Riflessioni sociologiche sul razzismo

di Giovanni Pellegrino e Mariangela Mangieri

In quest’articolo prenderemo in considerazine dal punto di vista sociologico il razzismo, un fenomeno sociale purtroppo sempre più presente nella società contemporanea. 

<<== Prof. Giovanni Pellegrino 

                                                                 

Tra i molteplici conflitti esistenti tra i gruppi sociali riteniamo opportuno occuparci dei conflitti tra gruppi etnici che sono alla base del fenomeno sociale del razzismo. A causa della globalizzazione ci troviamo a vivere in una società multietnica e multiculturale che mette a stretto contatto quotidiano individui appartenenti a diversi gruppi etnici. Questi individui possiedono un proprio patrimonio di credenze religiose, di valori ed una propria tradizione di tipo culturale. Il problema principale è costituito a nostro avviso dal fatto che la maggior parte degli individui non ha avuto il tempo di abituarsi a vivere in una società multietnica, fatta una debita eccezione per nazioni come la Francia e l’Inghilterra che avendo avuto imperi coloniali molto vasti avevano già avuto a che fare con  i problemi derivanti dalle società multietniche. Tuttavia anche in queste due nazioni il razzismo costituisce un grave problema, così come lo costituisce negli Stati Uniti, la prima società multietnica della storia contemporanea.Per quanto riguarda l’Italia dobbiamo dire che la globalizzazione si è affermata in maniera rapidissima dal momento che per molti decenni è stata paese di emigrazione, oggi, tuttavia, è diventata una nazione nella quale è molto difficile controllare i flussi migratori.                                                                                                                        

A nostro avviso la globalizzazione come tutti i fenomeni sociali presenta un lato positivo ed uno negativo, dei vantaggi e degli svantaggi, che vanno compresi e accettati. Dahrendolf afferma che dal momento che non è possibile arrestare la globalizzazione bisogna necessariamente accettare sia le nuove opportunità sia i nuovi rischi ad essa collegati. Comunque non è nostra intenzione in questa sede cercare di stabilire se siano maggiori le opportunità o i problemi collegati alla globalizzazione in quanto il discorso sarebbe troppo lungo e complicato. In questo articolo cercheremo invece di limitarci a stabilire quali sono le cause sociologiche e psico sociali del razzismo nella società contemporanea. In primo luogo dobbiamo mettere in evidenza che studi condotti da diversi psicologi sociali hanno messo in evidenza che il comportamento auto preferenziale nei confronti dei propri gruppi di appartenenza, ivi compreso il gruppo etnico sembra essere una costante del comportamento umano in tutte le epoche storiche.                                   

 Tale dato di fatto ha indotto psicologi sociali a formulare interessanti riflessioni. Infatti sembrerebbe che il comportamento auto preferenziale nei confronti del proprio gruppo etnico sia sempre esistito nella storia del genere umano cosicché ci sarebbe da pensare che tale comportamento sia scritto nel Dna della razza umana. In effetti esiste una forte polemica tra gi studiosi che pensano che il razzismo sia causato da fattori di tipo genetico e gli scenziati che ritengono che il  razzismo non abbia una base genetica ma sia dovuto a fattori storici e culturali. Tale gruppo di studiosi prende il nome di ambientalisti. Mentre gli studiosi che pensano che il razzismo abbia una base genetica prendono il nome di innatisti. Esiste poi un terzo gruppo di studiosi che pensano che il razzismo sia dovuto sia a fattori genetici, sia storici, sociali e culturali.                                                       

All’interno di questo terzo gruppo di studiosi ce ne sono alcuni che pensano che il razzismo sia soprattutto dovuto a fattori genetici e in parte minore a fattori sociali e storici e altri che ritengono che esso sia dovuto soprattutto a fattori ambientali e in misura minore  a fattori genetici. A nostro avviso il razzismo e molti altri comportamenti umani sono dovuti in parte a fattore di origine genetica ed in parte a fattori derivanti dall’ambiente socio- culturale nel quale gli individui si trovano a vivere. Nel caso specifico del razzismo se uno delle sue cause( il comportamento autopreferenziale nei confronti del proprio gruppo etnico) ha una base genetica, le altre cause del razzismo hanno chiaramente un’origine sociale.                                                                    

Nel fare un esempio concreto molti conflitti di tipo razziale nascono dal desiderio  dei gruppi etnici di accedere a terminate risorse materiali entrando in competizione con altri gruppi etnici. Ad esempio il razzismo che esiste in alcuni paesi nei confronti degli immigrati è in buona parte dovuto al fatto che essi svolgono una funzione sostitutiva nei confronti degli abitanti del  luogo.  In alcuni settori del mercato del lavoro caratterizzati da salari bassi o addirittura dal lavoro in nero, gli immigrati sostituiscono gli abitanti del luogo. Tale funzione sostitutiva resa possibile dal fatto che gli immigrati accettano salari più bassi degli altri lavoratori dà luogo a fenomeni di razzismo che altro non sono che una lotta tra poveri. Parliamo di lotta tra poveri perché gli immigrati possono entrare in competizione quasi esclusivamente con quei lavoratori che devono accontentarsi dei lavori meno pagati e più faticosi.                                                                         

 Anche un’altra causa del razzismo, ovvero i pregiudizi nei confronti dei rappresentanti di altre gruppi etnici non ha una causa genetica ma è dovuta alla mancanza di dati reali sul comportamento degli immigrati. Infatti se è vero che alcuni immigrati compiono reati di vario tipo è altrettanto vero che non bisogna fare di tutta l’erba un fascio. Molti dimenticano che la maggior parte  degli immigrati sono persone oneste che adottano comportamenti irreprensibili. Inoltre i pregiudizi che nascono dal pensiero stereotipo di tipo non neutrale determinano una alterata percezione della realtà. Tale percezione della realtà fa in modo che vengano attribuite ad immigrati appartenenti ad un dato gruppo etnico caratteristiche negative che sono proprie di altri gruppi di immigrati. Naturalmente molti pregiudizi nascono dalla cosiddetta paura del diverso che rende molto difficile esprimere giudizi oggettivi e motivati gli appartenenti ad altri gruppi etnici.  In effetti gestire rapporti interpersonali con individui  appartenenti ad altre razze e altre culture che siano in grado di  terminare vantaggi psicologici, richiede il superamento di una serie di barriere comunicative create dai pregiudizi e dalla paura di mettere in discussione  la propria identità culturale.                                

In sintesi noi crediamo che bisogna entrare nell’ordine di idee che esistono individui che conviene frequentare ed individui che conviene evitare sia nella razza bianca sia nelle altre razze che la globalizzazione ha portato nel mondo occidentale.  In altri termini non bisogna mai cadere in generalizzazioni immotivate che trovano la loro origine nel pensiero stereotipo di tipo non neutrale. Infine l’ultima causa del razzismo che niente ha a che vedere con i fattori genetici è la volontà di difendere le  proprie radici storiche e culturali, che secondo alcuni sarebbero messe in pericolo dalla creazione delle società multietniche e multiculturali. Tale tipo di razzismo viene denominato differenzialista in quanto ritiene che si debbano mantenere intatte le proprie radici culturali. Tale tipo di razzismo parte dal presupposto che i bianchi non avrebbero niente da imparare dagli altri gruppi etnici. Appare evidente che si tratta di un razzismo che si basa su una forte concezione etnocentrica. Noi riteniamo che non sia accettabile che i bianchi non abbiano niente da imparare dagli altri gruppi etnici e dalle altre culture dal momento che noi siamo convinti che gli scambi interetnici siano un’occasione di arricchimento per tutti i gruppi etnici esistenti sul nostro pianeta. Vogliamo concludere il nostro articolo mettendo in evidenza che il razzismo nei casi estremi determina anche episodi di inaudita e gratuita violenza nei confronti di individui appartenenti ad altri gruppi etnici.

Prof. Giovanni Pellegrino

Prof.ssa Mariangela Mangieri                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        


Cioran e il suicidio del logos

di Patrizio Paolinelli

Ultimatum all’esistenza” è un corposo libro di interviste rilasciate da Emil Cioran tra il 1949 e il 1994 (La scuola di Pitagora, Napoli, 2020, 475 pagg., 30,00 euro). Un testo che ha il vantaggio di presentare al lettore lo scrittore rumeno senza subire il fascino della sua prosa.  Non è poco. Perché nel parlato le risposte dell’intervistato hanno, per così dire, uno spazio di manovra limitato: è necessario andare subito al sodo senza troppi giri di parole. Nell’intervista il linguaggio è privato dell’attesa, è impaziente. Allo stesso tempo un’intervista non è un bignami. È un dialogo di qualità che ha lo scopo di fare il punto: sulla personalità dell’interpellato, il suo pensiero, gli eventi storici di cui è stato testimone.

Prof. Patrizio Paolinelli == >>

Trattandosi della raccolta di numerose interviste che coprono un arco di 45 anni, Ultimatum all’esistenzaha il merito di presentarci in un unico volume la personalità, il pensiero, l’epoca in cui è inserita la biografia di Cioran. Il fattore che ci sembra emerga maggiormente dalla lettura del libro è la pressoché totale coincidenza tra la psicologia dello scrittore e la sua Weltanschauung. Una coincidenza perseguita con estrema lucidità e senza il minimo tentennamento. Intervista dopo intervista Cioran snocciola i temi portanti della sua visione della vita e del mondo. Ecco un parziale elenco: il declino dell’Occidente, la fiera opposizione al progresso, la storia come processo distruttivo, l’elogio del tragico, il sentimento di provvisorietà, il disimpegno militante verso gli affanni del mondo, l’impossibilità di risolvere la questione sociale, la rivendicata irresponsabilità verso il prossimo, il sentimento dell’irreparabile, la disperazione assunta come posizione teorica, la sconfessione dell’homo faber, la scrittura come forma di terapia, il cinismo come attitudine teorica, la vita intesa come processo distruttivo, il dramma di essere nati, l’idea del suicidio. Si potrebbe continuare. Ma queste voci ci pare siano sufficienti a tratteggiare il profilo di uno scettico radicale, anzi, violento, come diceva Cioran di sé stesso. Ora, ogni punto dell’elenco che abbiamo proposto può essere oggetto di lunghe discussioni. Prendiamo, ad esempio, un’idea che ossessionò Cioran per tutta la vita: il suicidio.

Alla ripetuta richiesta dei suoi intervistatori sul perché non si fosse tolto la vita lo scrittore confessa: senza quell’idea mi sarei sicuramente ucciso. Il suicidio viene così trasformato in una risorsa, una possibilità, un anelito di libertà. Se proprio l’esistenza ti risulta insopportabile, ecco cosa puoi fare: ti ficchi una pallottola in testa e il tormento finisce. Ma puoi anche decidere altrimenti e questo ci rende liberi. Come si vede si tratta di una concezione ultra-soggettivistica della libertà e in quanto tale utilitarista. Il borghese si compra la libertà coi soldi, Cioran col pensiero. Sono la faccia della stessa medaglia: a entrambi non importa un bel niente della libertà degli altri. 

Come è noto Cioran non si suicidò. Morì a 84 anni in una casa di cura seguito dalla compagna di una vita, Simone Boué, a cui chiedeva di ucciderlo. Fino all’ultimo fu a suo modo coerente: parlare del suicidio senza praticarlo, neanche quando aveva un piede nella fossa. D’altra parte, per lui il fare era separato dall’essere. Il che è condivisibile. Ma il problema è a quale essere Cioran fa riferimento. Non all’essere sociale. Ma a un individuo divinizzato: ora dal fallimento, ora dalla scelta mistica, ora dalla marginalità. Fascino dell’esclusione e esasperazione dell’Io si combinano nello scrittore romeno senza lasciare spazio al prossimo. Il quale, tutt’al più, è funzione degli istinti e degli appetiti di chi vola in alto con la mente. Da qui l’esaltazione delle prostitute. Che Cioran frequentò a lungo finché servirono a soddisfare il suo smisurato egocentrismo.

È vero che l’opera va separata dall’autore. Ma nei suoi libri Cioran non ha parlato di astrazioni: ha parlato del suo tempo, dell’esistenza, a suo modo ha proposto una morale, nera quanto si vuole, ma pur sempre una morale. Alla prova della vita reale quanto ha retto questa morale? Non molto. Rilasciò interviste fino a pochi mesi prima della sua scomparsa. Cosa che per uno che predicava il distacco dal mondo lascia alquanto perplessi. E come si può spiegare la sua gelosia nei confronti di una giovane amante tedesca che in Germania va a letto col suo compagno perché “l’intelligenza non si può scopare”? Non c’è problema. Cioran trova sempre il modo di assolversi. Naturalmente non gli difettava la consapevolezza delle contraddizioni del proprio pensiero. Era un uomo troppo intelligente per non rendersene conto. Messo alle strette dalle incoerenze dei suoi ragionamenti trovava rifugio nella metafisica. Va bene suicidarsi, ma in termini metafisici. E quando la metafisica non bastava ecco arrivare in soccorso il Romanticismo con tutta la sfilza di coloro che si sono tolti la vita non riuscendo a sopportare il peso di un Io troppo grande in un mondo così piccolo.

Per sua natura l’incoerenza trova sempre coerenti formalismi per giustificarsi. Tanto più se i formalismi provengono da un erudito che ha fatto del paradosso la chiave di volta del suo pensiero. Scrivo sapendo che è perfettamente inutile scrivere, ci fa capire Cioran. Una scrittura in cui a suicidarsi è la parola. Da qui il privilegio dell’estasi, l’attrazione per i mistici, l’ammirazione per i grandi moralisti. Da qui l’allergia per ogni tipo di appartenenza. A chi lo incalza chiedendogli se è un nichilista, un ribelle o un disperato Cioran risponde: “non sono niente”.

Regge una filosofia del logos anti-logos, del libro anti-libro, dello scrittore anti-scrittore, dell’asociale immerso nella società? Fatica parecchio. Certo Cioran si fa forte di una lunga tradizione filosofica, a iniziare dai cinici greci. E quando un compiacente intervistatore gli offre un assist rilevando l’atto positivo di una scrittura che attacca l’esistenza stessa, Cioran non si lascia sfuggire l’occasione per uno dei suoi funambolismi: “Per me, scrivere è un ultimatum all’esistenza. Questo è il significato di tutti i miei libri. È così: una sorta di ultimatum reiterato all’esistenza. È un attacco liberatorio. Si può sopportare l’esistenza, demolendola. Ho un po’ un temperamento combattivo, sebbene io non faccia nulla. Non mi attivo nella vita. Ma in realtà, per temperamento sono un po’ aggressivo. Ma l’attacco per me, ha questa funzione, dal momento che non si può fare altro”.

Dinanzi a questa affermazione viene da chiedersi: un ultimatum reiterato non è un eterno penultimatum? Non è un modo del tutto illusorio di fermare il tempo? Una negazione del divenire che aiuta a comprendere la ridondanza delle posizioni di Cioran: sempre la stessa acqua pestata nello stesso mortaio, dal primo all’ultimo dei suoi libri. Con Cioran il logos muore per mancanza d’ossigeno. Oscillando tra rare estasi personali e tragedie collettive lo scrittore trova un equilibro per andare avanti nella vita. Ultimatum dopo ultimatum eccolo pubblicare un libro dopo l’altro. E al millesimo gorgo nero in cui tutto è risucchiato e annullato le sue pagine riescono persino a strappare un sorriso: dopo tanto penare Cioran approda al comico, o al grottesco, se la parola comico può offendere qualcuno.

Come prendere sul serio uno che passa la vita a guardarsi l’ombelico? Infatti, più di tanto non si dovrebbe. Ma i libri di Cioran non sono privi di ricadute culturali e politiche. Tutt’oggi hanno un pubblico, mentre la figura di questo grande scettico desta ancora interesse come dimostra la pubblicazione di “Ultimatum all’esistenza”. Perciò sono libri di cui tenere conto. Libri che non sono letti dallo “scarto dell’umanità” come Cioran sostenne una volta per darsi un tono dinanzi a un ammiratore. Sapeva bene che non era così. I suoi lavori finiscono nelle mani di persone istruite, spesso molto istruite. Generalmente appartenenti alla piccola e media borghesia. Classi sociali che, ieri come oggi, nelle taglienti pagine di Cioran trovano confermato il loro disprezzo per coloro che non sono raggiunti dall’illuminazione: e cioè che l’uomo è disperatamente solo, che l’unica cosa che conta nella vita è il culto del proprio Io e che tutto il resto è bieca necessità.    

Dunque Cioran è attuale, attualissimo. Come potrebbe non esserlo in un’epoca di narcisisti che vivono per il presente? Inoltre, in “Ultimatum all’esistenza” Cioran esprime, direttamente o indirettamente, le proprie opinioni politiche: terribilmente reazionarie. Ma soprattutto, lo scettico di ogni tempo non disturba il potere. L’uomo è quel che è, un’irrimediabile delusione, e non vi si può porre rimedio. La storia pure. Perciò, a che serve cercare di cambiare il mondo? È bene che tutto resti com’é. Fermo restando che a coltivare la terra e sturare le fogne devono pensarci gli altri.

Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, maggio 2021.


Mens sana in corpore sano

Durante il lockdown abbiamo assistito ad una graduale cessione di libertà, tra le prime forme era prevista la possibilità di fare attività fisica all’aperto, seppur nei dintorni della propria abitazione, per poi estendere il permesso anche al proprio quartiere e oltre.

<<=== dott.ssa Roberta Cavallaro -sociologa

La frase “fare sport fa bene alla salute” è rimasta confinata, invece, nella sua retorica nonostante fosse inserita tra i bisogni di prima necessità. Una necessità data per scontata, infatti l’enfasi sull’attività fisica non è mai stata ricercata tra i commenti dei nostri politici, eppure, è affare di tutti non bisognerebbe aspettarselo solo dal Ministro della salute, sembra incredibile come si riesca a parlare di sistema immunitario senza affiancare o dare fiducia al mezzo che è una delle vie principali per rinforzarlo. Non è un caso che le scienze motorie siano catalogate come “Scienza” poiché si nutrono di studi trasversali della medicina, della pedagogia, della psicologia, le quali sconfinano dalla didattica scolastica e penetrano la nostra vita quotidiana.

La “camminata veloce” però è riuscita a creare una moda superficiale ma efficace che ha coinvolto anche persone prima disinteressate all’attività fisica, costruendo in maniera naturale, una dinamica che non è stata volutamente a cuore ai media, dal momento che è mancato uno dei suoi presupposti fondamentali, ovvero la diffusione costante del messaggio. Questo tipo di attività si è diffusa velocemente diventando un nuovo modo di incontrarsi per strada, sentendosi accomunati da un obiettivo comune, quello di indossare una tuta per fare attività fisica e incrociare lo sguardo o il saluto di chi ha fatto la medesima scelta, pur di sentirsi parte di un sistema in una fase di crollo delle certezze.

In questo, come in altri casi, l’attività fisica ha svolto un ruolo socio-relazionale centrale. La sua centralità è stata però accantonata, non ha potuto mantenere la sua forma o progredire poiché non ha avuto gli elementi necessari per farlo. I valori in una società nascono in maniere imprescindibile dalle norme e si rinforzano con l’esperienza, in questo caso il percorso non è affatto tortuoso, infatti l’attività fisica è nata in risposta ad un’esperienza di vita comune, quale la pandemia, potenziandosi in maniera spontanea. Dal momento che i valori necessitano di un riscontro politico-normativo per consolidarsi, la previsione potrebbe essere quella di un crollo di un incosciente tentativo di esaltazione di un valore intrinseco quale “cura del benessere psico finisco attraverso lo sport”, non supportato al di là della concezione individuale.

Perché viene posta l’enfasi sullo sport solo per vendere prodotti? Conosciamo bene i tipi di acqua che depurano l’organismo, le bevande contenenti sali minerali amati da cellule e tessuti, o la vitamina C gradita dal nostro sistema immunitario ma non conosciamo allo stesso modo l’attività fisica come meccanismo di prevenzione che potrebbe bastare a sé stesso. In un periodo storico come questo il terreno è più che mai fertile per porre l’attenzione sull’importanza di una corretta alimentazione, sulla serietà dell’attività fisica, soprattutto in un Paese come l’Italia alla quale si riconosce il pregio delle primizie e del professionismo agonistico. Sembra l’ennesima azione incoerente in cui si decide di evidenziare l’importanza di un aspetto non investendo però sulla sua asserzione.

Credo che l’esempio calzante possa essere l’estrema cura mediatica nella pubblicizzazione di cosmetici antietà, raggirando il mezzo principe rappresentato in questo caso dallo sport e dall’attività fisica in generale. L’evidenza è ancora la politica del tutto subito, si preferiscono gli effetti immediati a quelli duraturi nel tempo raggiunti con più difficoltà. La moda, in questo caso purtroppo, passerà e non a tutte le persone rimarrà il desiderio di quelle “camminate veloci” tanto utili alla sopravvivenza psico-fisica durante il lockdown, sarebbe vantaggioso quindi inserirlo tra gli elementi contenuti nel bicchiere mezzo pieno della pandemia.

Porre l’accento su alcune questioni piuttosto che altre è solo una scelta che, chi ci governa, decide di prendere. Sembra assurdo non accorgersi di quanto sia fondamentale orientare le persone verso uno stile di vita sano ed è masochista accorgersene e scegliere di non dargli importanza.

Sociologa Roberta Cavallaro (Socia ASI)


Un paese di anziani ha bisogno degli immigrati

di Nausica Sbarra

La pandemia ha sconvolto il nostro modo di vivere: sono crollate tutte le nostre certezze, le aspirazioni, i nostri progetti di vita esponendoci a forme di disperazione anomica. Sono stati persi posti di lavoro, aumentate le diseguaglianze e la rabbia sociale. Le misure, tanto necessarie quanto rigide, per contenere il contagio, soprattutto nella seconda ondata di pandemia, sono state al centro della tensione che ha visto protagonisti cassintegrati, precari, inoccupati, piccoli imprenditori, operatori turistici e del commercio, le partite iva, i servizi alla persona, il mondo della scuola, le forze sociali e imprenditoriali. Il tutto, grazie a Dio, senza scadere in esplosioni di violenze come avvenne in altre epoche storiche del nostro Paese.

<<== Nausica Sbarra

La ripartenza è una necessità globale anche perché il mondo si trova a dover affrontare la pericolosa situazione ambientale che sta provocando gravi e irreversibili danni al nostro pianeta.  In Italia, Governo e Parlamento hanno già predisposto e inviato all’UE il Pnrr che, in sintonia con l’Agenda 2030 dell’ONU, intende affrontare, con azioni specifiche lo stato di salute di Terra-Patria, oltre a un dettagliato piano di riforme, di semplificazione burocratica per attrarre investimenti stranieri. La ripresa non può, assolutamente, avvenire tra distingui, veti e prese di posizione, ma con la consapevole necessità di riprendere il discorso occupazionale/salariale e non certo continuare ad affidarsi a bonus e reddito di cittadinanza; occorre, dunque, programmare interventi di sviluppo in grado di coinvolgere soprattutto i giovani.

Una recente fotografia dell’Istat mette in evidenza l’invecchiamento dell’Italia con la diminuzione delle nascite. Il nostro è un Paese di vecchi che per ripartire e raggiungere gli obiettivi di sviluppo indicati nel Pnrr e nell’Agenda 2030 ha un urgente bisogno di guardare in modo diverso al bacino del Mediterraneo. In questa regione della terra le povertà sono aumentale al pari delle illusioni di libertà, di giustizia sociale, di conquiste democratiche sognate durante le “primavere arabe”. Queste popolazioni continuano a guardare all’Occidente come terra di salvezza, ma davanti al dramma di milioni di disperati l’Europa si è chiusa all’interno di egoismi nazionalisti lasciando alla sola Italia il peso dell’accoglienza. Neanche gli effetti nefasti della pandemia hanno contribuito a cambiare la strategia UE sulla distribuzione dei profughi che sbarcano sulle nostre coste. Il pressing di questi giorni del Presidente del Consiglio Mario Draghi è la continuazione di un braccio di ferro che dura ormai da anni.

“E’ il momento della vergogna” ha ammonito Papa Francesco lo scorso 25 aprile dicendosi addolorato per “la tragedia, che ancora una volta si è consumata nel Mediterraneo. Quei 130 migranti morti in mare – ha sottolineato il Pontefice – sono vite umane che per due giorni interi hanno implorato invano aiuto”. Questo tipo di tragedie, purtroppo, oggi fanno appena notizia: i giornali le trattano con un titolo a piè di pagina e le tv in modo freddo e distaccato e, pertanto, scompaiono dietro fumose barriere di ipocrisia e di indifferenza. Il mondo occidentale guarda i cadaveri che si inabissano nei fondali del Mare Nostrum senza provare più quel sentimento di indignazione che, negli ultimi anni, aveva alimentato la speranza del popolo degli immigrati alla ricerca di libertà, di democrazia e di nuove occasioni di riscatto socio-economico.  L’Europa dalla memoria corta continua a dimenticare che, tra ‘800 e il primo dopoguerra (secondo conflitto mondiale), oltre 50 milioni di persone hanno lasciato il loro territorio di origine per cercare fortuna oltre Oceano.

Oggi l’indifferenza non risparmia il nostro Paese e il suo il Mezzogiorno: storico bacino di braccia e orfano anche di cervelli costretti a mettere la loro professionalità a beneficio delle regioni del Nord e di altri centri di eccellenza sparsi nel mondo. Questa indifferenza fa a pugni con i propositi di educazione alla cittadinanza globale: cioè sviluppare un senso di appartenenza ad una comune umanità. E ciò attraverso l’acquisizione di conoscenze, analisi e pensiero critico sulle questioni globali: nazionali, regionali, locali per favorire l’interazione e l’interdipendenza tra popoli di cultura diversa   e di differente condizione socio-economica. In un mondo sempre più globalizzato continuano ad emergere istanze sul senso di appartenenza ad una comunità più ampia, ad un’umanità condivisa: fatta di interdipendenza politica, economica, sociale, culturale e intreccio fra il locale, il nazionale e il globale. La grande rilevanza del progetto UNESCO appare quasi un’utopia in un mondo reale costretto a fare i conti con un sistema economico globalizzato, che – per quanto in affanno -rimane fonte inesauribile di ingiustizie, discriminazioni, nuove povertà, diritti negati.

Tutti noi siamo cittadini di un pianeta svilito e stretto tra interessi locali e poteri globali. Ciò significa che mentre la politica rimane locale, il potere economico non lo è più: con la prima ridotta ormai in stato di subalternità al capitalismo finanziario libero di muoversi a suo piacimento. Si consolida cosi un potere che rimane al di fuori del controllo politico, di quella rete sociale piena di buchi dove diventano liquide le conquiste sociali che si erano solidificate durante gran parte del Secolo breve.   Nella mia quotidianità sindacale sono presenti anche immigrati che operano all’interno della Cisl. Un impegno di grande dignità, il loro: ricco di esperienza e di cultura che li aiuta nel confronto e nello scambio culturale. Vorremmo fare di più per partecipare da attori sociali al dibattito sulle questioni globali contemporanee.  Fino ad oggi le risorse statali sono state esigue, ma confidiamo nel Pnrr per invertire la tendenza.            

L’immigrato è un cittadino del mondo.  Ma non la pensano così molti paesi dell’Ue, i cui egoismi tendono a negare l’amara realtà della crisi migratoria che ci rivela l’attuale stato del mondo e il destino comune dei suoi abitanti. Quali che siano le differenze culturali, sociali ed economiche occorre progettare una via maestra per agevolare una convivenza pacifica e vantaggiosa per tutti: collaborativa e solidale. Non ci sono alternative praticabili. L’europeizzazione della questione migratoria non sembra avere successo. Di contro, l’Italia continua a subire una vera a propria invasione che ha scatenato la dura reazione di forze politiche dall’anima nazionalista la cui propaganda contro il nemico straniero, quello che “ruba” (tra virgolate) il lavoro agli italiani, ha sferrato un forte attacco ai sentimenti della solidarietà e dell’accoglienza.

Non possiamo sottacere su certe bugie e affermiamo che se molti comparti produttivi – penso all’agricoltura e ai settori meno qualificati dell’edilizia – non si sono fermati solo grazie alla manodopera extracomunitaria. Certo tra quanti sono sbarcati e continuano ad approdare sulle nostre coste, in particolare a Lampedusa, troviamo anche persone poco raccomandabili. Il mantra continua ad essere “la sicurezza dei confini dell’Unione”, come se migliaia di disperati fossero nostri nemici, e i corpi di bambini finiti sulle spiagge piene di turisti l’effetto di un colpo di sole o un incubo notturno.  Quanti gli attacchi di “panico morale” abbiamo subito negli ultimi anni dalla cultura dell’Io che vede nell’altro, quello che fugge da guerre, persecuzione e mancanza di democrazia, un demone da scacciare e non già un nostro simile da accogliere, aiutare.

I migranti – come ho avuto modo di sottolineare in altre circostanze – possono diventare una risorsa. La mia non è un’utopia: basta ritrovare gli anticorpi della tolleranza e della solidarietà. Per questo abbiamo bisogno di laboratori sociali: innanzitutto la scuola, luogo dove noi tutti dobbiamo spenderci per inculcare il concetto di cittadinanza globale. Un traguardo assolutamente da raggiungere, anche con l’aiuto di milioni di immigrati che, nonostante vivono in Italia da decenni, stentano ad integrarsi perché ci limitiamo a guardarli da dietro i vetri delle nostre case; perché noi, assolutamente, riteniamo di non poterci confondere con loro.  

L’Italia della ricostruzione post Covid, lo ribadisco, ha bisogno anche degli immigrati: quelli già residenti e quanti entreranno nel nostro paese con un Piano che l’Europa ha il dovere di varare per non lasciarci soli in balia di immigrazioni non contingentate. Il Pnrr, gli interventi di transizione ecologica, l’agenda 2030 ONU hanno bisogno di particolare manodopera assente sul nostro mercato del lavoro. E per reclutarla potranno rivolgersi agli stati che si affacciano sul Mediterraneo attraverso accordi di cooperazione. Perché se i vecchi aumentano e i giovani lasciano questa terra, il futuro dell’Italia appare irrimediabilmente segnato.


Emergenza educativa e crisi dell’istituzione familiare nella liquidità dei processi della digital age

di Luca Raspi

Educazione e famiglia: un binomio umano

Quando si parla di educazione si fa riferimento ad una realtà di complessa definizione.

<< == Prof. Luca Raspi

Lo stesso potenziale semantico del termine rimanda ad una stratificazione concettuale, che storicamente evoca sia il processo di crescita, apprendimento, formazione, istruzione e socializzazione di un soggetto, sia gli ambienti strutturali ed istituzionali quali la famiglia, la scuola e le più svariate tipologie di gruppi: «Nell’uso quotidiano, quando si parla di educazione, s’intende anzitutto una particolare attività umana, connessa a determinate figure e ruoli particolari, come genitori, maestri, insegnanti, sacerdoti, istitutori, educatori all’interno di un rapporto interpersonale particolare, e rivolta a nutrire, curare, formare individui della generazione in crescita» (1).

L’educazione è qualcosa di prettamente umano, non consiste nel mero allevare, ma si dà come un sapere che consente ad una persona in crescita di poter essere pienamente inserito nel consorzio umano in cui si trova a vivere: «L’uomo ha prodotto una serie di conoscenze tramandabili per rispondere alle esigenze esistenziali legate alla crescita ed alla vita sociale e si è prodigato affinché quanto conquistato restasse vivo grazie alle dinamiche relazionali che legano gli individui nei complessi intrecci sociali. Questo agire non deve essere pensato in modo meccanicistico, ma come impegno dell’adulto nei confronti del giovane per aiutarlo a tirare fuori le proprie capacità, sostenendo una configurazione positiva dei propri talenti in fase di sviluppo. In questa logica di trasmissione del sapere acquisito, egli va oltre il mero allevamento dei suoi figli e, donando loro un bagaglio esperienziale frutto dell’elaborazione intellettuale, si impegna a far sì che venga appreso dai più giovani» (2).


Il sapere fondamentale che un soggetto in crescita riceve avviene nell’ambito familiare. La famiglia è la struttura fondamentale in cui la persona si struttura ed apprende gli elementi essenziali per porre in essere le condizioni necessarie della convivenza sociale. Si tratta del nucleo primario in cui l’esperienza di vita con l’altro è palestra per conoscere l’esserci nel gruppo. È il trampolino di lancio che precede l’inserimento nelle strutture istituzionali ed in senso più ampio nella società. La famiglia risulta, pertanto, la prima comunità umana, in cui la persona impara a vivere la relazione con i suoi simili. Nonostante i cambiamenti che le diverse epoche hanno caratterizzato questa istituzione, cellula del corpo sociale, essa è, comunque, ancor oggi costituita da un insieme più o meno ampio di persone unite fra loro da un rapporto di vita in comune, di parentela, di legami affettivi.

Uno sguardo alla contemporaneità tra emergenza educativa e crisi della genitorialità

Non cessa di essere l’elemento fondamentale di ogni società, essendo intrinsecamente tesa, nella sua propria dinaminicità, alla continuazione della vita della specie. La famiglia satura pertanto il fine biologico della perpetrazione del genere umano. Dal punto di vista antropologico e sociologico, si definisce come compagine di individui che condividono non solo uno spazio abitativo, ma che anche contribuiscono al proprio sostentamento economico e alla trasmissione dei saperi fondamentali della convivenza tra simili alla prole. È, quindi, produttrice di reddito e di consumi, luogo in cui prendono forma gli affetti fondamentali della persona e, non in ultimo, fulcro dell’educazione di base per i figli. Educazione e famiglia sono, dunque, intimamente connessi, tanto che l’attuale crisi educativa, di cui si è largamente parlato nell’ambito delle scienze umane, pare si sia mossa tout court con la crisi della famiglia.

All’inizio di questo nuovo millennio si è cominciato a parlare di emergenza educativa. A distanza di vent’anni l’emergenza ha assunto i tratti di una crisi, che può essere riletta a livello fenomenologico in una prospettiva di impasse, in cui pare essere emersa una nuova visione dell’educazione destrutturata e in continuo divenire. Si tratta di una visione che non ha un riferimento teoretico alle spalle, ma un insieme confuso di prassi che rispecchiano l’attuale società, che Bauman definì liquida. Una società questa che è in continuo divenire: la realtà muta prima ancora di essere esperita e di essere compresa e, mentre le antropologiche certezze acquisite nel corso della storia occidentale si sono frantumate e non hanno più assunto una solida ossatura, l’uomo vive in un ambiente saturo di informazioni smarrito dall’assenza di punti di riferimento etici.

Oggi si vive nel digitale e si respira la Rete senza sosta, non esiste più un tempo on line e off line, ma si è immersi nell’on-life, dove tutto è informazione: «Non ha più senso chiedere “sei online?” a una persona che ha uno smart phone in tasca, magari uno smart watch al polso, mentre sta parlando con noi attraverso il Bluetooth della propria autovettura, seguendo le istruzioni del navigatore per districarsi nelle strade di Roma»(3). Il terzo millennio ha dato vita ad una cultura liquida, basata su informazioni e procedure algoritmiche che hanno reso il sapere come un fluido che è impossibile afferrare, capace di infiltrarsi o scorrere ovunque, potenzialmente in grado di occupare tutti gli spazi oppure scorrere via lasciando il nulla, rendendolo, pertanto privo di ogni intenzionalità paidetica. L’intricata matassa di problematiche, che l’attuale cultura pone all’educazione, investe ogni agenzia educativa e tocca anzitutto la famiglia. Resta il fatto che la famiglia non è avulsa dal tempo e dallo spazio e anch’essa ha subito delle rapide trasformazioni: oggi non esiste più una definizione condivisa di che cosa sia famiglia.


Questa istituzione negli ultimi anni è stata soggetta a diversi cambiamenti rintracciabili in quell’assenza di stabilità dettata dall’onlife e dalla liquidità che lo sostanzia. Essa attualmente sussume una svariata gamma di possibili relazioni, spesso molto diverse, che pongono in essere complesse variabili sia della genitorialità che dell’educazione. In questa situazione in cui nulla è più per sempre ed ha carattere di solidità, si aggiunge la precarietà stessa della famiglia, in cui tutto è misurato sul qui ed ora emotivo: «La vita di coppia e la vita in famiglia sono buone se mi fanno star bene emotivamente. Il partner ideale è quello che soddisfa i miei bisogni emotivi»(4). I genitori di oggi, appartenenti alla Generazione X o ai Millenials tendono ad esprime nel proprio impegno educativo comportamenti dicotomici. Questi comportamenti si esprimono da una parte in cure affettuose e premurose e d’altra parte con atteggiamenti di distrazione e distanza.

I genitori di oggi sono molto affettuosi ed attenti ai bisogni emotivi dei figli, travisando spesso l’affetto in una sconfinata permissività, che annienta la capacità autonoma del soggetto in crescita di riconoscere i propri bisogni e di darsi i propri permessi. Nell’adolescenza i figli vogliono sentire i propri bisogni e non accettano più anticipazioni da parte dei genitori, così che la relazione educativa salta ed il dialogo scompare, spesso venendo affidato ad un messaggio istantaneo in rete. I genitori si ritrovano così smarriti e mettono da parte la loro pretesa educativa, lasciando i figli orfani dei primi educatori, e affidano ad altre agenzie educative il compito di formare i loro figli.


l contributo della sociologia dell’educazione per possibili prospettive future

Il quadro contemporaneo ci restituisce un’istantanea in cui la famiglia appare sempre di più in difficoltà e priva della propria prerogativa educativa, una peculiarità questa che la dovrebbe sostanziare in quell’essenza istituzionale che naturalmente le compete. In questo quadro può risultare importante l’apporto che può offrire la sociologia dell’educazione, poiché pone il suo fulcro di ricerca intorno al processo di socializzazione-educazione,attraverso il quale una società trasmette la propria cultura ai giovani, la fa loro interiorizzare e li aiuta a inserirsi nei gruppi e nelle istituzioni: «La sociologia dell’educazione accosta questo immenso campo di studio che interessa tutte le scienze dell’educazione secondo un’ottica specifica che è appunto quella sociologica. in altre parole tale approccio descrive e interpreta i comportamenti educativi in quanto uniformizzati e partecipati, cioè in quanto si ripetono con le stesse caratteristiche nel tempo e nello spazio; si può anche dire che essa si oc- cupa dei condizionamenti non individuali e degli effetti di vasto raggio che si riscontrano nel sistema sociale» (5).


Lo studio dei comportamenti sociali in ambito educativo, che in questa sede sono stati focalizzati sul ruolo sociale ed educativo della famiglia, non si può fermare solo alla ricerca ed alla constatazione del dato, ma è chiamata a fornire strumenti di riflessione per comprendere meglio la realtà e per offrire piste di impegno concreto per superare quegli elementi di difficoltà che segnano la contemporaneità.In questo orizzonte si passa dalla ricerca all’azione, offrendo contributi scientificamente fondati, mettendo in sordina opinioni distorte dal senso comune, al fine di fornire itinerari di senso alla sfida educativa che coinvolge la famiglia contemporanea nella sua fragilità.

Quale prospettiva si potrebbe delineare per aiutare i genitori a riscoprire il loro ruolo di educatori? Non è facile trovare una soluzione a questa importante domanda. Certo è che occorre prospettare un superamento della liquidità del tessuto familiare. Occorre riscoprire a livello culturale e sociale le potenzialità interne e conseguentemente esterne di una famiglia capace di ritrovare le sue profonde radici. Con ciò, si rende necessario che coloro i quali operano nell’arduo campo dell’educazione ritrovino un impegno condiviso, non solo per orientare le dinamiche sociali alla luce di un solido paradigma valoriale fondato sulla dignità della persona umana, ma anche per valorizzare la soggettività della famiglia e la sua capacità di essere la cellula vitale della società, fonte primaria dell’educazione.

NOTE:

[1] P. Gianola, Educazione, in J.M. Prezzello, G. Malizia, C. Nanni, Dizionario di scienze dell’educazione, LAS, Roma 2008, p. 370.

[2] L. Raspi, Educazione, Pedagogia e Irc, in L. Raspi (ed.), Pedagogia e didattica dell’insegnare religione, San Paolo, Milano 2020, p. 13.

[3] L. Floridi, L’era dell’Iperstoria, in https://tlon.it/luciano-floridi-lera-delliperstoria/

[4] P. Benanti, Digital age, San Paolo, Cinisello Balsamo 2020, p. 153.

[5] G. Malizia, Sociologia dell’educazione e della formazione, CNOS-FAP (Centro Nazionale Opere Salesiane – Formazione Aggiornamento Professionale), Roma 2012, p. 6.


IL DANNO ENDOFAMILIARE: CONDANNATO IL PADRE CHE ABBANDONA I FIGLI ADOTTIVI

di Martina Grassini

L’”illecito endofamiliare” si riferisce alle violazioni cha avvengono all’interno del nucleo familiare e che possono verificarsi, dunque, sia nel rapporto tra coniugi, sia tra i figli e i genitori.

<<=== avv. Martina Grassini

La Cassazione, con sentenza n. 9188/2021, ha riconosciuto ai figli adottivi il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente ad un illecito endofamiliare da parte del padre. Nel caso di specie il risarcimento viene determinato dalle condotte del padre che, responsabile della crisi coniugale, per le modalità “traumatiche” della rottura ha determinato una condizione di senso di abbandono dei figli adottivi, maggiormente fragili in quanto già segnati da un abbandono originario.

Il padre, infatti, a seguito della separazione dalla moglie, si allontanava geograficamente, trasferendosi in un’altra città ed ivi formando una nuova famiglia, facendo in tal modo mancare la figura genitoriale paterna ai figli adottivi. I Giudici, nel condannare l’uomo, rilevavano come tali condotte del padre avessero “riacutizzato nei minori il trauma dell’abbandono ponendo a grave rischio il loro futuro equilibrato sviluppo”.

Pertanto, nel caso in esame, il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale è connesso e conseguente alla lesione del diritto dei figli di essere cresciuti e da entrambi i genitori e dalla sofferenza causata dall’assenza del padre.



Tutto crolla affinché nulla cambi

di Emilia Urso Anfuso

Tomasi di Lampedusa, nel suo “Il Gattopardo” mise in bocca al personaggio di Tancredi, nipote del principe di Salina: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. Questa frase ha un chiaro significato: affinché il potere resti al suo posto, deve essere in grado di far pensare di adattarsi ai cambiamenti, anzi, di sostenerli.

dott/ssa Emilia Urso Anfuso ==>>

È ciò che avviene da molto tempo in Italia, anche se nel corso degli ultimi anni qualcosa è cambiato, o meglio, qualcosa di nuovo sembrava essere arrivati per cambiare. In realtà, l’ennesima rappresentazione del cambiamento serviva solo a calmare acque agitate, a metter buoni i cittadini, a sedare focolai di rabbia popolare.

L’avvento del M5S a molti fece sperare che la propagandata “Aria del cambiamento” avrebbe prodotto un reale ribaltamento della situazione politica, ritenuta – da molti elettori – ormai giunta a un insano distacco dalle esigenze della popolazione, e a un famelico attaccamento a poltrone, potere e denaro.

Al grido di “Apriremo il Parlamento come una scatola di sardine” i cinque stelle sedettero ai posti di comando per restarvi stabilmente incollati. Mentre il sistema Italia continuava a traballare, mentre le finanze nazionali invece di essere razionalizzate continuavano a essere sperperate e redistribuite in nuovi rivoli mai dedicati alle esigenze della popolazione meno ingente, si maturava l’idea che, prima o poi, il cambiamento promesso sarebbe giunto. “Diamogli tempo” e “Fateli lavorare” sono state le frasi di sottofondo di un periodo storico segnato da scaldali, omissioni, mala gestione della cosa pubblica,  misure scopiazzate da altre nazioni – come il reddito di cittadinanza – e adesione totale a quella politica che a parole dicevano di voler ribaltare.

Nel frattempo, però, l’Italia che già necessitava di robuste inoculazioni di consolidamento dei vari settori socio economici, crollava miseramente sotto il solito peso: quello della bulimia di potere. Unico elemento certo e stabile nella storia della Repubblica italiana.

Oggi, a fronte di una situazione resa anche schizofrenica dall’avvento dell’emergenza sanitaria, tutto sta crollando e nulla fa pensare a un risorgimento del sistema, sia esso politico, economico, sociale o strutturale.

È sufficiente verificare come ci siamo ridotti con l’obbligo della richiesta di prestiti che ci arriveranno dalla UE, e che ripagheremo con la cancellazione di garanzie di futuro, di diritti e di certezze. Le famose “riforme” non ammoderneranno il sistema paese, perché saranno atte solo a privare gli onesti cittadini di quelle conquiste civili collezionate nel corso dei secoli.

Che tutto crolli affinché nulla cambi. È questa la strategia messa in atto in questo terzo millennio che doveva rappresentare l’era della modernità, e ci ha invece riportati indietro di qualche secolo. D’altronde, in un paese come il nostro, sconquassato da decenni di mala politica e mala amministrazione, è bastata una spolverata di prospettiva di poter morire anzitempo a causa di un virus per tacitare qualsiasi velleità di rivolta contro un potere ormai smisurato. Tutto passa in secondo e terzo piano, se il rischio prioritario non è più quello di non avere diritti civili, bensì quello di ritrovarsi con un tubo ficcato in gola e lo spauracchio di non svegliarsi dalla sedazione farmacologica.

Qualcuno potrebbe dire: al primo posto la salute! Si, certo. Peccato che per anni si è perso tempo a colpevolizzare i governi precedenti, le amministrazioni precedenti, le corruzioni precedenti, in un infinito scarica barile che, oggi, ci fa subire la scarsità di posti letto negli ospedali, l’impossibilità di ottenere una cura a una malattia ancora per certi versi oscura, e una nazione che crolla a pezzi, un’infrastruttura dopo l’altra, perché tanto al nulla del sistema di gestione del paese eravamo abbastanza abituati.

È all’abitudine che bisognerebbe dar battaglia in questo paese popolato da persone di scarsa memoria, ma forse ogni singolo cittadino ritiene di averne in abbondanza per rammentare ciò che è prioritario per se stesso. La coesione scarseggia anch’essa, come la coerenza.


L’Italia di oggi tra sicilianizzazione e messicanizzazione

di Emilia Urso Anfuso

Leonardo Sciascia, negli anni ’60, previde una “sicilianizzazione” dell’Italia. Detto da lui, siciliano doc, non si può certo avventarsi contro la dichiarazione.

Cosa intendeva il grande scrittore siciliano? Esattamente ciò che passa per la mente leggendo il termine: considerò che i metodi clientelari, ma anche legati a un sistema mafioso che fa parte del tessuto regionale siculo, col passare del tempo sarebbero stati sdoganati nel resto d’Italia.

<< == dott./ssa Emilia Urso Anfuso

Previsione azzeccata. In mezzo secolo di storia l’Italia si è sicilianizzata. La politica ha perso il lume della ragione, complice un periodo storico – che faccio risalire ai “dorati anni ‘80” – che servì da aperitivo di apertura per un pranzo assai poco digeribile: l’avvento di una crisi che, oggi, si pensa essere scoppiata nel 2008 ma che ha radici più antiche.

Gli anni ’90 non furono la continuazione del decennio precedente, pervaso da un senso di pseudo benessere. Gli ’80 furono solo una pausa doverosa tra il periodo di boom economico degli anni ’60 – che seguì al lungo trascorso di miseria post bellica – e la guerra civile degli anni ’70. La vera crisi iniziò negli anni ’90, con la popolazione schiavizzata attraverso le predazioni economiche (non dimenticate mai il governo Amato del ’92), e da un sistema burocratico paradossale che è servito a contribuire alla sicilianizzazione: se, per fare un esempio, un contribuente deve diventar pazzo per ottenere la licenza per un esercizio commerciale, si fa prima a proporre una serie di mazzette a chi di dovere, ed ecco che le pratiche si velocizzano…

Purtroppo, quando fai assimilare a una popolazione la sensazione che tutto vada bene, che ci sono ricchezza e opportunità per tutti, sono necessari anni affinché la gente apra gli occhi e si accorga che la situazione si è ribaltata. Va anche detto che nel DNA dell’italiano medio alberga un elemento: quello che gli fa voltare sempre la testa dal lato opposto alla realtà delle cose. Sognatori, che divengono vittime di se stessi.

Tornando a Sciascia, è meritevole la lucidità con cui riuscì – in tempi non sospetti – a comprendere verso dove si stesse andando. Leggete questo passo, tratto dal libro “Il giorno della civetta” pubblicato con Enaudi nel 1961: “Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno… La linea della palma… Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma”…

Ed è già oltre Roma…

In tempi più recenti qualcuno ha iniziato a usare un altro termine che ha, però, il medesimo significato: messicanizzazione. Uno dei personaggi che con maggior frequenza lo utilizza è l’economista Alberto Forchielli, un caro amico di cui ho delineato il ritratto in questo articolo pubblicato su Libero.

Non cambia il senso delle cose: il Messico è tra le nazioni col più alto livello di delinquenza e corruzione. Tutto o quasi passa attraverso il potente locale. La popolazione ne è schiava, perché dove alberga il caos in seno alla politica, non si può far altro che rivolgersi a chi ne prende il posto a livello territoriale.

I politici sono ormai bulimici di potere e denaro. Tutto diviene fonte di potere e denaro: il crollo di un ponte con tanto di vittime, uno stato di emergenza, la costruzione di uno stadio, un terremoto…

I passaggi sono sempre gli stessi: i poteri in deroga, che cancellano di colpo gli obblighi normativi vigenti e permettono di accedere ai fondi del Tesoro senza doverne spiegare il motivo. Un caso per tutti: il post sisma in Abruzzo del 2009. Attraverso i “poteri in deroga” il governo in carica ebbe libero accesso al denaro pubblico, che fu sperperato in migliaia di rivoli, con motivazioni spesso private.

Poi ci sono gli appalti, che non saranno mai concessi alle aziende sane, perché a controllare e gestire ci sono le organizzazioni malavitose che si dividono questa larga fetta di economia nazionale.

E i cittadini? Soccombono. Non possono fare altro perché non vogliono fare altro. In qualche modo si torna in Sicilia, stavolta però devo citare Tomasi di Lampedusa, che in una parte del suo “Gattopardo” fece dire a Tancredi, nipote del Principe di Salina, la famosa frase: “Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica in quattro e quattr’otto. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.

Non a caso, Giuseppe Tomasi di Lampedusa era siciliano…


La banalità del mediocre, alcune riflessioni

di Davide Costa

Sono passati diversi anni da quando la filosofa, Hannah Arendt, pubblicò La banalità del male(1) , eppure la forza di alcune sue considerazioni, non ha affatto perso il suo smalto.

<<== dott. Davide Costa Sociologo


Il titolo dell’opera fa, per così dire, da corollario di un vero e proprio paradigma, ossia una lente secondo la quale il male è così connaturato nella società, tanto da essere banale, scontato, ineliminabile, andando ben oltre la mera ipostatizzazione filosofica. Al di là del bene e del male, oggi più di ieri, e forse ancora di più , domani, vi è una nuova(poi non così tanto) forma di banalità, la banalità del mediocre.


Ora la nozione mediocre trova la sua origine, in termini sociologici, nelle cosiddette norme statistiche, ossia strumenti per i quali viene considerato normale ciò che si verifica con una certa frequenza, o più semplicemente, in media. Ciò che è mediamente presente, però, non è necessariamente esaltante e produttivo, eppure è sempre più naturale che tutto sia nella media, al punto tale che il mediocre diventa il genio e il genio viene escluso.
Si tratta di un meccanismo ormai endemico e cronico, che trova il suo locus originario nel concetto di naturalizzazione (2) da parte dell’ordine culturale; la naturalizzazione, così, non solo fa in modo che sia accettabile, ma soprattutto si avvale di un processo, che in realtà è il fondamento dell’accettazione, ossia il nascondimento dell’origine meramente convenzionale della banalità, per farla, invece, inquadrare come normale, naturale.


Così l’ordinario diventa straordinario, e l’eccezionalità scivola in spazi sempre più ristretti, poiché l’ordinario, il mediocre, il rutinario è sempre più obeso. Vi è, però, l’elemento genetico per eccellenza di questa banalizzazione naturalizzata del mediocre, ossia il senso comune, che possiamo definirlo come quel “(…)fondo di evidenze condivise da tutti che assicura, nei limiti di un universo sociale, un consenso primordiale sul senso del mondo, un insieme di luoghi comuni(in senso ampio) tacitamente accettati, che rendono possibili il confronto, il dialogo, la concorrenza, persino il conflitto.”(3) In questo modo, dunque, il mediocre, viene dato per ovvio, per scontato tanto che pur essendo un fatto sociale, ottiene “(…)la stessa ‘naturalità’ del fatto naturale”(4) .


Posta in questi termini la questione diventa annosa, perché? Per via del fatto che la forza del senso comune e del rendere l’ordinario straordinario comporta due conseguenze fondamentali:
1) si riduce sensibilmente l’interesse verso il perseguimento di mete ambiziose, dal momento che i meccanismi imitativi verso la mediocrità sono particolarmente “virulenti”, cioè si trasmettono e replicano molto facilmente;
2) si verifica una sorta di meccanismo, che i sociologi della devianza di matrice integrazionista, definirebbero come l’esclusione dell’eccezione.
Si tratta, a dire il vero, di due problematiche interdipendenti ed interconnesse, poiché entrambe portano al medesimo esito: l’appiattimento presociale, ossia individuale, prima, e poi sociale e dunque collettivo, verso ogni forma di avanzamento o miglioramento.


Potrebbe essere questo il motivo per cui spopolano gli influencer a vantaggio di una buona lezione o lettura di discipline teoretico-riflessive.
La mediocrità è più accessibile, è alla portata di tutti, non richiede sforzi, anzi, è free e light. Heidegger, con la sua filosofia, che ci permettiamo di definire, sociologicamente orientata, ha definito con molta lungimiranza questo topos, parlando del Si(Man) (5), come il luogo in cui “(…) Ogni primato è silenziosamente livellato. Ogni originalità è subito dissolta nel risaputo, ogni grande impresa diviene oggetto di transazione, ogni segreto per la sua forza. La cura della medietà rivela una nuova ed essenziale tendenza dell’Esserci(l’individuo): il livellamento di tutte le possibilità di essere”(6) . Il Si heideggeriano è il calderone della medietà e della mediocrità, che porta ad un’ulteriore patologia sociale, ovvero la deresponsabilizzazione (7), e con essa si perde la capacità di percepirsi parte di un noi in un luogo di io.

Così “(…) Ognuno è gli altri e nessuno è se stesso” (8) e ciò che governa ogni azione sono elementi non proprio vantaggiosi: la chiacchiera(gerede), la curiosità(neugier) è l’equivoco(zweideutigkeit) (9) .
• nella chiacchiera si altera il significato primo di ogni concetto e di ogni idea, tanto da rendere completamente diversa la semantica dei termini;
• nella curiosità l’elemento centrale è l’incapacità di riflettere profondamente, una sorta di iperattività basata sul pettegolezzo;
• con l’equivoco ci si convince che tutti possano fare tutto, e ognuno è il migliore, non del soggetto più prossimo di chiunque sia prima e dopo di lui.
Come sfondo a tutto ciò, però, vi è una situazione sociologicamente fondamentale, ovvero il dominio che la mediocrità e/o il Si mediano, rispetto all’eccezione, alla deviazione, al diverso.
Un rapporto di dominio, che in realtà, sottende e mostra, la prevalenza della cultura dominate o d’élite su quella minoritaria o marginale, che ricorre, però, alla cosiddetta violenza simbolica che possiamo definirla come “(…) quella coercizione che si istituisce solo per tramite dell’adesione che il dominato non può mancare di concedere al dominante(quindi al dominio) quando dispone per pensarlo e pensarsi(…) in altri termini quando gli schemi impiegati per percepirsi e valutarsi, o per percepire e valutare i dominanti(…)sono il prodotto delle classificazioni così naturalizzate, di cui il suo essere sociale è il prodotto” (10).

Questa forma di violenza, così, spiega il motivo per cui la mediocrità dilaga, mentre l’eccezionalità è destinata a nascondersi, a fingere di non esserci, per farsi notare di tanto in tanto.
Forse l’invito di Nietzsche per cui sia necessario rifugiarsi nella solitudine (11), potrebbe essere accattivante, ma ciò significherebbe rinunciare al vantaggio che l’eccezione, nonostante gli ostacoli che questa incontra, media: mettere in discussione tutto il sistema della banalità, dell’ordinario, per proporre lo straordinario, per cercare di stimolare l’uomo normale “(…)che non da fastidio a nessuno, che si adegua nelle conversazioni e che è accettato dal suo ambiente medio,(….)-un-individuo psicologicamente mediocre e sociologicamente iper-adattato nella civiltà della banalità,(…), pieno di “maschere mentali” per ogni occasione” (12).
Probabilmente dovremmo prendere esempio dalla nonna, il personaggio principale del film “Mine vaganti” di Ferzan Özpetek che si definisce “mina vagante” ed avere il coraggio che questo concetto sottende:
“La mina vagante se né andata, così mi chiamavate, pensando che non vi sentissi, ma le mine vaganti servono a portare il disordine a prendere le cose e a metterle in posti dove nessuno voleva farcele stare, a sgominare tutto, a cambiare i piani”.

NOTE:

[1] H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano, 1992

[2] M. Benedittis, Sociologia della cultura, Laterza, Roma-Bari, 2013

[3 P. Bourdieu, Mediazioni pascaline, Feltrinelli, Milano, 1998 p. 104

[4] P. Jedlowski, Il sapere dell’esperienza. Fra abitudine e il dubbio, Carocci Editore, Roma, p. 41

[5] M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 2007

[6] M. Heidegger, op. cit., pp158-159

[7] U. Pagano, L’uomo senza tempo, FrancoAngeli, Milano, 2011

[8] M. Heidegger, op. cit., p.160

[9] M. Heidegger, op. cit.

[10] P. Bourdieu, op. cit., p.179

[11] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Demetra, Firenze, 2017

[12] G. Cicchese e     G. Chimirri, Antropologia dei conflitti e relativismo morale, in Elementi di sociologia dei conflitti, a cura di B. M. Bilotta, Cedam, Milano, 2017, p. 209


La riforma della democrazia arriva dal basso

di Emilia Urso Anfuso

Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo. Ancora oggi molti affibbiano questa frase a Voltaire, ma è un errore tra i troppi che oggi si compiono, per ignoranza e superficialità. La frase è da attribuire alla scrittrice inglese Evelyn Beatrice Hall, che nel suo libro “The friends of Voltaire”, pubblicato nel 1906, commise una sorta di errore di cui poi si scusò: mise tra virgolette la famosa frase, che in tal modo fu attribuita a François-Marie Arouet, il cui  pseudonimo è Voltaire.

<< == dott./ssa Emilia Urso Anfuso

Oggi dovremmo vivere in una società moderna, ripulita dalle costrizioni del passato, dalle chiusure mentali derivanti, anche, da contesti storici in cui il diritto umano, o concetti quali la libertà di espressione e di pensiero erano impensabili. Invece ci ritroviamo immersi in un pantano soffocante, privati della libertà di esistere se solo ci azzardiamo a meditare sui fatti che accadono nel mondo attivando la capacità critica, divenuta ormai mercanzia rara.

Una sorta di riforma della democrazia è avvenuta senza scomodare costituzionalisti e parlamentari, perché è stata acclamata a maggioranza dal popolo, che diviene sovrano solo nel momento in cui la massa non riesce a progredire e preferisce condividere un pensiero unico, metodo assai più semplice e meno stancante del dover utilizzare i neuroni ed attivare le sinapsi.

Per avere una riprova di questo stato di cose oggi possiamo analizzare i comportamenti di un gran numero di persone grazie ai Social network. Guai a dissentire dalle convinzioni comuni e su qualsiasi tema. La calda e comoda cuccia del rigido pensare comune, dettato con metodi sapienti da chi governa il paese, è difficile da abbandonare per chi ha scarsa propensione alla curiosità, allo spirito critico, alla ricerca della verità.

Pensare pesa e stanca il cervello di chi ne è fornito in scarsa misura. Essere trainati dal mucchio salva non intende perder tempo a ragionare, analizzare e riflettere. Il pensiero comune è la cura all’ignoranza, all’incapacità di mettere insieme un ragionamento proprio. È l’espressione di un sistema che si riempie la bocca di frasi fatte, o dette da altri, che fanno scena e mettono a riposo la mente e la coscienza. Se diverremo tutti uguali, non sarà necessario combattere per un ideale diverso. Se ci omologheremo al pensiero comune, non avremo necessità di agire. Quanta pochezza in queste assolute convinzioni.

Oggi, se non vuoi rischiare l’emarginazione – seppur in forma virtuale – dalla società civile, devi evitare di esprimerti liberamente, devi evitare di regalare le tue riflessioni attente e meditate ai cittadini di maggioranza, che possono “democraticamente” disattivarti dal mondo parallelo sul web chiedendo la tua estromissione, temporanea o perenne, dai Social network. Che puntualmente approvano l’istanza.

Parallelamente, chi gestisce questi contenitori virtuali di varia umanità, non procedono mai contro i violenti, contro chi ingiuria pubblicamente, contro chi non permette la libera espressione del pensiero. Il popolo della maggioranza, composto da quelli che hanno il coltello dalla parte del manico per il fatto di pensare poco con la loro testa e quindi sono elementi perfetti in un sistema imperfetto, ha vinto. Non sanno di aver vinto contro se stessi. Per costoro l’importante è stare dalla parte della maggioranza, senza mai chiedersi se stanno dalla parte giusta.


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