La globalizzazione nella sua accezione simbolica ha reso la dimensione spaziale e comunitaria del territorio una modernità liquida (Zygmunt Bauman), un paradigma in cui ogni fenomeno culturale accorcia la distanza e priva l’individualità della possibilità di poter acquisire la ricchezza rappresentata dalla realizzazione identitaria dell’ecosistema locale, attraverso le risorse materiali e i simboli delle tradizioni culturali.
<<== dott. Domenico Stragapede
Il paradigma che si oppone
all’evanescenza della liquidità della spazialità sociale, dove in alcuni casi
si annulla nel carattere omogeneo del vivere quotidiano, senza prestare
attenzione al glocale manifestarsi dell’identità urbana è il processo moderato
di “liquidità lenta”.
Il territorio nella visione più
intima dello spazio geografico antropico, storico, culturale, archeologico e
enogastronomico si riscopre per l’offerta tematica, in cui la società adegua la
propria visione, nutrendo la curiosità dell’individuo, imprimendo un carattere
essenziale del processo turistico e affermando il fenomeno della riscoperta
della “natura locale”.
Le policy urbano-turistiche, in
composizione alle infrastrutture e alla mobilità sostenibilità del territorio,
favorendo il rinnovo delle ricchezze
locali, in una visione condivisa di realtà decodificata e sinergica, promossa dalla interoperatività
meso-dimensionale delle reti complementari dell’azione ecosistemica delle
realtà metropolitane o intercomunali, sia in grado di pianificare il lento e
scorrevole schema, da cui poter attirare gli “steakeholders”, e attuare la
patrimonializzazione e marketing dei tesori storico-culturali dell’identità
locale.
La tradizione è la fonte
principale attraverso cui si esprime una collettività identitaria, il passato
che suggerisce la capacità di poter assicurare autenticità alla novità quale
immagine di tale prodotto, costituito dalla salvaguardia del mistero storico
della cultura e “tradizioni”.
La tematizzazione espressa per
mezzo dell’”invenzione” esistente della cultura locale, contrasta lo
sgretolamento della figura globale, incentivando la capillare liquidità
scorrevole, quale prassi in cui la tradizione si mescolala con la misura del
meso-contesto culturale del luogo emotivo, che afferma la garanzia della
promozione materiale delle risorse(food, shopping e archeologia), processando
la dinamica del turismo strategico asimmetrico, multidirezionale ed
essenzialmente lento che possa esprimere la valorizzazione collettiva locale e
arricchire la coscienza personale.
La “liquidità lenta” rappresenta
la forma di annullamento dell’omogeneità territoriale priva di valore e
l’alienazione personale dell’identità cosciente. L’esposizione e l’offerta
competitiva sincronica delle realtà locali sono la chiave di definizione della
strategia economica politica, quale risposta al globalismo culturale e storico.
La conclusione strategica dei
territori si sublima in un’opera di orientamento bi-frontale fra individuo e
luogo, dove i frutti raccolti sono espressi da azioni ibride, caratterizzate
dal modello “esperienziale”, ovvero il lento consolidamento del tema reale
dello spazio, favorito dalla mercificazione controllata della dimensione
dinamica e sostenibile del patrimonio
della “tradizione”. Un brand in
cui si riconosce il merito di assicurare emozioni uniche e indimenticabili,
potenziato al movimento estroverso dell’innovazione sostenibile delle
infrastrutture e mobilità sostenibili, capaci di collegare il passato della
“tradizione”, il presente dell’ “esperienza” e il futuro della glocale
“liquidità lenta”.
In questo articolo prenderemo in considerazione la Critica della modernità di Vilfredo Pareto.
di Giovanni Pellegrino
Nel rileggere la critica di Pareto alle idee cardine della modernità bisogna tenere presente che ha dedicato uno studio specifico sull’argomento. Anzi a voler essere più precisi una posizione critica rispetto alle ideologie della modernità è riscontrabile nelle opere di Pareto solo effettuando un’analisi trasversale. Possiamo articolare la critica di Pareto alla modernità su diversi livelli: un primo è costituito dal rifiuto di una razionalità “ forte” sopra determinante l’agire di tipo illuministico e positivistico .Il secondo livello è rappresentato da uno studio puntuale dei vari aspetti del panorama ideologico a lui contemporaneo. Infine, il terzo livello è riscontrabile nell’ analisi dell’organizzazione economica e politica delle società a lui contemporanee.
Nella descrizione che Pareto offre dei protagonisti del profondo cambiamento che si stava mettendo in atto vengono ben rappresentate le contraddizioni e le crisi generate in Italia dal processo di modernizzazione di cui era investito il Paese .
Prof. Giovanni Pellegrino >>>
Le conseguenze più evidenti di tale processo di modernizzazione era l’urto tra norme e valori vecchi e nuovi unitariamente a una relativa accentuata frammentazione sociale. Situazioni più o meno simili di conflitto sociale e di segmentazione avevano indotto Comte a considerare imminente e inevitabile il progresso verso una società più pacifica e più giusta. Spencer a sua volta aveva teorizzato l’emergere della società industriale operosa e poco aggressiva. A loro volta Marx ed Hengels erano convinti che la rivoluzione avrebbe poi condotto ad una vita collettiva in cui uguaglianza e giustizia sociale si sarebbero pienamente realizzate.
Pareto Invece rintraccia nei disordini e nelle crisi la prova che l’evoluzione storica delle democrazie occidentali non era né rettilinea ne continua e vi vede il segno della permanenza del conflitto come processo sociale. La situazione che egli si trovava ad osservare costituiva a suo avviso un ulteriore dimostrazione dell ‘ infrangersi dell ‘utopia moderna di una vita sociale interamente determinata dalla ragione. La sua sociologia non si pone così come un tentativo di razionalizzare la immagine della società emancipandola dalla religione che la legittima nel mondo tradizionale. Pareto vuole dimostrare che ogni “credo” progressista ogni moderna teologia non intrattiene alcun rapporto privilegiato con la ragione in quanto la sua logica è la stessa che fonda le ideologie tradizionali e cioè quella dei bisogni che si muovono a livello residuale. Questa consapevolezza induceva Pareto ad opporsi nettamente alle idee che avevano accompagnato lo sviluppo della modernità nelle società occidentali, sottolineando come esse avessero comportato una involuzione della borghesia.
Inoltre, Pareto mette in evidenza che i grandi ideali che avevano caratterizzato l’ ottocento erano risultati disattesi o capovolti. Infatti, la democrazia aveva dato luogo al parlamentarismo e alla demagogia mentre il principio nazionale si era corrotto in fanatismo nazionalistico. A sua volta la libera concorrenza era stata sostituita dai monopoli e dall’intervento dello stato. Tutto questo portava Pareto a guardare con ironico sospetto le illusioni e gli entusiasmi dei positivisti e a svolgere una analisi demitizzante l’ ideologia del progresso continuo e lineare.
L’opera di Pareto contiene inoltre tutta una serie di osservazioni critiche puntuali su quei grandi temi ottocenteschi che si erano trasformati in mode ideologiche come per esempio il Progresso la Ragione , la Scienza il Nazionalismo etc. Tali temi esprimono gli ideali della emancipazione e ne rappresentano i modelli culturali più caratteristici che costituiscono i diversi aspetti del panorama ideologico della modernità. Secondo Pareto lo spirito della modernità ha presentato nei suoi tratti più salienti una tendenza globalizzante rivolta a includere le più svariate manifestazioni dell’agire singolo e collettivo finalizzata a sottolineare in ogni aspetto della realtà la fine dell’ordine tradizionale.
Inoltre, Pareto mette in evidenza che i grandi ideali che avevano caratterizzato l’ ottocento erano risultati disattesi o capovolti. Infatti, la democrazia aveva dato luogo al parlamentarismo e alla demagogia mentre il principio nazionale si era corrotto in fanatismo nazionalistico. A sua volta la libera concorrenza era stata sostituita dai monopoli e dallo intervento dello stato. Pareto coglie pienamente la forza totalizzante insita nel progetto della modernità e la esprime attraverso l’immagine di un “Pantheon “ ad esemplificare un insieme di convinzioni e di ideologie che si muovono intorno ad alcuni assi portanti. Pareto afferma che la religione del progresso è “ politeista “ e si fonda sulla scienza.
La scienza a sua volta si circonda di divinità minori come sarebbero la Democrazia, la Verità, la Giustizia . Pareto è consapevole che a livello di azione sociale l’ideologia della modernità fondamentalmente ottimista è incentrata sull’idea di progresso offrì l’incentivo necessario per uscire senza rimpianti dalla tradizione e per supportare i grandi mutamenti in atto .Teologie e cosmologie e ideologie, miti antichi e moderni vengono passati da Pareto al vaglio di un esame puntuale e distruttivo. Lo scopo principale di Pareto è quello di demitizzare la razionalità e la moralità attraverso il disvelamento dei loro fondamenti non razionali e non morali.
Egli analizza criticamente i miti della modernità operanti in una realtà una profonda trasformazione quale era quella italiana a lui contemporanea. Pareto riserva un’attenzione privilegiata nei confronti di quegli agenti di cambiamento i cui interessi, opinioni e ideologie condizionavano il divenire della nazione. Come tutti i grandi “maestri del sospetto “ Pareto non si accontenta di ciò che appare e non si ferma alla superficie. Egli affida alla sua sociologia il compito di scoprire il velo di togliere la maschera alla realtà. Egli non dà infatti fiducia al senso comune e valuta con sospetto le spiegazioni offerte dagli attori sociali.
Nell’ambito di questa continua e corrosiva opera di smascheramento la ragione perde ogni primato a livello individuale e ancor di più sociale. Pareto non solo ha incentrato la sua sociologia su una accezione “debole” della ragione sottolineando l’esistenza di una pluralità di fondamenti della vita collettiva ma ha messo anche in evidenza i processi di distorsione del pensiero. Inoltre, Pareto ha messo in luce la funzione dell’inganno e dell’autoinganno anche nel l’ambito dei contesti apparentemente più razionalizzati. Pareto mette in evidenza l’esistenza di profonde contraddizioni all’ interno del progetto moderno. Egli coglie e sottolinea l’aspetto non ufficiale della modernità e cioè il perdurare della superstizione dell’ incertezze del disordine e delle azioni non logiche.
Concludiamo tale articolo mettendo in evidenza che di fronte a un pessimismo antropologico, Pareto presenta un deciso ottimismo epistemologico basato su fiducia circa la possibilità di un’analisi soddisfacente dei fatti e delle loro relazioni. L’ottimismo epistemologico di Pareto e il suo pessimismo antropologico per essere colti nella loro specificità vanno analizzati alla luce degli eventi storici che caratterizzarono l’ Italia al tempo di Pareto.
Per poter concretamente supportare un contesto organizzativo, il contenuto attinente la qualità dell’apprendimento e dell’organizzazione che si adatta allo scenario strategico, bisogna parlare brevemente della leadership, riferendoci alla teoria della grande persona, caratterizzata dai tratti salienti dell’accentramento decisionale, attraverso l’isolamento dei metodi manageriali in cui si ipotizza il livello dell’organizzazione funzionale, o di contingenza, legato alla misura dei risultati nel breve, medio e lungo termine, in particolare al controllo, che può passare dall’essere alto fino all’arrivare alla completa assenza in situazioni di stabilità degli obbiettivi.
Tali accezioni, viste in precedenza si affermano nella proposta di differenti stili esecutivi, autoritario, democratico e permissivo. La fisionomia di tale orientamento esprime il concetto verticale dell’azione organizzata, denominata top-down, espressione dei processi decisionali elaborati dalla struttura di vertice, e assimilati passivamente nel processo complesso delle dinamiche strutturali. Tale visione in un contesto moderno si prefigura nella sua limitatezza, non dando spazio a quello che viene definito circuito del capitale umano, ossia la capacità degli individui di essere risorsa strategica, valorizzando il carattere delle conoscenze tacite–esplicite, funzione essenziale dell’esperienza delle vecchie generazioni e motore adattivo delle nuove, che attraverso il contesto della formazione permanente, manifestano l’interesse organizzativo, finalizzando il principio formativo di apprendimento di tipo formale, non formale e informale.
L’organizzazione nel delineare le strategie adeguate a tale definizione deve comunque considerare il profilo ambientale, in affermazione alla dinamica migliore per richiamate i diversi elementi contestuali al progresso organico (intenzione, autonomia, frattura centrifuga dell’organizzazione, caos creativo, ridondanza e varietà dinamica).
La finalità di tale Know how accresce il processo creativo del bottom-upadvocacy, ovvero il saper mettere in pratica le caratteristiche della funzione individuale nella sua complessità, attraverso i tipi di sapere, sviluppando la struttura dei livelli di apprendimento in corrispondenza alle scelte, strategie e aree di riferimento.
La possibilità e la capacità di adattare l’organizzazione al contesto temporale e spaziale dell’ambiente esterno è essenziale per affermare il risultato strumentale della dimensione cognitiva del processo circolare organizzativo, in cui si attuano una serie di fasi in cui si inizializzano le azioni da porre in essere, in particolare, dalla situazione pre-riflessiva, creativa, risolutiva e post-riflessiva.
In tale misura, possiamo concludere che attraverso il suddetto schema, la formula che adegua le caratteristiche degli individui che privilegiano l’elemento primario dell’evoluzione organizzativa nella sua efficienza, usano la regola dell’ apprendere ad apprendere. Dove le disposizioni, consuetudini e capacità, unite alla struttura unica del fattore esperienziale e dinamico dell’innovazione tecnologica, realizza il modello organico, che adatta il proprio comportamento per ottenere il massimo risultato attraverso lo sforzo pensato e ripartito in forma equilibrata, per creare un principio organizzato e organizzativo, che si adegua in base alla formazione riflessiva e apprendimento dinamico, in considerazione del processo generazionale che bilancia il profilo del circuito circolare della qualità delle risorse umane.
In questo articolo prenderemo in considerazione le norme esistenti nei gruppi
In ogni tipo di gruppo esistono comportamenti consentiti e non consentiti: la funzione delle norme di gruppo è quella di stabilire quali comportamenti sono ammissibili e quali non lo siano in un determinato gruppo sociale.
<<== Prof. Giovanni Pellegrino
Le norme sociali sono un prodotto collettivo e non includono solo regole comportamentali ma possono riguardare anche modalità espressive come il gergo linguistico, l’abbigliamento e il culto di un certo genere di musica. La presenza di un sistema di norme è una caratteristica costante sia dei gruppi formali che di quelli informali. Tuttavia nei gruppi formali la nascita del sistema di norme richiede spesso un lungo iter formativo in quanto richiede un lungo tempo di negoziazione tra i componenti dei gruppi formali. Tale negoziazione deve servire a raggiungere un non sempre facile compromesso tra gli interessi dei vari sottogruppi dal momento che tali interessi sono spesso in conflitto tra loro.
Al contrario nei gruppi informali le norme hanno un carattere di tipo motivazionale ed emotivo.
Infatti tali gruppi nascono dall’incontro di individui che hanno motivazioni simili che potrebbero essere ad esempio le frustrazioni e i sentimenti di deprivazione di adolescenti e di giovani che abitano in zone periferiche e povere. Inoltre, le norme sociali sono esplicite nei gruppi formali nei quali molto spesso esiste un regolamento scritto che chiarisce ciò che è permesso e ciò che è proibito. Al contrario nei gruppi informali le norme sociali sono quasi sempre implicite nel senso che esse non sono né scritte ne espresse direttamente anche se hanno ugualmente la forza di impatto e il raggio di influenza sufficienti per determinare l’esclusione dei membri che le hanno violate.
Anche in gruppi informali più ampi come ad esempio quello costituito dagli abitanti di un piccolo villaggio sono presenti un sistema di norme informali implicite che condiziona fortemente la vita degli abitanti del villaggio. Dobbiamo mettere in evidenza che tali norme possono anche essere molto diverse dalle norme vigenti nelle città o in altri villaggi. Dobbiamo dire anche che in ogni gruppo esistono delle norme centrali e delle norme periferiche.
Le norme centrali sono quelle che rivestono una particolare importanza per il gruppo in questione e di conseguenza non devono essere assolutamente infrante dal momento che dal loro rispetto può dipendere la sopravvivenza del gruppo. Per tale ragione chi viola una norma centrale è soggetto a sanzioni sociali durissime. Il valore prescrittivo delle norme centrali è ben esemplificato dai rigori della legge marziale nei casi di gravi infrazioni alle norme del codice militare. In generale possiamo dire che quando più un gruppo è coeso tanto più violentemente reagiscono i membri di esso nel momento in cui uno dei comportamenti infrange una norma centrale.
In tali casi nessuna forma di devianza può essere accettata per nessuna ragione. Per quanto riguarda le norme centrali dobbiamo dire che esse non devono essere violate neppure dai leader dei gruppi anche se si trattasse di leader molto carismatici. Palmonari afferma che i leaders e i componenti del gruppo ,che possiedono uno status di gruppo elevato, non solo non sono esentati dal rispetto delle norme centrali ma sono ancora più obbligati dagli altri membri a rispettarle in quanto deviare da esse può determinare addirittura la fine del loro potere.
Per quanto riguarda le norme periferiche dobbiamo dire che esse riguardano questioni e valori considerati dai componenti del gruppo di importanza limitata. Pertanto, il non rispetto di tali norme provoca sanzioni molto leggere e temporanee se non addirittura nessuna sanzione. Inoltre, nella morale di gruppo esistono comportamenti che fanno parte della cosiddetta “zona grigia” la quale è costituita da quei comportamenti che non sono né accettati né rifiutati dal gruppo.
Tornando alle norme periferiche dobbiamo dire che l’iter ha maggior libertà degli altri membri di infrangerle o addirittura di cambiarle.
Di solito anche ai membri che possiedono uno status di gruppo elevato è concesso di violare le norme periferiche mentre tale privilegio non viene concesso ai componenti del gruppo che hanno uno status basso. Essi se violano tali norme sono soggetti a sanzioni in ogni caso più leggere di quelle che subirebbero se violassero le norme centrali. In genere possiamo dire che in quasi tutti i gruppi vale la regola informale che più basso è lo status del soggetto che infrange una norma periferica, più severa è la sanzione che lo colpisce.
Comunque sia per il fatto di doversi conformare sia alle norme centrali che a quelle periferiche, i membri del gruppo dotati di uno status basso sono rimproverati e sanzionati più frequentemente di quei soggetti che occupano posizioni elevate. Appare evidente che per quanto riguarda le norme periferiche in moltissimi gruppi non si può dire che la legge è uguale per tutti. Oltre che a centrali e periferiche le norme di gruppo possono anche essere classificate in istituzionali e volontarie: le prime vengono imposte dal leader o da autorità esterne al gruppo.
Al contrario le seconde nascono dalle negoziazioni tra i membri del gruppo allo scopo di risolvere o ridurre le situazioni conflittuali. Dobbiamo anche dire che diverse sono le funzioni svolte dalle norme nella vita di gruppo. In primo luogo esse sono necessarie affinché il gruppo raggiunga i suoi obiettivi in quanto determinano una pressione verso l’uniformità e combattono i comportamenti devianti. Vogliamo anche mettere in evidenza che nelle situazioni di emergenza come un conflitto con un altro gruppo le norme tendono a diventare più rigide allo scopo di serrare le file ed aumentare il grado di coesione interna.
I sociologi sanno che in genere la sola presenza di nemici esterni determina un aumento della solidarietà di gruppo soprattutto quando i componenti pensano di essere vittime di un complotto organizzato da potenti nemici esterni.
In secolo luogo le norme danno la possibilità al gruppo di preservarsi in quanto tale evitando che esso si possa sciogliere. In terzo luogo, le norme determinano il tipo di percezione sociale della realtà proprio del gruppo. Esse fanno in modo che tutti gli individui accettino la stessa interpretazione della realtà sociale. Dobbiamo mettere in evidenza che l’interpretazione della realtà è un fenomeno importantissimo nelle scienze sociali dal momento che il comportamento degli individui è condizionato dal modo in cui interpretano la realtà più che dalla realtà sociale in sé stessa. In quarto luogo le norme sociali permettono la definizione delle relazioni del gruppo con l’ambiente esterno. L’interpretazione della realtà sociale vigente nel gruppo permette ai membri di giungere ad un consenso riguardo al tipo di relazioni da instaurare con gli altri gruppi che fanno parte dello stesso habitat sociale. Il tipo di interpretazione della realtà sociale adottato dal gruppo permetterà anche di stabilire quali gruppi possono essere considerati amici, quali nemici e quali sostanzialmente neutrali.
Un altro interessante dato di fatto riguardante le norme di gruppo è rappresentato dal fatto che esse una volta che sono state create dimostrano una notevole resistenza al cambiamento come è possibile osservare in numerosi ambiti della vita sociale. Nonostante questa loro tendenza alla stabilità le norme di gruppo possono cambiare sotto la spinta di eventi particolarmente significativi ed importanti. Come la creazione delle norme è un fenomeno collettivo allo stesso modo la modifica di esse è un fenomeno collettivo. In genere un gruppo sociale modifica le sue norme centrali se si verificano nel contesto sociale di appartenenza cambiamenti molto radicali che costringono i membri del gruppo a modificare tali norme alfine di non subire un processo di emarginazione sociale da parte degli altri gruppi.
Concludiamo tale articolo mettendo in evidenza che altre volte sono le autorità esterne al gruppo ad imporre la modifica delle norme centrali.
Per fare degli esempi possono imporre la modifica di tali norme persone particolarmente influenti quali genitori, politici, poliziotti più in generale perone esterne al gruppo dotate di grande carisma. Detto ciò, riteniamo concluso il nostro discorso sulle norme di gruppo.
<<La vita nazionale è, per sé, il complesso operante di tutti quei valori di civiltà, che sono propri e caratteristici di un determinato gruppo, della cui spirituale unità costituiscono come il vincolo>>(Pio XII, Dal Messaggio natalizio del 1954).
Dott, Domenico Stragapede ==>>
Nell’individuare l’errore nel
fenomeno analizzato, l’<<ingroup bias>>, bisogna capire che il
gruppo nel creare tale dimensione, tende a categorizzare ogni elemento fuori
dal proprio spazio di valutazione, in difesa delle credenze e valori contrastanti
con il Sé collettivo, affermando automaticamente un processo percettivo di
conflitto sociale, per il quale aggredisce il prossimo.
La base del paradigma è
rinvenibile nel sistema di conservazione delle informazioni a cui il fattore della cultura sociale
marca la condizione e la frequenza del marcatore stabilità, contrapposto
al fattore adeguamento.
In virtù dell’ampio livello di
coesione nel principio negativo della stagnazione nazionale, chiusa nella
conservazione del valore tradizionale, si promuoverà l’esclusione della
diversità, affermando l’identità aggressiva, portando la costituzione del
sistema stigmatico, ossia tutti coloro i
quali non sono parte del processo ambientale e dispositivo del sistema di
cognizione sociale, e di conseguenza minimizzati, ad essere minoranza etnica.
La difficoltà nell’elaborare
la novità di una realtà globale e multiculturale, risulta una condizione reale,
proprio perché gli individui o una interra popolazione attraverso un processo
euristico di ancoraggio e accomodamento delle informazioni fanno fatica a
cambiare, o meglio adeguare il principio sociale del percepire diversi fattori
della comunità in cui si radica la propria cultura. Di conseguenza si ribella
in forma aggressiva affermando il suo essere “unità”, discriminando la devianza
sociale attraverso l’esclusione e la denigrazione, creando a sua volta un
effetto ad onda, in cui il fattore auto percettivo si afferma
nell’“outgroup”, quale consapevolezza dell’essere un pericolo e un ostacolo al
mantenimento dello status quo.
L’inclusione nella sua
accezione nominale, crea il piano dispositivo in cui i diversi schemi afferenti
al gruppo, rompe la condizione percettiva della diversità ingroup vs outgroup.
Attraverso una ridefinizione dei criteri di
interdipendenza e la condivisione di uno scopo comune, la
società accresce il valore e la credenza della cooperazione e condivisione
inclusiva che esaurisce lo stereotipo del muro pregiudiziale del nazionalismo
esclusivo.
La vita sociale è caratterizzata da quel continuo processo che porta gli individui ad entrare e ad uscire dai gruppi. Nella società contemporanea questi processi di entrata e di uscita dai gruppi sono diventati più frequenti rispetto alle società del passato dal momento che i rapporti interpersonali sono diventati molto più instabili rispetto al passato. Inoltre la mobilità sociale e geografica determinano spesso la rottura dei vecchi legami interpersonali e la creazione di nuovi rapporti.
<< ==Prof. Giovanni Pellegrino
In questo articolo prenderemo in considerazione le condizioni, le situazioni e i meccanismi che determinano l’uscita degli individui dai gruppi.
Accade molto spesso che un individuo decida o venga costretto ad abbandonare il gruppo di appartenenza o per decisione degli altri membri o perché il gruppo si è sciolto. Per quanto riguarda la posizione dell’individuo che esce dal gruppo, ci sono notevoli differenze tra chi esce per decisione autonoma e chi viene allontanato dal gruppo. Come pure ci sono differenze tra chi esce insieme a tutti gli altri membri e chi deve uscire da solo perché non esistono più le condizioni che lo rendevano membro di quel gruppo. Esamineremo una per una queste modalità di uscita dal gruppo cominciando dall’uscita determinata da una decisione libera ed autonoma dell’idividuo.
Alla base di tale modalità di uscita vi sono fondamentalmente quattro cause possibili: la demotivazione, le frustrazioni subite, i conflitti con il leader o con altri membri e la possibilità di entrare in un nuovo gruppo considerato più adatto all’individuo. Per quanto riguarda la caduta dei livelli motivazionali di un membro del gruppo, essa può essere dovuta sia al fatto che l’individuo non ritiene più interessanti per i suoi fini personali gli obiettivi che il gruppo si pone, sia a fatti che non riguardano direttamente il gruppo. Tuttavia tali fatti determinano una crisi dei livelli motivazionali che si riflette anche nei rapporti tra l’individuo e il gruppo. Cercheremo di chiarire con un esempio quanto abbiamo ora detto.
Ipotizziamo che un individuo membro di un gruppo sportivo venga abbandonato dalla fidanzata cosicchè in seguito a tale abbandono subisce pesanti danni psicologici che determinano il crollo dei livelli motivazionali. Tale crollo riguarderà anche le motivazioni che lo spingono a praticare attività sportive all’interno del gruppo. Pertanto l’individuo uscirà dal gruppo non per fatti avvenuti all’interno del gruppo ma per il fatto che la perdita della fidanzata ha determinato un crollo delle energie nervose e motivazionali. In sintesi l’individuo vorrebbe continuare a praticare le attività sportive ma gli mancano le energie nervose per farlo in quanto la depressione conseguente alla perdita della fidanzata determina una diminuzione dei livelli motivazionali e delle energie nervose.
Anche una serie di frustrazioni può indurre un individuo ad uscire da un gruppo dal momento che quando in un dato gruppo un soggetto deve subire frequenti frustrazioni, la permanenza in tale gruppo diventa destabilizzante per l’equlibrio psicologico dell’individuo. Infatti continue frustrazioni danneggiano l’equilibrio mentale dell’ individuo. Inoltre le tensioni psicologiche possono determinare la comparsa di comportamenti aggressivi nei riguardi degli altri componenti del gruppo o anche nei riguardi di altre persone che non fanno parte del gruppo. Esiste infatti un rapporto di causa effetto tra frustrazioni subite e comportamenti aggressivi manifestati. Un altro motivo che può spingere un soggetto ad abbandonare volontariamente un gruppo è la presenza di conflitti con il leader o con altri componenti. Soprattutto se tali conflitti non riguardano situazioni contingenti ma elementi di fondamentale importanza della cultura di gruppo o del modo di interpretare la realtà.
Altre volte il conflitto che induce l’individuo ad abbandonare il gruppo può essere dovuto alla distribuzione del potere all’interno del gruppo. Per fare un esempio può accadere che un individuo voglia assumere un ruolo che aumenti il suo potere nel gruppo ma il leader decida di affidare tale incarico ad un’altra persona.Tale decisione determina un conflitto che causa l’uscita dell’individuo dal gruppo nei confronti del leader, sia perché si ritiene ferito nell’orgoglio e sminuito agli occhi degli altri membri che lo considerano un perdente. Infine un individuo può abbandonare un gruppo in quanto ha la possibilità di entrare a far parte di un nuovo gruppo giudicato dal soggetto migliore del precedente per diverse ragioni reali o immaginarie. In primo luogo l’individuo può pensare che il nuovo gruppo sia più adatto del precedente a soddisfare i suoi bisogni.
In secondo luogo il soggetto può ritenere che il nuovo gruppo sia più adatto a valorizzare le sue qualità affidandogli i compiti più importanti di quelli che rivestiva nell’altro gruppo. In terzo luogo l’individuo può trasferirsi in un altro gruppo perché ritiene che tale gruppo sia costituito da individui dotati di uno status sociale superiore a quello dei componenti del precedente gruppo. Di conseguenza il soggetto ritiene che entrando nel nuovo gruppo potrà aumentare il proprio prestigio sociale ed avere la possibillità di costruirsi una rete sociale in grado di favorire la sua scalata sociale. In alcuni casi quando un individuo decide di lasciare un gruppo può accadere che vengono messe in atto delle sanzioni nei suoi riguardi. Tali sanzioni possono andare dal semplice disprezzo al tentativo di compiere vendette di diverso tipo nei suoi riguardi.
Per fare un esempio in un contesto di conflitto intergruppi l’uscita da un gruppo per entrare in quello rivale assume un significato particolare che comporta in alcuni casi sanzioni gravi per il fuoriuscito che viene considerato un vero e proprio traditore. Tali sanzioni possono arrivare fino all’uccisione dell’individuo come accade nei conflitti tra gruppi criminali che si contendono il controllo di un dato territorio. In ogni caso quando un individuo esce da un gruppo per entrare in un altro che professa una visione del mondo e un’ideologia molto diversa se non opposta a quella del precedente gruppo il suo comportamento verrà giudicato in maniera opposta dai due gruppi. Per il gruppo dal quale l’individuo è uscito egli è un traditore, un venduto mentre per il gruppo nel quale il soggetto si inserisce egli è un individuo che si è ravveduto, che si è pentito, che si è reso conto che stava seguendo una visione del mondo sbagliata. In sintesi da un lato l’uscita dal gruppo può apparire come un ravvedimento mentre dall’altro lato un infame tradimento.
Per quanto riguarda quelli che vengono allontanati dal gruppo per decisione del leader o per decisione del leader e della maggioranza dei componenti del gruppo il discorso è molto diverso. Dobbiamo infatti dire che nella grandissima maggioranza dei casi l’allontanamento è determinato dal fatto che gli esclusi hanno violato più volte importanti norme della morale di gruppo. Altre volte accade che tutti i componenti devono uscire dal gruppo perché esso aveva fin dall’inizio una durata temporale limitata. Per fare un esempio si considera il caso di un gruppo costituito da individui che hanno scelto di trascorrere il periodo estivo nello stesso residence. Appare evidente che con la fine dell’estate tutti i componenti dovranno uscire da tale gruppo in quanto dovranno tornare ai rispettivi luoghi di provenienza. Infine può accadere che un singolo individuo debba uscire da un dato gruppo in quanto il suo ruolo sociale è cambiato.
Come esempio citeremo il caso di uno studente universitario fuori sede che dopo essersi laureato deve abbandonare il gruppo di studenti in cui si era inserito perché deve ritornare al suo paese. Potremmo citare altri esempi di uscita da un gruppo in seguito al cambiamento del ruolo sociale dell’individuo ma preferiamo chiudere ora il nostro discorso sui meccanismi che determinano l’uscita da un gruppo.
Prima di poter iniziare un’analisi di quello che realmente è il processo di sfiducia nella prassi politica, comprese le istituzioni e le figure le quali esercitano le funzioni di esecuzione di tali strutture, bisogna far riferimento al concetto di conformismo sociale, ossia quel “tentativo di capire e spiegare come i pensieri, sentimenti e i comportamenti degli individui siano influenzati dalla presenza reale, immaginata, o implicita di altri” (G. Allport).
<<== Dott. Domenico Stragapede
La sfiducia politica è uno dei processi della vita reale in cui, si concretizza la dimensione dispositiva e normativa della complessità relazionale degli individui parte attiva della società. Le persone nella percezione “naturale” trovano impossibile eludere la trappola della maggioranza di coloro i quali detengono uno status esclusivo e un differente peso sociale.
La politica nella fattispecie,
rappresenta la dimensione strutturale del malessere collettivo, non perché
incapace di assolvere la finalità ad essa attribuita, ma perché asservita agli
scopi dei gruppi, i quali determinano tensione, o una rottura asimmetrica
funzionale collettiva.
La minoranza per combattere tale fenomeno decide di abbattere la propria dimensione del Sé, adeguando la pretesa positiva delle aspettative del proprio io, decidendo di conformarsi al piano normativo e funzionale, accontentandosi dello status sociale di riferimento.
Tale decisione rappresenta la
forma negativizzata della comunità, la quale affonda nell’apatia collettiva,
non affrontando quello che è il gioco delle parti, disperdendo la possibilità
di migliorare il carattere personale, dis-alimentando la credenza della giusta
formula POLITICA, quella della competizione, capacità e qualità esecutiva.
Il credere di non avere
possibilità di cambiamento alimenta il pregiudizio, ovvero la propensione a
credere che diverse azioni o idee, compresi i comportamenti rappresentano
null’altro che l’abbandono della visione partecipativa, compresa la prospettiva
di cambiamento sociale. Ebbene sì, in una fase iniziale solo attraverso la
consapevolezza del proprio Sé, rafforzato dal processo privato di percezione individuale, sarà possibile frenare lo schema
mentale e il falso mito del processo di
stereotipizzazione, ossia la raffigurazione della realtà dovuta e accettata,
perché imposta dalla nostra stessa tensione cognitiva e massimizzata dalla formalizzazione degli
interessi di un’élite strutturata.
La fiducia nella politica può nascere solo attraverso la compressione del conflitto ambientale e situazionale, e della consapevolezza positiva nell’autostima personale. La Fiducia nella POLITICA null’altro è che “L’aspettativa che nasce all’interno di una comunità, di un comportamento prevedibile, corretto e cooperativo, basato su norme comunemente condivise (Francis Fukuyama).
L’accademia non ha mai amato la Scuola di Francoforte. L’ha subita molto malvolentieri durante gli anni ’70 del secolo scorso quando i libri di Adorno, Horkheimer, Marcuse e Fromm si vendevano come il pane e gli studenti universitari erano in rivolta. Se ne è sbarazzata con gran sollievo non appena ha iniziato a soffiare il vento della grande normalizzazione avviata negli anni ‘80 dal neoliberismo.
Poi sono arrivati gli anni ’90, dopo siamo entrati nel nuovo
millennio e più passava il tempo, più i francofortesi venivano dimenticati,
bollati come superati e le loro tesi considerate inutilizzabili per decifrare la
nuova società post Muro di Berlino. Una società formata culturalmente all’insegna
della filosofia post-moderna, della sociologia della complessità e di nuove
scuole di pensiero in una maniera o in un’altra allineate con i valori delle
società avanzate. Gli stessi che la Scuola di Francoforte aveva aspramente criticato
tanto da prospettarne il superamento.
Come è noto è avvenuto l’esatto contrario e il neoliberismo ha
trionfato. Tuttavia, almeno formalmente la Scuola di Francoforte non è scomparsa.
Infatti, alla prima generazione ne sono succedute altre tre. A presentarle è il
libro di Giorgio Fazio intitolato, “Ritorno a Francoforte. Le avventure
della nuova teoria critica” (Castelvecchi, Roma, 2020, 410 pagg., 34,00
euro). In questo ponderoso volume Fazio illustra i percorsi intellettuali di
coloro che hanno raccolto il testimone della prima generazione di francofortesi:
Jürgen Habermas, Axel Honneth, Nancy Fraser, Wolfgang Streeck, Rahel Jaggi e Hartmut
Rosa.
Dopo aver letto l’ampio commento di Fazio si ha la netta
sensazione che dell’eredità della prima generazione di francofortesi sia
rimasto ben poco, per non dire nulla. A dilapidarla ha iniziato Habermas con la
sua svolta politicamente socialdemocratica e teoricamente compatibile col
sistema sociale dominante. A ruota hanno proseguito le generazioni successive.
Chi più chi meno ovviamente. Il dato di fatto è che oggi la teoria critica non
gioca quasi alcun ruolo nel dibattito pubblico e ancor meno nella società. A stroncarla
è stata sicuramente l’offensiva culturale neoliberista. Che, tanto per dirne
una, ha normalizzato l’università e messo all’angolo ogni forma di dissenso nei
confronti delle idee dominanti e delle teorie che le sostengono. Ma il colpo di
grazia lo hanno inferto le successive generazioni di francofortesi.
Adorno, Horkheimer, Marcuse e Fromm parlavano alla società, alla politica, ai giovani. La loro critica demoliva lo stato di cose presenti e di fatto chiamava alla rivolta contro il totalitarismo democratico. Tant’è che nella prassi la loro critica si saldò con un poderoso movimento di contestazione di quella che allora veniva chiamata la società borghese. Le successive generazioni di francofortesi parlano prevalentemente al mondo universitario, discutono tra accademici, confutano le tesi dei colleghi, rivedono le proprie e così via. Il più delle volte con un linguaggio comprensibile a pochi e segnando anche nello stile una presa di distanza dalla prima generazione.
Va riconosciuto che il ’68 è passato e così pure gli anni ’70.
Momenti storici che favorirono la costruzione e il successo della teoria critica.
Ma dalla rassegna di Fazio emerge, pagina dopo pagina, l’abbattimento delle
idee più forti della prima teoria critica e la contemporanea integrazione della
successiva con proposte filosofiche che certo non turbano i sonni delle classi
dominanti. Chiusi nelle loro torri d’avorio Habermas e successori discettano sulla
modernità, la razionalità, la tecnica, l’etica, la morale e si dilungano su
questioni epistemologiche mettendo a punto una nuova teoria critica che non
rifiuta la società così com’è, né tantomeno intendono ipotizzarne un’altra. L’utopia
non li riguarda.
Al netto delle incertezze e dei ripensamenti di alcuni
esponenti della prima teoria critica, la stella polare che li guidava era comunque
l’emancipazione degli individui e della società dal sistema di produzione e di
riproduzione capitalistico. Rinunciando a questa emancipazione si rinuncia alla
teoria critica. Honnet, dopo una vita di
studi, torna a Hegel. Un bel passo indietro. La stessa Jaeggi, pur affrontando
un tema tipicamente francofortese come l’alienazione si perde poi in un
relativismo psicologico che di fatto giustifica l’ordine sociale esistente. Hartmut
Rosa costruisce un edificio teorico di sconcertante fragilità (si pensi che secondo
questo autore il principio fondamentale della modernità è l’accelerazione
sociale). Wolfgang Streeck si distingue forse come l’esponente più di sinistra,
ma non esce dalla ragnatela del dibattito accademico. Un dibattito talmente
lungo e senza possibilità di uscita che diventa fine a sé stesso e soprattutto
non offre chiavi di lettura per rovesciare i rapporti di dominio. Dagli autori presentati
da Fazio emerge soprattutto una cultura libresca, autoreferenziale, che anziché
ritornare a Francoforte se ne allontana pubblicazione dopo pubblicazione.
Uno spettro si aggira tra le pagine della nuova teoria critica: lo spettro di Marx. Da Habermas in poi i francofortesi cercano in tutte le maniere escludere l’impatto che il filosofo di Treviri ha avuto sulla formazione della prima teoria critica. I cui fondatori erano neomarxisti, in rotta col dogmatismo sovietico e considerati tra i padri della Nuova Sinistra. Le successive generazioni di francofortesi sono soprattutto in rotta col marxismo e attingono a filosofi e pensatori che non mettono in discussione la società capitalistica. Da qui la debolezza delle loro riflessioni.
“Ritorno a Francoforte” è un testo didattico il cui autore converge col moderato realismo della nuova teoria critica e così scrive: “Nei percorsi di riflessione più avvertiti che animano la teoria critica contemporanea, in effetti non si tratta mai di riproporre sic et simpliciter la lezione di Adorno, Horkheimer e Marcuse, saltando a piè pari le critiche formulate da Habermas e da Honneth nei confronti delle premesse filosofiche dei loro approcci, delle posture funzionaliste delle loro teorie sociali, dei tratti di autoritarismo epistemologico ed etico scovabili nelle diagnosi epocali di una “società totalmente amministrata” o di un mondo a “una dimensione”.
Il brano riportato rappresenta una pietra tombale sulla teoria critica della prima generazione di francofortesi. Non basta occupare istituti e cattedre che gli appartenevano per dirsi loro continuatori. Non è una questione di fedeltà o di ortodossia. È una questione politica e culturale. Marcuse, Adorno, Horkheimer erano dei filosofi radicali: tutt’altro si può dire di chi ha preso il loro posto all’università. Fazio non solo non dà conto del progressivo svuotamento della teoria critica, ma lo sostiene. In tal senso il suo libro può essere letto come un esempio della normalizzazione della filosofia e della sociologia nel mondo universitario.
Che fare dunque per ritornare a Francoforte? Evitare gli
epigoni o presunti tali e tornare a leggere direttamente Adorno, Marcuse, Fromm,
Pollock e così via. Si scoprirà quanto i concetti che elaborarono sono ancora
oggi utili e necessari.
Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, settembre 2021
Dott.ssa Sonia Angelisi – sociologa e counselor sociolistico
PREMESSA
La maternità è stata fino ad oggi molto poco indagata dal punto di vista sociologico. Considerare l’esperienza della maternità come un fatto sociale significa considerarlo, secondo la metodologia durkheimiana, come un fatto esterno all’individuo, coercitivo e causa di un altro fatto sociale. La maternità, quindi, non più concepita né come un mero vissuto interiore (seppur stereotipizzato) né come un fatto totalmente neutro nell’ottica medico-scientifica che tende a oggettivizzare il corpo della gestante e a sfuggire al condizionamento storico-sociale. Come sociologi consideriamo la maternità un fatto sociale esterno influenzato da fattori storici e politici, senza i quali non sarebbe sociologicamente inquadrabile. La sociologia, quindi, va ad inquadrare l’esperienza della maternità in un contesto socio-culturale e simbolico.
Riprendendo anche il concetto di campo di Bourdieu, la maternità si configura in una rete di relazioni oggettive tra posizioni differenti. Per dirla in parole semplici, esiste un cosmo sociale fatto da tanti microcosmi sociali relativamente autonomi che costituiscono degli spazi di relazioni soggettive (i campi, per l’appunto) Ogni campo ha logiche e necessità specifiche diverse dagli altri campi. Ogni posizione assunta dai diversi soggetti nel campo, mira sia a conservare sia a trasformare la struttura di relazioni del campo stesso. Nello studio della maternità, il campo ha la funzione principale di permettere di costruire scientificamente gli oggetti sociali.
Nel campo della maternità assistiamo a diverse fasi: dal processo di medicalizzazione del corpo e del parto alla violenza ostetrica, dalla depressione post-partum alla conciliazione lavoro e maternità. Sullo sfondo, assistiamo alla nascita di una nuova maternità, quella surrogata.
La medicalizzazione del corpo
e del parto è riconducibile essenzialmente a una sorta di colonizzazione da
parte della cultura patriarcale dell’immaginario medico-scientifico. Alle donne
non si concede la possibilità di vivere liberamente l’esperienza del parto e
della gravidanza perché continuamente sottoposte a controllo e dominio in un
sistema che espropria la donna della sua capacità di sentire.
La violenza ostetrica è il paradigma attraverso cui leggere tutta la violenza agita nei confronti delle donne. Essa è una violenza che legittima le pratiche di inferiorizzazione e sopraffazione della donna, una logica figlia del patriarcato che ragionava, appunto, in termini di sesso dominante e sesso subordinato.
La depressione post partum non è solo il frutto di uno squilibrio ormonale, ma ha radici profonde nel sistema medico e nei ruoli di genere. La fase del post partum è una fase delicata in cui le donne vengono spesso lasciate sole ad affrontare le difficoltà connesse alla gestione di un neonato. UN lavoro di cura molto impegnativo, estenuante dopo un parto de-umanizzato, un lavoro di cura che assorbe molto sia sotto il profilo emotivo e sia sotto il profilo pratico-fisico. Il supporto della comunità e della famiglia è fondamentale. Come aiutare le donne? Innanzitutto, agendo sia nel campo delle POLITICHE SANITARIE attraverso la promozione di un parto de-medicalizzato, sia nel campo delle POLITICHE DI GENERE dando, ad esempio, impulso alla genitorialità condivisa (concedendo il congedo di paternità), alla creazione di nidi sui posti di lavoro, incentivando lo smart-working per entrambi i genitori, rafforzando le reti di sostegno familiari e professionali.
Per quanto concerne la conciliazione lavoro maternità, nel nostro Paese che si definisce avanzato e sviluppato, abbiamo assistito nel corso degli anni ad uno smantellamento del Welfare senza che si sia provveduto contemporaneamente a soluzioni alternative. Il risultato è stato quello di basare sul lavoro di cura delle donne tutta la assistenza rivolta a bambini ed anziani. A fronte della mancanza di servizi pubblici, le donne si ritrovano a dover scegliere se sacrificare la propria vita affettiva o rinunciare al proprio lavoro, una scelta che non dovrebbe neanche porsi e che, spesso, capita sia rivolta direttamente con meccanismi ricattatori dai datori di lavoro alle donne lavoratrici (pratiche illegali di dimissioni in bianco, richiesta brutale di test di gravidanza nei periodi di rinnovo dei contratti). Il risultato di questa regressione sul piano dei diritti sociali è ancora una volta una divisione sessuale del lavoro senza un’equa distribuzione delle responsabilità familiari (la donna a casa appiattita nel suo ruolo esclusivo di madre, l’uomo fuori a lavorare) e una maternità che rallenta, barcolla, stenta a partire pur in presenza di un desiderio di maternità. Ci si ritrova a sostenere rette di asili privati, a dover fare i conti con mense scolastiche che partono in notevole ritardo e orari scolastici ridotti. Un sistema chiaramente sessista che non opera più le evidenti discriminazioni del patriarcato classico, ma attua le subdole e ambigue maniere del neo patriarcato moderno e liberale.
L’ideologia maternal-naturalista tende, ad esempio, a relegare nuovamente le donne nella sfera privata/domestica (allattamenti lunghissimi, rinuncia a lavori fuori casa). La madre italiana, in tutto questo, è la madre equilibrista: una caregiver instancabile che, contemporaneamente, cerca di offrire le migliori performance lavorative. Un suicidio, insomma, un equilibrio costantemente precario tra lavoro, famiglia e cura di anziani. Proprio in Italia, in cui il culto della maternità è potentissimo, il Welfare è decisamente scadente e si tende a dare contentini (bonus bebè, bonus primo figlio), senza agire strutturalmente sulle politiche sociali (congedi remunerati, assegni di cura, servizi all’infanzia, congedi lunghi anche per i padri). Precariet , insicurezza, latitanza dello Stato, mancanza di reti solidali sono i freni all’esperienza della maternità. Non stupisce che l’Italia sia tra i Paesi più vecchi d’Europa e registri un notevole declino demografico.
LA MEDICALIZZAZIONE DEL PARTO
La tendenza a medicalizzare il parto si avvia dall’oggettivazione dei corpi. Cosa significa? Ridurre il corpo ad un oggetto privato della sua dimensione soggettiva. La società post-moderna esalta solo l’immediata materialità fisica, riducendo la possibilità di conoscersi e riconoscersi in un mix di processi biologici complessi, relazioni con l’ambiente e rapporti con altri esseri umani. Gli effetti di questa tendenza sono: INDIVIDUALIZZAZIONE, CLASSIFICAZIONE E CONTROLLO. La maternità è completamente immersa nei processi culturali e nelle relazioni sociali, pertanto tranciare dal corpo questi collegamenti, influisce pesantemente sull’esperienza della maternità, la quale non può ridursi solo a un problema medico, ma richiede l’inclusione di variabili sociali, culturali e politiche.
Per medicalizzazione intendiamo
lo sconfinamento della scienza e della medicina nella dimensione sociale.
Medicalizzare significa creare consenso intorno all’oggettivazione dei corpi.
Un’altra definizione indica la medicalizzazione come: degenerazione della
fisiologia in patologia e il ricorso a trattamenti tecnologicamente avanzati,
una farmacologizzazione aggressiva ed un eccesso di intervento medico.
Nella medicina classica, l’oggetto principale era la
narrazione: si prestava attenzione al racconto di coloro che necessitavano di
aiuto e il medico provava ad immedesimarsi nel paziente per addentrarsi nel
disordine del suo stato d’animo. Il compito del medico (fino al 1700) era
interpretare il racconto doloroso del paziente. La nuova medicina ha, invece,
costruito una forma di sapere gerarchizzata e stabilito un controllo sui corpi.
Assistiamo a una rottura radicale col passato in cui il medico diventa uno
specialista e le biografie individuali delle identità personali dei pazienti
non contano più. È imperante l’omogeneizzazione e il riduzionismo biologico.
Per questo oggi si parla tanto di medicina narrativa per rieducare il personale
sanitario all’ascolto.
La malattia non può essere vista solo in termini biomedici, ma sono necessari saperi antropologici, sociologici e filosofici per poterne cogliere meglio le cause. È tutto il sistema sanitario che richiede una ristrutturazione. Non a caso gli ospedali che un tempo erano luoghi di cura e di carità per bisognosi ed emarginati, oggi sono fabbriche di prestazione di servizi che devono rispondere a requisiti di produttività ed efficienza (catene di montaggio che devono eliminare tempi morti con la lean production rischiando di dimenticare la funzione precipua dell’ospedale quale luogo di guarigione. La medicina è business e il processo dia medicalizzazione è una delle sue facce. Nell’ambito della maternità, l’ecografia ostetrica ad esempio, strumento diagnostico utilissimo, è divenuta una pratica abusata (eco in 3D, in 4D, scansioni in tempo reale, immagini ricordo in DVD). La medicina si configura come puro business e come tecnica che muta gli elementi fisiologici in minaccia. La gravidanza, ad esempio, è sempre più vista non come un evento naturale, ma come evento che minaccia la salute di donna e bambino. L’emergenza associata alla sicurezza del parto ha trasformato interventi raccomandabili solo in particolari circostanze di necessità, in misure di routine.
La letteratura ci dice che il parto oggi viene concepito come un evento pieno di pericoli da cui solo la ginecologia può proteggerci. Le madri si sentono, dunque, dipendenti totalmente dalla medicina (continui prelievi di sangue, amniocentesi, diete, esercizi fisici) e opporsi a questa dipendenza medica in gravidanza porta a forti sensi di colpa. Da sottolineare la totale responsabilità individuale; in passato la responsabilità dei mali e delle disgrazie veniva perlopiù attribuita a organizzazioni, istituzioni e sistemi complessi (l’ipertrofia del sociale aveva inghiottito la responsabilità individuale): la colpa era della società, del sistema, ecc… Oggi, invece con l’emergere dell’ideologia liberista e dell’iniziativa privata, la responsabilità personale dei singoli ha un forte peso. Una individualizzazione spinta che acuisce lo stato ansioso del singolo dietro le retoriche della prevenzione: non fai gli esami? Ti assumi tu tutte le conseguenze e le colpe che ne derivano. È una forma di controllo dei corpi delle donne nel caso della gravidanza.
La medicina post industriale è iperspecializzata e tecnicamente avanzata, ma anche fortemente de-personalizzata che tende a ridurre il corpo, il paziente ad organo e, quindi, a distanziarlo.
Sebbene la gestazione sia considerata solitamente un periodo di beatitudine che si interrompe con quella che Freud chiama “lacerazione ordinaria”, cioè il trauma della nascita da cui deriva la nascita del trauma ovvero la separazione tra madre e bambino, l’eccessiva medicalizzazione del parto, rende questa lacerazione ancora più dolorosa. Quando, ad esempio, questa separazione avviene col cesareo le donne la percepiscono in maniera più violenta. In Italia 1 donna su 3 subisce il taglio ed è una pratica sempre più diffusa nella cultura umana. Dagli anni ’40 ci fu un’ascesa del taglio cesareo e non diventa più frequente perché si ampliano le indicazioni patologiche all’intervento, ma si tende a sostituire la via naturale al parto. Basti pensare che l’OMS ha appurato che a un tasso più alto del 10% di tagli cesarei, non corrisponde una inferiore mortalità neonatale. È stato anche appurato nel 2015 che l’ascesa globale dei parti cesarei non è guidata da necessità mediche, ma dalla crescita della ricchezza dei Paesi in cui viene applicato e dagli incentivi predisposti per i medici (The Economist, 2015)
Il taglio cesareo storicamente ha origini lontane: ne abbiamo testimonianze già dal ‘600 quando si introdusse il forcipe ostetrico e il parto cominciò a diventare strumentale e tecnologicamente assistito; l’ostetrico sostituì l’ostetrica…fu proprio re Luigi XIV nel 1663 che fece intervenire per la prima volta un uomo, un chirurgo, per un parto fisiologico, medicalizzando l’evento naturale e estromettendo la figura femminile dell’ostetrica dall’evento. L’egemonia maschile che si instaura con prepotenza sulla gestante e sulle figure femminili accudenti. Ma c’è anche un altro motivo che incentiva il parto cesareo. Il parto naturale richiede un’assistenza one to one, dunque la presenza di un’ostetrica per ogni partoriente; questo significa un aumento del personale e delle turnazioni. Il cesareo e l’epidurale abbattono questi costi di gestione e per ogni taglio cesareo si percepiscono delle speciali indennità in quanto intervento chirurgico.
Anche l’episiotomia, ovvero l’incisione atta ad aumentare lo spazio dell’anello vulvare dovrebbe essere discussa con la partoriente. Le donne possono chiedere che non sia praticata, anche se molte non lo sanno, a meno che la vita di donna e bambino non sia in serio pericolo….eppure ad oggi è l’intervento ginecologico più praticato nel mondo. In Italia 3 partorienti su 10 dichiarano di non aver fornito il consenso informato per autorizzare tale intervento. L’episiotomia, invece, dovrebbe essere un atto chirurgico di emergenza, da effettuarsi cioè nei casi in cui è assolutamente indispensabile. Così l’episiotomia si trasforma in un tributo gratuito alla sofferenza e al dolore, una violazione del rispetto della natura umana. Quando si attua un intervento chirurgico, infatti, bisogna rispettare non solo principi medici ma anche etici.
Taglio cesareo e episiotomia sono die esempi molto eclatanti di come si tenda ad oggettivizzare il corpo della donna (considerare il corpo femminile come un oggetto violandone l’integrità attraverso interventi non necessari), a medicalizzare eccessivamente il parto e a far vivere alla partoriente un ruolo passivo nella nascita del proprio bambino.
Indubbiamente la medicalizzazione del parto ha portato a una diminuzione netta dei tassi di mortalità sia di bambino e sia della madre, ma l’ospedalizzazione della nascita ha portato anche a uno straniamento della madre dal suo contesto intimo. Ciò che un tempo era monitorato dal sentire materno, oggi è oggettivato.
Fino al 1700 l’esperienza della gravidanza era contraddistinta da incertezza riguardo a inizio, durata ed esito. Il bambino finchè non nasceva era una speranza, mai una certezza. Col tempo si è diventati maniaci del controllo del futuro e si tende a misurare la gravidanza guardando alla donna come contenitore dello sviluppo fetale. Non solo, bisogna contestualizzare gravidanza e parto nelle diverse culture. Ad esempio, in alcune tribù il dolore del parto viene socializzato, cioè condiviso con altre figure della comunità. Questo accadeva anche da noi fino a qualche anno fa (circa 50 anni fa): il parto era un evento sociale che coinvolgeva non solo la donna, ma anche il marito, l’ostetrica, i parenti. La società si stringeva intorno alla partoriente e al suo bisogno di aiuto. Anche riguardo alla posizione del parto questa è cambiata nel tempo: in passato la donna era libera di assumere la posizione che voleva.
Nella seconda metà del ‘500 subentra la figura del barbiere-chirurgo che in virtù dello strumentario che possedeva, tornava utile nel caso ci fossero difficoltà ad estrarre il bambino dal canale del parto. Da quel momento in poi, la donna fu costretta alla posizione supina a gambe divaricate per favorire l’intervento medico. Il parto cominciò a diventare strumentale e medico, soppiantando la tradizione dell’ostetrica che fu mandata nelle scuole per ostetriche gestite dai medici. Questa è la riduzione del parto ad evento biologico e la trasformazione della del corpo della donna in contenitore.
Bisognerebbe deospedalizzare la
gravidanza e raccogliere le positività precedenti per coniugarle alle
conoscenze di oggi. Perché? Perché all’ospedalizzazione del parto corrisponde
l’oggettivazione del corpo femminile e la svalutazione del sentire e del sapere
materno. Con l’invasione della tecno-medicina, la soggettività dell’esperienza
interna della donna diventa irrilevante ai fini medico-scientifici. La
percezione integrata, olistica della persona, si perde nella concezione
meccanicistica del corpo. La visione meccanicistica concepisce il corpo umano
come una macchina fatta di pezzi che funzionano e lì dove non funzionano, si
interviene sul singolo pezzo dimenticando che è parte di un ingranaggio non
solo fisico, ma anche mentale, emozionale, sociale.
In questo contesto di medicalizzazione,
si distingue la figura dell’ostetrica che da sempre ha agito empaticamente al
parto, assumendo come dato principale che la nascita di un bambino non dovrebbe
essere considerata alla stregua un mero intervento medico, ma un evento al quale
due donne agiscono insieme, un’assistenza al parto permeata di fiducia. Tant’è
che fino al 1800 alle partorienti era concesso di scegliere la propria
levatrice di fiducia. Questo passaggio diretto tra donne ha urtato l’ideologia
patriarcale al punto di far subentrare una figura maschile nell’assistenza al
parto. Oggi la competitività tra gli specialisti, in ostetricia e in
ginecologia, ha progressivamente eroso anche l’autonomia dell’ostetricia che
oggi ha scarsa autonomia ed è sempre più sostituita dall’infermiera. Eppure il
valore dell’ostetrica è immenso perché p in grado di gestire tutte le
problematiche relative alla gravidanza, non solo mediche, quindi, ma anche
umane, psicologiche, emotive, familiari, territoriali, tutto ciò che
l’ospedalizzazione della maternità nega alle partorienti.
LA VIOLENZA OSTETRICA
Nel 1972 viene promossa a Ferrara da alcuni collettivi femministi, la campagna “BASTA TACERE” a cui aderirono diverse donne, raccontando storie di abusi e maltrattamenti subiti durante il parto e la gravidanza. Quei racconti furono raccolti in un opuscolo poi stampato.
Nel 2016 la stessa campagna di sensibilizzazione è stata rilanciata dai media con il sostegno di decine di associazioni femminili. “basta tacere: le madri hanno voce” è stato lo slogan lanciato sui social network per offrire alle madri la possibilità di raccontarsi. Come? Scrivendo la loro esperienza su un foglio anonimo senza rifermenti a persone e luoghi precisi, e facendo un autoscatto con il foglio davanti al viso e postando la foto su fb con l’hashtag #bastatacere. È stato l’ennesimo invito a far emergere il fenomeno della violenza ostetrica. IN 15 giorni la campagna #bastatacere ha raccolto oltre 1300 testimonianze e ha coinvolto oltre 700.000 utenti al giorno.
Grazie a questa campagna è nato sempre nel 2016 in Italia l’OSSRVATORIO SULLA VIOLENZA OSTETRICA, un ente multidisciplinare gestito da un comitato etico di madri che ha lo scopo di monitorare l’incidenza delle pratiche agite contro le donne durante il percorso della maternità. Attualmente in Italia non esiste un monitoraggio ufficiale.
Nel 2017 è stata pubblicata la prima ricerca nazionale condotta su un campione rappresentativo di 5 milioni di donne italiane di età compresa tra i 20 e i 60 anni, denominata: “LE DONNE E IL PARTO” che ha permesso di stimare l’entità del fenomeno della violenza ostetrica. Son stati analizzati i vissuti delle madri durante le fasi del travaglio e del parto, i rapporti con gli operatori sanitari, i trattamenti praticati, la comunicazione usata dallo staff medico, il coinvolgimento della partoriente nelle decisioni relative al parto. I risultati son stati i seguenti: circa 1 milione di madri italiane (il 21% del totale) ha subito qualche forma di violenza ostetrica (fisica o psicologica) alla loro prima esperienza di maternità. UN’esperienza così traumatica da aver spinto il 6% delle donne a scegliere di non affrontare una seconda gravidanza.
Per violenza ostetrica nella ricerca in questione si intende: l’appropriazione dei processi riproduttivi della donna da parte del personale medico, costringere la donna a subire un cesareo non necessario, costringere la donna a subire una episiotomia non necessaria, costringere la donna a partorire sdraiata con le gambe sulle staffe, esporre la donna nuda di fronte ad una molteplicità di soggetti, separare la madre dal bambino senza una ragione medica, non coinvolgere la donna nei processi decisionali che riguardano il proprio corpo e il proprio parto, umiliare la donna verbalmente prima, dopo e durante il parto. Il 56% risponde no; il 23% risponde “credo di no”; il 21% risponde decisamente sì.
L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha rilevato come questi abusi fisici e maltrattamenti psicologici aumentino in presenza di donne appartenenti a minoranze etniche, in adolescenti, in donne che non hanno un compagno o un marito o in donne affette da HIV. Dal 2014 l’OMS invita ad abolire tali pratiche lesive della salute psico-fisica femminile, prevedendo una collaborazione tra Stati per la ricerca sul fenomeno e per avviare programmi rivolti ad un miglioramento dei servizi offerti dai sistemi sanitari.
IN Italia, l’11 marzo 2016 è stata depositata una proposta di legge per la tutela dei diritti della partoriente e del neonato e per la promozione del parto fisiologico in risposta all’appello dell’OMS. La proposta di legge mira anche a punire gli atti di violenza con la reclusione da 2 a 4 anni. Nel 2017, dopo i risultati della ricerca dell’Osservatorio di cui abbiamo parlato pocanzi, viene avviata una indagine ministeriale sui tassi di episiotomia e sui casi di abusi, coercizioni e umiliazioni verbali durante il parto.
A livello internazionale il
Brasile (che era uno dei Paesi ad aver raggiunto un livello di medicalizzazione
del parto altissimo, fino a toccare ad esempio tassi di parti cesarei dell’80%
in alcuni ospedali) è stato poi il primo Paese ad aprire un dibattito sulla
violenza ostetrica e ad istituire nel 1993 la Rete per l’Umanizzazione del
Lavoro e della Nascita. L’Argentina, invece, è stato il primo paese ad aver
legiferato in materia di violenza ostetrica, stabilendo i diritti della
partoriente.
Ma fu il Venezuela ad aver menzionato per la prima volta la violenza ostetrica e ad averla definita giuridicamente nel 2007 con una legge composta da ben 123 articoli. La violenza ostetrica in Venezuela viene intesa precisamente come “appropriazione del corpo e dei processi riproduttivi femminili da parte del personale medico sanitario, che si esprime in un trattamento disumano, nell’abuso della medicalizzazione e nella patologizzazione dei processi naturali, avendo come conseguenza la perdita dell’autonomia e di capacità di decisione sul proprio corpo e sulla propria sessualità, impattando negativamente sulla qualità di vita delle donne”.
In Italia ad oggi le donne non si trovano di fronte ad un sistema sanitario che le consideri partecipanti attive. Le donne con vissuti traumatici si esprimono sui social perché molto pochi sono i luoghi di ascolto dedicati alla violenza ostetrica. Certo non ci si aspetta questa indifferenza da un Paese avanzato e democratico come l’Italia.
Come andare verso una umanizzazione del parto e della maternità?
La violenza ostetrica è espressione di un sistema sanitario rigido che si concentra solo sulla patologia non prevedendo piani personalizzati. Il personale in Italia è quasi sempre sottodimensionato e ciò favorisce il burn out del personale che diventa sempre meno attento alle esigenze delle partorienti. In merito ai diritti delle donne è intervenuto anche il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, stabilendo la necessità di operare una riforma del sistema sanitario in cui gli operatori sanitari siano ben istruiti nel comprendere cosa si intenda per maltrattamento, sviluppando al contempo interventi e politiche efficaci per contrastare la violenza ostetrica in tutte le sue forme. Il personale sanitario deve essere sufficientemente formato e abilitato a soddisfare le esigenze fisiche, emotive e mediche di ogni donna, di incentivare la partecipazione attiva e consapevole delle donne senza alimentare quell’asimmetria informativa che pone la medicina su un piedistallo e lontano dal paziente.
Progetti formativi in tal senso in alcuni Paesi dell’America Latina hanno dato già i loro risultati: miglioramento delle relazioni interpersonali, incremento dei parti pur rimanendo invariato il numero del personale sanitario che si ritrovava, però, ad essere più collaborativo. Solo in questo modo si potrà andare nella direzione di una MATERNITA’ UMANIZZATA ovvero: appagante e responsabilizzante, sia per le donne che per i fornitori di cure e che promuova la partecipazione attiva della donna al processo decisionale.
Perché si è restii a parlare di violenza ostetrica? Solitamente sono gli stessi professionisti della salute che resistono all’uso del concetto di violenza. Spesso si preferisce parlare in termini positivi usando espressioni come “umanizzazione del parto” e “promozione dei diritti umani delle donne”. Tuttavia è stato solo introducendo e riconoscendo come un problema reale il termine VIOLENZA che il dibattito ha prodotto cambiamenti significativi. La violenza ostetrica è un fenomeno complesso che richiede un approccio multidimensionale, dal piano culturale a quello legislativo. Ogni Paese dovrebbe sviluppare una normativa adeguata e pertinente. Sarebbe utile anche implementare sistemi di segnalazione che consentano a donne e operatori sanitari di denunciare casi di violenza ostetrica. Anche dal punto di vista della vittima, è interessante osservare come le donne non siano in grado di definire bene cosa accade in ospedale al momento della nascita del loro bambino. Molte riferiscono di avvertire un malessere dopo il parto, uno stato a cui non sanno dare un nome.
È solo parlandone che prendono atto di aver subito una sorta di tradimento emotivo. Infatti, come afferma la vicepresidente dell’associazione “Dall’ostetrica”, il bisogno delle partorienti è principalmente quello di sentirsi al sicuro, di essere messe nelle condizioni di far prevalere il loro “sentire” durante il parto per poter connettersi con questo evento miracoloso che si appella ad istinti primordiali e di natura. L’abuso di medicalizzazione e la patologizzazione dei processi naturali, non fa altro che allontanare le donne da questa dimensione arcaica, facendole perdere la libertà di decidere liberamente del proprio corpo.
Dott.ssa Sonia Angelisi – sociologa e counselor sociolistico
La Sociologia e la Psicologia hanno una pregnanza comune: la Filosofia
di Tommaso Francesco Anastasio
dott. Tommaso Francesco Anastasio – sociologo e psicologo
I genitori della Sociologia
La Sociologia che per Durkheim ha per oggetto lo studio dei “fatti sociali” trova le sue origini, per lo stesso sociologo, nell’Antica Grecia, come dichiarò durante la sua lezione di apertura a Bordeaux nell’anno accademico 1887-1888: “I fenomeni studiati dalla filosofia sono fondamentalmente di due tipi, gli uni relativi alla coscienza dell’individuo, gli altri alla coscienza della società(…) La filosofia è in procinto di frazionarsi in due gruppi di scienze positive: la psicologia da una parte e la sociologia dall’altra (…)”. Si legge in un altro suo scritto pubblicato nel 1900 su una rivista politico-letteraria: “Le teorie di Platone e di Aristotele sulle diverse forme dell’organizzazione politica potrebbero essere considerato come un primo studio di scienza sociale (…)”(1)
Sulla paternità della Sociologia, come sappiamo, ci sono diverse pretese. Per alcuni è di Montesquieu con la sua opera “Lo spirito delle leggi” attraverso cui avvia un discorso comparativo, basato sull’osservazione, a proposito delle leggi che governano gli uomini in diverse società. I sociologi arabi propendono per Ibn Khaldoun, uno storico del XIV secolo che analizzò in modo molto moderno i rapporti fra tribù nomadi e città arabe nell’Africa Settentrionale. Pacificamente è stato assegnato il ruolo di padre “putativo” del termine “sociologia” ad August Comte intorno alla metà dell’Ottocento.(2)
I genitori della Psicologia
Nel caso della Psicologia troviamo nuovamente una maternità nell’Antica Grecia. Il termine “psicologia” deriva difatti dal greco psyché che significa anima e da logos ossia discorso, letteralmente ad indicare quindi lo studio dell’anima. Il termine psyché è sovente simboleggiato dalla Farfalla: molte decorazioni di antichi vasi greci raffigurano con l’immagine di una farfalla l’anima che esala nell’istante della morte. Un altro “ritrovamento” è presente nel modello cognitivo di Beck che trova le sue basi nello stoicismo di Epitteto: “Gli uomini non sono turbati dagli eventi in sé, ma dalle interpretazioni che danno di essi”.(3)Si possono citare altri approcci, come quello esistenzialista, in cui la Filosofia ancora oggi esercita un’influenza sulla psicologia applicata.
Ma anche in questo caso troviamo difficoltà a trovare il padre della Psicologia, sembrerebbe che il termine fosse già introdotto intorno al Cinquecento dall’Umanista Filippo Melantone anche se nei suoi scritti non pare comparire, così nel corso della genesi della Psicologia si attribuisce il ruolo di padre della “psicologia sperimentale” al tedesco Wilhelm Wundt, intorno all’Ottocento.
Il rapporto
Come suole
in diverse famiglie, anche le nostre due sorellastre nel corso degli anni si
sono spesso preoccupate di avere l’esclusiva sull’eredità della Madre Filosofa
impoverendosi a vicenda e trascurando la “ricchezza” che si potrebbe avere dal
dialogo. Ed è ciò che ha dimostrato la Scuola
di Palo Alto avendo al suo interno psichiatri, psicologi, sociologi,
filosofi e antropologi. L’afflato di questi studiosi ha comportato la nascita
dell’approccio sistemico – familiare:
secondo questo modello la famiglia è un sistema, l’identità di ciascuno dei
suoi membri si costituisce e si mantiene
nelle interazioni comunicative che si stabiliscono fra tutti i suoi
componenti.
Gli studiosi
di Palo Alto rintracciavano la genesi delle malattie mentali in queste
dinamiche comunicative. Si pensi alla teoria del doppio legame attraverso cui
Bateson ha messo in evidenza i rischi di una comunicazione patogena e
contraddittoria. Il contributo della Scuola di Palo Alto nella terapia
psicologica ha dato strumenti preziosissimi di lavoro e ha comportato la
nascita di ulteriori approcci di intervento. Si pensi ad esempio all’approccio
strategico che trova la sua genesi proprio nella Scuola di Palo Alto. Oppure al
contributo dato con la pubblicazione de la “Pragmatica della comunicazione
umana”.
Come vediamo sociologia e psicologia hanno giovato di rapporti più che fecondi che negli anni si sono affievoliti e arrugginiti. In Italia la figura dello psicologo è riconosciuta e disciplinata dalla legge 56/89 di cui si riporta l’articolo 1: “La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito.”(4)
La figura del sociologo in Italia, oggi, è un po’ meno “nitida” in quanto rientra tra le professioni non regolamentate pertanto mentre la sociologia accademica gode di lauti riconoscimenti attraverso la ricerca e i corsi universitari, la sociologia applicata ha dovuto fare i conti con alcune “barriere” che in parte sono state abbattute grazie alle associazioni professionali e a laboratori (anche on line) che si impegnano quotidianamente sul territorio per promuovere il lavoro e l’importanza della figura del sociologo prendendo come “memento” le parole di Durkheim: “Il solo mezzo per provare il movimento è camminare. Il solo mezzo per dimostrare che la sociologia è possibile, è di fare vedere che essa esiste e vive.”(5)
La sociologia clinica, nata intorno agli anni 20 del Novecento con la Scuola di Chicago e la psicologia applicata oggi potrebbero trovare uno spazio di confronto e condivisione per fare da “trigger” su nuove prospettive nella “cura” dei fatti sociali e psichici. Secondo Durkheim lo scopo della ricerca in sociologia è solo conoscere senza avere un fine prestabilito, ma sorge la seguente riflessione: anche la “sola” conoscenza dei fatti sociali non collabora a promuovere la “consapevolezza” come previsto dall’art. 3 del codice deontologico degli Psicologi?
“Lo psicologo considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed utilizzarle per promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità. In ogni ambito professionale opera per migliorare la capacità delle persone di comprendere se stessi e gli altri e di comportarsi in maniera consapevole, congrua ed efficace”(6)La “cura” dell’anomia secondo Durkheim avviene attraverso il corporativismo, ossia nello sviluppo di associazioni intermedie tra i singoli e la società basate sull’associazione professionale e con il potenziamento dei processi educativi. Il disagio può essere causato sia da “fatti psichici” che da “fatti sociali” e sovente i due “fatti” coesistono. Perchè non collaborare per avere una chiave di lettura più ampia dei fenomeni psichici e sociali?
Scrivendo nella duplice veste di sociologo e psicologo[7), l’auspicio è che la sociologia applicata e la psicologia possano nuovamente dialogare tra loro per promuovere il Ben-Essere psico-sociale degli utenti. E’ chiaro che i perimetri delle due figure esiste e ha una sua ratio, si pensi ad esempio agli strumenti diagnostici che ha lo psicologo e alla mancanza di essi nella figura del sociologo, oppure alla lente sociologica attraverso cui osservare la società, o per dirla con Durkheim, “le società”, in possesso dei sociologi e non degli psicologi, ma esiste una linea di confine sulla quale le due sorellastre, anzi sorelle, possono e devono incontrarsi per far sì che si crei nuovamente una sinergia e magari una “nuova” Palo Alto.
NOTE
[1] E. Durkheim, La scienza sociale e l’azione, Il Saggiatore,
1972
[2] cfr. P. Jedlowski, Il mondo in questione, Carocci Editore, 2012
[3] cfr. J.S. Beck, La Terapia cognitivo-comportamentale, Astrolabio Ubaldini, 2013