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LA MORTE, LA SALUTE, LA MALATTIA E LA QUALITÀ DI VITA

di Simonetta Vernocchi

La morte e il lutto

L’educazione alla morte deve far parte «della educazione» e non demanderei alla scuola o ad altri un compito proprio della famiglia. Il compito di accompagnare la persona giunta al termine del proprio cammino non può essere solo una «mansione» sanitaria, ancor meno la missione del medico o dell’infermiere. Forse un tempo era il sacerdote a farsi carico del conforto del morente e del supporto alla famiglia, ma oggi non è più così.

<<== dott./ssa Simonetta Vernocchi

Aiutare nel bilancio di vita chi disperato si trova impreparato ad andarsene spetta davvero ai sanitari? E sostenere nel lutto la famiglia?

Personalmente lo vedo come un compito dei genitori quando educano i propri figli, della famiglia in toto di fronte ad un anziano o un malato, della Chiesa o per chi vede una vita oltre la morte, forse in parte anche della scuola.

E poi?

La sociologia, la psicologia e la filosofia devono avere come obiettivo anche quello di educare alla morte, ciascuna per la parte che compete.

Ciascuno dovrebbe imparare nel corso della vita ad accogliere la fine come parte del proprio percorso terreno, prepararsi alla morte. Invece si usano le perifrasi, è venuto a mancare, è dipartito, si è sottratto all’affetto dei suoi cari, è scomparso precocemente, è accaduto l’imprevedibile, è venuto meno e non si cita la parola morte.

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La vita umana ha un suo esordio ed una sua fine, e se la fine non avviene a causa di un trauma o di suicidio, avviene necessariamente per malattia: morire di malattia è un evento naturale. È la norma. Allora perché è così difficile parlarne? Spesso il medico è l’unico interlocutore per le persone giunte a fine vita, come se la morte altro non fosse che il fallimento della medicina, come fosse il risultato di un errore nel processo decisionale o terapeutico di qualcuno. La comunicazione con la persona morente e con la sua famiglia deve tener conto delle caratteristiche dell’individuo, della sua storia, del suo contesto sociale e colturale, dello stato emotivo, del bisogno di sapere o del rifiuto della verità che viene proposta.

Il lutto ha un valore personale nell’espressione del dolore, sociale nella condivisione dello stesso, talvolta agiamo il lutto anticipatorio per cercare di esorcizzare il dolore. E quando il dolore della perdita non se ne va? Anche dopo 30 o 40 anni ancora sembra riviverlo? Ecco il lutto patologico.

Trovare le parole giuste, il contesto contenitivo, l’empatia necessaria ci aiuta a svolgere al meglio uno dei compiti più importanti e difficili: aiutare a congedare i nostri cari da questo mondo, trovare un modo per sentirli comunque vicini, riuscire a voltare pagina.  La modalità di comunicazione “corretta” rispetto al lutto si può apprendere, sia facendo tesoro degli studi scientifici in materia, sia condividendo le proprie esperienze. In contesti particolari come i reparti di pediatria, neonatologia, ostetricia, o di area critica come terapia intensiva, pronto soccorso, la comunicazione della morte è più difficile perché la morte stessa qui davvero pare fuori luogo, non è mai attesa.

Di grande attualità sono i temi delle direttive anticipate e del testamento biologico, definendo le condizioni di malato terminale, di stato vegetativo, di stati di minima coscienza e la condizione definita locked-in syndrome si possono fare delle distinzioni e definire i campi di applicazione dell’eutanasia e della sospensione delle cure per astensione terapeutica. Consideriamo infine la condizione di malattia terminale oncologica piuttosto conosciuta e la non oncologica di fatto più frequente. In questo cammino di consapevolezza e di accompagnamento la figura del medico non può essere la sola, lo spazio per figure professionali della tradizione come l’infermiere, il sacerdote o lo psicologo sono gradite ma spesso poco reperibili. Figure nuove come il counselor socio-olistico possono essere preziose.

Definizione dello stato di salute e di qualità di vita

Se chiediamo ad un gruppo di studenti di una qualsiasi scuola superiore se hanno idea sia la salute tutti risponderanno di certo con una di queste definizioni: «l’assenza di malattia», «lo sta bene con sé stessi» «la capacità di adattarsi» e cosa sia la malattia lo si definisce in negativo. Nei libri di testo un po’ datati di scienze mediche troviamo definizioni simili un po’ più elaborate: «la mancanza di impedimenti alle funzioni dell’organismo o alla sua sopravvivenza», «salute come condizione o qualità dell’organismo umano che consente un funzionamento adeguato in date condizioni genetiche o ambientali», «capacità di efficiente esecuzione delle funzioni biologiche corporee, in una vasta gamma di condizioni ambientali mutevoli». La definizione di salute secondo la Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, 2004) stato di benessere in cui l’individuo indirizza le proprie abilità, è in grado di gestire le normali situazioni di stress, di lavorare produttivamente e fruttuosamente, e di dare un contributo alla propria comunità”. La parola malattia non viene neppure menzionata. La salute ha a che fare con il lavoro, con la produttività con la comunità.

La definizione di qualità di vita secondo la Organizzazione Mondiale della Sanità è stata messa a punto dal gruppo di studio definito WHOQOL o WHO Quality of Life nel 1995, come “la percezione da parte degli individui della posizione che occupano nella propria vita, all’interno della cultura e del sistema di valori in cui vivono, ed in relazione ai propri obiettivi, aspettative e parametri di riferimento ed interessi”. Anche per la qualità di vita non si parla di dolore, di sofferenza, di malattia, ma di valori, di cultura, di obiettivi. Queste sono sicuramente definizioni pre-pandemiche. Non possiamo non considerare il dolore, la morte, la malattia, la sofferenza e per contro tutto ciò che procura gioia, felicità, soddisfazione

Se chiediamo al solito gruppo di studenti di una scuola superiore cosa procura a loro gioia, felicità, soddisfazione risponderanno secondo le affermazioni riportate di seguito.

  • Star bene con sé stessi.
  • Successo sportivo.
  • Fare volontariato.
  • L’indipendenza.
  • Trovare l’anima gemella con cui condividere piccole gioie famigliari, fare focolare.
  • Acquisire autostima.
  • Riuscire ad avere anima e corpo indivisi.

Adulti, bambini e anziani valutano la qualità di vita in modo è diverso, negli anziani il dolore e la malattia occupano un posto abbastanza costante. Nell’anziano ammalato si parla di piccole gioie anche nella malattia, di riacquisire indipendenza, di essere nuovamente autonomo. Inoltre, il lutto e il distacco possono condizionare le condizioni di ciascuno. Nel post-covid ciascuno dovrebbe aver appreso la bellezza delle cose semplici, importanza del tempo.

La maggior parte delle persone, indipendentemente da età e sesso, identifica come stato di gioia, felicità le esperienze riportate di seguito.

  • Ritrovare, ricongiungersi con una persona cara dopo un certo tempo.
  • Le relazioni sessuali soddisfacenti danno sicuramente emozioni complesse: bramosia, desiderio, eccitazione fino al sollievo dopo l’orgasmo.
  • La nascita di un figlio che comprende: eccitazione, lo stupore, il sollievo, la gratitudine, la fierezza è considerata dai più la più grande gioia.
  • Lo stare insieme alla persona amata (partner).
  • Relazioni famigliari amorevoli (siano esse reali, ricordate, immaginate, sublimate).
  • Godere di salute buona ed assenza di dolore.

Strumenti di misurazione della qualità di vita e buona salute

I criteri dell’WHO Quality of Life, stabiliti dal gruppo di studio 1995 poi modificati nel 2010, per renderli più oggettivi ed applicabili a tutti gli individui, li ritroviamo anche nella «psicologia della salute» (La psicologia della salute Antonella delle Fave e Marta Bassi ed. Utet, 2013).

Tali criteri considerano una visione integrata (olistica) dell’individuo in cui lo stato di benessere, piuttosto che l’assenza o la presenza di malattia, è stimabile nei sei ambiti (definiti anche domini) di: salute fisica, area psicologica, indipendenza, relazioni sociali, ambiente, religione e credenze personali. Questi ambiti rappresentano un tentativo di misurazione transculturale della qualità della vita.

Dominio 1 Salute fisica
  Dolore e disagio
  Energia e stanchezza
  Sonno e riposo
Dominio 2 Area psicologica
  Sentimenti positivi
  Pensiero, apprendimento, memoria, concentrazione
  Autostima
  Immagine corporea ed aspetto fisico
  Sentimenti negativi
Dominio 3 Indipendenza
  Abilità della vita quotidiana
  Dipendenza da farmaci e trattamenti
  Capacità lavorativa
Dominio 4 Relazioni sociali
  Relazioni personali
  Sostegno sociale
  Attività sessuale
Dominio 5 Ambiente
  Senso di sicurezza e incolumità fisica
  Ambiente domestico
  Risorse finanziarie
  Assistenza sanitaria e sociale: disponibilità e qualità
  Opportunità di acquisire nuove conoscenze e abilità
  Partecipazione e nuove opportunità di ricreazione e di svago
  Ambiente fisico
  Trasporti
Dominio 6 Spiritualità, religione e credenze personali
  Senso di connessione con un essere o forza spirituali
  Significato della vita
  Reverenza suggestione
  Utilità e integrazione tra mente, corpo ed anima
  Forza spirituale
  Pace, serenità, armonia interiori
  Speranza ed ottimismo
  Fede
  Qualità di vita generale
Ad ogni dominio viene attribuito un punteggio  
La somma dei punteggi identifica lo stato di salute  

I risultati dell’applicazione di questa tabella hanno “limiti” dati dalle caratteristiche personali dell’individuo, in particolare il peso dell’esperienza religiosa che riesce a condizionare gli altri ambiti. Pertanto, nella valutazione dei risultati occorre specificare se si tratti di persona religiosa o meno.

Webinar dell’ ASI -Associazione Sociologi Italiani dello scorso 17 luglio 2021

Valutazioni e contenuti oggettivi e soggettivi

Nella valutazione della salute dell’individuo si devono distinguere criteri oggettivi intesi come salute fisica misurabile e soggettivi intesi come salute percepita dall’individuo circa il proprio stato. Si distingue anche un contenuto oggettivo ed uno soggettivo. Il contenuto oggettivo è misurabile e consiste nella diagnosi medica di patologia. Il contenuto soggettivo è la variabile di soddisfazione e di felicità di un individuo.

Se incrociamo i 4 criteri otteniamo una tabella

Contenuto Valutazione Valutazione
  Oggettiva Soggettiva
Oggettivo I II
Soggettivo III IV

I gruppo: contenuto oggettivo e valutazione oggettiva: valutiamo una persona sulla base del fatto che sia felice e con esami medici perfetti. Si sente felice, si sente bene ed oggettivamente si sente bene.

II gruppo: contenuto oggettivo, valutazione soggettiva: valutiamo una persona sana ma depressa. Gli esami medici non rilevano alcun problema fisico, né disturbo psichiatrico, ma la persona non è felice, si sente depressa. Certo chi ha subito un lutto, una perdita grave sia in termini di affetti, che di lavoro, o di altra delusione ha ragione di non essere felice, pur non soffrendo di alcuna patologia psichiatrica.

III gruppo: contenuto soggettivo e valutazione oggettiva: valutiamo la felicità di una popolazione in base al tasso di suicidio. È un dato significativo e difficilmente confutabile anche se in certi contesti può essere camuffato da incidente domestico per esempio. Nel «Health for the world’s adolescents» l’OMS evidenzia come nei giovani di tutto il mondo, di età compresa tra i 10 e i 19 anni, il suicidio sia la terza causa di morte dopo gli incidenti stradali e l’Aids. A livello mondiale si colloca fra le tre principali cause di morte per le persone di età compresa tra i 15 e i 44 anni e i tentativi di suicidio sono fino a 20 volte più frequenti dei suicidi effettivi e, se a quelli riusciti aggiungiamo i tentativi non riusciti, allora diventa la prima. Nelle nazioni industrializzate il suicidio arriva a essere la seconda o la terza causa di morte tra gli adolescenti e i giovani adulti.

IV gruppo: contenuto soggettivo e valutazione soggettiva: valutiamo la felicità con schede di autovalutazione. Sicuramente molto di questa indagine può essere manipolata o semplicemente può risentire del tipo di campione. Mi sembra quindi evidente che non è assolutamente facile né scontato utilizzare scale per valutare lo stato di salute di un individuo e molto in ogni caso, deve essere lasciato alla sensibilità del valutatore.

Diritto alla salute e diritto alle cure

Il diritto alla salute e la libertà di scelta terapeutica sono sanciti dall’art. 32 della Costituzione italiana:

«La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

Sorgono alcune domande che riportiamo di seguito. Il diritto è alla salute o il diritto è alla cura? E se la terapia fallisce, ho diritto al risarcimento? Posso imporre un trattamento sanitario obbligatorio? Posso imporre un accertamento sanitario obbligatorio? Negli intenti del legislatore questo articolo tutelava gli indigenti, mirava a fornire cure gratuite ed un livello minimo di assistenza. Oggi però abbiamo assistito ad un cambiamento: la salute è un diritto e la morte è il fallimento delle pratiche di cura. Si cerca immediatamente il colpevole.

Era prevenibile, era una morte evitabile? Chi ha sbagliato dovrà pagare! Certo siamo 7 miliardi, a tutti prima o poi toccherà di morire, nei prossimi 100 anni avremo 7 miliardi di morti, saranno 7 miliardi di errori medici? Di fallimenti terapeutici? Grazie alla pandemia abbiamo capito che se non proprio la morte, la malattia può colpire chiunque senza preavviso, ricchi, poveri, potenti, diseredati, colti, ignoranti, bimbi ed anziani, e proprio i detentori del «sapere medico» sono i primi ad andarsene, nonostante l’accesso alle migliori cure.

La pandemia ha messo a nudo i limiti del nostro sapere medico, ha mostrato che la cura del paziente è qualcosa di più e di differente rispetto alla semplice terapia farmacologica.

Ha evidenziato le fragilità del nostro sistema sanitario e ci ha obbligato ad operare scelte in aperta contraddizione con alcuni assiomi dell’articolo 32 della nostra costituzione: siamo stati privati della nostra libertà, siamo stati obbligati alle cure.

Credo che dovremo parlare di modalità di cure pre-pandemia e post-pandemia.

Modifichiamo il nostro approccio al paziente, cerchiamo di essere più umili e più disponibili al confronto.

Dott. Simonetta Vernocchi – Medico e Sociologa ASI


La teoria dei tratti intorno alla leadership

di Giovanni Pellegrino e Mariangela Mangieri

Non esiste alcun dubbio che il fenomeno più importante della dinamica di gruppo è la presenza in tutti i gruppi formali e informali di un leader. In questo articolo prenderemo in considerazione la teoria dei tratti, una delle teorie formulate per spiegare e comprendere il complicato fenomeno della leadership. Si può definire il leader in maniera molto sintetica dicendo che egli è la persona che esercita più influenza in un dato gruppo.  

<<== Prof. Giovanni Pellegrino       

            

La prima teoria dal punto di vista temporale formulata sulla leadership è proprio la teoria dei tratti.  I primi approcci teorici alla comprensione del fenomeno della leadership hanno tentato di evidenziare un insieme di caratteristiche della personalità che darebbero all’individuo la possibilità di diventare un leader. L’idea sottostante all’approccio ti tipo individualistico alla teori dei tratti  è che leader si nasce non si diventa, ovvero esistono degli individui che possiedono delle propensioni naturali ad esercitare il potere ai vari livelli. Tale idea dell’esistenza dei  leader naturali è talmente semplice e affascinante che ha da sempre avuto un notevole seguito e conserva anche oggi un certo fascino. Infatti basta leggere settimanali e quotidiani per cogliere sistematicamente dei riferimenti a qualche leader descritto come naturalmente portato al comando o dotato di carisma naturale. Il tentativo di spiegare il fenomeno della leadership in tale modo prende il nome di teoria dei tratti dal momento che cerca di individuare i tratti psicologici.

Gli psicologi sociali e i sociologi hanno elencato una lunga serie di caratteristiche psicologiche che dovrebbe possedere un individuo per diventare: l’intelligenza, l’intuizione, la socievolezza, l’abilità nell’influenzare il comportamento degli altri, la tanacia nel perseguimento degli obiettivi, la rapidità, l’originalità nel risolvere le situazioni problematiche nonché il desiderio di comandare. Anche se la teoria dei tratti ha avuto l’innegabile merito di mettere in evidenza che i leader devono avere una serie di caratteristiche psicologiche che li differenziano tra gli altri individui, presenta tuttavia alcuni punti deboli che ora metteremo in evidenza. La prima di tali debolezze è quella di prendere in considerazione solo uno degli elementi del processo della leadership, cioè il leader, tralasciando gli altri elementi di tale processo, ovvero i seguaci del leader e le situazioni sociali i contesti nei quali si afferma un deteminato leader. Dobbiamo mettere in evidenza che le caratteristiche dei potenziali seguaci del leader rivestono una grande importanza nel processo della leadership (ci riferiferiamo alle caratteristiche psicologiche e socioculturali degli individui).                      

Appare infatti evidente che un individuo può diventare leader di un gruppo solo se i tratti della sua personalità attirano l’ammirazione dei membri del gruppo. Supponiamo che le caratteristiche psicologiche dei membri del gruppo li rendano insensibili ai tratti che egli usa per conquistare la leadership, l’individuo in questione non diventerà mai leader del gruppo.Per fare un esempio ipotizziamo che un aspirante leader possieda tratti come l’intelligenza, la fiducia in se stesso e la capacità di influenzare gli altri ma non brilli nelle attività sportive. Ipotizziamo anche che i membri del gruppo siano fortemente attratti dalle attività sportive e di conseguenza siano portati ad idealizzare gli individui che brillano in tali attività.  Appare evidente che in questo caso le caratteristiche psicologiche dominanti dei membri del gruppo impediranno all’ aspirante leader di conquistare la leadership, dal momento che egli non brilla in quelle attività sportive che vengono idealizzate ed esaltate al massimon grado dai membri del gruppo in questione.                                             

 La teoria dei tratti sottovaluta anche l’importanza delle situazioni sociali nel processo della leadership, dal momento che persone che possiedono determinate qualità possono diventare leader in certe situazioni sociali ma non in altre. Prenderemo ora un esempio dalla storia contemporanea al fine di chiarire meglio tale concetto. Hitler riuscì a conquistare il potere in Germania e a spingere i tedeschi ad accettare la sua idea di sterminare gli ebrei non solamente perché aveva le caratteristiche del leader ma anche perché il popolo tedesco si trovava in una determinata situazione politica, economica e psicologica che facilitò notevolmente la conquista del potere da parte di Hitler.                                                                                                    

Non dobbiamo infatti dimenticare che la Germania è uscita sconfitta e umiliata dalla prima guerra mondiale e che si trovava in una situazione economica disastrosa ed inoltre veniva fuori dal fallimentare periodo della Repubblica di Weimar.Di conseguenza la grandissima maggioranza dei tedeschi aveva accumulato una fortissima dose di frustrazione e una notevole quantità di aggressività e di rabbia che aveva bisogno di scaricare su qualche capro espiatorio. Inoltre il popolo tedesco aveva una forte necessità di cancellare l’onta subita con la sconfitta nella prima guerra mondiale mettendo in atto una poitica estera fortemente imperialista al fine di tornare ad essere una potenza di livello mondiale. In una situazione storica e sociale di questo tipo Hitler apparve ai tedeschi il leader ideale per fare uscire la Germania da quella situazione frustrante in quanto praticò una politica estera estremamente imperialista che ridiede forza all’orgoglio nazionale tedesco ferito dalla sconfitta.                                                                                           

Hitler utilizzò l’ideologia della razza ariana per provocare una forte esaltazione del popolo tedesco e offrì un capro espiatorio sul quale scaricare le loro frustrazioni e la loro aggressività. Appare evidente ai sociologi e agli storici sociali che se la Germania non fosse uscita sconfitta dalla prima guerra mondiale e se i sentimenti dominanti nel popolo tedesco non fossero stati in quel periodo storico la rabbia, la frustrazione, il desiderio di vendetta nonché il desiderio di riacquistare potere a livello mondiale, Hitler non sarebbe mai riuscito a conquistare il potere. A maggior ragione Hitler non sarebbe mai riuscito a convincere la maggior parte del popolo tedsco a rendersi colpevole di crimini così abominevoli nei confronti degli ebrei.                                                                                                                                                               

In conclusione sebbene nessuno può negare che Hitler avesse i tratti psicologici del leader ed un forte carisma appare evidente che egli poteva diventare leader del popolo tedesco solamente in quella particolare situazione storica, sociologica psicologica.La forte frustrazione e l’altrettanta forte rabbia che dominavano incontrastate nel popolo tedesco in quel periodo storico causarono un’alterata percezione sociale collettiva della realtà che fece in modo che il popolo tedesco accettasse passivamente e con molto entusiasmo le deliranti e folli idee di Hitler a cominciare da quella che gli ebrei avevano ordito un complotto contro la Germania.  In questo modo noi possiamo spiegare perché un popolo come quello tedesco abbia potuto rendersi colpevole di tanti crimini nonostante si tratti di un popolo che ha rivestito un ruolo importantissimo a livello storico, scentifico e culturale come tutti quelli che conoscono la storia politica e la storia delle idee sanno benissimo.   Nella parte finale di quest’articolo prenderemo in considerazione un altro punto debole di fondamentale importanza della teoria dei tratti. Tale punto debole è rappresentato dal fatto che questa teoria non si interessa minimamente di studiare quali caratteristiche permettono ad un individuo che riesce a diventare leader di mantenere tale ruolo per molto tempo.                                                 

Gli studiosi che hanno messo in evidenza questo punto debole della teoria dei tratti affermano che una qualsiasi toria che si propone di fornire informazioni sul processo della teadership deve anche cercare di spiegare per quali motivi alcuni  leader conservano il potere per poco tempo mentre altri riescono a conservarlo per moltissimo tempo. In effetti dobbiamo dire che la teoria dei tratti non riesce a dare nessuna risposta a tale domanda di fondamentale importanza. A nostro avviso il fatto che la teoria dei tratti presenti i punti deboli che abbiamo messo in evidenza in tale articolo dipende dal fatto che essa trascura un dato oggettivo di fondamentale importanza e cioè che la leadership è un processo interattivo nel quale il leader non è l’unico attore.Proprio l’insoddisfazione derivante dai punti deboli presenti nella teoria dei tratti ha indotto gli studiosi ad elaborare altre teorie che fossero in grado di spiegare in maniera più soddisfacente il processo della leadership.  Appare quindi evidente che un processo sociale complicato come quello della leadership non può essere spiegato da un approccio unilaterale come quello proposto dalla teoria dei tratti.

Prof. Giovanni Pellegrino – Prof.ssa  Mariangela Mangieri                

                                                                 


La questione del branco di pecore

di Emilia Urso Anfuso

Bei tempi quando si dibatteva sulla questione morale. Certo, erano altri tempi, si respiravano ventate di vera politica, di cultura, di voglia di crescere, soprattutto parlo della popolazione. D’altronde se hai esempi eccellenti, teste piene di intelletto e non di scarne e sterili nozioni, come fai a non voler, almeno, somigliarvi un poco?

<<== dott./ssa Emilia Urso Anfuso

Eccoci qua, invece, a dibattere sul nulla, a contorcerci noi biechi intellettuali dell’era moderna, in infinite diatribe con eccellenti sconosciuti che, dalle loro postazioni di comando dietro ai PC di casa, in mutande o coi bigodini in testa, sciorinano corbellerie un tanto al chilo, certi di evidenziare un qualche neurone degno di nota.

La realtà, ovviamente, non è questa. Si è creata una società di sopiti neuronali grazie a una dirigenza presa un po’ ovunque. Il sistema del popolo al governo ha molto alimentato questo andazzo, ammettiamolo. Non che io sia contraria al popolo al governo, ci mancherebbe, ma se questo popolo mastica male persino la lingua madre, per non parlare di tutto il resto, allora siamo persi. Sotterrati sotto una coltre di ignoranza, che non sta facendo altro che alimentare false convinzioni, opinioni paradossali sventolate al pari del risultato di una ricerca degna di un Nobel.

Osservo basita l’andamento sociale, che invece di procedere verso il punto estremo di civilizzazione, si sta imbarbarendo, procedendo a passo di aragosta: all’indietro. Si tratta di un processo di involuzione sociale che, in special modo in questa nazione, afflitta dalla più alta percentuale di persone affette da analfabetismo funzionale, non è in grado di svilupparsi, migliorarsi, andare oltre il punto di massimo splendore di cui, ormai, non vediamo nemmeno gli ultimi brillii.

E quindi giù con l’incoerenza, con l’arroganza tipica di chi non sa ma pretende di insegnare a chi sa. Giù con la mancanza di rispetto nei confronti di chi passa la propria esistenza a studiare, e a pensare, anche per gli altri. E giù a sorbire inqualificabili srafalcioni, che non sono solo quelli – ormai tristemente troppo diffusi – compiuti contro la lingua madre, bensì di ragionamento, che non più sostenuto dalla razionalità e dalla coerenza, capacità tipiche delle persone fornite di intelletto, non permette alla maggioranza di questo paese di rendersi conto della realtà dei fatti.

Provo sgomento ogni qualvolta che, di fronte a dati concreti, a documenti ufficiali, a dichiarazioni realmente rilasciate da questo o quel politico, ricercatore, scienziato, o immunologo, che confermano alcune questioni legate all’avvento del SarsCov2 e alle teorie relative ai farmaci che in questo momento storico sono propinati in massa per tentare di combattere gli effetti della malattia, o della contagiosità, si battano strenuamente persino contro costoro. Non si rendono conto, gli ignoranti, di non essere  in grado di decodificare ciò che leggono o ascoltano. Acciecati dalla paura, che fa sempre 90, non si tratta nemmeno più del livello sociale o culturale di cui fai parte. Quando ti mettono in testa che il tuo cervello, al massimo, funziona al 20% delle sue capacità, e si continua a dirlo come un mantra, evidentemente alle persone incapaci di uscire dal branco fa meno paura di utilizzare al massimo della loro potenza, quelle meravigliose cose che sono i neuroni.

Buona fortuna a tutti. La questione del branco di pecore ha sovrastato, di molto, quella morale.


LA TEORIA SITUAZIONISTA SULLA LEADERSHIP

di Giovanni Pellegrino

In quest’articolo prenderemo in considerazione la teoria situazionista intorno alla leadership, una delle teorie formulate per cercare di comprendere il complesso e affascinante fenomeno della leadership.

<< == Prof. Giovanni Pellegrino

Anche questo approccio allo studio della leadership  nasce per superare i limiti della teoria dei tratti psicologici, la prima teoria formulata per comprendere la leadership. Mentre tale teoria cercava di stabilire quali dovessero essere i tratti psicologici di un leader ,non attribuendo nessuna importanza alle situazioni sociali ,nelle quali si trovava ad agire una persona che voleva diventare  leader .  La teoria situazionista partiva da un diverso presupposto.

Tale teoria cerca di definire che cosa venga richiesto ad un leader per ottenere la leadership  nella situazione sociale nella quale egli si trova ad agire. In sintesi il problema non è quello di accertare quali tratti psicologici deve possedere un leader , ma quali sono le caratteristiche che una ben determinata situazione sociale richiede ad un  individuo che vuole  diventare leader  in tale situazione sociale. Per dirla in altro modo mentre nella teoria dei tratti l’attenzione degli studiosi era concentrata sulla persona del leader , nella teoria situazionista l’attenzione degli studiosi si concentra sulle circostanze ambientali, sui problemi che una ben determinata situazione pone ad una persona che desidera rivestire il ruolo di leader. Esistono diversi tipi di fattori situazionali ai quali dedicheremo ora la nostra attenzione.

Uno dei fattori situazionali più  importanti è la natura del compito che il gruppo  deve portare a termine o per meglio dire i fini che il gruppo si propone di raggiungere . Appare evidente che se un individuo dotato di notevolissime qualità non possiede le competenze e le conoscenze necessarie per guidare il gruppo nel raggiungimento degli obiettivi previsti , tale persona non diventerà mai leader in tale gruppo, anche se fosse dotato di un carisma eccezionale. A nostro avviso non esiste un leader assoluto , ovvero una persona che possa esercitare il ruolo di leader in qualsiasi gruppo e qualsiasi situazione.

Un altro importante fattore situazionale è rappresentato dalla storia del gruppo . Alfine di chiarire l’importanza di tale fattore ci serviremo di un esempio . Supponiamo che un dato gruppo formale che ha  alle sue spalle una lunga storia sia stato sempre guidato da leader democratici . Ipotizziamo che un individuo dotato di grande carisma personale voglia istituire in tale gruppo una leadership di tipo dittatoriale non tenendo conto della storia del gruppo .Tale individuo non riuscirà mai a diventare leader di tale gruppo perché i membri sono abituati da sempre a esser guidati da un leader democratico ragion per cui giudicherebbero insostenibile e assurda una leadership dittatoriale.

Un altro fattore situazionale che influenza in maniera decisiva il processo di leadership  è l’ ampiezza del gruppo dal momento che in un gruppo molto numeroso le relazioni tra il leader e i membri sono molto  depersonalizzate  .

Al contrario in un gruppo costituito da pochi componenti tali relazioni sono molto diverse essendo molto più dirette e frequenti. Dobbiamo mettere in evidenza il fatto che esistono individui che riescono a ricoprire il ruolo di leader molto bene nei gruppi di piccole dimensioni dal momento che danno il meglio di loro stessi nei contatti diretti , faccia a faccia con i membri del gruppo. Tali leader sono in grado di costituire un rapporto personalizzato e particolare con ognuno dei membri del gruppo. Al contrario tali leader quando si trovano in presenza di un gruppo molto numeroso perdono facilmente il controllo della situazione dal momento che sono condizionati negativamente dal carattere  interpersonale che le relazioni tra il leader e i componenti del gruppo assumono in questi casi.

Sneider afferma che può accadere che alcuni individui siano in grado di rivestire il ruolo del leader solamente a livello micro sociale ovvero nei piccoli gruppi mentre altri solamente a livello macro sociale ovvero nei gruppi numerosi. Alcuni individui riescono ad esercitare molto bene il potere nei gruppi molto numerosi dal momento che il carattere impersonale che le relazioni tra il leader e i membri del gruppo assumono in questi casi permette al leader di mantenere un atteggiamento impersonale.

Tale atteggiamento impersonale crea una distanza sociale tra il leader e quasi tutti i membri che rende più facile al leader dare inizio e portare a termine il processo di mitizzazione della sua persona. Tale processo non può avvenire nei piccoli gruppi, dove i rapporti tra il leader e i membri del gruppo sono troppo diretti e confidenziali. Anche i fattori situazionali esterni al gruppo possono influenzare il processo di leadership e la scelta del leader. Per fare degli esempi che chiariscano che cosa intendiamo per fattori situazionali esterni citeremo il grado di stabilità o d’instabilità dell’ambiente esterno e la presenza di conflitti con altri gruppi che si trovano ad agire nello stesso habitat sociale del gruppo considerato. Potrebbe ad es. accadere che un gruppo che si trovi in conflitto con un altro gruppo affidi, il ruolo di leader a una persona che non sarebbe mai stato nominata se non fosse in corso il conflitto con l’altro gruppo .

Tale fatto è spiegabile dal punto di vista psicosociale tenendo presente che quando esiste una situazione di conflitto intergruppi viene scelto come leader non la persona più adatta a guidare il gruppo nel raggiungimento dei fini perseguiti dal gruppo mq la persona che viene considerata più adatta ad assicurare al gruppo la vittoria nella situazione conflittuale in corso. Dobbiamo dire che molte volte i leader adatti in tempo di pace non sono adatti a guidare un dato  gruppo in tempo di guerra. Al contrario molti leader adatti a gestire un gruppo nelle situazioni di guerra con altri gruppi vengono subito messi da parte quando il conflitto è finito per la semplice ragione che non hanno le competenze e le conoscenze adatte per permettere al gruppo di raggiungere i fini per i quali è stato istituito e formato. Ciò che abbiamo detto vale sia al livello microsociologico che a livello macrosociologico.

Dopo aver messo in evidenza ciò possiamo chiudere tale articolo dicendo che la teoria situazionale può fornire importanti spiegazioni e importanti risposte sul fenomeno più importante della dinamica di gruppo ovvero l’inevitabile affermazione in tutti i gruppi formali ed informali di un leader.


La vacanza nel XXI secolo. Un’evoluzione del lavoro domestico

Sta arrivando l’estate e si respira aria di vacanze. Il corpo si libera degli abiti pesanti pregustando i piaceri della spiaggia, la vita si fa più leggera e le preoccupazioni sono rimandate a settembre.

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

Per quanto le ferie retribuite siano soggettivamente vissute come una parentesi fatta prevalentemente di relax, divertimento e trasgressione, il loro significato sociale è in stretta relazione con le dinamiche dell’occupazione. Tale relazione poggia su due basi: 1) il tempo di lavoro determina la quantità e la qualità del tempo libero; 2) le modificazioni all’interno del mondo produttivo connotano l’immagine, il senso e la narrazione della vacanza. Pertanto il modo in cui viviamo oggi l’estate non è più quello di dieci o vent’anni fa perché con l’avanzare della globalizzazione sta volgendo al termine la struttura del ciclo di vita basata sulla sequenza infanzia, scuola, lavoro, tempo libero, pensione. Insomma, sta volgendo al termine l’epoca del lavoro salariato con i conflitti e le certezze che ne conseguivano e ci stiamo addentrando sempre più nell’era del lavoratore flessibile, così come illustrato sin dal 1988 da Richard Sennett. E se il lavoratore diventa flessibile, anche il turista cambia pelle, ovvero muta il proprio habitus mentale.

Per comprendere il nuovo senso della vacanza non possiamo non fare i conti col ripetersi senza fine di crisi economiche, con la diffusione del precariato, con le minacce al posto fisso e al sistema pensionistico. Eppure oggi le ferie sono vissute sempre meno come una sorta di risarcimento per l’inverno trascorso al lavoro. Al contrario prevale una funzione produttiva della vacanza centrata sui valori della seduzione, dell’apparenza e della forma fisica. La vacanza richiede ormai dal turista così tanti saperi e così tante prestazioni da rendere tutt’uno il corpo energetico della forma-lavoro e il corpo pulsionale assediato dai piaceri primari. Se così stanno le cose, e per quanto possa apparire paradossale, la vacanza non è più in netta discontinuità col mondo della produzione, ma ne costituisce il prolungamento in una società dove la disoccupazione ha raggiunto percentuali drammatiche e dove le disuguaglianze aumentano di anno in anno. E sebbene la vacanza sembri un tema futile, da relegare nella storia del costume, in realtà è sul fronte del tempo libero che si sta giocando una partita decisiva per il futuro del lavoro. Il motivo è semplice: nella modernità liquida il ruolo sociale del consumatore si trova ormai sullo stesso piano di quello del lavoratore.

I due tempi, consumo e produzione, tendono a sovrapporsi perché per gli individui il prestigio personale costituisce la principale posta in gioco della vita sociale. E il prestigio può essere raggiunto sia attraverso il reddito monetario generato dalla professione svolta, che dal reddito identitario, generato da una competente messa in pratica dei valori che caratterizzano il tempo libero.

Che le vacanze abbiano avuto una funzione prevalentemente produttiva non è una novità. Per i ceti dominanti da sempre la vacanza è anche e forse soprattutto un modo per tessere rapporti d’interesse con propri pari all’interno di resort esclusivi e panfili da sogno. Per le élite il party, il golf, la regata non sono solo momenti per la rappresentazione del consumo vistoso, ma costituiscono anche modi informali per accrescere il proprio capitale sociale, ossia visibilità, relazioni, prestigio, fiducia. Con peculiarità proprie questa tendenza sta scendendo dal vertice della piramide sociale verso la base, diciamo verso la massa dei vacanzieri appartenenti ai ceti medi e medio-bassi. Tuttavia non si tratta di un processo di democratizzazione come ad esempio il passaggio della crociera da viaggio per pochi a viaggio per tutti. Perché se per il jet-set la tendenza produttiva della vacanza ha come obiettivo ultimo il profitto per la maggior parte dei turisti l’obiettivo della produzione è tutt’altro. E il motivo è semplice: questa maggioranza non possiede le stesse risorse per aumentare il proprio capitale sociale. Pertanto dirige altrove il suo investimento. Dove? Sul corpo.

Il corpo è ormai l’unico bene di cui possiamo avere una qualche certezza. Il resto ci è stato tolto in tutto o in parte: la speranza nel futuro, un welfare-state efficiente, rapporti umani degni di questo nome, l’aria pulita, l’ambiente naturale. Persino l’acqua da bere dobbiamo comprarla imbottigliata, mentre alcuni futurologi prevedono che a causa della sua scarsità prima o poi scoppieranno nuove guerre. E il lavoro? Anche quello ci viene progressivamente tolto. C’è e non c’è. La possibilità di non trovarlo o di perderlo è una delle paure collettive dei nostri tempi così come lo era la peste durante il medioevo. Di converso, nel ricco Occidente la fame è scomparsa da oltre mezzo secolo, i lavori di fatica investono ormai una minoranza della popolazione attiva, abitiamo in città cablate e dalle vetrine scintillanti, viviamo più a lungo rispetto al passato, curiamo malattie che fino a pochi decenni fa compivano stragi, l’adolescenza si spinge oltre i trent’anni e la vecchiaia si sposta sempre più in avanti.

Quest’insieme di fattori ha prodotto una vita meno fragile e meno passeggera conducendo Hervé Juvin a ipotizzare che stiamo assistendo a un passaggio di civiltà il cui esito sarà dato dal risultato del conflitto tra l’identità fondata corpo e l’identità fondata sulla storia. Per sottolineare quanto il corpo sia al centro degli interessi del mondo della produzione vale la pena ricordare che Juvin è un economista e che il suo libro, “Il corpo” è stato pubblicato nel 2006 in Italia da Egea, casa editrice dell’Università Commerciale “Luigi Bocconi”, nella collana Cultura d’impresa.

La tesi di Juvin è molto interessante soprattutto perché ha il merito di inquadrare molto bene un problema socialmente trasversale. Per l’economista francese il corpo che abbiamo ereditato nel XX secolo è vicino a mutare natura: “Cambiando il suo tempo e il suo spazio, il corpo ha trasformato il nostro rapporto con il tempo e lo spazio, ha cambiato persino il suo rapporto con se stesso e con ciò che non è lui – gli altri corpi, la mente, l’anima, la natura, l’ambiente, il potere e l’autorità, il desiderio e la proprietà – e questo cambiamento è al centro di molti cambiamenti futuri, alcuni già presenti, talmente presenti che ci abbagliano e ci impediscono di vedere ciò che stiamo diventando, ciò che siamo già diventati. È l’ospite inaspettato di un secolo che cerca la sua storia. E ne è il padrone”.

Se si esce da un approccio soggettivista possiamo tranquillamente affermare che Juvin si lascia prendere un po’ la mano dalla sua prosa, soprattutto quando afferma che il corpo è il padrone della sua storia o che addirittura “ha preso il potere”. Semmai è vero il contrario: è il potere che ha preso il corpo come mai prima nella storia. E proprio per questo motivo il corpo è oggi uno dei principali bersagli dell’attività economica. Pubblicità, moda, cosmesi, chirurgia estetica, wellness, sport, design, architettura, comunicazione e turismo costituiscono una filiera di industrie che possiamo denominare “fabbriche della felicità” in quanto il loro obiettivo è soddisfare il piacere dei sensi. Tali fabbriche si sono spontaneamente integrate permettendo a industrie dei sogni come il cinema di generare pratiche quotidiane tanto che oggi è l’immagine a creare la realtà e non viceversa. Le fabbriche della felicità producono e incentivano un corpo particolare: il corpo glamour. Ossia un corpo attraente, conturbante, dotato di forte sex-appeal e in grado di presentarsi sempre sull’onda dell’ultima moda. Insomma un corpo perennemente in cerca di riflettori, di un pubblico e di un applauso.

Come si costruisce questo corpo spettacolare? Passando attraverso l’esperienza mentale ed emotiva degli individui in modo che vivano il desiderio del corpo glamour come un preciso atto della propria volontà. Le fabbriche della felicità rispondono a questa domanda di identità producendo e promuovendo stili di vita al cui centro risiedono fascino e apparenze, sensualità e disinvoltura, benessere e protagonismo. In poche parole, nelle realtà economicamente avanzate il glamour è il principale modo d’essere, di sentire e di esibire il proprio sé. L’angosciante prova costume in vista dell’estate costituisce una preoccupazione che tocca tutti, ormai a qualsiasi età. E se il tuo corpo non incanta sei un outsider. E se sei un outsider hai il dovere di metterti al lavoro per tornare insider. Come? Con la chirurgia estetica, l’esercizio fisico, il make-up, la pettinatura, l’abbigliamento.

L’istituzione che ha permesso l’affermazione planetaria del corpo glamour è il mercato delle immagini. Meglio, il suo inarrestabile ampliamento, anche durante una crisi economica prolungata come l’attuale. Stampa fotografia, cinema, televisione e Internet offrono quotidianamente allo sguardo del grande pubblico un diluvio di corpi giovani, belli, in salute e in smagliante forma fisica. Cosa hanno di particolare queste immagini? Sono in gran parte gratuite.

E, come noto, l’offerta gratuita è una tecnica di vendita applicata dal marketing per catturare clienti. Tecnica che nel caso del corpo glamour ha funzionato egregiamente monopolizzando l’immaginario collettivo dell’Occidente in tema di rappresentazione fisica del sé. Di più: il corpo glamour è un prodotto di esportazione in ogni angolo del pianeta. Le immagini e i gesti dei divi del cinema, della televisione e della musica pop sfruttano l’incontenibile forza dell’eros in nome della liberazione del corpo dai vincoli della tradizione. Il loro effetto è travolgente: il grande pubblico non vede l’ora di adeguare la propria immagine interna alle immagini esterne di star e starlette che ammiccano invitanti da ogni dove: stampa, pubblicità, videoclip, varietà televisivi e così via. Questo rispecchiarsi nei corpi glamour trasmessi dai media è cruciale perché l’adesione incondizionata a tali immagini è un lavoro quotidiano che gli individui fanno sul proprio aspetto fisico e sulle proprie emozioni. Un lavoro che va dalla culla alla tomba.

Un lavoro complesso perché è allo stesso tempo cognitivo (selezione dell’immagine), creativo (interiorizzazione dell’immagine), relazionale (proiezione dell’immagine). E allora eccoci passare dallo schermo allo specchio alle prese con i dilemmi dell’estate che incombe: monokini o bikini? Abbronzatura integrale o parziale? Più tatuati o più palestrati? E lo sguardo? Indifferente o di sfida? E il piercing? Discreto o indiscreto? Tutte decisioni che possono essere prese solo in base alla narrazione della propria immagine personale. Narrazione che aspira al corpo perfetto di attori e top model. Un corpo che ha nell’età e nella bilancia due giudici implacabili. Su quest’attività di cura del corpo-immagine si è soffermato con magistrale profondità analitica Jean-Claude Kaufmann in una ricerca sociologica del 2007 sul seno nudo nelle spiagge francesi (“Corpi di donna, sguardi di uomo”, edizioni Cortina). La ricerca ha dimostrato quanto un gesto apparentemente semplice come togliersi il reggiseno al mare non sia affatto naturale, ma frutto di una lunga elaborazione storica (nuovo ascolto del corpo), di continue negoziazioni (con gli sguardi maschili) e persino di micro-conflittualità (il seno più bello della spiaggia rischia l’accusa di esibizionismo, mentre le donne anziane e quelle grasse mandano in crisi la norma morfologica e si ritrovano sottoposte a una mormorata censura estetica).

Tra le conseguenze più visibili della frenetica attività per apparire come cover girl, star hollywoodiane e sex symbol c’è il forte abbassamento della soglia del senso del pudore. Nel XXI secolo non ci si vergogna di esporre il proprio corpo più o meno denudato. Ci si vergogna degli anni che passano, degli inestetismi della pelle, del grasso superfluo, dei difetti fisici e di non vestire alla moda – fosse pure l’abito un ridotto costume da bagno. Su questa nuova vergogna, sul senso di inadeguatezza che ne segue e sull’allargamento dello spazio sociale concesso alla vanità prosperano il turismo e le altre fabbriche della felicità. Fabbriche che chiedono al consumatore di icone dello spettacolo e della moda di cooperare alla costruzione della propria immagine così come Ikea chiede ai propri clienti di farsi carico del montaggio dei mobili. Il prodotto è un corpo favoloso, ossia un corpo plasmato come un oggetto di design e in grado di raccontare una storia fatta di aspirazioni: al desiderio, all’eterna giovinezza, al piacere-dovere di essere ammirati.

L’attuale culto del corpo ha nell’estate la sua prova del fuoco. È soprattutto durante le vacanze che gli individui devono dimostrare di essere assunti a tempo indeterminato dal mercato delle immagini. Essere espulsi da quel mondo significa ritrovarsi ai margini della società esattamente come capita a chi è espulso dal mercato del lavoro. A causa di quest’ansia il turista si sottopone a un duro lavoro manuale fatto di dieta e palestra, make-up e acconciature. L’obiettivo è presentarsi in spiaggia o in discoteca con un corpo estetico o erotico. Meglio ancora, con un mix tra i due corpi. L’importante è non offrire al pubblico un corpo banale, ossia un corpo che è visto ma non guardato. Perché l’anonimato è un’altra grande paura collettiva dei nostri tempi. Occorre allora esibire un corpo favoloso ispirato in qualche maniera dalle offerte del mercato delle immagini. Si tratta di una mossa soggettiva per aggirare l’impossibilità dell’ascesa sociale e ancor più spesso l’impossibilità di avere un lavoro garantito. Questi deficit hanno nello strenuo lavoro sul look la loro compensazione: dimostrano che se anche si è precari, disoccupati e con poche speranze per il futuro si è comunque in attività e pronti alla competizione.

Per provarlo al mondo ecco che durante l’estate i social network pullulano di fotografie di turisti in pose da divi dello spettacolo. Possiamo inquadrare tale attività come un’evoluzione del lavoro domestico. Che resta non pagato, ma risponde all’esigenza di mostrare un’identità capace di reggere ai continui cambiamenti delle mode e dei consumi, capace di navigare in un flusso perenne di immagini.

Patrizio Paolinelli, Via Po, inserto culturale del quotidiano Conquiste del Lavoro


Stop all’autostop

di Fabrizio Paolinelli

autostop

Durante gli anni ’60 e ’70 del ’900 l’autostop era praticato da molti giovani. Furono gli hippy a diffondere questo modo di viaggiare e presto diventò un fenomeno di costume ben tollerato. Faceva parte della quotidianità e parecchi ragazzi giravano l’Italia e l’Europa sollevando il pollice.

Il fenomeno inizia a declinare negli anni ’80 e da tempo non esiste praticamente più. Se oggi qualcuno fa l’autostop è per un’emergenza o perché poverissimo. Ma il problema non si pone più di tanto perché è quasi impossibile trovare chi sia disposto a caricarti in macchina.

Per capire i motivi dell’estinzione di questa pratica giovanile occorre innanzitutto ricordare che l’autostop era molto più di una moda. Andava al di là della cultura hippy e rifletteva il generalizzato spirito di cambiamento di un’intera generazione. Spirito di cui si è persa memoria. Ai giorni nostri i cambiamenti sono pilotati dall’alto e se qualcosa di spontaneo nasce dai giovani viene commercializzato o neutralizzato nel caso non produca profitti.

Quali erano le caratteristiche dell’autostop? Essenzialmente tre: gratuità per chi riceveva il passaggio, dono da parte del conducente, fiducia reciproca. L’autostoppista sapeva che difficilmente incorreva in pericoli e generalmente l’autista era ben disposto nei confronti del prossimo.

Gratuità, dono, fiducia. Tre parole-chiave che sempre meno fanno parte della nostra quotidianità. E perché sempre meno? Perché non rientrano nella logica del dare e dell’avere. Tutto si deve comprare, tutto si deve vendere, mentre l’autostoppista non paga il trasporto, incidendo negativamente sui consumi. Pertanto va eliminato. E così è stato.

Per stoppare l’autostop andava demolita l’apertura verso il prossimo che un tempo circolava nella società. Quarant’anni di neoliberismo e gli altri sono stati trasformati in potenziali nemici, in estranei, in concorrenti. Qualcuno di cui diffidare. Perciò, cari ragazzi, compratevi la macchina, sennò andate a piedi. Il mercato lo vuole!

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

Conquiste del Lavoro (maggio 2021)


RICERCA SUL BENESSERE DEGLI STUDENTI DELLE SCUOLE SECONDARIE 1 GRADO DELL’OVEST VICENTINO

di Mattia Dall’Asta

Il campione degli intervistati per il progetto “Reti di comunità”, residenti nei comuni della ULSS8 Berica, è di 1786 studenti delle scuole secondarie di primo grado con un’età compresa tra gli 11 e i 15 anni.

<<== Dott. Mattia Dall’Asta

Il progetto nasce nel 2013 come risposta alla preoccupante diffusione di droga sempre più presente tra i giovani e giovanissimi di questo territorio e per superare la cultura individualista e consumistica diffusa anche nelle piccole comunità ed il rischio di parlarne solo quando accade il fatto di cronaca eclatante che riaccende brevemente le luci attivando emotività pubblica per poi non riuscire a far crescere l’opinione pubblica. Il progetto Reti di Comunità vuole promuovere un percorso di presa di coscienza e di vicinanza, ognuno per le sue funzioni, ai nostri figli, coltivando noi stessi il cuore e la mente.

La seguente indagine promossa dal progetto “Reti di Comunità” per l’A.S. 2020 – 2021 va ad esplorare il benessere psico-sociale degli studenti delle scuole secondarie di I grado dei 13 comuni aderenti al progetto, in questo momento in cui perdura l’emergenza sanitaria da Covid-19. L’88,2% dei compilanti è di nazionalità italiana. A livello di genere il campione è ben bilanciato, il 52,4% è di genere femminile e il 47,6% di genere maschile. Lo stress, che significa propriamente “sforzo”, designa la risposta funzionale con la quale l’organismo reagisce a uno stimolo, più o meno violento, di qualsiasi natura. Ogni persona, nella sua individualità, darà un peso soggettivo agli eventi e agli stimoli interni ed esterni.

Possono essere individuate tre fasi nella risposta di adattamento o GAS (sindrome generale di adattamento):

  • Fase di allarme, in cui sono presenti modificazioni biochimiche;
  • Fase di resistenza, nella quale avviene un’organizzazione funzionale in senso difensivo;
  • Fase di esaurimento caratterizzata dal collassamento delle difese e l’impossibilità di adattarsi ulteriormente;

La preoccupazione degli alunni di contrarre il covid-19 risulta alta, il 64,7% si sente abbastanza o molto preoccupato/preoccupato di contrarre il covid mentre la metà del campione della ricerca, il 51,4%, si sente stressato nel periodo dell’emergenza. Le situazioni che hanno generato più stress risultano essere la mascherina per il 43,9% dei ragazzi, l’impossibilità di vedere gli amici per il 43,5% e la limitazione alle uscite per il 30,7%

Una parte da non sottovalutare di adolescenti, il 12,9%, ha sperimentato un’ansia “intensa” e “molto intensa” mentre il 36,1% un’ansia “moderata”. Rilevanti sono pure i dati sui disturbi del sonno che hanno coinvolto il 24,9% dei ragazzi.

Un terzo degli adolescenti da settembre 2020 a marzo/aprile 2021 hanno sperimentato stati di nervosismo più volte alla settimana (36,8%), momenti di irritabilità anche qui più volte alla settimana (36,0%) e si è sentito giù di morale in modo frequente (34,2%). Il mal di testa, non collegato a patologie è stato sperimentato più volte alla settimana per 2 alunni su 10.

La famiglia è stata colpita da questa situazione di emergenza. Lo stravolgimento della routine quotidiana ha portato ad una clausura forzata all’interno dell’ambiente familiare e l’emergere di una nuova quotidianità. Genitori e figli, assieme, si sono trovati immersi in un nuovo modo di vivere e percepire la famiglia e i propri spazi, facendo anche i conti con tensioni e angoscia. Gli adolescenti dichiarano come questa emergenza abbia generato un aumento delle tensioni familiari da settembre 2020 (48,8%). Dai dati relativi al clima in famiglia però emerge come sia sereno (70,2%), tranquillo (72,3%) e anche rispettoso (74,2%).

Il ritorno in classe in piena pandemia, nel rispetto delle normative sanitarie, ha permesso lo svilupparsi di nuove dinamiche e relazioni all’interno della classe, il gruppo classe si è ricostituito dopo la prima ondata in modalità differenti, con più distanziamento e meno contatto con l’ambiente esterno. Gli insegnanti hanno rafforzato il loro ruolo di riferimento per i ragazzi e hanno dovuto cogliere la sfida dell’integrazione tecnologica mantenendo il loro ruolo di educatori.

A livello scolastico gli alunni hanno un buon rapporto con i propri insegnanti (92,3%), il 56,8% si sente ben integrato con la classe e il 62,6% partecipa volentieri alle attività di gruppo. Dai dati relativi al clima in classe emerge come vi sia un clima di rispetto (55,3%), sereno e disteso (54,5%) anche se talvolta il clima è spesso agitato (44,6%).

Il bullismo rappresenta una forma specifica di aggressività, caratterizzata da una prevalente dimensione proattiva: la condotta prepotente non rappresenta una reazione ad un’aggressione reale o presunta (aggressività reattiva), bensì un sistematico abuso di potere, motivato dal desiderio di predominare sull’altro con attacchi pianificati e reiterati nel tempo.

Il 26,4% degli alunni del campione è classificato come vittima di bullismo mentre il 10,0% è un autore di prepotenze. Il confronto con la ricerca del 2016 evidenzia una lieve diminuzione dei fenomeno anche se il confronto dei dati riporta come le vittime subiscano un corollario di prepotenze subite più ampio. Allo stesso modo il confronto suggerisce come gli autori agiscano uno spettro di prepotenze più ampio. L’81,0% del campione riporta come gli spettatori siano proattivi nel difendere la vittima di prepotenze e ad isolare il prepotente (67,3%) nonostante 4 alunni su 10 riportino indifferenza nei confronti delle prepotenze.

La tecnologia emerge come fattore sempre più significativo per la vita dei ragazzi. È un luogo che viene sempre più frequentato e vissuto, appresenta un fattore di socialità molto importante e denso di significati, specialmente in un contesto di emergenza sanitaria da Covid-19. Nove alunni su 10 passano almeno 2 ore al giorno con un dispositivo tecnologico e l’utilizzo preferito dai ragazzi è per chattare con amici/compagni (64,0%) e per guardare serie tv (60,1%).  Lo smartphone si rivela come strumento tecnologico utilizzato da quasi tutti gli adolescenti, secondo l’84,1%, seguito a stretto giro dal computer per il 73,5%.

Solo il 9,4% dei genitori è presente nei gruppi chat creati autonomamente dai ragazzi (88,7%). Questi luoghi digitali hanno spesso un utilizzo molto pratico da parte ragazzi che li utilizzano in prevalenza per chiedere aiuto per i compiti. Tuttavia, questi luoghi digitali possono essere un ambiente in cui si sviluppano litigi a causa di malintesi (31,7%) o offese (28,3%). L’utilizzo dei videogames è di poco aumentato da settembre 2020 (21,7%), con una prevalenza maschile di utilizzo, e il tempo giornaliero dedicato al gioco è di circa 1 o 2 ore per 7 alunni su 10

Il bullismo è un fenomeno che si manifesta in vari modi ma, con l’avanzamento delle nuove tecnologie, il suo modo di manifestarsi si è evoluto facendosi strada attraverso i mezzi di comunicazione ed è per questo che oggi si parla anche di cyber-bullying, cioè cyber-bullismo. Infatti, viene considerato un’evoluzione del bullismo tradizionale ma, pur condividendo con esso alcune caratteristiche, se ne differenzia in molti aspetti. Il 13,3% del campione riporta di essere vittima di prepotenze digitali mentre solo il 3,7% del campione è autore di prepotenze digitali attraverso le nuove tecnologie.

Il termine “sexting” deriva dall’unione delle parole inglesi “sex” (sesso) e “texting” (pubblicare testo). Si può definire sexting l’invio e/o la ricezione e/o la condivisione di testi, video o immagini sessualmente esplicite/inerenti la sessualità. Spesso sono realizzate con lo smartphone e vengono diffuse attraverso siti, e-mail, chat.

Spesso tali immagini o video, anche se inviate ad una stretta cerchia di persone, si diffondono in modo incontrollabile e possono creare seri problemi, sia personali che legali, alla persona ritratta. L’invio di foto che ritraggono minorenni al di sotto dei 18 anni in pose sessualmente esplicite configura, infatti, il reato di distribuzione di materiale pedopornografico. In riferimento al fenomeno del sexting 2 ragazzi su 10 hanno ricevuto materiale (immagini o video) esplicito o con riferimenti sessuali mentre solo l’1,6% dichiara di aver prodotto e inviato del materiale di questo tipo.

La pandemia di COVID-19 ha cambiato notevolmente le abitudini dei ragazzi facendoli stare in casa più a lungo, tutto ciò può peggiorare un disturbo alimentare preesistente perché comporta condizioni di isolamento, di facilità di accesso al cibo e la percezione di una situazione fuori controllo. Inoltre, si aggiunge spesso il problema di una convivenza forzata che può essere molto difficile da gestire a livello familiare.

I comportamenti alimentari degli alunni del campione segnano una variazione in negativo rispetto alla ricerca del 2016. Tutti gli indicatori del rapporto con il cibo sono aumentati, il 28,0% mangia per noia e il 22,3% mangia quando si sente depresso. Il 26,3% mangia anche quando non è veramente affamato e l’11,9% lo fa anche se è sazio. Non emergono differenze di genere significative in questo ambito. Il 23,1% salta la prima colazione (il pasto più importante della giornata in età di sviluppo) e preferisce dei piccoli spuntini anziché dei pasti completi (22,1%)

In adolescenza con il termine “comportamenti a rischio” si intendono tutte le condotte che possono, in modo diretto e indiretto, mettere in pericolo la salute e il benessere fisico e psicologico degli individui, sia nel presente che nel futuro. L’elenco è numeroso e comprende: l’assunzione di sostanze psicoattive, i comportamenti aggressivi, devianti o illeciti, il comportamento sessuale precoce e non protetto, la guida pericolosa, il gioco d’azzardo, i disturbi alimentari e soprattutto le condotte autolesive.

Due ragazzi su 10 pensano siano aumentati gli stati depressivi tra i pari, secondo il 22,4%. L’11,8% pensa siano aumentati i disturbi alimentari e l’11,3% ha la percezione di un aumento dell’autolesionismo tra i pari. Aumenti nella percezione degni di nota risultano essere relativi all0utilzzo delle sigarette elettroniche (9,6%) e al consumo di tabacco (9,9%). Gli alunni di genere femminile sembrano avere una percezione più marcata di questi fenomeni rispetto ai ragazzi.


LA NUVOLA DI FUKSAS

“Quer pasticciaccio brutto del Nuovo Centro Congressi di Roma”

di Fabrizio Paolinelli

Il Nuovo Centro Congressi di Roma rappresenta un tipico pasticcio all’italiana. Pasticcio i cui ingredienti sono costituiti dal velleitarismo del ceto politico, dalla scarsa capacità di pianificazione della pubblica amministrazione, dai costi stratosferici a carico dei contribuenti, dalla voracità delle élite al potere e da errori tecnici nella realizzazione del progetto. Ma per fortuna c’è chi ancora pensa al bene comune e in tanti hanno criticato e criticano tutt’oggi la grande opera pubblica della capitale – per dimensioni la più importante mai realizzata da cinquant’anni a questa parte.

<<==Prof. Patrizio Paolinelli

Le contestazioni iniziano dalla scelta del sito: il quartiere Eur. Ritenuto da urbanisti, personalità della cultura e residenti carente di adeguate infrastrutture e inadatto ad ospitare un polo di tale portata. Oggi, a lavori ultimati, il Nuovo Centro Congressi ha una capienza complessiva di circa 8mila posti e occupa una superficie pari a 55mila mq ripartita in tre distinti elementi architettonici: 1) la Teca – un contenitore in acciaio e vetro che racchiude al suo interno la Nuvola – è alta 39 metri (48 dal livello interrato), larga 70 e lunga 175; 2) la Nuvola – costruita in fibra di vetro e silicone ignifugo – costituisce il fulcro del progetto; ha una sagoma che nelle intenzioni di Fuksas dovrebbe rappresentare una nube a forma di cumulo e al suo interno trova posto, tra l’altro, un auditorium da 1.800 posti; 3) il ciclopico Hotel di lusso La Lama – 17 piani, pari a 55 metri di altezza – comprende 439 stanze, sette suite, un centro benessere, un’area fitness, un bar, un ristorante e un parcheggio interrato per 600 posti auto. Per la costruzione dell’intero complesso sono state impiegate 37mila tonnellate di acciaio (pari a cinque volte la Tour Eiffel) e circa 58mila metri quadrati di vetro (pari a sette campi da calcio).

Gli ultimi due dati suggeriscono quanto poco fosse fattibile un’opera del genere. Infatti per la sua realizzazione tutte le programmazioni sono saltate. Ecco in breve la tormentata storia di un progetto che dall’idea alla sua realizzazione ci ha messo quasi vent’anni. Nel 1998 il Comune di Roma, guidato dal sindaco Rutelli, e l’allora Ente Eur indicono un concorso internazionale per la progettazione di un nuovo centro congressi. Il 16 febbraio del 2000 la giuria dichiara vincitore il progetto di Massimiliano Fuksas. Un mese dopo l’Ente Eur, proprietario dell’opera, diventa una Spa (90% Ministero dell’Economia e 10% Comune di Roma). La posa della prima pietra è programmata per la fine del 2001 e il costo del polo congressuale è stimato intorno a 260 miliardi di lire (corrispondenti a circa 135 milioni di euro). Nel 2002 la gara d’appalto è affidata a un consorzio di imprese, Centro Congressi Italia Spa, ma ci vogliono ben due anni per approvare il progetto definitivo. Tutto a posto? Macché. Nel dicembre 2005 Eur Spa e Centro Congressi Italia Spa risolvono consensualmente l’atto di concessione. Si torna così al punto di partenza. Stavolta si aggiudica la gara d’appalto Condotte Spa. Nel frattempo il costo stimato per il polo congressuale è salito a 277 milioni di euro.

Finalmente l’11 dicembre 2007, durante l’ultimo scorcio dell’amministrazione Veltroni, viene posata la prima pietra e l’inaugurazione è prevista per la fine del 2012. Il nuovo sindaco, Gianni Alemanno, sposta la data del lieto evento al 31 gennaio 2013. Ma le casse di Eur Spa sono ormai vuote mentre i costi, a differenza della Nuvola, salgono in alto nei cieli toccando 413,8 milioni di euro. I soldi però non ci sono. Allora ci mette una pezza il governo con la Legge di stabilità che destina 100 milioni di euro per la conclusione dell’opera (un prestito che a detta dei più non sarà mai restituito). L’obiettivo di fine lavori si sposta così a fine 2015, in concomitanza con l’Expo di Milano sognando una collaborazione tra l’Urbe e il capoluogo lombardo. Il sogno è di breve durata e si torna alla dura realtà. Fuksas litiga pesantemente con l’allora presidente di Eur Spa, Pierluigi Borghini, a cui dà pubblicamente dell’incompetente e del “Venditore di lampadine”.

Nel bel mezzo di questo gioco al massacro il cantiere rischia la chiusura per mancanza di fondi, l’albergo La Lama non trova acquirenti (sarà poi venduto nel dicembre 2017 con uno sconto di circa 20 milioni di euro rispetto a quanto preteso inizialmente), Eur Spa è a un passo dal fallimento (anche per altri azzardi immobiliari) e Fuksas minaccia di ritirare la firma dal progetto perché a suo parere le ditte subappaltanti svolgono male i lavori. Intanto i costi dell’opera continuano a salire. Il sottosegretario all’Economia, Paola De Micheli, parla di 467 milioni e sulla stampa si arriva a 500 milioni. Superficiale arrotondamento da parte dei giornalisti? Difficile dirlo perché è ancor più difficile ricostruire al centesimo la vera cifra di un progetto che ha subito dieci varianti nel corso degli anni. Infine il miracolo: il 29 ottobre 2016 si tiene l’inaugurazione del Nuovo Centro Congressi con tanto di diretta televisiva su Rai 1. Inaugurazione a cui Fuksas dichiara polemicamente di non essere sicuro di voler partecipare, ma poi si convince e presenzia all’evento. Giusto in tempo per assistere ai fischi indirizzati all’attuale sindaca di Roma, Virginia Raggi, rea di aver sommessamente fatto notare criticità e ritardi all’interno di un discorso peraltro elogiativo per le qualità estetiche della Nuvola e colmo di speranza per il futuro del polo congressuale.

Gli strascichi di questo enorme pasticcio continueranno a condizionare a lungo la vita del Nuovo Centro Congressi. Intanto c’è da dire che l’Hotel La Lama è talmente a ridosso della Teca da costituire un vero e proprio shock antiestetico (traduzione: è un pugno in un occhio). Sarà per questo motivo che Fuksas e Eur Spa precisano che l’hotel “è pensato come una struttura indipendente e autonoma”? Eppure la stretta vicinanza tra i due edifici suggerisce che un rapporto c’è, quantomeno per opposizione. La Nuvola è infatti collocata in una teca trasparente e di notte è illuminata come una scintillante vetrina che mette in mostra il suo manichino. La facciata dell’hotel invece è in vetrocamera di colore nero risultando impenetrabile allo sguardo. Dunque è assente dalla Lama lo stato di grazia che caratterizza ogni trasparenza. Per di più l’hotel, più alto della Teca, sembra un’ombra minacciosa che incombe sulla Nuvola. Un semplice calcolo di convenienze ad uso e consumo dello sguardo? O siamo dinanzi a un’architettura-spettacolo? Un’architettura intesa come gioco di immagini, la cui ultima preoccupazione è il contesto territoriale e l’umanità che lo abita?

Per quanto viviamo in una società smemorata la storia pesa sul presente. E lo storico pasticcio del nuovo polo congressuale di Roma emerge sotterraneamente nel rapporto tra il nome e la cosa.  Tant’è che ancor oggi si registrano parecchie differenze su come chiamare la struttura: “Roma Convention Center” (per Eur Spa), “Nuovo Centro Congressi Roma EUR e Hotel” (per lo Studio Fuksas), “La Nuvola di Fuksas” (per gran parte della stampa), più diversi mix a piacere di tali denominazioni e una serie di corrosivi nomignoli: “La Fuffas”, “Il Pillolone”, “Il Palloide”, “La scoreggia fritta” e così via. Nomignoli che suggeriscono quanto per molti osservatori la Nuvola di Fuksas non sia affatto percepita come tale. A me sembra un enorme baccello alieno, soprattutto di notte quando è attraversata da fasci di luce multicolore. E poi a vederla da vicino la Nuvola tutto è tranne che un inno alla leggerezza. Tornando ai nomi Fuksas era contrario a chiamare la sua opera La Nuvola preferendogli un titolo più trendy: The Floating Space, (Lo spazio fluttuante). In fondo gli è andata bene che sia stata fatta un’altra scelta perché il progetto preliminare è stato stravolto: prevedeva infatti che la Nuvola dovesse essere sospesa nel vuoto grazie a una serie di tiranti fissati alla Teca. Ma poi sembra che l’idea fosse irrealizzabile e così il vago cumulo di Fuksas è sceso dal cielo e ha piantato i piedi per terra.

Qual è stata la strategia che ha presieduto all’idea di costruire un nuovo polo congressuale nella capitale? In teoria l’architettura dovrebbe contribuire a far vivere meglio le persone e a favorire la socializzazione, mentre le grandi opere dovrebbero avere anche la funzione di trainare verso l’alto l’architettura corrente di un determinato territorio. Il Nuovo Centro Congressi di Roma è invece orientato verso il puro business. Così, vista l’attuale dittatura del profitto sulla società, non c’è alcun pudore nel rivelare la mission di un’opera volta esclusivamente a fare quattrini più che costituire un polo di attrazione per i residenti. Ha dichiarato il Presidente di Eur Spa, Roberto Diacetti: “A valle di un percorso complesso ed impegnativo realizziamo una grande opera, importante sia per la città di Roma, sia per il Paese. Tale realizzazione connoterà il quadrante Eur non solo come business district ma anche come attrattore del turismo congressuale, consentendo a Roma di posizionarsi al pari delle grandi capitali del mondo”.

Ma si faranno davvero i quattrini con il Nuovo Centro Congressi? Detto in parole meno povere, quali saranno le ricadute economiche su Roma e la sua area metropolitana? Nelle intenzioni di Eur Spa la nuova opera dovrebbe attrarre trai 200/300mila congressisti all’anno per un impatto economico sul territorio valutato tra i 300 e i 400 milioni di euro. Proiezioni che al momento sembrano un miraggio. Certo, si può registrare il recente successo di pubblico della Fiera della Piccola e Media Editoria “Più libri più liberi” tenuta in precedenza a due passi dalla Nuvola, nel Palazzo dei  Ricevimenti e dei Congressi progettato negli anni ’30 da Adalberto Libera. Ma in questo caso non sono occorse grandi strategie di marketing: si è semplicemente spostato quel che già esisteva. Il problema è inventare il futuro. Qualche segnale positivo c’è. Per il 2018 la Nuvola si è infatti  assicurata il congresso internazionale degli avvocati (6mila delegati) e laconferenza annuale dell’International Bar Association (altri 6mila delegati). Numeri importanti, ma insufficienti per raggiungere gli obiettivi prefissati.

Ovviamente, visto che non si può tornare indietro, speriamo che il Nuovo Centro Congressi si regga sulle sue gambe e non continui a mungere denaro pubblico. Tuttavia non ci si può esimere dall’interrogarsi sul senso dell’intera opera per non rifare pasticci del genere. Roma è già una meta del turismo congressuale con numeri di tutto rispetto. Aveva necessità di lanciare una sfida alle grandi e consolidate realtà italiane ed europee? E’ sufficiente il Nuovo Centro Congressi per fare la guerra a Milano, Parigi, Berlino, Barcellona e Amsterdam? Proprio la Nuvola ha dimostrato vergognosi problemi di governance fino all’umiliazione dello spostamento dell’intero complesso di circa due metri. Spostamento causato da una serie di clamorosi errori di cui nessuno si era accorto durante gli otto anni di costruzione provocando il restringimento di un’arteria molto importante per la città, viale Europa, una delle quattro strade che confinano con il Nuovo Centro Congressi. Appresa la notizia Fuksas dichiarò: “Sono scioccato”. In seguito lo stesso Fuksas ha definito Eur Spa, “La più insensata società-carrozzone d’Italia” e ha vivamente consigliato di far gestire la sua creatura ai tedeschi. Ma la frittata è fatta. E’ sotto gli occhi del mondo intero che i principali momenti del progetto Nuvola – fattibilità, costi, tempi, professionalità – sono stati uno per uno esempi di levantina approssimazione. Ed è con questo pesante discredito che lanciamo la sfida sul mercato internazionale del turismo congressuale.

Per farla breve, della Nuvola la capitale non aveva proprio bisogno. Roma è una delle città d’arte più importanti del mondo, forse la più importante, e così com’è è già satura di turisti. Non sarebbe stato meglio rimodellare gli spazi urbani in maniera più minuta, intervenendo ad esempio sulla viabilità, o ancor più semplicemente realizzando nuovi parcheggi (magari con qualche albero), riparare i dissestati marciapiedi del centro città e coprire le buche nelle strade? Astenendoci dall’affrontare l’annoso problema della riqualificazione delle periferie, per residenti e turisti non sarebbe stato meglio realizzare nuove aree pedonali e migliorare quella pena che sono i trasporti pubblici della capitale? Sul piano strategico non sarebbe stato più fruttuoso destinare i 400-500 milioni spesi per la Nuvola a favore del turismo storico-artistico rafforzando ancor più il primato della città eterna? E in tutta questa commedia dell’approssimazione che ne sarà del vecchio e glorioso Palazzo dei Ricevimenti e dei Congressi distante un tiro di schioppo dal nuovo polo congressuale?

Al di là delle opposte prese di posizione che quasi sempre accompagnano le grandi opere pubbliche italiane è l’idea di ingabbiare una nuvola all’interno di una teca che non ci è sembrata fino ad oggi discussa come invece meriterebbe. Sui motivi ispiratori occorre dare la parola a Fuksas: “Questo progetto viene da una riflessione che ha inizio negli anni ’90: la trasvolata dell’Atlantico che facevo ogni quindici giorni mi dava un senso di questo nuovo rapporto che c’è tra il sopra delle nuvole e il sotto delle nuvole. Cercare di realizzare una geometria che parta dalla natura, che sia complessa ma sia anche realizzabile, è stato quello che abbiamo fatto qui. … L’idea del progetto era quella di avere una specie di teca di vetro e all’interno avere un oggetto completamente privo di una geometria definita elementare, come si dice: euclidea” (Rai 3, La storia siamo noi, 5 gennaio 2013).

La prospettiva di Fuksas è più che legittima, comprensibile e per diversi esperti del tutto condivisibile (come per Achille Bonito Oliva, che ha definito la Nuvola “uno shock estetico”). Ma le nuvole possono essere osservate anche da altri punti di vista. Una pluralità interpretativa che esiste praticamente da sempre. Alcuni esempi. Nella Grecia classica Zeus è il dio della pioggia, il raccoglitore delle nubi e il dispensatore dei fulmini. Secondo antiche tradizioni indù le nuvole a forma di cumulo sono cugine spirituali degli elefanti. Nell’immaginario cristiano le nuvole costituiscono un simbolo che permette di distinguere il mondo umano da quello divino. Tant’è che Raffaello e Tiziano rappresentano quasi sempre la Madonna sospesa su verginali nuvole, mentre Bernini mostra Santa Teresa in estasi tra le pieghe di un cumulo scolpito nel travertino. E per Cartesio le nuvole costituiscono il “Trono di Dio” per il semplice fatto che per vederle dobbiamo alzare gli occhi al cielo.

Si potrebbe continuare a lungo, ma per chiudere la carrellata dei punti di vista sulle nuvole resta da dire che da alcuni secoli per gli scienziati queste vaporose creature costituiscono un fenomeno naturale e per i comuni mortali, grandi o piccini che siano, un irresistibile spettacolo o un motivo per sognare ad occhi aperti. Qualsiasi sia la prospettiva da cui le si osserva le nuvole presentano due caratteristiche distintive: 1) sono a disposizione di tutti in ogni angolo del mondo; 2) sono gratuite, laddove gratis non è un escamotage per vendere qualcosa. In virtù di queste due caratteristiche le nuvole rappresentano quanto di più democratico si possa immaginare. E che ha fatto Fuksas? Le ha messe in gabbia. In altre parole ha sublimato il carattere predatorio del neolibersimo. La conferma materiale ci viene dalla stratosferica parcella per la realizzazione della sua Nuvola: 24 milioni di euro. Un’offesa per chi lavora. Ma per completezza di informazione occorre dire che l’archistar respinge ogni critica dichiarando a mezza bocca che lui con la Nuvola alla fin fine ci ha rimesso perché è stato distolto da altri lavori tenendo conto che dei 24 milioni la metà se ne sono andati in spese per il team di specialisti che lavora con lui (ingegneri, geologi ecc.) e il resto è tassato al 50%.  Di diverso avviso è la Corte dei Conti. Secondo la quale Fuksas e i membri che hanno composto il consiglio di amministrazione di Eur Spa dal 2010 al 2012 devono restituire 3,5 milioni di euro per compensi ingiustificati. Vedremo come andrà a finire. Il pasticcio continua.

Patrizio Paolinelli, via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, 13 gennaio 2018. ( Per gentile concessione).


Era di Maggio …

di Nadia Gambilongo

… e i Giardini di Eva dopo un lungo inverno trascorso quasi sempre al chiuso, hanno potuto finalmente organizzare un incontro in presenza all’aperto

<<== dott.ssa Nadia Gambilongo, sociologa

I soci dell’associazione hanno scelto di radunarsi in uno spazio verde dalla grande valenza simbolica: il Cerchio delle querce salvato nel 2018 dai tagli e dalle ruspe. Si sono incontrati con le amiche e amici di sempre e i nuovi membri della fitta e diffusa rete di ambientalisti, attivisti che in questi mesi si sono riuniti a distanza, in video conferenza, intorno a temi importanti come la salute, l’ambiente;  ritenuti quest’ultimi assolutamente prioritari, visti i tempi difficili che stiamo attraversando a causa della pandemia.

L’iniziativa del 29 maggio è stata molto partecipata e ha cercato di raccogliere e esprimere nei migliori dei modi queste istanze, questi desideri, emersi nei numerosi incontri organizzati a distanza  sul rilancio del Progetto Donna e sulle politiche di genere. Un anno operoso fatto di un lavoro puntuale e costante che ha promosso  a tutti i livelli la cittadinanza attiva: nei forum, nelle alleanze, nelle reti territoriali, seppure dal chiuso delle nostre case collegate via internet.

Gli incontri a distanza sono serviti anche ad attutire gli effetti coercitivi dei lockdown, ma hanno contribuito a costruire le basi per una riflessione comune su un mondo arrivato, purtroppo, in un punto di non ritorno, per la sua evidente insostenibilità emersa ormai a tutti i livelli. La realtà  messa a nudo dalla pandemia  ci sollecita a cambiare il nostro modo di vivere e ci esorta a trasformare radicalmente il contesto in cui viviamo: se veramente vogliamo che il pianeta sopravviva all’impatto generato dai sapiens negli ultimi decenni!

Il cerchio delle querce: allestimento del campo

Con rinnovata speranza I giardini di Eva, insieme ai principali partner della rete si sono ritrovati nel Cerchio delle querce di Viale dei Giardini a Rende. Un centinaio di persone tra donne, uomini  e giovani,  per raccontarsi tutti insieme il contributo da dare al cambiamento, per tessere la trama di un nuovo tessuto sociale, culturale e ambientale.

Sostanzialmente, è emerso che è necessario migliorare la qualità delle relazioni tra i generi e le generazioni, che bisogna dare un segnale tangibile di cambiamento nella gestione dei beni comuni, nell’abitare i quartieri, nel vivere le piazze e gli spazi verdi. Soprattutto, bisogna dare buoni esempi, all’insegna della  concretezza: com’è possibile trasformare gli spazi comuni color cemento, per migliorarli e con il contributo di tutti renderli luoghi accoglienti, salutari, verdi?

Si tratta di un impegno concreto per il cambiamento a partire da sé, dalla propria esperienza, dal proprio quotidiano: questo il punto chiaro che è stato focalizzato come obiettivo principale dall’iniziativa di maggio.

Il quartiere di Viale dei Giardini, rappresenta un esempio virtuoso in questo senso, un’opportunità  per sperimentare concretamente questo nuovo modo di vivere, abitare e di interagire con una realtà sostanzialmente periferica che fino a qualche anno fa  era piuttosto malandata, e avviata verso un lento ma inesorabile declino.

La striscia di terra abbandonata e ripulita dai soci i “Giardini di Eva”: messa a dimora piante

Viale dei Giardini solo dieci anni fa era un quartiere dormitorio piuttosto decadente con tanti cartelli vendesi un po’ ovunque. Costruito nei primi anni ’90, le facciate delle case e delle palazzine realizzate in forma cooperativa, dopo appena un ventennio davano già i primi segni di decadenza tipici di costruzioni modeste,  fatte in economia. Crepe sui muri delle facciate ingrigite, cedimenti dei cornicioni a vista, le strade piene di buche con l’asfalto logoro, gli spazi verdi comuni erano incolti e spesso ingombri di rifiuti e di auto: era questo lo scenario desolante che si mostrava ai rari visitatori del quartiere. Inoltre, nei pressi del fiume Surdo, che confina con il lato sud del quartiere, c’era un lembo del letto del torrente, quasi sempre asciutto, che spesso si riempiva di rifiuti ingombranti, e diventava una specie discarica abusiva di rifiuti e di materiali di risulta a cielo aperto; si trattava in gran parte di scarti generati da piccole manutenzioni, mattonelle, cemento, qualche water, lasciati dagli operai, che magari a poco prezzo o in nero avevano riparato qualche bagno nel quartiere o nei dintorni. I bidoni della raccolta differenziata spesso venivano riempiti di rifiuti non conferiti correttamente  e l’indifferenziata diventava una sorta di ultima spiaggia per chochard e poveri immigrati  che di tanto in tanto si calavano nei  bidoni per raccogliere materiali da riutilizzare e riciclare in qualche modo. Uno scenario veramente desolante, si apriva agli occhi dei residenti e dei rari visitatori.

I bambini giocavano esclusivamente nei propri cortili, raramente si incontrava qualcuno camminare a piedi nell’anello stradale che circonda il quartiere.

Un ricordo personale va a quando mia figlia era piccola e passeggiavo con la carrozzina lungo il marciapiede  deserto. Incontravo di tanto in tanto solo qualche anziano, magari partiva un saluto e qualche chiacchiera, ma l’assenza di una piazza, di una panchina riduceva al minimo i contatti umani; rimanevano fortunatamente gli incontri con la flora e la fauna della zona piuttosto rigogliosa che nella bella stagione ci regalavano momenti di gioia e di sorpresa per me e la mia bambina.

La superstrada e l’autostrada circondano da sempre il quartiere come una ferita in mezzo al verde delle querce e delle acacie, che in primavera si riempiono di fiori odorosi bianchi e di un verde brillante. Ad Est l’Autostrada, ad Ovest la Superstrada,  mentre il fiume Surdo taglia naturalmente da Nord a Sud il quartiere completando i confini di una sorta di isola. Un’isola in mezzo al nulla che la porta ad essere fisicamente  tagliata fuori dal resto dell’area urbana, priva di servizi di base, ma fortunatamente verde  con una vegetazione incredibilmente lussureggiante. Certo, la costruzione di un ponte pedonale o carrabile avrebbe alleviato l’isolamento collegando il quartiere a Saporito, e in qualche modo al resto dell’area urbana; ma  questa richiesta accorata e del tutto  legittima di collegamento del quartiere non è stata ancora stata trasformata in realtà, anche se pare ci sia un progetto in comune.

Questo sostanzialmente il quadro della situazione prima del 2012. Ma ad un certo punto la storia del quartiere prende una strada diversa,  nasce l’associazione di volontariato I giardini di Eva. L’associazione interviene a partire dal quartiere e poi a livello regionale.

<<== Omaggio a Agitu Ideo Gudeta (di Gaia Landri)

Nella primavera dello stesso anno mette a dimora le prime piante del terrazzo di mia madre che senza le sue cure amorevoli avrebbero rischiato di morire. I grandi vasi rimasti orfani dell’accudimento di  Eva Greco, hanno trovato una nuova dimora vicino le nostre abitazioni, in modo che poterle curarle più facilmente e godere in qualche modo della loro presenza; ma incredibilmente e tristemente  un vicino ottuso e violento ha avvelenato alcune di queste piante, iniziando da quelle più vicine a casa sua, (sembrerebbe  per paura dei ladri che avrebbero potuto arrampicarsi su i piccoli alberelli)!

Le socie decisero allora di piantarne delle altre, e altre ancora per attutire il dolore della perdita …

Di fronte le loro abitazioni c’era una piccola striscia di terreno incolto e abbandonato, una sorta di terra di nessuno. Quella striscia di terra lunga un centinaio di metri e larga un paio di metri non era condominiale, per cui il giardiniere dello stabile, nonostante le sollecitazioni, non intendeva prendersene cura; ma quella terra di nessuno non era neppure pubblica, poiché apparteneva al vecchio proprietario del terreno, dove erano state costruite le palazzine, per questo motivo il giardiniere comunale riteneva che non fosse affare suo. Pertanto, erbacce, carte e rifiuti di ogni genere la facevano da padrone, e rimanevano in questo spazio per settimane e a volte mesi, in attesa di qualche persona di buona volontà che le raccogliesse, o di qualche colpo di vento che le trasportasse più in là; a farne le spese era il boschetto vicino di querce  confinante con la superstrada e le case.

Inizialmente, quando i vicini del quartiere osservavano le volontarie dei Giardini di Eva che ripulivano e piantavano alberi e piante in spazi pubblici si chiedevano meravigliati come mai. Perché lo facevamo, e quando rispondevamo loro che in attesa dell’intervento del comune preferivamo dare il buon esempio, rimanevano un po’ interdetti,  alcuni piuttosto scettici, ma c’era anche una piccola minoranza che ci ringraziava di cuore.

Alcuni addirittura sembravano sospettosi, “ma perché questi si prendono cura di uno spazio che non è loro?” Magari mirano ad appropriarsene! Era questa la domanda stampata sui loro volti. I più schietti lo dicevano apertamente, altri mostravano solo perplessità. Ma col passare degli anni avveniva sempre più spesso che ci ringraziavano sinceramente, e  magari ci davano anche consigli sulle essenze da piantare; ma quando gli suggerivamo che potevano prendere l’iniziativa anche loro si schermivano, ma col tempo il seme del buon esempio è germogliato.

Un giorno di primavera l’associazione dei Giardini di Eva decise di organizzare una prima iniziativa pubblica con i ragazzi dell’Istituto comprensivo Giovanni Falcone del quartiere vicino, insieme misero a dimora una cinquantina di piante tra alberi e arbusti, fu un’iniziativa bellissima, molto coinvolgente. Le bambine e i ragazzi erano entusiasti, le immagini scattate rimandano ad un’atmosfera gioiosa e divertente, di grande partecipazione. Con alcuni studenti ed insegnanti si è creato un legame duraturo nel tempo con le socie e insieme continuano a prendersi cura delle piante.

Nel quartiere come in un piccolo paese, la gente aveva preso a mormorare su questi accadimenti, molti erano contenti per le migliorie apportate al quartiere dall’Associazione I giardini di Eva: le piante, le panchine donate, la cura degli spazi comuni, gli eventi che animavano il circondario, e  anche gli amministratori del comune si erano fatti più attenti e disponibili alle esigenze degli abitanti della zona, e spesso prendevano parte anche loro alle iniziative pubbliche. Per un certo periodo nacque anche un Comitato di quartiere che realizzò un’agenda delle priorità per i cittadini residenti, al primo punto, ovviamente, il ponte sul fiume Surdo!  Il comitato partecipò anche alla pianificazione e alla progettazione di alcuni interventi di recupero e manutenzione delle piazzette e degli spazi comuni. Purtroppo, il comitato si è sciolto in occasione delle ultime elezioni comunali per evitare sovrapposizioni politiche e ambiguità, anche per questo i Giardini di Eva aderiscono alle buone pratiche politica di coprogettazione, ma sono lontani dalle logiche elettorali e dai partiti.

Negli ultimi dieci anni, I Giardini di Eva hanno messo a dimora più di 200 piante lungo il viale, sono state donate 4 panchine e vari cestini per i rifiuti. Inoltre, l’associazione insieme alla rete di organizzazioni ambientaliste ha protetto il fiume dal taglio periodico degli alberi per la cosiddetta “pulizia degli argini”,  ha vigilato sulla discarica abusiva in prossimità del torrente. Molte iniziative pubbliche sono state intraprese coinvolgendo i cittadini, le istituzioni, la scuola e altre organizzazioni di volontariato. Da allora anche  i singoli condomini hanno ripreso a fare più spesso la manutenzione ordinaria degli stabili e delle facciate,  la cura per il decoro urbano da parte dell’amministrazione è diventata più accurata. Nel tempo altre piante sono state vandalizzate, alcune anche rubate dopo la messa a dimora, ma sempre sono state sostituite dalle volontarie e dai soci dei Giardini di Eva con altri alberi e piante officinali. La battaglia più difficile la combattiamo ancora con il taglia erbe della Rende Servizi che negli anni ha mietuto numerose vittime. Nel frattempo, la raccolta differenziata porta a porta è divenuta una realtà, anche se per alcuni condomini è ancora in progress.

maggio 2021

Più recentemente, anche alcune persone anziane aiutate dai nipoti hanno preso a curare le piante e a mettere a dimora  qualche pianticella. Dunque,  il messaggio della cura e della valorizzazione del territorio a partire da sé è passato, il quartiere non è più terra di nessuno, le piazzette ripristinate dal comune ospitano a tutte le ore del giorno bambini, ragazzi e persone di ogni età del quartiere, ma anche delle zone vicine. Certo, l’associazione ambientalista I giardini di Eva non avrebbe voluto l’erba di plastica per il campetto di calcio, ma vederlo sempre pieno di ragazzi che giocano a pallone ad ogni ora è, comunque, una gioia!

Il quartiere adesso è animato, anche il valore delle abitazioni sembra essere aumentato, i cartelli vendesi non si vedono più, ma in compenso arrivano telefonate dalle agenzie che chiedono se si vende qualche appartamento, magari agli ultimi piani, e quelli più prestigiosi. Orami è diventato una consuetudine vedere persone anche degli altri quartieri passeggiare in Viale dei Giardini, corrono, fanno sport nel campetto di calcio, fanno jogging, ci sono tant* ragazz* che vanno in bicicletta; anche se ancora non c’è una pista ciclabile, prima o poi si spera che verrà costruita! All’ultima iniziativa di maggio promossa dai Giardini di Eva hanno partecipato numerosi componenti  della rete ambientalista: MEDiterranean MEDIA l’associazione Artemis di Grisolia, Fiab Cosenza Ciclabile, Lipu di Rende e Regionale,  la Bottega Sociale, AiParC, l’assessore Marta Petrusevicz e  anche tanti cittadini del quartiere e dell’area urbana.

Il giro in bici sui parchi fluviali con la Fiab, la scoperta della fauna selvatica del posto a cura della Lipu, la messa a dimora di due viti, due glicini, due susine, due pistacchi, un ligustro, un’acacia, donati da Artemis e dal CSV di Cosenza, gli stand curati da Gaia Landri  e da Mariarosaria Putignano hanno arricchito la giornata. L’evento di maggio divertente e riuscitissimo si è concluso con un momento conviviale, l’aperitivo realizzato con le prelibatezze calabresi e marocchine, le pizze rustiche preparate dagli amici e dalle socie ci ha visto sereni all’ombra del querce salvate nel 2018 dal taglio indiscriminato che abbiamo protetto armati solo di un filo di lana e di una penna per qualche denuncia.

E’ stato bello stare nuovamente insieme fianco a fianco in cerchio, sebbene a qualche metro di distanza, in serenità e condividendo esperienze, saperi e sapori genuini. La prossima iniziativa si terrà in autunno con le ragazze e i ragazzi dell’Istituto Comprensivo Giovanni Falcone di Rende, di stagione in stagione il mondo cambia e anche noi .

Il cerchio delle querce salvato dai tagli incauti dell’amministrazione lo abbiamo dedicato ad  Agitu Ideo Gudeta, sociologa, imprenditrice, attivista vittima di femminicidio lo scorso anno. Ci auguriamo che la sua bella anima ispiri le nostre azioni.

Nella prossima primavera 2022 ci auguriamo di poter mettere a dimora l’albero della pace che ci è stato donato dalla Fondazione “Green Legacy Hiroschima” aderente all’Unesco giapponese. Il bombardamento atomico del 6 Agosto 1945 uccise un terzo dei cittadini di Hiroshima. I sopravvissuti temevano che nella città in rovina per anni non sarebbe più cresciuto nulla per decenni; invece dopo qualche anno gli alberi hanno ripreso incredibilmente a germogliare, tra questi il Ginkgo biloba del Tempio Hosebo di Temarachi. Il nostro piccolo Ginkgo biloba è figlio di questi alberi sopravvissuti al bombardamento atomico e porta con sé un messaggio di speranza e di pace di cui ci onoriamo di portare il seme.


Dita danzanti. Il tatto e lo smartphone

di Patrizio Paolinelli

Il modo di utilizzare lo smartphone (telefono intelligente) è il risultato di studi di ergonomia cognitiva focalizzati intorno al concetto di usabilità. Concetto tramite il quale viene stabilito il grado di facilità e di soddisfazione con cui l’utente interagisce con l’interfaccia grafica . Ovviamente per il successo del telefono intelligente insieme all’ergonomia cognitiva intervengono anche altri fattori quali il business, il marketing, il design, l’innovazione tecnologia, la moda e così via.

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

A parte questi fattori sul piano dell’usabilità emergono alcuni aspetti distintivi dello smartphone: 1) costituisce uno strumento di successo planetario utilizzato nel 2015 da un miliardo e 300 milioni di persone; 2) ha comportato per gli utenti l’apprendimento di un nuovo saper fare delle mani caratterizzato da precisione e delicatezza; 3) per l’attenzione e la sensibilità richieste tale saper fare presenta una gestualità annoverabile tra le pratiche delle buone maniere. Riflettendo sugli ultimi due punti si può notare che già la tastiera del computer (e in precedenza quella delle macchine da scrivere) necessita di una forza fisica minima e di un trattamento assai garbato. Tuttavia, se è possibile “pestare sulla tastiera”, la stessa immagine non è pensabile per il touch-screen (schermo tattile). Per far funzionare lo smartphone è infatti sufficiente poggiare leggermente la punta delle dita sul display. Leggerezza peraltro obbligata perché è inutile e dannoso esercitare forti pressioni.

I gesti gentili e disciplinati richiesti dai device mobili non comportano automaticamente né nobiltà d’animo né buona creanza. Cellulari e smartphone hanno infatti facilitato il fenomeno dello stalking, possono provocare dipendenza e per molti è considerato poco educato parlare con qualcuno e allo stesso tempo inviare Sms. In altre parole, il tatto inteso come organo di senso col quale percepiamo il mondo esterno non implica di per sé il tatto inteso come senso dell’opportunità, ossia come un modo di agire e di parlare caratterizzati da accortezza, prudenza e riguardo nei confronti del prossimo. Ciononostante le operazioni compiute dalle mani sullo smartphone comprendono esclusivamente movimenti coordinati e aggraziati che appaiono come una danza delle dita sullo schermo. Danza che a un primo sguardo presenta tre aspetti qualificanti: 1) comporta le medesime modalità esecutive sia per gli adulti sia per i bambini e lo stesso vale nei luoghi di produzione e in quelli extraproduttivi, in pubblico e in privato; 2) è unisex e in tal modo viaggia a vele spiegate verso il superamento della divisione sessuale del lavoro; 3) si caratterizza per essere svolta in ogni momento del giorno.

La combinazione di questi tre aspetti ha contribuito a modificare le forme dell’interazione sociale nella vita quotidiana. Per le buone maniere di un tempo era infatti inconcepibile che una conversazione faccia a faccia fosse continuamente interrotta dagli squilli del telefono dei partecipanti. Di converso prima dell’avvento dello smartphone le quotazioni di un tocco lieve e gentile come quello di sfiorare erano in deciso ribasso nella borsa degli habitus corporei. Perdita causata tra l’altro della concomitanza di due fenomeni: 1) la disattenzione civile che ci permette di vivere nelle nostre città ignorando contatti fisici sotto soglia che avvengono casualmente in luoghi affollati; 2) l’attenzione incivile del grande pubblico il cui sguardo è addestrato da una parte consistente dell’industria culturale ad andare subito al sodo in fatto di vicinanze corporee.

Lo schermo tattile ha invece ridato slancio all’arte di sfiorare. Arte pratica, che non richiede saperi espliciti e si apprende con l’esperienza. Nel processo di incorporazione di oggetti e strumenti il touch-screen ha attivato una sensibilità del tatto che sul piano dell’immaginario evoca lo sfregare della lampada di Aladino e sul piano concreto trasforma il corpo rendendolo capace di funzionare in modo adeguato per i nuovi utensili. Smartphone, tablet, e-book e altri dispositivi elettronici hanno inaugurato una nuova stagione del tatto in cui le dita acquistano una sensibilità aggiuntiva per compiere operazioni quali digitare, cliccare, picchiettare, sfogliare, scorrere, zoomare e così via. Si tratta di un incremento percettivo oggi indispensabile per comunicare, studiare, lavorare, giocare. Sulla base di tale incremento si possono individuare diversi fenomeni che ci limitiamo a enumerare sotto forma di un elenco ragionato.

In primo luogo, il pollice e l’indice sono le dita maggiormente abilitate alla gestione dello schermo tattile confermando così il ruolo evolutivo del pollice opponibile. Tuttavia rispetto allo schermo la penna e la carta richiedono tutt’altro tipo di perizia, sensibilità e coinvolgimento degli altri sensi.

In secondo luogo, medio, anulare e mignolo sono quasi del tutto esclusi dalla nuova esperienza del tatto. Difatti solo occasionalmente vengono poggiati sul display. Nell’interazione con lo schermo tattile il mignolo – indispensabile per l’efficacia della stretta del pugno – risulta il reietto della società della mano.

Un terzo fenomeno consiste nel fatto che sul piano delle sensazioni le dita non provano alcun piacere fisico nel contatto con lo schermo. Motivo che tra l’altro concorre a rendere parecchio incerta la gara tra libri elettronici e libri cartacei.

Quarto fenomeno. A proposito di piacere l’operazione di sfiorare e di poggiare delicatamente i polpastrelli sullo schermo non costituisce neanche lontanamente il preludio alla carezza. La quale, anzi, è tassativamente vietata perché fonte di disordine. Se si vuol fare un dispetto a qualcuno che sta giocando con lo smartphone basta appunto accarezzargli il display.

In quinto luogo, soddisfazioni e insoddisfazioni che provengono dal touch-screen  rendono lo sguardo più tattile della mano e la mano più ottica dello sguardo. Detto in altre parole, davanti allo schermo si tocca con gli occhi e si guarda con le mani. Nota a margine: si tratta di una riconfigurazione sensoriale che ha effetti significativi sulla più complessiva percezione della realtà.

Sesto fenomeno. L’immagine dello schermo non ci tocca emotivamente allo stesso modo di quella tradizionale. Un tempo le fotografie e le lettere cartacee dell’amato o dell’amata potevano essere carezzate, baciate e portate al cuore, mentre l’olfatto giocava un intenso ruolo evocativo. Tutti gesti assai improbabili con lo smartphone per non parlare del fatto che lo schermo è inodore. Si può poi aggiungere che nel recente passato le ragazze talvolta sigillavano le loro lettere d’amore con l’impronta delle labbra caricate di rossetto. Manifestazione oggi sostituita dall’invio di emoticon. In definitiva: il contatto delle dita sullo schermo costituisce una sensazione tattile d’intensità prossima allo zero. Niente di paragonabile con la manualità meccanica dei vecchi telefoni a disco.

Settimo fenomeno. Se lo schermo tattile circoscrive enormemente le possibilità stesse del tatto è altrettanto vero che la nuova sensibilità delle punte delle dita dà luogo a inedite tecniche del corpo. Ad esempio, camminare per strada e allo stesso tempo messaggiare. Pratica diffusa che tuttavia genera un microconflitto. Per alcuni infatti è sconsigliata e andrebbe regolamentata se non addirittura vietata, mentre per la maggioranza dei possessori di smartphone non pare proprio porsi il problema.

Le interdizioni sociali costituiscono un altro argomento da approfondire. L’uso dello smartphone è infatti proibito in diversi spazi: al cinema, a teatro, in alcuni reparti ospedalieri, in aereo e così via. Mentre la sua confisca da parte dei genitori pare essere diventata per gli iperconnessi adolescenti di oggi una punizione molto più severa dell’antico divieto di uscire di casa. Appare come una vera e propria mutilazione perché lo smartphone è tutt’uno col suo possessore: fa parte del suo corpo.

Oltre all’apprendimento di un nuovo modo di coordinare vista e tatto lo smartphone sembra aver dato origine a quello che possiamo definire manual divide. Da un’osservazione empirica pare infatti che per scrivere gli immigrati digitali tengano il cellulare in posizione verticale con una mano e con l’altra utilizzino prevalentemente l’indice per comporre il testo. Mentre per eseguire la stessa operazione i nativi digitali tengono il cellulare in posizione orizzontale con entrambe le mani e utilizzano tutti e due i pollici. Per l’immigrato digitale significa una perdita di prestigio non gravosa solo a patto che sappia usare efficacemente le funzioni principali dello smartphone. Questa tolleranza deriva anche dal fatto che in società la comunicazione è un ambito nel quale le buone maniere sono vitali. Senza buone maniere la comunicazione torna indietro, involve.

Un ultimo fenomeno è costituito dal penetrante controllo sociale nei confronti della nuova abilità della mano. Ci riferiamo alla possibilità dello smartphone di registrare ogni tocco delle dita sullo schermo e soprattutto al riconoscimento dell’impronta digitale nei telefoni di ultima produzione. E’ evidente che se da un lato tale dispositivo tutela il proprietario dello smartphone da intrusioni provenienti dal mondo reale, dall’altro non garantisce affatto che la privacy sia rispettata da chi governa la telefonia mobile. In poche parole gli utenti consegnano volontariamente a un sorvegliante elettronico le proprie impronte digitali che entreranno a far parte di assai poco trasparenti Big Data a disposizione delle imprese. Dinamica in linea col sempre più oscuro trattamento delle informazioni e la dilagante affermazione del potere economico nella gestione della vita di relazione.

Da questo provvisorio elenco emerge quanto la danza delle dita sullo schermo tattile produca effetti sociali che vanno al di là della progettazione ergonomica. Sulla base di tali effetti il contegno e l’abilità della mano sul display rientra nel più generale processo di civilizzazione che investe la storia del corpo con il suo succedersi di regole in numerosi campi dell’esperienza quali l’alimentazione, l’abbigliamento, l’abitare, la sessualità e dunque la gestualità. Certo, i modi gentili e i disciplinati movimenti delle dita sullo schermo non significano ipso facto il rispetto della netiquette. Ma è necessario dare tempo al tempo perché l’interazione tra mano e schermo costituisce una storia appena iniziata.

Patrizio Paolinelli, via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro


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