teoria dell’azione collettiva. Secondo questa prospettiva, il coinvolgimento dei cittadini nella gestione dei rifiuti dipende dalla loro capacità di organizzarsi e agire insieme per raggiungere un obiettivo comune. Ad esempio, i movimenti ambientalisti possono mobilitare le persone per protestare contro pratiche di smaltimento dei rifiuti dannose per l’ambiente e promuovere alternative sostenibili. Un’altra teoria sociologica rilevante è la teoria della modernizzazione. Questa teoria sostiene che lo smaltimento dei rifiuti è influenzato dal processo di modernizzazione delle società. Con l’aumento della produzione di rifiuti e lo sviluppo di tecnologie di smaltimento, le società moderne devono affrontare sfide sempre più complesse nella gestione dei rifiuti. La teoria della modernizzazione ci invita a considerare come i cambiamenti sociali e tecnologici influenzino le pratiche di smaltimento dei rifiuti. Un altro aspetto importante da considerare è il ruolo delle istituzioni nella gestione dei rifiuti. Le istituzioni, come i governi locali e le agenzie ambientali, svolgono un ruolo chiave nella definizione delle politiche e delle pratiche di smaltimento dei rifiuti. La teoria istituzionale ci aiuta a comprendere come le norme, le regole e le strutture organizzative influenzino la gestione dei rifiuti. Ad esempio, l’adozione di politiche di riciclo obbligatorio può influenzare il comportamento dei cittadini e promuovere pratiche di smaltimento più sostenibili.

Le teorie sociologiche offrono una prospettiva interessante per comprendere i processi sociali e culturali che influenzano lo smaltimento dei rifiuti. Il coinvolgimento dei cittadini, le istituzioni e i cambiamenti sociali e tecnologici sono tutti fattori che influenzano la gestione dei rifiuti. Promuovere una gestione responsabile e sostenibile dei rifiuti richiede un approccio multidimensionale che tenga conto di queste diverse influenze.

dott. Antonino Calabrese


Sport e disabilità

di Antonino Calabrese

Lo sport e la disabilità sono due temi che si intrecciano in modo significativo, offrendo opportunità di inclusione, sviluppo personale e miglioramento della qualità della vita per le persone con disabilità. Qui di seguito esploreremo l’importanza dello sport per le persone con disabilità, i benefici fisici e psicologici che può offrire, nonché le sfide e le opportunità che si presentano in questo contesto.

Innanzitutto, è importante sottolineare che lo sport per le persone con disabilità, noto anche come parasport, offre un’opportunità unica di partecipazione attiva e di superamento delle sfide fisiche e mentali. Questo tipo di sport è praticato da persone con disabilità fisiche e intellettive, che possono partecipare a discipline adattate da sport praticati da persone senza disabilità o a sport specificamente creati per loro. L’obiettivo principale dello sport per le persone con disabilità è quello di promuovere l’inclusione sociale, l’autostima e l’autonomia. Uno dei principali benefici dello sport per le persone con disabilità è il miglioramento delle capacità fisiche. La pratica sportiva aiuta le persone con disabilità a sviluppare maggiore equilibrio, coordinazione e forza muscolare. Attraverso l’attività fisica regolare, è possibile migliorare la mobilità e la resistenza, contribuendo così a una migliore qualità della vita. Inoltre, lo sport può aiutare a prevenire o gestire alcune complicanze fisiche associate alla disabilità, come la perdita di massa muscolare o la rigidità articolare.

Oltre ai benefici fisici, lo sport per le persone con disabilità ha anche un impatto significativo sul benessere psicologico. La partecipazione a un’attività sportiva può aumentare l’autostima e la fiducia in se stessi, fornendo un senso di realizzazione e di appartenenza a una comunità. Inoltre, lo sport può aiutare a combattere lo stress, l’ansia e la depressione, offrendo un’opportunità di svago e di divertimento. La pratica sportiva può anche favorire lo sviluppo di abilità sociali e relazionali, consentendo alle persone con disabilità di stabilire nuove amicizie e di creare reti di supporto. Tuttavia, nonostante i numerosi benefici, lo sport per le persone con disabilità può presentare alcune sfide. Ad esempio, l’accessibilità agli impianti sportivi e alle attrezzature adatte può essere limitata, rendendo difficile la partecipazione per alcune persone. Inoltre, possono sorgere sfide legate alla formazione degli allenatori e degli operatori sportivi, che devono essere adeguatamente preparati per lavorare con persone con disabilità e garantire un’esperienza inclusiva e sicura.

Secondo un’indagine condotta dall’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), solo il 9,1% delle persone con disabilità in Italia pratica sport, rispetto al 36,6% delle persone senza disabilità. Questo dato evidenzia una disparità significativa nell’accesso e nella partecipazione allo sport tra le due categorie di persone. Tuttavia, è incoraggiante notare che l’attività sportiva tra le persone con disabilità sta aumentando, segnalando un cambiamento positivo nell’atteggiamento e nella consapevolezza dell’importanza dello sport per il benessere fisico e mentale. L’idea di uno sport accessibile per tutti sta guadagnando sempre più terreno, ma ci sono ancora ostacoli da superare. L’ISTAT ha rilevato che le persone con disabilità incontrano ancora limitazioni funzionali che possono influire sulla loro partecipazione allo sport. Tuttavia, nonostante queste sfide, il 75% delle persone disabili che praticano sport afferma di essere soddisfatto della propria vita. Questo dato sottolinea l’importanza dello sport come strumento per migliorare la qualità della vita delle persone con disabilità. Nonostante vi siano varie sfide da affrontare, nel campo dello sport possono presentarsi molte opportunità. Organizzazioni e associazioni si impegnano attivamente per promuovere l’inclusione e offrire programmi sportivi adattati alle diverse esigenze. Inoltre, eventi sportivi internazionali come i Giochi Paralimpici offrono una piattaforma per le persone con disabilità di competere a livello mondiale e dimostrare le proprie abilità.

Lo sport per le persone con disabilità rappresenta quindi un’importante opportunità di inclusione e di sviluppo personale. Attraverso la pratica sportiva, le persone con disabilità possono migliorare le proprie capacità fisiche, promuovere il benessere psicologico e creare connessioni sociali significative. Lo sport può offrire, pertanto, numerosi benefici, tra cui migliorare la salute fisica e mentale, promuovere l’autostima e l’autonomia, favorire l’integrazione sociale e creare opportunità di sviluppo personale. È importante che la società riconosca e valorizzi le capacità e le potenzialità delle persone con disabilità, creando un ambiente inclusivo in cui tutti possano partecipare e godere dei benefici dello sport.

dott. Antonino Calabrese


L’abbandono scolastico

di Antonino Calabrese

L’abbandono scolastico è un fenomeno complesso che può avere gravi conseguenze sulla vita degli individui e sul tessuto sociale. Quando si parla di abbandono scolastico, ci si riferisce alla decisione di interrompere gli studi senza aver completato un percorso educativo formale. Questo problema può avere radici profonde e molteplici cause, che vanno dall’ambiente familiare e sociale alle difficoltà personali e accademiche.

Una delle cause principali dell’abbandono scolastico è legata all’ambiente familiare. Situazioni di disagio familiare, tra cui povertà, violenza domestica, mancanza di supporto emotivo o materiale, possono influenzare negativamente la capacità degli studenti di rimanere a scuola e concentrarsi sugli studi. Inoltre, l’assenza di modelli positivi di istruzione all’interno della famiglia può ridurre l’importanza attribuita all’istruzione. Le difficoltà personali e accademiche giocano un ruolo significativo nell’abbandono scolastico. Gli studenti possono trovarsi ad affrontare problemi di salute mentale, come ansia, depressione o disturbi dell’umore, che rendono difficile per loro partecipare attivamente alla vita scolastica. Inoltre, le difficoltà nell’apprendimento, la mancanza di interesse per le materie insegnate o la percezione di un’educazione poco rilevante per il proprio futuro possono portare gli studenti a lasciare la scuola.

Da un punto di vista personale, è importante sottolineare che l’abbandono scolastico può avere conseguenze durature sulla vita degli individui. Senza un’istruzione formale, le opportunità di lavoro e di realizzazione personale possono essere limitate. Inoltre, i giovani che abbandonano la scuola sono più suscettibili di trovarsi coinvolti in situazioni di disagio sociale, come la disoccupazione, la povertà e persino l’incarcerazione. Tuttavia, è essenziale adottare un approccio compassionevole e proattivo per affrontare l’abbandono scolastico. Le istituzioni educative, insieme alle famiglie e alla comunità, devono lavorare insieme per identificare precocemente i segnali di allarme e fornire il supporto necessario agli studenti in difficoltà. Programmi di tutoraggio, consulenza psicologica, e interventi personalizzati possono contribuire a ridurre l’abbandono scolastico e offrire opportunità di successo a tutti gli studenti.

L’abbandono scolastico è un problema serio che affligge molti paesi, compresa l’Italia. Le statistiche sull’abbandono scolastico forniscono dati importanti per comprendere l’entità del fenomeno e identificare le aree in cui è necessario intervenire per ridurre questa problematica. Secondo le ultime statistiche disponibili, nel 2022 l’abbandono scolastico in Italia si è attestato all’11,5%, in diminuzione rispetto alla rilevazione precedente che era del 12,7%. Nonostante questa riduzione, l’Italia registra ancora una delle incidenze più elevate di abbandono scolastico in Europa, superata solo dalla Romania (15,3%) e dalla Spagna (13,3%). Le stime indicano che in Italia il valore medio di abbandono scolastico si avvicina al 15%. Tuttavia, ci sono regioni in cui la situazione è ancora più preoccupante. Ad esempio, in Calabria il 30% dei ragazzi abbandona la scuola, mentre in altre regioni come la Lombardia e il Veneto l’incidenza è inferiore al 10%. È importante sottolineare che l’abbandono scolastico non riguarda solo gli studenti delle scuole superiori, ma anche quelli delle scuole medie. Per affrontare l’abbandono scolastico, è necessario adottare una serie di misure. Queste possono includere l’implementazione di programmi di sostegno agli studenti a rischio, l’offerta di opportunità di formazione professionale e l’implementazione di politiche che favoriscano l’accesso all’istruzione per tutti gli studenti, indipendentemente dalla loro situazione socioeconomica.

Le statistiche sull’abbandono scolastico in Italia evidenziano la persistenza di una problematica che richiede l’attenzione e l’impegno di tutti gli attori coinvolti nel sistema educativo. Ridurre il fenomeno è fondamentale per garantire a tutti i giovani l’opportunità di un futuro migliore attraverso l’accesso all’istruzione e alle opportunità di apprendimento. Tutto ciò rappresenta una sfida significativa per la società contemporanea. Con un impegno collettivo e un’attenzione mirata alle esigenze degli studenti, è possibile ridurre il fenomeno e promuovere un ambiente educativo inclusivo e favorevole alla crescita e allo sviluppo di tutti.

Dott. Antonino Calabrese


LA FRAGILITA’ GIOVANILE ESASPERATA DOPO LA PANDEMIA

Lavoro, aspettative di vita, relazioni liquide, assenza di responsabilità, infelicità.

di Sofia Pulizzi

Molto spesso sentiamo dire “i giovani sono il futuro di questo pianeta”, se davvero la si pensa in questo modo, perché non si dà la giusta attenzione e non ci si preoccupa di chi avrà nelle proprie mani il futuro del mondo? Negli ultimi anni, anche per via del Covid, le parole che, se pensiamo ai giovani, vengono subito alla mente sono: precarietà, instabilità ed insicurezza, sotto tutti i punti di vista, lavorativo, relazionale, sociale, sanitario. I giovani sono persone che, pian piano, si affacciano al mondo delle responsabilità, più crescono, più conoscono e più nella loro mente si instaurano pressioni, aspettative da concretizzare, scadenze imposte dalla società e tanto altro. Come attraversano la fase di crescita e ciò che si presenta sul loro cammino proprio durante la loro evoluzione si riversa su tutti gli ambiti della loro vita…andiamo ad analizzarne alcuni.

LE RELAZIONI SOCIALI DEI GIOVANI POST COVID

Zygmunt Bauman, il padre della modernità liquida, ci ha un po’ parlato delle relazioni e delle fragilità che caratterizzano i rapporti nell’era moderna, ed era convinto che “la solitudine genera insicurezza, ma altrettanto fa la relazione sentimentale sbagliata” e che “l’amore è un prestito ipotecario fatto su un futuro incerto”. Oggi sono sbagliati proprio i presupposti con cui si decide di stare insieme a qualcuno, sono sbagliate proprio le motivazioni, per questo, rapporti intrisi di profondità, di dialoghi complessi, non vanno avanti poiché non c’è la volontà di ascoltare l’altro, ed invece vanno avanti rapporti frivoli, basati su attività frivole a loro volta. Il sociologo Bauman, sosteneva che stiamo entrando in un’era in cui le relazioni vengono scartate quando non più corrispondenti ai propri desideri o bisogni personali. Una relazione si presenta come un compromesso valido, fino a quando però, le pretese di uno dei due partner non minano la libertà, i bisogni e gli spazi dell’altro, poiché se gli obiettivi non coincidono, se i caratteri all’apparenza non sembrano compatibili, non si cerca il compromesso, la soluzione ma bensì si tende a scartare, eliminare e buttar via. Di fatto le persone diventano oggetti: li usiamo e poi li gettiamo per comprarne uno nuovo. Non si moderano le parole e non si ponderano i comportamenti. Tutto diventa lecito, anche ciò che può ferire chi ci sta accanto. Tante le relazioni che vengono interrotte senza confronto, senza prima “essersi seduti a tavolino” per confrontarsi facendo sì che uno entri nel mondo dell’altro per capirsi a fondo, ormai non c’è più tempo, si predilige addirittura inviare un messaggio su whatsapp, per cercare di essere veloci nella fuga e non perdere tempo.

Lo stesso può accadere anche in amicizia o in ambito lavorativo. E se non si ha più tempo per il prossimo, per gli esseri umani, dove andremo a finire? Non c’è nulla che dovrebbe contare più dell’essere umano, eppure in pratica, gli oggetti, i beni materiali, i vizi sembrano aver superato di gran lunga il valore che abbiamo sottratto alle persone. A mancare è proprio un’educazione alla responsabilità e alle emozioni, non siamo capaci di comprendere i nostri stessi sentimenti o di capire cosa vogliamo. Siamo così presi dalla nostra vita di tutti i giorni che non ci fermiamo mai, andiamo a mille, non facciamo autoanalisi. Il disagio interiore ci spinge a fuggire dai nostri stessi pensieri o emozioni se diventano scomode, invece di affrontarle, diventa meglio scappare piuttosto che impegnarsi. I comportamenti che caratterizzano maggiormente un legame liquido sono diversi: sparire, essere indecisi, ritornare nella vita di una persona dopo essersi dileguati e molto altro ancora. Alla luce di queste riflessioni, è importante cogliere l’importanza di ciò che abbiamo dentro, rispetto a quello a cui aspiriamo, aspiriamo alla stabilità, alla sicurezza ma prima di arrivarci in maniera banale e superficiale, cerchiamo di aspirare a capirci e capire ciò che abbiamo dentro, cerchiamo di comprendere il nostro mondo interiore, I NOSTRI STESSI SENTIMENTI, le emozioni che ci muovono e ci governano, solo in questo modo, ovvero, avendo chiaro come funzioniamo potremmo avere relazioni sincere e in linea con il nostro essere.

I GIOVANI AI MARGINI DEL MERCATO DEL LAVORO

I giovani non vogliono lavorare? NO! I giovani semplicemente non si accontentano di lavori sottopagati, di lavori non in linea con il loro percorso di studi, di lavori in cui non sono garantiti i diritti che gli sono dovuti, come la giusta sicurezza, le ferie, i permessi, le malattie. Le condizioni dettate dal mercato del lavoro per i giovani sono orientate verso il lavoro povero. I giovani vanno incontro a diversi “No”, in quanto non vengono selezionati perché non si ha abbastanza esperienza, perché non si è raggiunta una soglia minima d’età, ma con questo andamento, quando effettivamente potranno fare esperienza? Le porte del lavoro, ai giovani risultano essere più chiuse che aperte, in quanto, investire su di loro “costa troppo” poiché questi ultimi vanno formati e per formare qualcuno ci vuole un investimento in tema di denaro e tempo e si sa, quando le cose hanno un costo si preferisce lasciar perdere. Perché perdere tempo a formare qualcuno, se posso trovare un altro soggetto avente esperienza e che sia già formato? Questo è il ragionamento che fanno molti datori di lavoro. La risposta a questa domanda è semplice: perché un giorno quella persona già formata non ci sarà più e presto o tardi, bisognerà formare qualcun altro, che lo si voglia o no. Il fatto di venire rifiutati o di dover cambiare città per trovare un lavoro o il fatto di essere sottopagati ma non poter rinunciare a quel lavoro perché, di quel misero stipendio, si ha bisogno per vivere e non pesare sugli altri, sono tutti aspetti che provocano frustrazione e che colpiscono l’autostima e l’identità di un giovane, aspetti che incidono sulla vita relazionale e non solo.

L’ESPLOSIONE DEI DISAGI TRAI I GIOVANI

Proprio per tutto quello di cui abbiamo parlato nelle righe precedenti, si assiste ad un’esplosione di disagi tra i giovani e questo aumento si è registrato soprattutto nel post pandemia, in quanto si sono fatte presenti una serie di patologie a cui hanno seguito un aumento dei tentati suicidi e dei suicidi, crisi di agitazione psicomotoria e ansia. E’ un trend atteso però, viste le condizioni di incertezza in cui versa il mondo giovanile, sarebbe sorprendente se non fosse così. A tal proposito, servirebbero una serie di misure volte a sostenere i giovani sotto più punti di vista. Sul tema del disagio psicologico dei giovani, sembra ci sia una difficoltà nel pensare alla risposta che, invece, dovrebbe essere abbastanza chiara: serve una risposta dalla psicologia, ma in Italia purtroppo, non si fa prevenzione e neanche promozione della salute e questa la definirei un’ingiustizia sociale. A sottolinerarlo è anche David Lazzari, presidente del Consiglio nazionale degli Ordini degli psicologi (Cnop) il quale afferma che “Se il Governo vuole, può intervenire su questo perché quello psicologico è un bisogno primario delle persone.” Le terapie vanno portate lì dove ce n’è bisogno, ad esempio, la scuola, è uno dei luoghi in cui si può intercettare il disagio. Per iniziare un percorso di psicoterapia non dobbiamo mica aspettare che i ragazzi si ammalino, potremmo prevenire, attraverso campagne di sensibilizzazione per avvicinare le persone a dedicare del tempo alla propria salute mentale.
I presidi delle scuole stanno chiedono di avere gli psicologi, ma nessuno risponde a questo appello. Sembra quasi un tabù. Quando ci fratturiamo qualche arto andiamo dal medico e perché se il nostro umore è in down e i nostri pensieri sono negativi, non dovremmo andare da una psicologa o uno psicologo? Inoltre si registra un dato allarmante: secondo una statistica dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), i suicidi sono la seconda causa di morte per i giovani tra i 15 e i 29 anni, dopo gli incidenti stradali. Le raccomandazioni dell’Oms per la prevenzione dei suicidi puntano su quattro azioni principali:
1. limitare l’accesso ai metodi letali;
2. interagire con i media per una modalità responsabile di riportare le notizie di suicidio;
3. sostenere le abilità socio-emotive in adolescenza; identificare precocemente;
4. prendere in carico e curare chiunque presenti comportamenti suicidari. «La prevenzione del suicidio dei giovani –, ha spiegato lo psichiatra Maurizio Pompili (Università La Sapienza di Roma) – è difficile. Occorre cogliere i segnali di allarme, perché le persone che vogliono compiere un gesto estremo non lo esprimono in maniera chiara, anzi continuano le loro abitudini di vita normalmente.

Pompili, che è anche direttore del Servizio per la prevenzione del suicidio presso l’ospedale Sant’Andrea a Roma, ribadisce che «il suicidio è la punta di un iceberg della sofferenza giovanile, che era già presente nell’epoca precedente alla pandemia. Il Covid ha reso tutto più complesso, soprattutto per i giovani. I disturbi più diffusi tra i giovani risultano essere: la depressione, l’ansia (con frequenti attacchi di panico) i disturbi alimentari e la dipendenza affettiva, disturbi da non sottovalutare proprio perché risultano essere quelli per i quali i giovani arrivano a togliersi la vita. Tutto questo ha radici a partire dalla nostra tenera età, perché l’ambiente negligente, familiare o scolastico, non è stato capace di prestare attenzione agli stati mentali e ai bisogni emotivi del bambino, rimasto solo emotivamente con stati di insicurezza. È come se alcuni bambini avessero sviluppato un ritardo nello sviluppo delle autoregolazioni, sul piano delle emozioni, del comportamento, della stima di sé e soprattutto delle relazioni con gli altri. Quindi il trauma relazione vissuto in famiglia magari, ha creato una profonda sfiducia da parte del bambino nell’ambiente esterno e le informazioni che vengono dall’esterno possono essere percepite come pericolose. Nasce a questo punto uno stato di diffidenza nel giovane che ha perso la capacità di imparare dagli altri: è il concetto della sfiducia epistemica.

È fondamentale quindi che uno specialista, che sia uno psicologo o uno psichiatra, possa incarnare l’umanizzazione, il calore e la compassione che i ragazzi non hanno potuto sperimentare, per cercare di ricreare questa fiducia epistemica. Bisogna diffondere il messaggio che, occorre entrare in sintonia con sofferenza e far emergere la voglia di vivere. Molte persone che pensano a morire vorrebbero vivere: il dolore mentale fa credere loro di essere in una situazione senza via d’uscita, e che la via migliore per uscire dalla sofferenza sia il suicidio, ma se la sofferenza è gestita anche con l’aiuto di un altro: un genitore, educatore, coetaneo, professionista della salute, si sente alleggerito dalla sofferenza e sceglie di vivere, perciò si tratta di una possibilità di aiuto che coinvolge tutti.

dott.ssa Sofia Pulizzi

Sociologa e criminologa


Il mondo digitale? Non è un bel mondo

di Patrizio Paolinelli

Le più diffuse sulle conseguenze sociali delle tecnologie digitali sono divulgate da un esercito di apostoli della civiltà del silicio presenti pressoché ovunque nell’infosfera. In genere si tratta di informatici, scienziati, imprenditori, manager, giornalisti e conferenzieri che si lanciano in rosee previsioni sulla società del futuro grazie alla digitalizzazione e alle sue applicazioni nella robotica, nell’automazione, nella comunicazione. È dagli anni ’50 del ‘900, ossia da quando i primi computer comparvero nelle fabbriche automobilistiche statunitensi, che questo storytelling globale va avanti rinviando sempre a domani l’avvento di un’età dell’oro all’insegna delle macchine intelligenti

Da qualche tempo lo storytelling risulta un po’ meno convincente e le voci critiche si moltiplicano. Tra queste è possibile annoverare quella di Vanni Codeluppi con il suo: Mondo digitale, (Laterza, Bari-Roma, 2022, pp. 113, 13,00 euro). La disamina che conduce è pacata e motivata, ma dopo aver chiuso il libro al lettore resta la netta sensazione che il mondo digitale nel quale viviamo non sia affatto un bel mondo. Si può non essere daccordo con questa conclusione. Di certo però il mondo digitale dei nostri giorni ha mancato tutte o quasi le promesse fatte dai pionieri dell’età dell’informazione. Tim Berners-Lee, creatore del World Wide Web (immaginato al suo esordio come un luogo di libertà, gratuità e cooperazione), definisce oggi Internet “una distopia lastricata di pregiudizi, odio e disinformazione”. Kevin Kelly, teorico dell’open source e assertore della combinazione tra il capitalismo e un vago anarco-socialismo ha visto svanire il suo sogno. Leonard Kleinrock, il primo a inviare nel 1969 un messaggio on-line, ha assistito impotente al passaggio di Internet da bene pubblico a luogo per fare profitti. La Dichiarazione di indipendenza del cyberspazio presentata da John Perry Barlow al vertice economico di Davos l’8 febbraio 1996 è rimasta lettera morta. E se oggi si riprende in mano un classico della cultura digitale come Digerati di John Brockman (Garzanti, Milano, 1997) ci si rende conto che è in larga misura un cimitero di ipotesi sbagliate sulle conseguenze sociali delle nuove tecnologie della comunicazione.

Il colossale fiasco previsionale sul destino della Rete da parte di personaggi diversissimi, ma uniti dalla fede nella tecnologia di migliorare la società, meriterebbe un’analisi approfondita perché a suo tempo Internet diede luogo a una vera e propria epopea che riempì di speranze il cuore dei libertari di tutto il mondo. Di primo acchito possiamo dire che tali personaggi non avevano chiari i rapporti tra tecnologia e società. E tra costoro i più ingenui tecno-entusiasti non avevano chiara la natura predatoria del capitalismo. Il quale mai avrebbe permesso una gestione dal basso, democratica e gratuita di Internet. Privi di una seria lettura politica del fenomeno Internet e prigionieri del determinismo tecnologico i pionieri dell’età dell’informazione ipotizzarono un futuro impossibile da realizzare.

Comunque sia, oggi che questo ipotetico futuro ce lo siamo lasciati alle spalle, dovremmo essere vaccinati contro le facili previsioni. Purtroppo non è così. Proprio perché le tecnologie digitali sono una nuova fonte di accumulazione del capitale basata sull’informazione e uno straordinario strumento di dominio politico-culturale, i mitografi dell’hi-tech continuano a insistere sul radioso domani offerto dalla civiltà del silicio. Ancora oggi è pressoché incalcolabile la produzione di contenuti lanciati quotidianamente nell’infosfera per sedurre il pubblico con le meraviglie della tecnoscienza e le sue benefiche applicazioni. Il merito di Mondo digitale è di non strizzare l’occhio alla mitologia, osservare la realtà dei fatti e mettere in fila una lunga serie di conseguenze sociali in atto derivate dall’affermazione delle tecnologie digitali. Il punto da cui Codeluppi parte è il progressivo processo di fusione tra l’on-line e l’off-line. Allinterno di tale processo individua contraddizioni problemi e limiti. Tutte criticità che possiamo annoverare tra le conseguenze negative del digitale. Ora, se non cediamo alla moda secondo la quale ogni fenomeno sociale è ambivalente e dunque non si possono esprimere giudizi definitivi, appare chiaro che le conseguenze negative della digitalizzazione prevalgano nettamente su quelle positive.

Proviamo a stilare un rapido elenco iniziando a sgombrare il campo dall’illusione che la Rete veicoli solo novità. Sulla scorta di Umberto Eco, Codeluppi ribadisce che le forme espressive presenti su Internet sono del tutto convenzionali, ossia conformi a quelle prodotte dai vecchi media. Per esempio, l’immagine del corpo che vediamo esibirsi su Instagram riproduce pari pari quella della TV commerciale: giovane, sexy, in forma. In secondo luogo, il potere sugli utenti da parte di Big tech come Google e Facebook è del tutto simile a quello televisivo, cioè nettamente sbilanciato a favore della proprietà. Solo questi due fattori mettono in crisi l’idea di rivoluzione associata a Internet. Per di più se il codice culturale tra vecchi e nuovi strumenti di comunicazione è lo stesso, altrettanto si può dire del codice economico. In termini di spietatezza il capitalismo digitale non si differenzia poi molto da quello industriale. Infatti trae profitti dai contenuti generati gratuitamente dagli utenti della Rete e dà vita a forme di sfruttamento intensivo dei lavoratori tramite la gig economy.

Il mondo digitale è dunque ben lontano dal “capitalismo senza attrito” annunciato da Bill Gates nel suo libro, La strada che porta al domani (Mondadori, Milano, 1997, ediz. aggiornata). Anzi, i new media e la new economy hanno rafforzato vecchi attriti e ne hanno prodotti di inediti. Per esempio, con le tecnologie digitali il sovraccarico informativo è cresciuto a dismisura. E se questo è certamente un problema lo è forse ancor di più la riformulazione del tempo e dello spazio a vantaggio di piattaforme. Le quali finiscono per costituire una sorta di recinto in cui utenti profilati consumano gran parte della loro giornata. Un’altra conseguenza delle tecnologie digitali è il costante aumento di potere degli algoritmi. Procedure di calcolo nient’affatto oggettive perché tutelano gli interessi di chi le finanzia e perché costruiscono la realtà senza il coinvolgimento degli utenti. In definitiva, sostiene Codeluppi, gli algoritmi “tendono a spingere la società verso una conferma dell’ordine già vigente.”

Di quale ordine sociale stiamo parlando? Di quello forgiato dal neoliberismo. Un ordine che trascina verso il basso il livello culturale degli utenti della Rete, riduce la loro capacità critica, mina la formazione di cittadini consapevoli. Premono in questa direzione fenomeni come la perdita della capacità di effettuare una “lettura profonda” dei testi scritti; l’indebolimento dei legami sociali off-line a favore di quelli on-line; l’isolamento e l’individualismo; la con-fusione tra immagini e realtà; i modelli comunicativi dei social network: reattivi più che riflessivi, competitivi più che cooperativi. Per non togliere al lettore il piacere o il dispiacere di scoprire molti altri effetti sociali conseguenti alle tecnologie digitali non indugiamo oltre sul libro di Codeluppi. In conclusione resta da dire una cosa: Mondo digitale conferma che per quanto dirompente possa essere la tecnologia, essa è solo una forza del cambiamento sociale e da sola non può nulla o quasi. Dietro le meraviglie delle macchine intelligenti c’è sempre l’interesse economico e la lotta per il potere politico. Ovvero tutto ciò che i cantori della civiltà del silicio omettono nelle loro narrazioni.

Dott. Patrizio Paolinelli

La critica sociologica, LVII, 226, Estate 2023


LinkedIn, il network professionale

di Antonino Calabrese

LinkedIn è una piattaforma di social media professionale che permette agli utenti di creare e gestire il proprio profilo professionale online. È ampiamente utilizzato da professionisti di diverse aziende per connettersi con colleghi, trovare opportunità di lavoro, condividere contenuti professionali e stabilire relazioni commerciali.

Fondata nel 2002 da Reid Hoffman, un imprenditore e investitore di successo, la storia di LinkedIn inizia con l’obiettivo di creare una rete di professionisti in tutto il mondo, offrendo loro la possibilità di connettersi, condividere informazioni e opportunità di lavoro. La piattaforma è stata lanciata ufficialmente nel maggio 2003 e ha rapidamente guadagnato popolarità tra i professionisti di diverse industrie. LinkedIn ha fornito un modo innovativo per costruire e gestire la propria rete professionale online, consentendo agli utenti di creare un profilo dettagliato che includeva informazioni sulle loro esperienze lavorative, competenze e istruzione. Negli anni successivi al suo lancio, LinkedIn ha continuato a crescere e ad aggiungere nuove funzionalità per migliorare l’esperienza degli utenti. Nel 2004, la piattaforma ha introdotto la funzione “Connessioni”, che permette agli utenti di collegarsi con altri professionisti e ampliare la propria rete. Nel corso degli anni, LinkedIn ha anche introdotto funzionalità come i gruppi di discussione, le pagine aziendali e le offerte di lavoro.

LinkedIn offre una serie di funzionalità che consentono agli utenti di ottimizzare la propria presenza online e di sfruttare al meglio la piattaforma. Ad esempio, gli utenti possono creare un profilo completo che include informazioni sulle loro esperienze lavorative passate e attuali, competenze, formazione e realizzazioni. Possono anche caricare una foto professionale per dare un’immagine positiva di sé stessi. Una delle caratteristiche principali di LinkedIn è la possibilità di connettersi con altre persone. Gli utenti possono inviare richieste di connessione ad altri professionisti con cui desiderano stabilire un legame. Queste connessioni possono essere utilizzate per ampliare la propria rete professionale, cercare opportunità di lavoro o collaborazioni commerciali. LinkedIn offre anche la possibilità di cercare e candidarsi a offerte di lavoro. Gli utenti possono cercare posizioni aperte in base a criteri specifici come posizione geografica, settore o livello di esperienza. Possono anche utilizzare la piattaforma per entrare in contatto direttamente con i reclutatori o inviare la propria candidatura online.

Oltre alle funzionalità di base, LinkedIn offre anche una serie di strumenti e servizi aggiuntivi per gli utenti premium. Questi includono l’accesso a statistiche avanzate sul proprio profilo, la possibilità di inviare messaggi diretti a persone al di fuori della propria rete e l’accesso a corsi di formazione online per lo sviluppo professionale. LinkedIn ha avuto un impatto significativo sul modo in cui le persone cercano lavoro e costruiscono la propria carriera. La piattaforma ha fornito un modo efficace per trovare opportunità di lavoro, connettersi con reclutatori ed espandere la propria rete professionale. Nel corso degli anni, LinkedIn è diventato un’importante risorsa per le aziende e i professionisti di tutto il mondo. La piattaforma ha fornito un modo per le aziende di promuovere i propri prodotti e servizi, attrarre talenti e stabilire relazioni commerciali. Per i professionisti, LinkedIn ha offerto un modo per mostrare le proprie competenze ed esperienze, costruire una reputazione online e connettersi con altre persone del settore. Oggi, LinkedIn conta milioni di utenti in tutto il mondo e continua a crescere. La piattaforma è diventata uno strumento essenziale per la ricerca di lavoro, il networking professionale e lo sviluppo della carriera. La piattaforma ha dimostrato di essere un’importante risorsa per le persone che cercano opportunità di lavoro, cercano di ampliare la propria rete professionale e condividono contenuti e pensieri professionali.

Dott. Antonino Calabrese


La rinuncia all’etica e lo spirito del capitalismo

di Patrizio Paolinelli

Sarà per il clima culturale che c’è oggi in Italia ma è passato praticamente sotto silenzio un libro umanamente e politicamente sconvolgente: “Il metodo Giacarta. La crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di massa che hanno plasmato il nostro mondo”(Torino, Einaudi, 2021, pp 340, 30,00 euro). L’autore è Vincent Bevins, un coraggioso giornalista statunitense ottimamente inserito nel circuito della stampa mainstream nord-americana.

Il libro consiste in un’inchiesta durata dieci anni e suffragata da documenti ufficiali, informazioni desecretate, pareri di storici, testimonianze dirette. Dall’inchiesta emerge senza ombra di dubbio che in ventitré nazioni del Terzo mondo la Guerra fredda fu in realtà caldissima causando la morte di milioni di donne e uomini di sinistra per mano diretta e indiretta degli Stati Uniti. Ovviamente il bersaglio principale erano i comunisti e il metodo Giacarta prende il nome dalla strategia di sterminio totale degli avversari politici sperimentata da Washington in Indonesia. Nazione in cui, tra il 1965 e il 1966, fu eliminato dalla faccia della terra il terzo più grande partito comunista del mondo, che all’epoca contava circa tre milioni di iscritti. Possono sembrare tanti, ma all’epoca l’Indonesia contava circa 100 milioni di abitanti. Va detto che il Partito comunista indonesiano non programmava alcuna presa del Palazzo d’Inverno, in Parlamento contava su una piccola pattuglia di rappresentanti, aveva accettato le regole del gioco democratico ed era autonomo sia dall’Unione Sovietica che dalla Cina. Non rappresentava dunque un pericolo. Oltretutto all’epoca la scena politica indonesiana era dominata dal padre dell’indipendenza, Ahmed Sukarno, leader di grande prestigio internazionale. Nonostante ciò, per i vertici dell’amministrazione statunitense, i comunisti indonesiani costituivano un problema e optarono per la soluzione più disumana facendo trucidare con metodi spaventosi un milione di civili per mano di Suharto, un oscuro generale la cui scalata ai vertici dell’esercito indonesiano fu favorita da Washington.

La macchina della morte avviata a Giacarta fece scuola per le violente repressioni che seguirono in Centro e Sud America, in Medio Oriente e altrove. La linea politica era chiara: fare tabula rasa di chiunque parlasse di giustizia sociale: dai socialisti ai cattolici di sinistra, dai comunisti ai sindacalisti. Occorreva creare un terrore generalizzato in grado di annichilire qualsiasi velleità di cambiamento. Torture, massacri, sparizioni, colpi di stato erano strumenti utilizzati con assoluta disinvoltura sotto la regia di Washington. Ovviamente questi incredibili crimini contro l’umanità vennero commessi e pilotati dagli Stati Uniti con la complicità delle élite borghesi dei singoli paesi interessate a mantenere i loro privilegi. Ma soprattutto, e qui sta la novità introdotta dal metodo Giacarta, a sporcarsi le mani di sangue furono gli eserciti locali, opportunamente addestrati negli States, risolvendo così un enorme problema politico per l’amministrazione di Washington. La quale era già intervenuta decine di volte dentro e fuori il proprio “giardino di casa” per reprimere rivolte popolari, defenestrare governi progressisti o semplicemente indipendenti da Washington. Un interventismo sistematico e aggressivo che aveva reso gli USA invisi alla maggioranza delle nazioni uscite da poco dal colonialismo e che si erano riunite nel Movimento dei Paesi non allineati.

Ma per Washington non essere allineati con loro non solo era inammissibile, significava fare il gioco dell’Unione Sovietica o comunque favorire l’espansione dei comunisti nei Paesi dove godevano del consenso ottenuto attraverso regolari elezioni. E così misero in piedi una mostruosa rete internazionale del terrore in un mix di associazioni anticomuniste, guerre clandestine, pressioni economiche, attentati, campagne mediatiche, omicidi, colpi di stato. Lo scopo era duplice: da un lato, eliminare fisicamente chi si opponeva all’ingerenza americana (e i comunisti erano in prima linea non tanto in nome del socialismo quanto della sovranità nazionale); dall’altro, liquidare il fronte dei Paesi non allineati. Come sappiamo gli USA raggiunsero l’obiettivo: rinunciando all’etica rivelarono lo spirito del capitalismo. Dopo la mattanza dei comunisti, il Partito Comunista Indonesiano venne messo fuori legge e l’Indonesia divenne uno dei più fedeli alleati di Washington. Il rovescio della medaglia fu che, da Paese indipendente e guida del Terzo mondo, l’Indonesia smise di contare qualcosa sullo scacchiere internazionale e da allora vive in regime di libertà vigilata… dallo zio Sam. Così è stato per tutti gli altri Paesi in cui gli USA insediarono le dittature militari. In nome dell’anticomunismo gli Stati Uniti si sono liberati di potenziali rivali economici come appunto l’Indonesia e poi il Brasile e l’Argentina; si sono appropriati delle loro risorse energetiche; hanno favorito le élite nazionali più reazionarie, irresponsabili e predatorie; hanno relegato fino ad oggi questi e altri Paesi al ruolo di comparse della storia.

Leggendo Il Metodo Giacarta molti miti americani cadono come birilli pagina dopo pagina. Un Paese i cui esponenti politici da sempre non fanno altro che riempirsi la bocca di parole come “libertà” e “democrazia” si rivelano oppressori privi di ogni scrupolo morale (fratelli Kennedy compresi) quando si tratta di impedire l’autodeterminazione di altri popoli. In una battuta: potete essere liberi se siamo noi a comandare. Bevins giunge alla conclusione che i comunisti credettero davvero alle parole della democrazia, mentre gli Stati Uniti la calpestavano coi fatti. A uscirne a pezzi è anche la tanto osannata stampa americana la cui complicità nell’attuazione dei programmi di controllo dei Paesi del Terzo mondo, di demolizione del Movimento dei non allineati e di demonizzazione dei comunisti è stata talmente palese da non costituire un mistero per nessuno (e comunque per tutti valga, La fabbrica del consenso, di Noam Chomsky e Edward S. Herman, Tropea Editore, Milano, 1998). Il titolo e il sottotitolo del libro di Bevins traducono fedelmente gli originali in inglese e sono ricchi di significati. Innanzitutto l’anticomunismo si presenta davvero come una crociata. Perché così come i fanatici puritani fuggiti dall’Europa sterminarono i nativi americani in nome di Dio, allo stesso modo i fanatici anticomunisti dell’amministrazione USA sterminarono i comunisti in nome della libertà. L’espressione “omicidi di massa” contenuta nel sottotitolo è invece un espediente per evitare di parlare di programmi di annientamento degni della soluzione finale perpetrata dai nazisti. Oltretutto, come è noto, durante la Guerra fredda i nazisti furono usati ampiamente dalla Cia in Sud-America. Infine, senza lo sterminio dei comunisti su scala internazionale il mondo di oggi non sarebbe com’è. Ossia: non si sarebbe affermata la globalizzazione capitalistica a guida statunitense.

Dal libro di Bevins gli Stati Uniti escono fuori come una potenza che fa strame dei valori professati, utilizza senza limiti il linguaggio della violenza, adotta una politica imperialista e rappresenta la continuità storica del colonialismo europeo. Muovendosi con questa logica è inevitabile il disprezzo dei diritti umani e dei più elementari principi di tolleranza. In tal senso l’inchiesta di Bevins scuote le coscienze e contribuisce a dare un’idea chiara di come l’impero americano si affermi nel mondo passando su montagne di cadaveri.

dott. Patrizio Paolinelli

La critica sociologica, LVII, 226, Estate 2023


Compiti e funzioni dell’ufficio stampa

di Antonino Calabrese

L’ufficio stampa è un organo che svolge un ruolo fondamentale nella diffusione delle notizie per conto di aziende, organizzazioni ed enti pubblici. La sua funzione principale è quella di curare i rapporti con il mondo dell’informazione al fine di veicolare le informazioni rilevanti e di interesse pubblico. Nell’ambito dell’ufficio stampa, vengono svolte diverse attività e servizi che contribuiscono alla gestione delle comunicazioni esterne di un’organizzazione. Tra queste attività rientrano la selezione, la filtrazione e la veicolazione del flusso delle informazioni provenienti dall’interno dell’ente. L’ufficio stampa si occupa anche di redigere comunicati stampa, organizzare conferenze stampa e gestire le relazioni con i media.

L’obiettivo dell’ufficio stampa è quello di garantire una corretta e tempestiva diffusione delle informazioni, in modo da favorire la trasparenza e la visibilità dell’organizzazione. Questo ruolo è particolarmente importante in contesti in cui l’azienda o l’ente pubblico sono soggetti a un’attenzione mediatica significativa. L’ufficio stampa può essere interno all’organizzazione o esternalizzato a una agenzia specializzata. In entrambi i casi, è fondamentale che l’ufficio stampa abbia una buona conoscenza del settore di riferimento e delle dinamiche del mondo dell’informazione. Inoltre, è importante che l’ufficio stampa mantenga un rapporto di fiducia con i giornalisti e i media, al fine di favorire una corretta diffusione delle informazioni.L’ufficio stampa svolge un ruolo cruciale nella gestione delle comunicazioni esterne di un’organizzazione. Attraverso la selezione, la filtrazione e la veicolazione delle informazioni, l’ufficio stampa contribuisce a garantire una corretta diffusione delle notizie e a favorire la trasparenza e la visibilità dell’organizzazione stessa.

L’Ufficio stampa è incaricato di sviluppare e implementare una strategia di comunicazione che promuova l’immagine e gli obiettivi dell’organizzazione. Questo implica la creazione di messaggi chiari e persuasivi che trasmettano in modo efficace i valori e le attività dell’ente, garantendo al contempo la coerenza con la sua identità e la sua missione istituzionale. Inoltre, l’Ufficio stampa è responsabile di gestire le relazioni con i media, fornendo loro informazioni tempestive e accurate, organizzando conferenze stampa e interviste, e rispondendo a richieste di informazioni. Questo ruolo richiede una stretta collaborazione con i giornalisti e una capacità di gestire situazioni di crisi in modo professionale e reattivo. Un altro compito cruciale dell’Ufficio stampa è la produzione di materiali stampa e digitali, come comunicati stampa, dossier informativi, newsletter e contenuti per i social media. Questi strumenti sono essenziali per diffondere notizie e informazioni pertinenti in modo efficace e coinvolgente. Inoltre, l’Ufficio stampa può essere coinvolto nell’organizzazione di eventi e iniziative di comunicazione, come conferenze, fiere e campagne pubblicitarie. Questo richiede competenze organizzative e la capacità di coordinare attività complesse coinvolgendo diversi attori interni ed esterni.

In sintesi, l’Ufficio stampa ha il compito di gestire in modo strategico la comunicazione dell’organizzazione con il pubblico esterno e i media, garantendo coerenza, tempestività ed efficacia nei messaggi trasmessi. Le sue funzioni e compiti richiedono competenze specifiche e una visione strategica della comunicazione istituzionale. All’interno di quest’ambito, diversi ruoli sono attribuiti a professionisti con competenze specifiche, al fine di garantire un’efficace comunicazione esterna e interna. Uno dei ruoli chiave nell’ufficio stampa è quello del portavoce. Il portavoce agisce come rappresentante ufficiale dell’organizzazione, comunicando con i media e il pubblico a nome dell’azienda o dell’istituzione. È responsabile della gestione delle interviste, delle dichiarazioni pubbliche e della gestione delle crisi comunicative. Il portavoce deve possedere un’eccellente capacità comunicativa, oltre a una profonda comprensione della missione e degli obiettivi dell’organizzazione. Un altro ruolo fondamentale è quello del responsabile delle relazioni con i media. Questa figura è incaricata di stabilire e mantenere rapporti con giornalisti, editori e altri operatori dei media. Il responsabile delle relazioni con i media è responsabile della diffusione di comunicati stampa, dell’organizzazione di conferenze stampa e di altre iniziative volte a promuovere una copertura mediatica positiva dell’organizzazione. All’interno dell’ufficio stampa, è comune trovare anche il ruolo dell’addetto stampa. Questo professionista è responsabile della redazione e diffusione di comunicati stampa, articoli e altri materiali informativi. L’addetto stampa lavora a stretto contatto con il portavoce e il responsabile delle relazioni con i media per garantire una comunicazione coerente ed efficace.

Infine un ruolo cruciale è quello dell’analista dei media. Questo professionista monitora costantemente l’andamento della copertura mediatica dell’ organizzazione analizzando le reazioni del pubblico e identificando potenziali minacce o opportunità. L’analista dei media fornisce preziose informazioni sull’efficacia delle strategie di comunicazione e supporta la pianificazione di future iniziative. L’ufficio stampa coinvolge una varietà di ruoli, ognuno dei quali contribuisce in modo significativo alla gestione delle comunicazione e delle relazioni pubbliche. È essenziale che i professionisti che ricoprono questi ruoli abbiano competenze specifiche e una profonda comprensione dell’ organizzazione per garantire una comunicazione efficace e coerente con il pubblico e i media.

dott. Antonino Calabrese


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