Author Archives: Elisabetta Festa

Weber e la Gabbia d’Acciaio, una metafora ancora attuale

di Elisabetta Festa

 Nel 1920, moriva il grande scienziato sociale Max Weber. Lasciava un mondo da poco sopravvissuto alla carneficina della prima guerra mondiale e appena uscito dalla controversa Conferenza di pace di Versailles del 1919, cui Weber stesso partecipò come delegato della Germania. Il sociologo era nato nel 1864. Quando morì ne aveva dunque solo 56: fu stroncato dall’epidemia d’influenza spagnola. Un fatto, questo, che lo ricollega al nostro triste presente. Si tratta però solo di uno dei segni del suo legame con noi, perché la sua presenza continua a esercitare un’influenza profonda sul pensiero sociale contemporaneo.

<<== Max Weber

Weber scrisse – e agì – infatti   su tutte le grandi questioni che continuano ad agitare il mondo occidentale in particolare ci soffermeremo ad analizzare la metafora della “gabbia d’acciaio” che egli introdusse parlando della società contemporanea. Con questa espressione ci spiega quanto l’uomo fosse soggetto, ieri come oggi, ad una serie di costrizioni a cui non può sottrarsi, costrizioni che provengono dall’economia capitalistica e dalla burocrazia, due invenzioni che hanno caratterizzato la società moderna. La sfera economica e quella amministrativa, insieme alla sfera pubblica, ci obbligano ad osservare una serie di regole, norme e convenzioni che rendono la nostra vita “ostaggio” di una prigione mentale. Come egli sosteneva   la nostra società è molto più “repressiva” delle società premoderne perché vi è più alienazione derivata dal lavoro e dalle malattie psicologiche che si moltiplicano a causa della repressione di pulsioni e istinti che ci viene imposta. Un altissimo livello di strutturazione sociale oltremodo complesso ci lega tutti in modo indissolubile: ognuno ha il “posto” o ricopre il “ruolo” che la società gli ha assegnato. Esso rappresenta però un qualcosa che non esiste in modo concreto ma che deve essere visto come una posizione “volatile”, un costrutto “mentale” che assume anche connotati fisici in relazione al mondo del lavoro, della famiglia, delle relazioni sociali etc.

Dunque siamo tutti intrappolati   in questa “gabbia d’acciaio” che non vediamo, essa è volatile senza consistenza: è come se avessimo delle coordinate precise nello spazio “fluttuante” in cui viviamo.

La razionalizzazione sociale, economica e politica alla base della nostra società super evoluta non permette nessuna smagliatura, tutto deve essere perfetto ed efficiente come anche il “margine d’errore”, che rientra nella suddetta complessa razionalizzazione.

Per il sociologo tedesco ogni cosa è soggetta al processo di razionalizzazione: i movimenti politici rivoluzionari, le novità culturali, le “spinte centrifughe” presenti in tanti ambiti e tanto altro ancora. La razionalizzazione così intesa è un marchio distintivo dell’era moderna è un processo storico che investe e modifica tutti gli ordinamenti sociali.  Sono i vantaggi pratici a giustificare l’esclusione dall’organizzazione del lavoro di qualsiasi fattore irrazionale, individuale, del sentimento. Egli afferma: “Invece del vecchio coordinatore che è mosso da simpatia, favore, grazia e gratitudine, la cultura moderna ha bisogno per mantenere le sue sovrastrutture, del sostegno dell’emotivamente distaccato e rigoroso esperto professionale. Quindi conclude che un aspetto negativo della razionalizzazione è proprio la spersonalizzazione della società.

Dopo cento anni il suo pensiero è vivissimo ed attuale più che mai anche oggi si parla di sburocratizzazione, di semplificazione, di umanizzazione, conveniamo con lui che le speranze per un futuro migliore per l’umanità siano riposte nelle mani di “eroi carismatici” di “alte personalità” in grado di umanizzare i processi sociali restituendo un ruolo centrale alla dimensione etica.

Weber soffrì per lunghi periodi di acute depressioni, tanto da dover lasciare l’insegnamento accademico per alcune stagioni. In altri periodi fu talmente prolifico da sembrare avvolto da mania. Sono caratteristiche che ce lo rendono più vicino, quasi contemporaneo, avvolto da un’aura di tragica grandezza, lui allora come noi oggi, siamo tutti attanagliati in queste maglie dure che in nome del progresso annientano quotidianamente la nostra identità.

Dott.ssa Elisabetta Festa – Sociologa-
Direttore Laboratorio Sociologico ASI Avellino: “Asirpiniasociolab”-
Vice Presidente ASI Campania –
Presidente Collegio Probiviri ASI nazionale


La costruzione sociale dell’autostima e dell’identità

di Giovanni Pellegrino e Mariangela Mangieri

L’autostima è senza dubbio un elemento importante per ottenere buoni risultati nella vita sociale. I sociologi e gli psicologi sociali danno molta importanza al processo di costruzione sociale dell’autostima. Ma cosa intendiamo per autostima? Per autostima si intende il fatto che un individuo ha un concetto positivo di se stesso, esprime un giudizio positivo su se stesso.  

<<== prof. Giovanni Pellegrino                                                                       

Esistono due tipi fondamentali di autostima: autostima non dipendente dai risultati ottenuti nei vari settori della vita sociale ed autostima dipendente da tali risultati. Nel primo caso l’autostima può essere sia legittima, sia immotivata e priva di fondamento logico. Faremo degli esempi per chiarire tale concetto. Appare evidente che un individuo dotato di una forte personalità non deve perdere l’autostima a causa di qualche risultato negativo ottenuto nella vita sociale.  Infatti è possibile che tali risultati possono dipendere da circostanze sfortunate o dall’influenza negativa di alcuni individui con i quali il soggetto ha instaurato relazioni interpersonali. Al contrario appare altrettanto evidente che una lunga serie di risultati negativi nei vari settori della vita sociale deve necessariamente determinare un crollo dell’autostima in qualsiasi individuo ragionevole. Infatti appare chiaro che tali risultati devono dipendere in gran parte da errori e da mancanza di capacità da parte dell’individuo in questione.    

Se un soggetto mantenesse inalterata la propria autostima  anche dopo una lunga serie di risultati negativi ciò non dovrebbe essere attribuito alla forza della sua personalità ma al fatto che avrebbe perso il contatto con la realtà.   Tutti sanno che la perdita del contatto con la realtà è un problema gravissimo dalle conseguenze imprevedibili. L’autostima dipendente da una serie di risultati positivi è sempre legittima e giustificata a condizione che tali risultati non siano pochi nel qual caso potrebbero anche essere dovuti a circostanze fortunate. Per tale ragione noi crediamo nella costruzione sociale dell’autostima e ben poco nell’autostima indotta con tecniche psicologiche non dipendenti dai risultati ottenuti.  Infatti tali tecniche alla fine non sono altro che una forma di suggestione che dovrà comunque fare i conti con il reale valore del soggetto. Come nello sport anche nella vita alla fine quello che conta sono i risultati ottenuti e non il grado di autosuggestione. Ammettiamo invece che esistono alcune situazioni nelle quali possono essere importanti le tecniche psicologiche per aumentare l’autostima. Per fare un esempio tali tecniche possono essere utili nel caso di individui che sottovalutano le loro reali capacità.

Tali soggetti sono caratterizzati dal fatto di avere un deficit ingiustificato di autostima. In effetti sono da considerarsi molto dannose sia una mancanza ingiustificata di autostima sia un’eccessiva e ingiustificata autostima. Nel primo caso l’individuo non riuscirà a raggiungere obiettivi che sono alla portata delle sue reali capacità. Infatti egli non ritenendo di avere tali capacità non tenterà nemmeno di raggiungere tali obiettivi considerandoli al di fuori della sua portata. Appare evidente che in questi casi l’azione degli psicologi può essere importante e determinante dal momento che può rifornire agli individui un importantissimo aiuto. Nel secondo caso l’individuo sopravvalutando le proprie capacità si porrà degli obiettivi troppo ambiziosi che sono al di fuori della sua portata. Di conseguenza egli andrà incontro ad un’inevitabile serie di fallimenti che potrà avere delle conseguenze gravissime dal punto di vista psicologico. Pertanto anche un’eccessiva autostima che non tiene conto né delle reali capacità dell’individuo, né dei risultati negativi è un grave problema da risolvere.  Infatti tale convinzione priva di fondamento può generare una forma di alienazione dalla realtà. Inoltre quando alla fine travolta dalla valanga di risultati negativi la persona prenderà coscienza della dura realtà subirà un forte contraccolpo psicologico tipico degli individui velleitari. Insomma il miglior modo per evitare risultati negativi e problemi psicologici è cercare di capire quali sono le reali capacità che possediamo. Inoltre è molto importante comprendere quali sono i realistici margini di miglioramento alla nostra portata.

Dobbiamo mettere in evidenza che tali margini di miglioramento non sono illimitati e non sono neppure uguali per tutti. Se saremo consapevoli di tale fatto potremo scegliere gli obiettivi da raggiungere in maniera corretta, realistica ed adeguata. Dobbiamo tenere presente che per raggiungere un qualsiasi obiettivo occorrono tre condizioni fondamentali: capacità personali adeguate, forte forza di personalita, fiducia nelle proprie capacità. Inoltre a volte occorrono anche circostanze esterne favorevoli.  Per quanto riguarda la costruzione dell’identità dobbiamo dire che essa è almeno al 50% frutto dell’azione di fattori di origine sociale.                                                                                

In sintesi il modo in cui un individuo costruisce la propria identità dipende dall’azione sinergica di fattori genetici ed ambientali. Ad esempio immaginiamo che due individui subiscano gli stessi eventi di tipo sociale negativi riguardanti la vita sentimentale. Supponiamo che uno dei due sia più neurolabile dell’altro a causa di fattori di tipo genetico. Appare evidente che gli eventi negativi destabilizzeranno maggiormente l’identità del soggetto più neurolabile. Di conseguenza la destabilizzazione dell’identità subita dai due soggetti sarà prodotta dall’azione sinergica di fattori sociali e genetici. In alcuni soggetti si ha una prevalenza dei fattori genetici nella costruzione dell’identità mentre in altri finiscono per prevalere i fattori di origine sociale nel processo di costruzione dell’identità. Concludiamo tale  articolo mettendo in evidenza l’importanza di conoscere bene se stessi al fine di evitare di compiere scelte sbagliate.

Prof. Giovanni Pellegrino // Prof.ssa Mariangela Mangieri


Gadget a stelle e strisce. La bandiera USA nell’immaginario collettivo

di Patrizio Paolinelli

Ho deciso di scrivere questo articolo dopo avere visto in Tv un filmetto intitolato “Il mostro di Cleveland“. La pellicola si ispira a fatti realmente accaduti nella città dell’Ohio, dove nel 2002 un conducente di scuolabus rapì e tenne sequestrate nel seminterrato della propria abitazione tre giovani ragazze allo scopo di abusarne sessualmente.

Dieci anni dopo le tre ragazze riescono fortunosamente a richiamare l’attenzione dei vicini e a evadere. Nel film, mentre una delle sfortunate protagoniste esce dalla casa del sequestratore scortata da un nugolo di poliziotti, appare all’improvviso la bandiera degli USA che sventola al ralenti. Cosa c’entra tale sequenza all’interno della narrazione di un terribile fatto di cronaca? Nulla. Anzi, ci sarebbe solo da vergognarsi che cose del genere accadano nel proprio Paese. Allora perché questa forzatura? Perché l’intento della regista, Alex Kalymnios, è ideologico: associare la bandiera USA alla libertà. A chi è diretto tale messaggio? A un pubblico acritico e culturalmente fragile dato che il film è di scarsissima qualità. Deficit che però ha autorizzato la forzatura narrativa.

Spegniamo la Tv e usciamo per strada: ovunque si vada è quasi impossibile non incontrare qualcuno che non porti impresso sui propri vestiti o su qualche accessorio la bandiera USA. Un lunga serie di oggetti e di indumenti offrono docilmente le loro superfici: borse, zaini, portachiavi, accendini, montature per occhiali, custodie per cellulari, astucci, magliette, cappelli, scarpe sportive, caschi per motociclette, bigiotteria e così via. Le strade non sono l’unico spazio pubblico dove si può notare la costante presenza di portatori della bandiera USA. Anche la spiaggia è un teatro per la sua esibizione: asciugamani, costumi da bagno, bermuda, canotte, bandane, giochi di diverso tipo, tavole da surf hanno frequentemente impresse le stelle e le strisce a volte corredate da un’accigliata aquila calva. Capita anche – e questo accade un po’ ovunque – che la bandiera non sia riprodotta fedelmente. Ma che l’asciugamano o la maglietta presentino motivi che ne richiamano i colori e le forme. Questa riduzione assume un significato particolare: la bandiera degli States è stata talmente assorbita dall’immaginario collettivo che non c’è bisogno di insistere con l’originale. Anzi, meglio non insistere: che sia il portatore e l’osservatore a ricostruire mentalmente l’immagine originaria, così gli apparirà ancora più naturale, come qualcosa di spontaneo, qualcosa che gli nasce da dentro.

Senza insistere oltre su luoghi e prodotti che vedono la presenza della bandiera USA si può affermare che in Italia e più in generale in Occidente essa è entrata a far parte della vita quotidiana. Non altrettanto si può dire delle altre bandiere nazionali, compresa la nostra.

Prof. Patrizio Paolinelli ==>>

E’ evidente che si tratta di un’occupazione simbolica dei territori dell’immaginario e della coscienza. Occupazione che lascia pochissimo spazio ad altre bandiere. Ovviamente al verbo occupare molti preferirebbero il verbo prevalere, ma non ci sembra questo l’essenziale. Ovvero: è essenziale sul piano politico: con la Seconda guerra mondiale gli USA hanno liberato l’Italia e la Germania o le hanno conquistate? Per quanto riguarda la Germania, Hans Magnus Enzensberger parla apertamente del suo paese come di un protettorato statunitense, mentre in Italia il tema è un vero e proprio tabù. In ogni caso è forse altrettanto essenziale comprendere, almeno a un primo livello, il meccanismo che ha prodotto lo sbilanciamento quantitativo e qualitativo tra bandiere a favore di quella USA. Possiamo iniziare partendo da un semplice fatto: all’onnipresenza della bandiera a stelle e strisce nel nostro paesaggio urbano non corrisponde un’altrettanta onnipresenza nella pubblicità. Il motivo è semplice: urterebbe il sentimento nazionale di italiani, tedeschi e così via. Dunque il mito della bandiera statunitense non può essere veicolato con le stesse tecniche con cui sono promossi tanti altri prodotti che sostanziano l’immaginario made in USA: dai jeans alla Coca-Cola, dalle Marlboro al rock and roll, da McDonald all’i-Phone e così via. La bandiera a stelle e strisce impressa in una maglietta è un mito afasico perché non c’è nessuno che lo promuova ufficialmente; la sua diffusione avviene trasversalmente, discretamente, talvolta in silenzio, mentre altri miti a stelle e strisce sono strillati quotidianamente dai mass-media con valanghe di parole e di immagini.

A sostegno della bandiera che prolifera su oggetti materiali acquistati volontariamente dal consumatore, nel cinema e in Tv la bandiera statunitense sventola di continuo per decisione unilaterale dei produttori di immagini (si provi per qualche sera a tenerne il conto). Nonostante la complementarietà muta il contesto: dal mondo dalla realtà siamo passati al mondo delle apparenze. E qui la musica cambia. Poliziotti che scovano cattivi, avvocati in cerca di verità e spie che salvano il mondo, tutti insieme e ognuno per la sua parte, fanno giustizia, affermano le norme, ripristinano l’ordine e la legalità. Soprattutto: danno prova di forza e non si contano i morti tra gli avversari di turno (dai pellirosse agli arabi). Al cinema la sicurezza nazionale è invocata di continuo e in suo nome non si va tanto per il sottile. Spionaggio illegale dei cittadini, guerre sporche, nemici crudelissimi assicurano all’eroe di turno il lieto fine: comunque vada gli USA vincono sempre. Qual è dunque il significato della sovraesposizione mediatica della bandiera USA? Quella di dire al pubblico che la vedono per così tante volte al cinema e in televisione che gli States sono invincibili; sono la potenza carismatica del mondo.

Ma mostrare i muscoli non basta. Ed ecco che, sempre tramite i media, la bandiera USA rappresenta un valore universale: la libertà. Per coloro che vedono negli Stati Uniti un impero con intenzioni di dominio sull’intero pianeta la libertà a stelle e strisce è estremamente parziale e si riduce essenzialmente a produrre e consumare. La stessa società statunitense con le sue enormi contraddizioni, la sua endemica violenza, la sua scandalosa povertà affiancata a un’altrettanto scandalosa ricchezza non offre certo un modello sociale su cui fondare una democrazia sostanziale. Tant’è che ai tempi d’oro del movimento contro la globalizzazione capitalistica in Rete circolavano i détournement dei sabotatori culturali di Adbusters. I quali modificavano la bandiera USA sostituendo le stelle con teschi, bombe, marchi di multinazionali, il simbolo del dollaro e così via. Fuori da Internet o dalle riviste cartacee del movimento tali irriverenti manipolazioni erano e sono praticamente invisibili. In altre parole, per strada e sui media la bandiera originale detiene il quasi monopolio. Criticare è possibile purché si resti in un recinto ben definito e assai distante dal grande pubblico. Indumenti, calzature, accessori e oggetti su cui è rappresentata la bandiera USA sono prodotti di largo consumo, pertanto in genere a basso costo. Il che ovviamente facilita l’affermazione di un mercato che pare essere in continua espansione. Ma chi sono i maggiori consumatori di tale mercato?

Ad un’osservazione empirica sembra siano prevalentemente adolescenti e proletariato urbano. Gli adolescenti paiono i destinatari privilegiati sia perché sono i maggiori consumatori dei prodotti della cultura di massa  – di cui in Occidente gli USA costituiscono la principale fonte di novità – sia perché è in quella fase della vita che si aderisce a visioni e idee politiche. Visioni e idee che, salvo esperienze traumatiche, solitamente rimangono le stesse per tutta l’esistenza. Non a caso la bandiera USA applicata all’abbigliamento non segue i ritmi della moda. La sua presenza è infatti perenne. E in quanto perenne atemporale. E in quanto atemporale l’ideale politico è compendiato nella solita parola: libertà. Un valore buono per tutte le epoche e per tutti gli usi: quale despota si sognerebbe mai di dire che tiranneggia il popolo? Di quale libertà si parla allora? Di quella delle ragazze che dopo anni di prigionia riescono a sottrarsi dalle grinfie di uno stupratore come nel film “Il mostro di Cleveland”? Sì. Ed è sì perché l’ideale di libertà promosso dalla bandiera USA stampata nell’abbigliamento e nei più diversi accessori è talmente vago che ognuno può fabbricarsi il proprio, anche se poi il sogno americano coincide regolarmente col conto in banca. E comunque in tanti non si fabbricano alcun ideale di libertà. In metropolitana mi è capitato una volta di chiedere a dei ragazzi perché indossassero cappelli e magliette decorati con la bandiera statunitense. Dopo un attimo di smarrimento eccoli rifugiarsi nel principio estetico: “Perché ci piace”. Risposta che non ammette repliche. Ovviamente ci ho provato lo stesso e alla domanda: “Vi piace più di quella italiana?” Ne è seguito un breve dibattito in cui è emerso: 1) la bandiera USA fa tendenza, quella italiana “E’ vecchia, sa de muffa”; 2) la bandiera a stelle e strisce rappresenta un segno di distinzione collegato alla moderna mitologia della gioventù. Avrei potuto obiettare che piace anche ai meno giovani, i quali non disdegnano di indossare indumenti che la riproducono. Non l’ho fatto perché alla fin fine come sindacare il gusto? Lo si può criticare fin che si vuole, ma dal momento che ha occupato uno spazio mentale e dona piacere allo sguardo non si può che prendere atto della sua affermazione, così come non si può non prendere atto dell’esistenza dei nani da giardino per quanto siano relegati dagli esperti di estetica nella categoria del kitsch.

Intendiamoci: per gli statunitensi la bandiera rappresenta davvero la libertà e in particolare quella personale. Tant’è che non è infrequente trovarla esposta nei giardini o sui tetti delle abitazioni private e dalle scuole elementari gli scolari sono abituati a salutare la bandiera. La sua importanza simbolica è tale che, su pressione della stampa neoconservatrice, persino un critico della politica USA come Michael Moore, dovette dichiarare anni fa di averla esposta davanti alla porta di casa. Insomma gli fu chiesta prova dl suo patriottismo. Perché è proprio il patriottismo il valore di fondo incorporato nella bandiera. E alcuni ne sono più di altri i portatori: gli uomini di Stato, quelli politici e i militari. Non è un mistero per nessuno che, sotto la supervisione  della Casa Bianca, Hollywood, Pentagono e sistema universitario siano integrati per la difesa del Paese. Da questa integrazione sono scaturite le note dottrine dell’hard-power e del soft-power. Nell’ambito delle relazioni internazionali con la prima si intende l’uso della forza militare ed economica; con la seconda la diffusione mondiale dei propri valori culturali. Qual è dunque la funzione principale della propagazione della bandiera USA riprodotta dentro e fuori lo schermo? Quella di far sentire gli stranieri anche un po’ patrioti americani. Stranieri al servizio di due bandiere: quella propria e quella acquisita. Quali migliori alleati?

Patrizio Paolinelli via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro


Il Role-set e la sua gestione

In questo articolo prenderemo in considerazione l’importanza del Role- set nonché i problemi conseguenti alla sua gestione.

di Giovanni Pellegrino e Mariangela Mangieri

Col termine di Role-set si intende in sociologia l’insieme dei ruoli gestiti da un individuo del sistema sociale di appartenenza. Il concetto di ruolo è utlizzato nella descrizione e nella comprensione delle situazioni sociali della vita quotidiana.

<<== Prof. Giovanni Pellegrino

Per ruolo si intendono in sociologia quelle aspettative di comportmento associate ad un determinato compito svolto dall’individuo nella società. Il ruolo ci permette di prevedere il comportamento dell’individuo che lo detiene. In estrema sintesi possiamo dire che il ruolo designa il compito assegnato all’individuo nella società. Dobbiamo mettere in evidenza che affinchè un sistema sociale funzioni in maniera ottimale è necessario che i detentori dei vari ruoli interpretino in maniera almeno accettabile tali ruoli. Di conseguenza in tutte le società sono previste delle sanzioni positive e negative che hanno lo scopo di costringere gli individui a svolgere in maniera accettabile i compiti loro assegnati. Per dirla in altro modo le sanzioni hanno il compito di ridurre al massimo la distanza esistente tra il ruolo ideale e il ruolo reale.                                                 

 Per ruolo ideale si intende il comportamento ideale che dovrebbe avere il detentore di un dato ruolo. Al contrario per ruolo reale si intende il comportamento effettivo assunto dal detentore del ruolo. Se la distanza tra il ruolo ideale e quello reale è eccessiva il sistema sociale va incontro ad entropia ovvero a disordine.  L’insieme delle sanzioni costituisce un meccanismo sociale di correzione che  prende il nome di controllo sociale. Esso ha il compito di scoraggiare e correggere i comportamenti devianti che causano la formazione dell’entropia in un dato sistema sociale. Proprio perché causano entropia tali comportamenti sono disfunzionali al sistema sociale. Le sanzioni si dividono in due gruppi :positive( premi per coloro che rispettano le norme sociali) negative( punizioni per quanti infrangono dette norme). I detentori dei ruoli sociali devono adempiere a due tipi di aspettative: aspettative di carattere obbligatorio, l’adempimento delle quali non ammette deroghe ed aspettative di carattere discrezionale (il detentore del ruolo può entro certi limiti non adempiere totalmente tali aspettative). L’esistenza delle aspettative discrezionali conferisce agli individui un certo margine di libertà nell’interpretazione dei ruoli. Tale spazio lasciato ai detentori dei ruoli prende il nome di tolleranza dei ruoli. Tale tolleranza permette agli individui di infondere sfumature personali nell’interpretazione dei ruoli.

Tali sfumature sono importantissime perché permettono agli individui dotati di maggiori qualità di interpretare il ruolo meglio di quelli meno dotati di talento o meno motivati. Dobbiamo mettere in evidenza che i livelli motivazionali sono determinanti nell’interpretazione e nella gestione dei ruoli. Appare chiaro che gli individui demotivati adempiranno per altro controvoglia solamente alle aspettative di carattere obbligatorio al solo scopo di evitare di incorrere nelle sanzioni negative. Inoltre ogni individuo deve interpretare vari ruoli. Reimann afferma che ogni membro della società essendo inserito in diversi contesti sociali deve interpretare diversi ruoli complementari che costituiscono il role set. Naturalmente non è sempre facile conciliare i diversi ruoli ragion per cui a volte nascono conflitti interruoli. Per esempio immaginiamo che un professore universitario debba esaminare il figlio.

Qualora il ragazzo sia meritevole di essere bocciato, il professore si troverà in una situazione conflittuale in quanto dovrà prendere una difficile decisione. Infatti egli come professore avrebbe il dovere di bocciare il figlio ma come padre avrebbe il dovere di aiutarlo. All’interno del role set non tutti i ruoli rivestono la stessa importanza per l’individuo. A tale riguardo definiamo ruolo predominante quel ruolo che riveste maggiore importanza per l’individuo. I conflitti intraruolo e quelli interruoli determinano dei problemi alle persone. Infatti essi generano quello stress di ruolo che è una vera e propria mina vagante per l’equilibrio psicologico dei soggetti. Esistono strategie per diminuire lo stress di ruolo. In questa sede ci limiteremo a citarne tre: la segmentazione del ruolo, la distanza dal ruolo e la rinuncia al ruolo. Per quanto riguarda la segmentazione del ruolo essa consiste nella non attuazione di alcuni comportamenti richiesti da un ruolo secondario per evitare problemi nell’ambito di un altro ruolo ritenuto più importante. Per fare un esempio un impiegato eviterà di dichiarare di essere tifoso di una determinata squadra di calcio se sa che il suo diretto superiore è un fanatico tifoso di un’altra squadra.

Con il termine distanza dal ruolo si intendono quelle azioni mediante le quali l’individuo finge una distaccata indifferenza nei confronti di un dato ruolo. Infine un soggetto può rinunciare ad un ruolo secondario per evitare conflitti con un ruolo ritenuto più importante. Vogliamo mettere in evidenza che l’interpretazione di un ruolo può essere più o meno problematica a seconda del contesto socio-culturale in cui si trova ad agire il detentore del ruolo. Per fare un esempio svolgere il ruolo del professore risulta abbastanza facile se gli allievi ascoltano il docente e non appartengono ad ambienti delinquenziali. Al contrario tale ruolo diventa molto difficile se il professore si trova davanti a studenti violenti appartenenti ad ambienti criminali. Dobbiamo poi tener presente che risulta più semplice gestire un ruolo liberamente scelto che non un ruolo imposto dalle circostanze esterne.

Concludiamo il nostro discorso sui ruoli mettendo in evidenza che esistono delle circostanze nelle quali un soggetto viene utilizzato in un ruolo che non appartiene al suo role set. In tali casi si dice che l’individuo si trova in una situazione di fuori ruolo. Ad esempio immaginiamo che ad un calciatore che ricopre il ruolo di difensore venga chiesto dall’allenatore di giocare come centrocampista. In tal caso abbiamo una classica situazione di fuori ruolo.  In queste circostanze il rendimento dell’individuo è fortemente compromesso a meno di clamorose sorprese. Appare evidente infatti che tutte le situazioni di fuori ruolo sono molto problematiche per tutti gli individui che vanno incontro a notevolissime difficoltà.

Prof. Giovanni Pellegrino

Prof.ssa Mariangela Mangieri


COMITATO PER LO SVILUPPO SOCIALE DELLA CULTURA DELLA SICUREZZA DEL LAVORO

Per la ricerca, lo studio, e lo sviluppo della cultura della sicurezza sul lavoro attraverso la valorizzazione della dimensione sociale

Documento di progetto

LA CULTURA PER LA SICUREZZA DEL LAVORO

Lo scopo del Comitato per lo Sviluppo Sociale della Cultura della Sicurezza sul Lavoro è raccogliere, promuovere e diffondere idee, progetti, riflessioni, strumenti e ogni altro contributo intellettuale nuovo, anche coraggioso e creativo, che possa portare a delineare soluzioni alternative per pensare la prevenzione ed affrontare il problema della sicurezza sul lavoro, valorizzando la dimensione sociale, che va considerata come parte protagonista dell’impianto prevenzionistico.

L’idea è quella di stimolare il dibattito e cercare il volano per la comprensione ed il superamento del punto di stallo infortunistico nel quale ci troviamo, sovvertendo le vecchie visioni della sicurezza al passo con i nuovi fattori di rischio, di difficile misurazione, connessi all’organizzazione del lavoro, alle persone, al sistema di relazioni, al contesto culturale. Un cambio di paradigma che non vuole essere un semplice slogan ad effetto ma che, oggi, diventa una priorità, un’urgenza improrogabile.

Da più parti si avverte la necessità di incentivare la cultura della sicurezza ma, la demagogia e la retorica del rischio, la hanno fatta diventare troppo spesso un concetto astratto, usato vagamente o genericamente, o anche peggio, in un senso reificato e riduttivo, che minaccia di annullarlo. Il processo culturale deve essere costantemente sostenuto da adeguate politiche istituzionali e pratiche organizzative. Quando parliamo di cultura intendiamo infatti un patrimonio sfaccettato prodotto e plasmato da conoscenze, competenze, credenze acquisite nel tempo attraverso lo studio, l’esperienza, la socializzazione, che si traduce in atteggiamenti ricorrenti cristallizzati in schemi mentali ed in istituti di comportamento, che incidono prepotentemente sulla sicurezza.  In tal senso la dimensione sociale deve essere considerata come parte protagonista della sicurezza. Può essere parte vulnerabile o parte che, al contrario, riesce a rinforzare l’impianto prevenzionistico.

Il Comitato si propone come sintesi

Un approccio multidisciplinare, per individuare i termini della questione ed aumentarne la consapevolezza. L’intento è quello di accendere i riflettori sul problema per prospettare una possibile direzione di un futuro diverso, forgiato sulle esperienze accumulate, che possa contribuire all’inversione di tendenza del fenomeno infortunistico.

Per molto tempo si è pensato alla sicurezza sul lavoro prevalentemente dal punto di vista tecnico, tecnologico e giuridico ignorando purtroppo l’aspetto culturale e sociale, seppur i comportamenti risultano spesso alla base delle cause infortunistiche. Per questo è importante affrontare il tema della sicurezza e della salute in maniera integrata, analizzando la “variabile uomo-organizzazione”. All’elemento umano, sia esso datore di lavoro o lavoratore, è infatti attribuita, direttamente o indirettamente, la maggior parte degli errori che portano oggi all’incidente.

Lo sviluppo e l’innovazione tecnologica stanno diventando, ormai, il pensiero dominante.  Ma quando la tecnologia perde, o dimentica, gli aspetti sociali si crea una anomalia poiché il cambiamento avviene con velocità e modalità differenti. Innovazione tecnologia ed innovazione sociale sono le due facce della medesima medaglia.

Questo Documento è alla base di un’idea di progetto che intende quindi sostenere la necessità di promuovere la dimensione sociale della sicurezza, coinvolgendo le competenze delle Scienze sociali, per la prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro e delle malattie professionali attraverso azioni pedagogiche di ampio respiro. Lo strumento organizzativo principale resta quello della prevenzione con particolare riguardo alla formazione quale processo educativo delle persone. La formazione costituisce gran parte del processo che collega l’uomo al lavoro ed in tale visione gli aspetti comportamentali risultano fondamentali agendo in modo determinante per la prevenzione degli infortuni.

La prospettiva di approccio sociologico infatti può evidenziare l’importanza del fattore valoriale e umano, al pari di quelli tecnici e giuridici, come imprescindibile misura di prevenzione e protezione da considerare all’interno dei luoghi di lavoro contro il rischio infortunistico e di malattia professionale e come obiettivo da perseguire.

Non si può dimenticare che dietro ad un infortunio c’è sempre un difetto d’organizzazione, da parte di chi è deputato a prendere decisioni, o di esecuzione, da parte di chi deve eseguire un’azione lavorativa. Questo ancora di più nella società contemporanea la cui complessità e la dinamicità del sistema economico impongono ritmi lavorativi e modelli organizzativi spesso inconciliabili con la definizione giuridica di salute descritta nel D.Lgs. 9 aprile 2008.

Del resto, come scrive il sociologo Carlo Bordoni non si è mai parlato tanto di lavoro da quando è cominciato a mancare. E se manca il lavoro viene meno anche la sicurezza. La stessa prospettiva della perdita del lavoro allenta misure di sicurezza facendole apparire inutili. Il deterioramento degli istituti di protezione, le nuove asimmetrie, la pandemia, e gli aspetti sociali in genere non possono quindi non essere considerati.

La manifattura, il lavoro con le mani, è un punto di forza delle nostre imprese la cui dimensione e capacità di adattamento ai flussi di mercato rappresentano l’ostacolo maggiore ad un adeguato coinvolgimento nei processi culturali. Spesso, la legislazione sulla sicurezza sul lavoro non è stata capace di incidere profondamente. All’obbligo burocratico e formale deve contrapporsi una consapevolezza del valore della cultura dell’uomo nei processi produttivi. Il peso della cultura sarà il segno distintivo della creatività per contribuire alla crescita non solo dell’azienda ma della comunità.

Portare l’attenzione sul fattore socio-culturale consente così di introdurre un altro fondamentale tassello nell’impianto prevenzionistico, in modo da consentire di intercettare e prevenire un’ampia serie di eventi infortunistici comportamentali. Ogni infortunio è un passo indietro ed il cambiamento deve avvenire non solamente a livello tecnologico, che riguarda la macchina, ma nel cambiare i comportamenti che riguardano gli esseri umani.

Il Comitato intende pertanto contribuire a:

  • promuovere e sviluppare una prospettiva di approccio prevenzionistico che includa la dimensione sociale che possa evidenziare proprio l’importanza del fattore valoriale e umano, al pari di quelli tecnici ed istituzionali, come imprescindibile misura di prevenzione e protezione da considerare all’interno dei luoghi di lavoro contro il rischio infortunistico e di malattia professionale e come obiettivo da perseguire;
  • creare una cultura della sicurezza improntata sulla prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali ed aperta allo studio dei comportamenti umani in ambiente di lavoro anche attraverso il coinvolgimento delle scienze sociali;
  • promuovere lo studio organico in approccio epistemologico delle Scienze Sociali, improntato allo studio della sociologia della sicurezza; 
  • sensibilizzare il sistema istituzionale di cui al Capo II del D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 affinché si apra al contributo delle scienze sociali e degli attori della formazione per la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro sul presupposto che la formazione è il fulcro della prevenzione;
  • sensibilizzare i soggetti del sistema di prevenzione protezione e più in generale i consulenti per la sicurezza;
  • qualificare i datori di lavoro e tutti i principali attori del servizio di prevenzione e protezione;
  • qualificare maggiormente i soggetti formatori in relazione ai requisiti di legge;
  • qualificare maggiormente i docenti formatori in relazione alle proprie competenze professionali.

Il Comitato potrà agire attraverso:

  • seminari divulgativi sul tema, anche in modalità smart e videoconferenza, coinvolgendo il mondo universitario e gli Ordini Professionali;
  • richieste di audizione a Enti istituzionali al fine di sostenere proposte, studi e quant’altro possa contribuire a quanto indicato nel Documento di Progetto;
  • organizzazione di attività pedagogiche di sensibilizzazione sul territorio, anche partendo dai banchi di scuola;
  • articoli divulgativi sulle attività svolte;
  • ogni altra attività utile allo scopo.

Novembre 2021

ADERISCI AL COMITATO

  1. Adesioni

Possono aderire al “Comitato” tutte le persone che condividono il Documento di progetto LA CULTURA PER LA SICUREZZA DEL LAVORO e ne condividono i principi di fondo e si impegnano a promuovere, ampliare, arricchire il documento di base portando contributi e sviluppando il dibattito attorno all’importanza delle scienze sociali nella sicurezza sul lavoro.

  • L’adesione è libera e gratuita
  • Sulle pagine istituzionali del Comitato verranno pubblicati i nominativi di tutti coloro che aderiscono e di fatto costituiscono il Comitato.
  • Il Comitato è coordinato da una segreteria tecnica.
  • Promozione

Tutti i componenti del Comitato si impegnano a promuovere e diffondere le idee e le iniziative intraprese dai diversi componenti del Comitato che abbiano per oggetto la cultura della sicurezza sul lavoro nella sua dimensione sociale.

Le iniziative del Comitato saranno veicolate anche attraverso i social e le pagine web dei singoli aderenti al Comitato.

  • Azioni

Ciascun componente del Comitato che intende svolgere eventi, convegni, seminari, webinar, ecc. a proprio carico per tutti gli aspetti organizzativi ed ammnistrativi può utilizzare il logo ed il patrocinio del Comitato stesso facendone esplicita richiesta alla Segreteria tecnica.

Tutti gli aderenti al Comitato possono inviare articoli, saggi, idee, raccolte di documenti che verranno pubblicati sulle pagine sociale e/o sul sito web del Comitato.

La segreteria tecnica comitatoculturasicurezza@gmail.com Rita Somma, coordinatrice, Paolo Varesi, Rocco Vitale (Comitato Promotore)

Hanno già aderito al Comitato:

ASI – Associazione Sociologi Italiani

AIFOS – Associazione Italia Formatori e Operatori della Sicurezza

AIFES – Associazione Italiana Formatori Esperti in Sicurezza sul Lavoro

Safety Contact srl

========

Dott. Antonio Latella,

Presidente Associazione Sociologi Italiani

Dott.sa Arianna De Paolis

Presidente AIFES, Associazione Italiana Formatori ed Esperti in Sicurezza

Prof. Rocco Vitale,

Presidente AIFOS – Associazione Italiana Formatori ed Operatori della Sicurezza, sociologo del lavoro, già docente di diritto del lavoro

Dott. Paolo Varesi

Componente Commissione Consultiva Permanente sulla salute e la sicurezza ex art 6 D. Lgs 81/2008 istituita presso il Ministero del Lavoro

Dott.sa Rita Somma

Consulente H&S, sociologa del lavoro, Consigliere Nazionale AIFOS


Il teatro di una società malata: la pornografia on-line

di Patrizio Paolinelli

Nel mercato delle immagini il sesso costituisce una delle voci più importanti per dimensioni, fatturato e influenza culturale. All’interno di tale mercato è tuttavia decisivo distinguere tra hard-core, soft-core e corpo glamour.

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

Le tre offerte sono destinate a consumatori differenti ma nella nostra società hanno finito per assumere alcuni rilevanti tratti in comune: 1) veicolano la medesima idea di orgasmocrazia, ossia un’idea del sesso concentrata sull’orgasmo e sul suo raggiungimento il maggior numero di volte possibile nella giornata e nel corso della vita; 2) azzerano o quasi gli aspetti emotivi della sessualità per cui la carne prevale sulla psiche; 3) erotizzano fino al parossismo il corpo della donna, la quale, nell’attuale ordine visivo, è sottoposta al piacere dello sguardo maschile che essa stessa ha interiorizzato. Movimento che John Berger ha ben riassunto – e ancor meglio problematizzato – nella formula: “Gli uomini guardano le donne. Le donne guardano se stesse mentre sono guardate”.

La formula di Berger vale soprattutto per il soft-core e il corpo glamour, ormai completamente legittimati nel nostro ordine visivo in nome di un anticonformismo pilotato dal mercato delle immagini e trasformato così in una nuova forma di conformismo. Tant’è che oggi è forse più rivoluzionario recuperare il senso del pudore che dare quotidiane prove di disinibizione. Diverso è il discorso sull’hard-core. Il quale, con l’avvento del World Wide Web, è praticamente scomparso dalle edicole, ha condotto alla quasi estinzione dei cinema a luci rosse e spostato on-line il videonoleggio. Il che sul piano delle relazioni faccia a faccia presenta il vantaggio di aver messo acquirenti e spettatori al riparo da giudizi, rimproveri e pettegolezzi. E tuttavia, nonostante tale vantaggio, sul piano delle relazioni virtuali  la completa clandestinità non è consentita al navigatore perché ogni movimento in Rete è osservato, tracciato e valutato. Ma con le dovute accortezze (ad esempio, cancellare la cronologia o attivare la funzione “navigazione in incognito”) la reputazione nel mondo reale è salva e si può consumare materiale pornografico con relativa tranquillità.

Il mercato dell’hard-core non è quantificabile con precisione. Secondo l’ONU nel 2012 generava profitti per 96 miliardi di dollari di profitti l’anno. Sembra poi che il 25% (ma c’è chi parla del 30%) del traffico mondiale su Internet abbia carattere pornografico, che i database crescano al ritmo di 22mila nuovi video al mese e che i gestori di siti hard incassino circa 3 miliardi di dollari l’anno per le sole inserzioni pubblicitarie. Per quanto concerne il traffico altri studi forniscono cifre più basse attestandosi intorno al 10-12%. Assai più certe sono invece le cifre relative alla tipologia di consumatori, in larghissima maggioranza maschi (80-90%), al modello di consumo (il 70% dei maschi guarda immagini porno per eccitarsi e praticare l’autoerotismo), al numero dei portali dedicati alla pornografia (oltre 4 milioni), al progressivo abbassamento dell’età dell’utenza (ormai si parte dagli 11 anni), alla fonte di produzione (gli USA  per circa l’85%).

A partire da questa ridda di numeri sono state avanzate diverse riflessioni: alcune molto allarmate dinanzi all’enormità del fenomeno e alla diffusione della pedopornografia; altre si concentrano sulla porn-addiction; mentre altre ancora considerano la pornografia on-line socialmente sopportabile così come avviene con la prostituzione di strada. Ma al di là dei punti di vista e delle incertezze statistiche c’è un altro aspetto che merita un supplemento di attenzione. Ed è la progressiva banalizzazione della pornografia come conseguenza della sua trasformazione in fenomeno di massa. Tale banalizzare ha uno scopo assai chiaro: per il mercato delle immagini si tratta di spostare la pornografia da fenomeno socialmente deviante a fenomeno socialmente anticonformista, quasi fosse una espressione della cultura di massa come i video-musicali (i quali peraltro giocano parecchio con la  trasgressione sessuale).

Il tentativo di normalizzare in via definitiva la pornografia ha permesso a un manipolo di pornoattori di diventare dei personaggi pubblici rincorsi dai giornalisti. Seppur per lo spazio di un mattino alcuni anni fa la pornostar Moana Pozzi venne trasformata dal sistema dei media in un mito dello spettacolo al pari di qualsiasi altra diva del grande schermo. Mentre recentemente si è cercato di costruire una professionalità cinematografica intorno al pornoattore Rocco Siffredi, approdato quest’estate al Festival di Cannes insieme alla moglie, anch’essa pornoattrice. Tali tentativi sono possibili proprio perché, da un lato, i confini tra hard-core, soft-core e corpo glamour sono sempre più sottili e, dall’altro, perché lo sguardo del grande pubblico è addestrato dal mercato delle immagini a erotizzare corpo, in particolare quello femminile. Proprio all’ultimo Festival di Cannes alcune ragazzotte in cerca di notorietà si sono esibite sul tappeto rosso con abiti dagli spacchi vertiginosi da cui si evinceva l’assenza degli slip. Grande interesse di fotografi e stampa che per l’ennesima volta hanno soffiato sul fuoco dell’esibizionismo.

Ma l’esibizionismo praticato da star e starlette fa sempre più parte delle regole del mondo dello spettacolo, costituisce la principale forma di anticonformismo permessa dal mercato delle immagini ed è ampiamente giustificato dai media in nome dell’emancipazione femminile, dell’evoluzione dei costumi, dei diritti civili, o semplicemente perché va di moda. Tuttavia, quando l’erotizzazione parossistica del corpo passa dallo schermo alla realtà non sempre si assiste all’happy end cine-televisivo e talvolta possono capitare delle vere e proprie tragedie. E il caso recentissimo del suicidio di Tiziana Cantone. Una bella trentenne napoletana che sui social network si presentava secondo la norma visiva dominante, ossia come una diva da rotocalco. E come una diva da rotocalco ha girato un video hot mentre tradiva il fidanzato (il quale non si sa se fosse consenziente o meno, o se addirittura istigasse la fidanzata a simili pratiche).

Purtroppo Tiziana ha avuto la malaugurata idea di condividere il video con un gruppo di cinque amici su WhatsApp. Da lì è rimbalzato su Facebook diventando virale. Persa la reputazione la ragazza non poteva più uscire di casa. Ha chiesto inutilmente la cancellazione del filmato ma su Internet il diritto all’oblio sembra di là da venire. E così per la vergogna si è tolta la vita. Quel che è peggio è che subito dopo la notizia della sua morte sui social network in tanti si sono scatenati contro di lei insultandola pesantemente. Non basta. E’ andata deserta una fiaccolata organizzata in sua memoria. Sulla stampa qualcuno si è fugacemente interrogato sul mancato rapporto tra l’alta tecnologia che pervade la nostra società e la persistenza di una diffusa mentalità maschilista anche tra i giovani. Insomma nonostante tutti gli sforzi del mercato delle immagini la pornografia, pure se fatta in casa e senza fini di lucro, resta un’astrazione dalla realtà e non perde la propria connotazione deviante.

La vicenda della ragazza napoletana non è l’unica, un anno fa una quarantenne di Treviso si suicidò per motivi analoghi. E a riprova di quanto sia delicato l’equilibrio tra mantenere la  propria immagine pubblica e perdere la faccia nell’estate del 2015 fece scalpore la notizia dell’hackeraggio di gran parte dei profili del sito di appuntamenti extraconiugali Ashley Madison il cui motto era “La vita è breve, fatti una scappatella”. Insieme ai nomi degli iscritti vennero rese note le loro fantasie sessuali e gli indirizzi mail.  Tre utenti non ressero la gogna virtuale e si suicidarono. Per la cronaca l’anno scorso la community contava 37 milioni di utenti distribuiti in 46 Paesi del mondo e per il 95% maschi.

Nonostante sui media vecchi e nuovi le donne siano protagoniste di un sesso disinvolto, dal mondo reale emergono tre elementi: sentimenti fortemente sociali come la vergogna convivono con un immaginario collettivo in guerra col senso del pudore; l’erotizzazione della società è un processo controllato dallo sguardo maschile; la separazione tra erotismo e amore su cui tanto insiste il mercato delle immagini non è affatto compiuta. Da qui una diffusa crisi psicologica, identitaria e di senso. Una crisi che passa attraverso il corpo delle donne perché la sessualità è uno degli oggetti su cui maggiormente si esercita il potere. Ieri era il potere politico (la donna intesa come angelo del focolare e dunque dipendente dall’affetto maschile) oggi è quello economico (la donna intesa come macchina erotica e dunque indipendente da qualsiasi affetto).

Va sottolineato che il dominio dello sguardo maschile è decisamente perverso perché fa leva sull’istanza di liberazione del corpo per la quale le donne hanno lottato durante la modernità. Non sembra troppo azzardato affermare che la cosiddetta rivoluzione sessuale degli anni ’60 del secolo scorso – e sulla quale prospera ancora oggi una parte consistente dell’industria culturale – si sia trasformata nel suo opposto. In un’oppressione fondata sul piacere di guardare, essere guardati e di guardarsi mentre si è guardati. Un’oppressione che non vieta, anzi incita all’orgasmo continuo e le cui danze sono dirette da chi gestisce il mercato delle immagini (i media) e da chi lo finanzia (gli imprenditori).

Un certo cinema degli anni ’70 (si pensi alla commedia erotica all’italiana), l’avvento della Tv commerciale negli anni ’80 (con il suo corredo di donne seminude in prima serata) e Internet oggi hanno detabuizzato il sesso attraverso un’offerta pressoché illimitata di immagini erotiche. Ma ieri come oggi viviamo in una società capitalistica e tutto deve essere messo al lavoro perché tutto deve generare profitto. E così il sesso è stato industrializzato. Tra le fabbriche più redditizie c’è proprio il porno on-line. Entriamo in alcune di queste fabbriche. Nella maggior parte dei casi l’ingresso è gratuito e i proprietari del sito si ripagano con la pubblicità e la vendita dei profili degli utenti. A proposito di pubblicità in quasi tutti i siti gratuiti campeggiano promozioni di prodotti che assicurano l’allungamento strabiliante del pene nel giro di pochi giorni. Promessa di gigantismo anatomico da intendersi come segno del dominio maschile.

Di solito queste promozioni sono affiancate a quelle di ragazze che con un linguaggio colorito e molto esplicito offrono prestazioni sessuali di ogni tipo. Come di ogni tipo sono le collezioni video a cui l’utente può accedere e, giusto per dare qualche indicazione, sono catalogate: per attività (sesso orale, anale ecc.); per comportamento (all’aperto, in gruppo); per caratteristiche fisiche (bionde, brune, di colore, dal seno grande); per classi di età (mature, teen); per nazionalità e così via. Nei siti gratuiti modelle e modelli sono persone dall’aspetto normale che si esibiscono in modeste stanze. D’altra parte le riprese insistono con primi piani sui genitali e non c’è bisogno di grandi bellezze (le quali peraltro costerebbero maggiormente alla produzione). Il porno-chic invece è a pagamento e il corpo delle modelle è fortemente glamour. In questi siti le donne sono molto più attraenti rispetto alle operaie del sesso dei siti gratuiti, sono ben truccate, ben vestite, meno frettolose, spesso sottoposte a interventi di chirurgia estetica e si esibiscono in location di un certo lusso. Chic o non chic, in tutti i casi la donna è un oggetto di piacere da usare e gettare.

Se si supera il voyeurismo e si osservano i siti porno con occhio critico essi si rivelano molto istruttivi. Per esempio i video hard made in USA mettono in luce, per così dire spontaneamente, alcuni aspetti essenziali del carattere sociale degli statunitensi. Innanzitutto l’aggressività. Sono infatti realizzati all’insegna della performance fisica. Palesemente si vedono modelle e modelli impegnati in una frenetica prova in cui prevale la forza muscolare. Maschi e femmine sembrano partecipare ad una gara in cui la donna perde sempre per almeno tre motivi: 1) perché a differenza dell’uomo non raggiunge mai l’orgasmo; 2) perché il suo corpo è soggiogato anche quando si impegna fino allo spasimo in termini di atletismo sessuale; 3) perché spesso subisce forme di violenza quali lo schiaffeggiamento dei seni, dei glutei e del viso.

I video hot giapponesi sono invece all’insegna della lentezza. L’attenzione delle telecamere si concentra sul lavorio delle modelle. Le quali appaiono come servizievoli e sorridenti lolite dedite al piacere di un maschio in attesa di essere appagato. Qualsiasi interpretazione culturale del porno non può tuttavia prescindere dalla mercificazione del corpo e dalla miseria umana a cui l’alta tecnologia offre uno spazio illimitato. Quando tale spazio è occupato da masse di persone che guardano e che si vendono perdendo in entrambi i casi la dignità vengono in mente le parole del parroco che ha celebrato il funerale di Tiziana Cantone e che nella sua omelia ha parlato di una società malata. Gravemente malata, vorremmo aggiungere. E guarirla non sarà facile.

Patrizio Paolinelli, via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro


La sindrome da BURNOUT

di Elisabetta Festa

Burnout in inglese significa letteralmente bruciato, fuso. Ed è un termine che descrive molto bene come si sente un soggetto colpito da questa sindrome, chiamata anche sindrome da stress lavorativo cronico, o da stress lavoro-correlato. Inizialmente, essa è stata correlata alle cosiddette “helping professions”, cioè alle professioni sanitarie e assistenziali che prevedono un contatto con le persone o deputate alla difesa, alla sicurezza pubblica ed alla gestione delle emergenze: infermieri, medici, insegnanti, assistenti sociali, operatori per l’infanzia, poliziotti e vigili del fuoco. In seguito, si è riconosciuto che il burnout può associarsi a qualsiasi contesto lavorativo in cui esistano forti condizioni stressanti e pressanti (come, ad esempio, può accadere per le posizioni di grande responsabilità lavorativa) o implicazioni relazionali molto accentuate (es. avvocato, ristoratore, politico, impiegato delle poste, segretaria ecc.)

Dopo decenni di discussioni, a sancire la peculiarità del burnout è intervenuta anche l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS), che nel 2019 ha riconosciuto questa sindrome come un fenomeno occupazionale e non come una condizione medica, non va confusa infatti con i disturbi specificamente associati allo stress, come nel caso, ad esempio, del disturbo post-traumatico da stress, nonostante alcune manifestazioni possano essere condivise.

Essa è caratterizzata da una serie di fenomeni di affaticamento, di delusione, di logoramento e di improduttività che sfociano in frustrazione e disinteresse per la propria attività professionale quotidiana. il lavoratore che ne è soggetto, arriva al punto di “non farcela più” e si sente completamente insoddisfatto e prostrato dalla routine quotidiana. Col tempo, il burnout può condurre ad un distacco mentale dal proprio impiego, con atteggiamento di indifferenza, di malevolenza, di aggressività e di cinismo oltre che verso se stessi anche  verso i destinatari dell’attività lavorativa. Il burnout non va sottovalutato, considerandone i sintomi come passeggeri e poco importanti: la demoralizzazione e la negatività per il proprio contesto possono sfociare, talvolta, nella depressione e in altri disturbi più complessi da affrontare e risolvere.

La sindrome da burnout è sostenuta, quindi, da un vissuto di demotivazione, delusione e disinteresse. I ritmi intensi, le richieste pressanti e la responsabilità lavorativa in combinazione alla tendenza ad identificarsi con la propria professione, determinano spesso un grande investimento di energie e risorse che, nel tempo, possono facilitare la comparsa di questa forma di esaurimento. Il burnout va inteso come un processo multifattoriale che riguarda sia i soggetti, che la sfera organizzativa e sociale nella quale questi lavorano.

Variabili individuali

Fattori socio-demografici

  • Età: alcuni esperti del settore sostengono che l’età avanzata costituisca uno dei principali fattori di rischio di burnout; altri ritengono, invece, che i sintomi siano più frequenti nei giovani, le cui aspettative sono deluse e stroncate dalla rigidezza delle organizzazioni lavorative;
  • Stato civile: persone senza un compagno stabile sembrano essere più vulnerabili a sviluppare questa forma di esaurimento psico-fisico.
  • Differenza di genere: le donne sarebbero più esposte degli uomini a tale pericolo.

Caratteristiche di personalità

  • Tendenza a porsi obiettivi irrealistici;
  • Personalità autoritaria o introversa (incapacità di lavorare in team);
  • Concetto di sé come indispensabile;
  • Abnegazione al lavoro, inteso come sostituzione della vita sociale;
  • Motivazione ed aspettative professionali elevate.

Fattori socio-ambientali e lavorativi

Come anticipato anche un ambiente di lavoro non favorevole può provocare errate manifestazioni psico-fisiche, con un significativo impatto negativo sul benessere della persona. Il burnout può essere associato a diverse componenti della sfera lavorativa, di tipo organizzativo o correlati alla comunicazione o ancora alla sicurezza sul luogo di lavoro, come:

  • Le aspettative connesse al ruolo:
    • Carico eccessivo di lavoro: se superiore alla capacità dell’individuo di farvi fronte;
    • Mancanza di controllo sulle risorse necessarie per svolgere il proprio lavoro: sembra esservi un’associazione tra il burnout e la carenza di autonomia per attuare l’attività nella maniera che si ritiene più efficace o le abilità di assumersi la responsabilità di decisioni importanti;
    • Valori contrastanti: l’incongruenza tra i valori dell’individuo e dell’organizzazione può tradursi nella pressione di una scelta tra ciò che si vuole fare e ciò che, invece, si deve fare;
    • Attività inadeguate rispetto alle competenze del lavoratore o aumento di responsabilità, senza la giusta compensazione;
  • Le relazioni interpersonali:
    • Difficili interazioni con colleghi o clienti;
    • Frequenti conflitti nella programmazione del lavoro o interruzioni;
  • Le caratteristiche dell’ambiente di lavoro:
    • Politiche sanitarie e di sicurezza inadeguate;
    • Bassi livelli di supporto ai lavoratori;
  • L’organizzazione stessa del lavoro:
    • Comunicazione e gestione insufficiente;
    • Compiti e obiettivi poco chiari;
    • Programmi che cambiano spesso;
    • Orari inflessibili e scadenze irrealistiche;
    • Partecipazione limitata o scarsa nei processi decisionali della propria area di lavoro.

A queste situazioni, si aggiungono:

  • Mancato riconoscimento (sia sociale, che economico) del risultato;
  • Assenza di equità (cioè la percezione di onestà e correttezza che favorisce soddisfazione e motivazione);
  • Presenza di rischi alti, come per i soccorritori o gli agenti di pubblica sicurezza;
  • Mobbing e molestie psicologiche.

Quindi un fenomeno davvero complesso ed articolato che richiede una risoluzione altrettanto ampia e variegata, l’utilizzo di approcci integrati multidisciplinari che intervengano a modificare sia le storture a livello organizzativo che quelle di carattere individuale rappresenta sicuramente la strada maestra da imboccare.

Dott.ssa Elisabetta Festa – Sociologa
Direttore Laboratorio Sociologico ASI Avellino: “Asirpiniasociolab”
Vice Presidente ASI Campania
Presidente Collegio Probiviri ASI

IL VALORE ENDOGENO-RETICOLARE DELLA COMUNITÁ NELLA PRASSI DELLA PROGETTAZIONE E SVILUPPO DEL TERRITORIO

di Domenico Stragapede

La comunità attraverso la propria identità riconosce la giusta dimensione operativa e gli obbiettivi rilevanti e le strategie per realizzarli.

<<== dott. Domenico Stragapede

Una visione concreta sul come ri-pensare e integrare le risorse in base alla capacità del territorio in essere, più del semplice carattere della dimensione spaziale, nel contesto della complessità delle differenze ravvisabili, il cui pensiero strategico considera la struttura allargata alla olistica forma delle relazioni reticolari, in pre-visione di una organizzazione e con-divisione delle risorse soggettive del capitale umano, e oggettive dei piani visibili della funzione culturale e co-struttiva dei luoghi in cui si radica il concetto di valore endogeno della comunità .

Il termine endogeno è sinonimo di conoscenza e consapevolezza della realtà spaziale del luogo sociale, in cui si sviluppano le azioni di sistema locale, ovvero interpretazione e comprensione dei fattori trasformanti a livello economico-politico, possibilità di reazione ai cambiamenti temporali dell’ambiente, introduzione di azioni volte alla normalizzazione dei processi comunitari.

La sostanza porta ad individuare il luogo da cui la comunità nasce e tras-forma il termine di immagine organizzata, non come semplice habitat o proiezione del vincolo artificiale. Tale autenticità afferma lo strumento di azione comune, principalmente, quando determina la “vivibilità”, passaggio dalla concezione del mero spazio al concreto luogo complesso in cui, la cultura, costumi, consuetudini, creano valore nelle risorse per qualificare lo sviluppo sostenibile del “meta-territorio”.

Lo sviluppo endogeno è la conoscenza delle scelte adatte a creare la capacità innovativa del profilo locale della comunità, attraverso il concetto di “intelligenza socio-comunitaria”, ovvero la possibile necessità di aderire a forme ibride di strutturazione e gestione delle prospettive di crescita e innovazione, promuovendo il settore del web 2.0, strategia di marketing e digital tourism hub, Internet of Things.

Il paradigma da mettere in evidenza è la valorizzazione delle potenzialità delle risorse locali (costituzione di un organo strategico permanente e realizzazione di progetti suddivisi per obbiettivi temporali).

La prassi in definitiva ricalca il principio differenziale delle policy con cui innescare lo sviluppo territoriale, in particolare possiamo individuare i seguenti obbiettivi di programmazione operativa: differenziazione dell’area territoriale, ruolo degli stakeholder e strategie di promozione e sviluppo locale.

La policy urbano-territorializzante, in composizione alle infrastrutture e alla mobilità sostenibile del luogo, il rinnovo delle ricchezze locali, in una visione condivisa di realtà decodificata e sinergica,  promossa dalla interoperatività meso-dimensionale delle reti complementari dell’azione ecosistemica delle realtà metropolitane o intercomunali, sia in grado di pianificare il lento e scorrevole schema, da cui poter attirare gli “steakeholders”, e attuare la patrimonializzazione e marketing dei tesori dell’identità locale.

La tradizione è la fonte principale attraverso cui si esprime una collettività identitaria, il passato che suggerisce la capacità di poter assicurare autenticità alla novità quale immagine di tale prodotto, costituito dalla salvaguardia del mistero storico della cultura e “tradizioni”.

La tematizzazione espressa per mezzo dell’”invenzione” esistente della cultura locale, contrasta lo sgretolamento della figura globale, incentivando la capillare liquidità scorrevole, quale prassi in cui la tradizione si mescolala con la misura del meso-contesto culturale del luogo emotivo, che afferma la garanzia della promozione materiale delle risorse(food, shopping e archeologia), processando la dinamica del turismo strategico asimmetrico, multidirezionale ed essenzialmente lento che possa esprimere la valorizzazione collettiva locale e arricchire la coscienza personale.

La governance messa in atto rafforza il primato della competitività del brand dell’industria locale, riconoscendo il principio “reticolare” della gestione avanza delle dinamiche complementari, privilegiando un approccio solidale e cooperativo, in cui la logica dell’inclusione valoriale affina la multi-spazialità identitaria nel rinnovo del carattere comune e unico dello spazio urbano/metropolitano.

In tale definizione è la comunità a delineare, o meglio pre-vedere, vedere le forme di intervento più adeguate, in relazione ai bisogni, difatti le istituzioni, le imprese e le famiglie aggregate in azioni deliberative creano un ambiente di “Comunità Solidale”. Il principio endogeno pone in essere il bilanciamento fra il carattere locale/globale, cooperativo/competitivo e identità solida/apertura fluida.

In relazione a tale premessa è possibile affermare una serie di fattori che ci permettono di mettere in risalto la strategia più adatta per avviare il processo di sviluppo localizzato del territorio, dove la pro-attività è l’elemento dinamico delle condizioni per territorializzare lo sviluppo locale: presenza di risorse esclusive, messa in atto di progetti realizzabili nel breve/medio periodo e affermazione di una strutturazione logica decisionale. Per essere concreti la definizione dei processi deve comprendere interconnessioni tra l’area economico e l’istituzione comunitaria, dove il mercato esterno attraverso la propria richiesta definisce il legame equilibrato con la produzione, i prodotti e le professionalità locali, affini al paradigma della mobilità creativa e della sublimazione riflessiva.

Il modello di realtà locale preminente dalla rivoluzione della cultura emergente e tradizione con-vivente, insieme alla maglia relazionale intelligente della rete comunicativa e strutturata, legano i diversi soggetti appartenenti alla sfera socio-comunitaria, in un’azione di complementarietà intensificano le relazioni che formalizzano la costruzione di reti funzionali tra istituzioni, società metropolitana provinciale e regionale, imprese, associazioni e famiglie, dove storia, tradizione, realtà materiale/immateriale, capitale sociale, qualità dei prodotti, beni culturali, tempestività, trasparenza e solidità delle reti dinamiche delle piattaforme tecnologiche, diventano i temi da cui affermare il principio di “meta-territorio”.

Turismo, tempo libero, imprinting ambientale rappresentano gli ambiti da cui partire per creare partecipazione e condivisione del quadro comune del paradigma della comunità-sociale, dove gli attori istituzionali, imprese e famiglie partecipano, in piena responsabilità, attivando il processo di sviluppo del territorio locale in un contesto di partnership sociale, integrando la volontà di bilanciare l’identità territoriale con l’idea di qualità e resilienza glocale.

Il territorio nella visione più intima dello spazio geografico antropico, storico, culturale, archeologico e enogastronomico si riscopre per l’offerta tematica, in cui la società adegua la propria visione, affermando la più efficacie strategia valoriale, nel carattere essenziale del processo localizzativo, affermando il fenomeno della riscoperta della “natura glocalizzata”.

La misura strategica dei territori si sublima in un’opera di orientamento bi-frontale fra individuo e luogo, dove i frutti raccolti sono espressi da azioni ibride, caratterizzate dal modello “esperienziale”, ovvero il lento consolidamento del tema reale dello spazio, favorito dalla mercificazione controllata della dimensione dinamica e sostenibile del patrimonio della “tradizione”. Un brand in cui si riconosce il merito di assicurare emozioni uniche e indimenticabili, potenziato dal movimento estroverso dell’innovazione sostenibile delle infrastrutture e mobilità sostenibili, capaci di collegare il passato della “tradizione”, il presente dell’“esperienza” e “ricordo” e il futuro della glocale “liquidità lenta”.

La “liquidità lenta” rappresenta la forma di annullamento dell’omogeneità territoriale priva di valore e l’alienazione personale dell’identità cosciente. L’esposizione e l’offerta competitiva sincronica delle realtà locali sono la chiave di definizione della strategia economica politica, quale risposta al globalismo culturale e storico.

La comunità nel delineare le strategie adeguate a tale definizione deve comunque considerare il profilo ambientale, in affermazione alla dinamica migliore per richiamare i diversi elementi contestuali al progresso organico (intenzione, autonomia, frattura centrifuga dell’organizzazione, caos creativo, ridondanza e varietà dinamica).

La finalità di tale Know how accresce il processo creativo del bottom-up and reticular advocacy, ovvero il saper mettere in pratica le caratteristiche della funzione individuale nella sua complessità, attraverso i tipi di sapere, sviluppando la struttura dei livelli di apprendimento in corrispondenza alle scelte, strategie e aree di riferimento.

La possibilità e la capacità di adattare l’organizzazione locale al contesto temporale e spaziale dell’ambiente esterno è essenziale per affermare il risultato strumentale della dimensione cognitiva del processo circolare organizzativo, in cui si attuano una serie di fasi in cui si inizializzano le azioni da porre in essere, in particolare, dalla situazione pre-riflessiva, creativa, risolutiva e post-riflessiva.

La vera forza di un territorio che “apprende ad apprendere” è la capacità di creare una cooperazione che possa mettere in atto una solida condivisione di risorse ed esperienze, utili a creare competenza qualitativa progettuale e conoscenze quantitative di esecuzione. In conclusione il paradigma di tale affermazione è riassumibile in “governance multilivello”, dove il coordinamento e la direzione è di rilevanza regionale/provinciale, in cui il profilo direttivo centrale viene mitigato dall’esecutiva libertà dell’interconnessione identitaria degli enti locali, facendo emergere l’effetto moltiplicatore delle “best practices”.

FONTI E BIBLIOGRAFIA

ARGANO LUCIO, Guida alla progettazione della città culturale. Rinnovare le geografie, il design, l’azione sociale, la pianificazione nello spazio urbano, FrancoAngeli, Milano, 2021

BARTOLETTO NICO, CATERINA FEDERICI, Lo sviluppo endogeno ei saperi tradizionali come risposte alla crisi, FrancoAngeli, Milano, 2013

BATTAGLINI ELENA, Sviluppo territoriale. Dal disegno della ricerca alla valutazione dei risultati, FrancoAngeli, Milano, 2014

CAROLI MATTEO, Gestione del patrimonio culturale e competitività del territorio. Una prospettiva reticolare per lo sviluppo di sistemi culturali generatori di valore, FrancoAngeli, Milano, 2016

DI FEDERICO ROSSELLA, Sviluppo locale: il ruolo della partecipazione e della comunità, Homeless Book, At Work, Faenza, 2011

S. PRIVITERA DONATELLA, NICOLASI AGATA, Comunità, luoghi e condivisione. Esplororazione dei modelli alternativi di consumo, FrancoAngeli, Milano, 2017

TOTAFORTI SIMONA, BOVALINO GUERINO NUCCIO, Innovazione, industria culturale e branding territoriale, FrancoAngeli, Milano, 2021


Anni ’80, l’era della grande normalizzazione

di Patrizio Paolinelli

Di tanto in tanto assistiamo a campagne più o meno convinte sul ritorno degli anni ’80. Recentemente la convinzione si deve essere rafforzata perché da alcuni mesi è partita un’offensiva mediatica finalizzata a sostenere il ritorno di un decennio che non intende diventare una pagina di storia. E allora, se gli anni ’80 vengono costantemente riproposti, una qualche sorta di continuità tra passato e presente deve pur esserci. E in effetti c’è. Però, prima di entrare nel merito, corre l’obbligo di dire subito che l’attuale campagna stampa, così come le precedenti, nulla hanno a che fare con l’informazione. Si tratta invece di complesse operazioni di comunicazione commerciale che vedono, se mi si passa l’espressione, l’associazione d’impresa tra diverse industrie: mass-media, moda, cinema, Tv, musica e, come soci di minoranza, altre industrie ancora (dagli accessori ai giocattoli). Ognuna recita la propria parte in commedia avendo per stella polare l’interesse economico.

Come capita sempre più spesso i media spacciano per autentica una tendenza del costume costruita con le tecniche del marketing. Gli smaglianti inserti giornalistici su moda, turismo, bellezza, musica e così via rappresentano per le testate incassi formidabili perché in genere gli articoli arrivano in redazione già confezionati e al massimo vengono accompagnati da un entusiastico pezzo della piccola/grande firma di turno. Si aggiungano poi le inserzioni pubblicitarie e per la testata l’affare è fatto. La moda è meno monotona della stampa e tenta di reinventarsi tornando quest’anno a sfruttare i colori accesi, gli accessori vistosi, le spalline importanti degli anni ’80, mentre il make-up riscopre i toni vivaci e le acconciature si avvicinano ai modelli di quel decennio: tagli asimmetrici, capelli cotonati, tinte sgargianti. Nel complesso proporre oggi gli esplosivi colori degli anni ’80 costituisce un invito subliminale all’ottimismo dopo quasi dieci anni di crisi economica.

Dal canto loro cinema e Tv sono impegnati in un’intensa attività di riciclo del passato. Sul piccolo schermo tornano così Perry Mason, Arma letale, L’esorcista tanto per citare qualche titolo; per non parlare del cinema con la lunga serie di remake, sequel, prequel e reboot, i cui risultati sono spesso deludenti. Basti per tutti lo sconfortante Alien: Covenant di Ridley Scott uscito da poco nelle sale cinematografiche. Insieme al cinema e alla Tv chi guarda con insistenza al passato è l’industria discografica. La quale da tempo non fa che riproporre ristampe, remake, ricostruzioni ed è dominata da reunion tour, festival-anniversari, cover band, riscoperta del vinile e fascino vintage. Insomma è tutto un revival, mentre la musica pop sembra incapace di innovarsi. L’oggi musicale finisce così per sembrare la brutta copia di ieri. E per questo motivo il passato ritorna sia direttamente, tramite i suoi protagonisti, sia indirettamente, tramite la loro influenza sulle attuali produzioni. Con tutta probabilità le cause della retromania in cui si sta trovando ingabbiata l’industria musicale sono dovute tra l’altro all’eccessivo sfruttamento della creatività artistica, alla standardizzazione dei prodotti, alla corsa al successo immediato. Assistiamo così al ritorno sulla scena di vecchie glorie del pop e del rock la cui qualità artistica è ancor oggi insuperata.

Fatto il punto sull’attualità resta da capire cosa siano stati gli anni ’80 da un punto di vista critico in modo da comprendere come mai il loro ritorno rappresenti una costante dell’industria culturale. Naturalmente non abbiamo la pretesa di esaurire l’argomento in un articolo ma alcuni paletti possiamo fissarli. Partiamo dall’economia. Tra il 1983 e il 1987 il Pil cresce al ritmo del 2,5% l’anno, le esportazioni crescono, l’inflazione scende al 4,6%, la borsa di Milano aumenta la propria capitalizzazione di oltre quattro volte e circa il 60% degli occupati è assorbito dal terziario. Dinanzi a questa netta ripresa dell’economia un bel libro fotografico sul decennio 1981-1990 è correttamente intitolato dall’autrice, Manuela Fugenzi, Il mito del benessere (Editori Riuniti, Roma, 1999). Scrive Fugenzi: “nella nostra memoria, è il decennio del dilagare dei consumi e dei successi dell’esportazione, dell’orgoglio del made in Italy che, come sintomo di un processo di sprovincializzazione, andrà progressivamente modificando l’immagine tradizionale del nostro paese. In un contesto di laicizzazione della società e della politica in cui scompaiono chiese e ideologie, si assiste all’enfatizzazione di nuovi valori”.

La figura sociale emergente che incarnerà i nuovi valori è quella dello Yuppie (Young Urban Professional). Si tratta del giovane e rampante manager statunitense ansioso di guadagnare molti soldi più in fretta possibile e il cui stile di vita e di lavoro diventerà un modello anche per noi italiani. Nasce così il mito della “Milano da bere”, la città che non dorme mai e in cui sfuma sempre più la distinzione tra tempo di lavoro e tempo libero: per lo Yuppie ogni relazione è un’occasione per fare profitto o quantomeno per guadagnare qualcosa in termini di contatti e visibilità. Da qui l’ossessione per il look e la forma fisica. Smisurato edonista, grande consumatore di cocaina e di fotomodelle lo Yuppie avrà tuttavia vita breve. In generale lascerà la ribalta all’apparire della crisi economica dei primi anni ’90 e per quanto riguarda casa nostra soffocherà ingloriosamente nei miasmi di Tangentopoli.

Va da sé che lo Yuppie è il modello ideale della politica reaganiana. Politica che getterà le basi per una rivincita mondiale del capitalismo messo seriamente in discussione dai movimenti del ’68 e degli anni ’70. Non a caso tali anni non sono oggetto di campagne di recupero da parte dell’industria culturale. La quale, in continuità con lo yuppismo, offrirà all’immaginario collettivo un’altra figura a cui ispirarsi: il professionista delle nuove tecnologie. Gli anni ’80 sono infatti il decennio in cui il personal computer inizia a entrare sempre più nei luoghi di lavoro e nelle famiglie. E così, neanche tanto gradualmente, la rivoluzione tecnologica occupa gli spazi dell’immaginario che dal ’68 al ’77 erano stati prerogativa della rivoluzione politica. Il risultato è che oggi sono rimasti in pochi a non distogliere lo sguardo dinanzi alle crescenti ingiustizie sociali. L’unico leader globale di questo tipo è Papa Francesco.

Gli anni ’80 sono anche gli anni in cui si assiste al riflusso nel privato. Ossia a un forte disimpegno dei cittadini nella politica. Tendenza che giungerà a completo compimento con le attuali giovani generazioni ormai del tutto spoliticizzate e dunque in difficoltà nel comprendere ciò che gli accade intorno: dalla disoccupazione alle guerre in Medio Oriente e così via. Durante gli anni ’80 il movimento femminista e quello operaio inizieranno la loro parabola discendente e oggi possono dirsi praticamente estinti.

Dopo la fine dei partiti di massa ai nostri giorni l’attacco della quasi totalità del mondo dell’informazione si concentra sul sindacato, ultimo corpo intermedio da ridurre ai minimi termini per lasciare campo libero alle “riforme”. Ancor oggi parola magica e terribile, la stagione delle “riforme” venne promossa negli anni ’80 da Bettino Craxi e aveva come obiettivo principale il contenimento del costo del lavoro. Correva l’anno 1984 e nel medagliere dell’allora segretario del PSI annoveriamo l’abolizione della scala mobile (il sistema di adeguamento dei salari al costo della vita attraverso gli scatti di contingenza) che taglierà sensibilmente le buste-paga. Anche questa è una tendenza che da oltre trent’anni vediamo galoppare senza sosta fino a giungere all’oggi: basse retribuzioni, precarietà, cancellazione dei diritti fondamentali dei lavoratori.

Appare chiaro a questo punto che gli anni’80 riemergono ciclicamente perché costituiscono il decennio in cui prende avvio un’era: l’era della grande normalizzazione che condurrà all’attuale società dominata dalla forma-merce. Giovani e lavoratori dipendenti sono due dei principali bersagli di tale processo. Ai primi la Tv commerciale, che in Italia si afferma proprio negli anni ’80, offrirà, e offre tutt’ora, un modello di vita fondato sul consumismo, sul mito borghese del self-made man, e su un anticonformismo di facciata. Per quanto concerne i lavoratori dipendenti a partire dagli anni ’80 ad oggi si è compiuto il dominio pressoché assoluto del capitale sul lavoro. In Italia gli ultimi capitoli di questa storia sono stati il Jobs Act e l’attuale polemica sui voucher. D’altra parte, proprio nel 1989 inizia la dissoluzione dell’Unione Sovietica, che per quanto sia stata più che criticabile per molti e fondati motivi, rappresentava comunque un modo di produzione alternativo al capitalismo e dunque ne conteneva gli attacchi al lavoro dipendente.

Fatta fuori qualsiasi alternativa alla visione economica liberista ecco germogliare altre continuità tra gli anni ’80 e il presente. Due mi colpiscono particolarmente. Una è il ritorno del fascismo. L’altra è la spettacolarizzazione dell’informazione. Rispetto alla prima, dopo un lungo periodo di silenzio è proprio negli anni ’80 che i fascisti iniziano a pieno titolo nel dibattito politico fino ad arrivare alla piena visibilità dei nostri giorni. Da tempo ormai i nostalgici del ventennio svolgono manifestazioni pubbliche, sono presenti in massa sui social network, infangano la memoria della Resistenza, vengono intervistati in Tv e le loro pur confuse parole d’ordine costituiscono fonte di attrazione per molti giovani.

La legittimazione de facto del fascismo è un fenomeno sottovalutato così come è sottovalutata la seconda continuità tra gli anni ’80 e l’oggi: la spettacolarizzazione dell’informazione. La quale si gioca soprattutto in Tv. Infatti ,dinanzi al costante e drammatico calo di vendite della carta stampata il piccolo schermo offre un’ottima alternativa; dove però realtà e finzione si mischiano alla ricerca spasmodica dello scoop, del sensazionale, di tutto ciò che fa clamore: la litigata in diretta, l’affermazione choc, l’esibizione oltre le righe, le malefatte dei politici, quelle dei dipendenti pubblici e, si badi bene, mai campagne stampa contro le malefatte degli imprenditori. Gli anni ’80? Il lungo parto che ha dato alla luce il pensiero unico.

Patrizio Paolinelli, via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro.

prof. Patrizio Paolinelli

HOMELESS LA VITA CHE NON C’E’

di Elisabetta Festa

Nell’Unione europea centinaia di migliaia di uomini e donne dormono in strada o in rifugi d’emergenza ogni notte. Si stima che il numero dei senzatetto sia aumentato del 70% rispetto a dieci anni fa. Lo rivela la Quarta panoramica sull’esclusione abitativa in Europa di Feantsa e Fondazione Abbé Pierre. Questi datimettono in evidenza la diminuzione dell’efficacia della lotta dell’Ue contro la povertà.

<<== dott.ssa Elisabetta Festa

Nel report si legge:” E’ attraverso la mobilitazione di una solida base giuridica, di una volontà politica e di una pianificazione strategica che l’obiettivo di porre fine alla condizione di senzatetto, smetterà di essere una fantasia diventando finalmente un imperativo per la dignità umana nonchè una prova della credibilità del progetto sociale europeo”.

senzatetto che dorme per strada

In questo studio viene altresì messo in discussione anche il tema degli alloggi d’emergenza che hanno purtroppo un carattere di temporalità, sono quindi inadatti a risolvere il problema in maniera definitiva, perché il diritto all’alloggio è di fatto un diritto fondamentale che dovrebbe essere garantito a tutti. Dai dormitori sovraffollati alle sistemazioni “umanizzate”, i servizi esistenti non tendono ad evolversi per soddisfare le esigenze degli utenti, causando effetti dannosi e prolungando l’esperienza individuale dei senzatetto a dismisura ».In sostanza quello che viene messo in discussione nel documento non è la sistemazione di emergenza in sé, quanto l’utilizzo diffuso e istituzionalizzato degli alloggi di emergenza come principale e unica risposta ai senzatetto. Questa dovrebbe essere invece soltanto una situazione di passaggio per poi procedere a reindirizzare le persone verso soluzione più appropriate e definitive.

Bagno comune in un rifugio di emergenza a Breslavia, Polonia (Foto: Dariusz Dobrowolski, report “Fourh overview of housing exclusion in Europe”).

Freek Spinnewijn, direttore di Feantsa, e Christophe Robert, amministratore delegato della Foundation Abbé Pierre condannano a gran voce questa situazione domandandosi cosa possa mai significare il termine “coesione sociale”, quando più di un senzatetto muore ogni giorno per le strade dei paesi europei. (Fonte: osservatoriodirittiumani.it).

Dando uno sguardo più specificatamente al nostro paese, si stima che in Italia vi siano tra le 49.000 e le 52.000 persone senza dimora che vivono in strada o in sistemazioni di fortuna o in strutture di accoglienza notturna. Tra queste, gli uomini rappresentano l’85,7%, coloro che vivono da soli il 76,5%, gli stranieri il 58,5%. L’età media di questa popolazione è di 44  anni, mentre la maggior parte ( esattamente il 75,8%) ha meno di 54 anni. Le persone senza dimora sono particolarmente concentrate in grandi città come Milano (10.000), Roma (8000), Palermo (3000) e Firenze (2000). (Fonte: recentiprogressi.it).

senza tetto che si affida alla carità dei passanti

Al di là dei dati che ci mostrano l’entità del problema, non dobbiamo trascurare il fenomeno sociale che visi cela. Il vissuto di queste persone, la complessità delle loro storie, l’emarginazione che vivono quotidianamente a causa dell’indifferenza e/o del rifiuto generale (non ci piace infatti vederle in centro lì dove la città deve essere bella e neanche in periferia) sono aspetti altrettanto centrali da affrontare. La povertà, ci infastidisce, ci limitiamo il più delle volte, se siamo benevoli, a fare dell’elemosina, ma tutto si ferma a questo gesto. Certo esistono come abbiamo visto i servizi per i senza dimora erogati in modo encomiabile dal “non profit” che assicurano non solo gli alloggi ma anche l’assistenza primaria e sanitaria. Il problema è che anche questo approccio sembra essere strutturato per rispondere alla situazione emergenziale, per il qui ed ora, mentre bisognerebbe mettere in campo politiche strutturali di reinclusione sociale che garantiscano supporto psicosociale, sostegno al reddito, inserimento lavorativo.  Innovazione e nuova progettualità devono farsi strada perché non si tratta solo di salvare la vita a queste persone ma di costruire loro un percorso verso una vita vera. È un obbligo in una fase in cui la crisi sociale continua a essere acuta, specie con l’avvento del covid. Attualmente invece gli homeless continuano ad essere un mondo parallelo, una marginalità scomoda, una questione che si può rimandare, sono persone invisibili nella vita e invisibili nella morte.

Dott.ssa Elisabetta Festa – Sociologa
Direttore Laboratorio Sociologico ASI Avellino: “Asirpiniasociolab”
Vice Presidente ASI Campania
Presidente Collegio Probiviri ASI


Cerca

Archivio