La mobilità geografica nella società contemporanea

di Giovanni Pellegrino e Mariangela Mangieri

Uno dei miti più importanti nella società contemporanea è la forte propensione alla mobilità geografica presente in molti individui. Col termine mobilità geografica si intende in sociologia sia la tendenza a compiere frequenti viaggi  per ragioni di lavoro o per turismo e sia la tendenza a cambiare abbastanza frequentemente il proprio luogo geografico di residenza soprattutto per ragioni di lavoro..

<<== prof. Giovanni Pellegrino

Prenderemo prima in considerazione la tendenza di molti individui a cambiare città o addirittura nazione per ragioni di  lavoro

Dahrendorf afferma che nel mondo contemporaneo accade frequentemente che gli individui abbandonino il luogo nel quale sono nati per cercare di migliorare la propria condizione economica e sociale. Pur di ottenere tali scopi molti non esitano a rompere i vincoli affettivi che li legano a un determinato luogo geografico pagando così un pesante prezzo psicologico. In effetti la necessità di trovare un lavoro in luoghi lontani costringe gli individui a lasciarsi alle spalle importanti legami interpersonali ivi compresi quelli familiari e a costruirsi nuovi rapporti interpersonali nel nuovo luogo in cui lavorano.                             

Tuttavia non è sempre facile costruire nuove relazioni interpersonali soddisfacenti in altre città o in altre nazioni cosicchè può anche capitare che quanti si trasferiscono in altri luoghi si trovino ad affrontare non solo il problema della nostalgia ma anche quello della solitudine esistenziale che è un problema importantissimo. A tale riguardo Dahrendorf afferma che il bisogno di appartenenza è molto forte nella società contemporanea dal momento che anche a causa della notevolissima mobilitè geografica gli individui sono minacciati dalla solitudine esistenziale.                                  

Certamente nelle società del passato la solitudine era un problema molto meno importante dal momento che era abbastanza facile costruire e mantenere una rete di rapporti soddisfacenti.  Ma che cosa si intende in sociologia per bisogno di appartenenza? Con tale espressione si intende nelle scienze sociali la volontà di entrare a far parte di gruppi al fine di non rischiare di essere soli (A volte per i nuovi arrivati riesce difficile trovare i gruppi in cui inserirsi). Dobbiamo mettere in evidenza che alcuni individui che già sono inseriti nel mercato del lavoro nella città in cui sono nati decidono di trasferirsi in altre città sperando di trovare lavori più adatti alle loro caratteristiche o meglio pagati. Dobbiamo anche dire che la mobilità geografica è diventata anche un mito che spesso induce gli individui a non valutare con adeguato senso critico le situazioni contingenti.

Ricordiamo che il processo di mitizzazione altera la percezione individuale e collettiva della realtà. Di conseguenza accade spesso che gli individui che si trasferiscono in altra città restino delusi per almeno due ragioni. In primo luogo essi potrebbero essere costretti ad accettare un lavoro che non è migliore di quello che hanno lasciato. Ciò può accadere soprattutto nei momenti in cui nel luogo di arrivo esiste un momento di recessione economica. In secondo luogo anche ammesso che trovino un lavoro più soddisfscente dal punto di vista dello status sociale o della remunerazione economica può accadere che le spese che devono affrontare nel luogo di arrivo per affrontare i bisogni fondamentali siano così ingenti da fare in modo che finiscano per trovarsi in una condizione economica peggiore di quella che avevano nella loro città di origine.

Non dobbiamo dimenticare infatti che nelle grandi città le spese per soddisfare i bisogni fondamentali e per trovare un alloggio sono ingentissime. Prenderemo ora in considerazione quelle persone che pur risiedendo nella città in cui sono nati compiono frequenti viaggi o per ragione di lavoro o per turismo. Per quanto riguarda il primo caso ci sono degli individui che svolgono lavori che li costringono a compiere frequenti viaggi come ad esempio commessi viaggiatori, rappresentanti, cantanti, attori, animatori di villaggi turistici, conferenzieri etc..Tali categorie di persone devono volenti o nolenti abituarsi alla mobilità geografica. Tuttavia dobbiamo dire che molti essi.  Tuttavia dobbiamo dire che molti di essi considerano la mobilità geografica un fatto positivo ed ecciitante perché permette loro di conoscere nuove realtà geografiche.

Inoltre c’è da considerare che essendo la mobiltà geografica è stata mitizzata le persone che viaggiano molto sono invidiate e fatte oggetto di ammirazione. Per dirla in altro modo la desiderabilità sociale della mobiltà geografica è molto elevata nel mondo contemporaneo. Ben diverso è il caso di quelle persone che praticano la mobiltà geografica per motivi turistici in quanto scelgono di viaggiare volontariamente e per ragioni di piacere. Alberoni afferma intorno al turismo ch il viaggio del turista è una forza positiva attraverso cui l’individuo costruisce se stesso, la sua identità e nello stesso tempo instaura nuovi rapporti umani. Come si vede Alberoni attribuisce una valenza molto positiva al turismo affermando che il turista addirittura costruisce la sua identità personale viaggiando e instaurando nuove relazioni interpersonali con individui che presentano spesso caratteristiche personali molto diverse da quelle del turista.

Appare infatti evidente che entrare in contatto con individui che appartengono arealtà geografiche molto lontane è un notevole arricchiento. Per quanto riguarda i viaggi turistici dobbiamo dire chr c’è un turismo avventuroso nel quale gli individui partono all’avventura senza a vere come punto di riferimento nessuna agenzia di viaggio. Esistono poi i viaggi organizzati nei quali esiste uno spostamento fisico ma il rischio, il disagio, il contatto con la diversità e lo sradicamento vengono ridotti al minimo. Anzi nei villaggi vacanze anche situati in altri continenti la gente fisce per trovare la sua civiltà, i suoi cmfort, le sue abitudini. Esistono poi persone che preferiscono compiere viaggi in zone non troppo lontane dalla loro cttà di origine in moda restare lontani dal proprio habitat abituale per pochi giorni. Tali persone non vogliono accettare un radicale dalla propria casa e dalle costanti certezze delle relazioni quotidiane.

Dal punto di vista sociologico una questione molto interessante per comprendere se viaggiare in luoghi dove il livello scientifico, tecnologico e culturale è inferiore a quello del mondo occidentale possono modificare in positivo o in negativo la concezione che l’individuo aveva dei popoli che abitano in quei luoghi. In ogni caso esiste una fondamentale differenza tra quelli che emigrano per cercare lavoro e quelli che viaggiano per motivi turistici. Infatti per il turista qualunque sia l’impatto psicologico che riceve dai luoghi nei quali si reca, qualunque sia il giudizio che egli formula degli abitanti, degli usi e dei costumi che egli incontra in quei luoghi. Certamente tutte queste cose non cambieranno la sua situazione sociale, economica e psicologica. Infatti il soggiorno turistico lascerà il tempo che trova quando l’individuo tornerà a casa.

Al contrario per l’emigrante l’impatto psicologico che riceve tra i luogo nei quali è emigrato nonché il tipo di relazioni sociali e lavorative che riuscirà ad instaurare risulteranno determinanti per stabilire se egli diventerà un uomo realizzato o un uomo frustratu, In estrema sintesi per il turista la mobilità geografica è un gioco nel quale egli detta le regole del gioco, mentre per l’emigrante la mobilità geografica è la dura realtà nella quale egli subisce le regole dettate da altri attori sociali.

Prof. Giovanni Pellegrino —- Prof.ssa Mariangela Mangieri


La civile indiscrezione dei fratelli Goncourt

di Patrizio Paolinelli

Prof. Patrizio Paolinelli

“Un’altra nostra forza, forza assai rara, è lo spirito d’osservazione, lo squadrare le persone, una scienza e una costituzione di fisiognomi morali che ci fa denudare i caratteri a prima vista, penetrare nell’intimo di tutti quelli con cui ci strusciamo, toccare tutte le molle delle marionette, presagire e dedurre l’umanità di ciascuno.”

Queste parole rappresentano come meglio non si potrebbe il tipo di sguardo con cui i fratelli Goncourt radiografavano la personalità altrui. Vennero scritte il 3 maggio 1859 e pubblicate nel celeberrimo Journal. Di cui oggi abbiamo una preziosa antologia, curata da uno specialista dei due fratelli, Vito Sorbello, intitolata “La civile indiscrezione”, (Aragno editore, Torino, 499 pagg., 30,00 euro). In Italia l’edizione integrale di queste memorie è stata pubblicata, sempre da Aragno, tra il 2007 e il 2009.

Le cronache del Journal coprono un arco di tempo che va dal 1851 al 1896. Un periodo lunghissimo in cui i Goncourt compilano a quattro mani un diario dell’anticonformista vita letteraria parigina (dal 1870 resterà solo Edmond a portare avanti l’impresa a causa della prematura scomparsa del fratello). I loro ritratti dipingono una lunga serie di personaggi che popolano il mondo culturale dell’epoca. Un mondo abitato da intellettuali in corsa per affermarsi sulla scena sociale e che si ritrovano negli spazi della convivialità borghese: noti ristoranti, caffè alla moda, teatri, esclusivi salotti letterari come quello della Principessa Mathilde, cugina dell’Imperatore Napoleone III.

Nei confronti del nascente ceto medio che bene o male riusciva a vivere grazie alla penna, le parole e i toni utilizzati dai Goncourt sono acidi, veri e propri lanci di vetriolo a cui seguono impietosi giudizi. Ai loro occhi nessuno si salva, perlomeno mai del tutto. Nel loro mondo la competizione, l’esibizionismo e l’autocelebrazione sono di casa. Perciò Flaubert è apostrofato come un provinciale, ipocrita e arrivista: “ha un animo grossolano e pesante, come il suo corpo. … Manca di charme la sua allegrezza di bove.” Sainte-Beuve è presentato come un abile venditore: il suo è “un ruolo di origliante di bidè, di confessore di discordie, di patrocinante di riconciliazioni, sempre strisciante nei segreti delle donne.” Ingres? “era nato per essere pittore, così come Newton era nato per essere cantante!” Renan? “Da quest’uomo, malsano, mal congegnato, brutto a vedersi, d’una bruttezza morale, esce una vocina stridula e in falsetto.” Taine? “ha l’arte ammirevole di insegnare oggi agli altri quello che ieri ignorava.” Hugo? “il Titano del luogo comune, e il banditore del sublime.” Zola? Un “grosso ragazzo, pieno di candore infantile, di esigenze da corrotta puttana, d’invidia un po’ socialista.” Baudelaire? “non è affatto, lo ripeto, un prosatore originale. Traduce sempre Poe, anche quando non è più il suo traduttore e aspira a fare del Baudelaire.” E così di seguito per ognuna delle personalità prese di mira dai Goncourt.

In un mondo prevalentemente maschile non mancano le donne, anche perché “ordinario oggetto di conversazione” delle infinite serate mondane a cui partecipavano i due fratelli. I quali, si sa, erano misogini, vivevano sotto lo stesso tetto e condividevano la medesima amante. Sul Journal tutti o quasi vengono smascherati e fatti a pezzi. Ma nei confronti delle donne si aggiunge un pizzico di cattiveria in più: “Le donne non hanno mai fatto niente di ragguardevole se non andando a letto con molti uomini, succhiando loro il midollo spinale: Mme Sand, Mme de Staël. Credo che mai si troverà una donna virtuosa che valga due soldi d’intelligenza. Mai una vergine ha prodotto qualcosa.” Posizione che, per essere indulgenti, oggi qualificheremmo come politicamente scorretta. Eppure, per quanto corrosivi, i due fratelli sono sottili, attenti alle distinzioni ed eccoli ritornare parzialmente sui propri passi: “Solo tre donne intelligenti con differenti disposizioni ho incontrato sinora. Tutte e tre grasse e amanti del maschio: la Principessa, la Lagier e Grisette.”

Va aggiunto che i Goncourt non saranno sempre irriverenti e mal disposti nei confronti dell’altro sesso. Prova ne sia, per esempio, quel capolavoro del naturalismo che è La donna nel XVIII secolo (Sellerio, 2010). Ma il Journal non è un gentile ricamo. È la pubblica esposizione dei panni sporchi altrui. Una sorta di telecamera nascosta puntata su quella che Goffman ha definito l’interazione strategica tra individui la cui preoccupazione principale è salvaguardare, rafforzare, promuovere la propria reputazione. Mai perdere la faccia, dimostrare sempre di essere conversatori brillanti, avere la battuta pronta, fare buona impressione. Ogni incontro è l’occasione per affermare il proprio personaggio, per esibire il proprio status. E immancabilmente i Goncourt colgono falle nella rappresentazione che ognuno offre del proprio Sé.

Il Journal può essere considerato il diario di due scettici pronti a cogliere ogni minima contraddizione del circuito sociale a cui appartengono e dal quale non intendono affatto affrancarsi. Criticano tutti e con tutti o quasi sono in buoni rapporti. Assistono con civile indiscrezione alla perpetua commedia degli inganni rappresentata sotto i loro occhi nella vita di società. Due raffinatissimi uomini di cultura spiano altri uomini di cultura, li deridono e li dileggiano mettendo a nudo le incoerenze tra parole e fatti, tra immagine pubblica e immagine privata, tra scena e retroscena della loro esistenza.

Ci sarebbe da chiedersi il motivo di così tanta acredine. Non certo per denunciare i mali del loro ambiente: da ricchi borghesi qual erano i Goncourt credevano solo in sé stessi. Più semplicemente perché: “Dire male degli altri, soprattutto di amici e parenti, è la più grande ricreazione mai scoperta dall’uomo sociale. Cos’è la società? Un’associazione di maldicenza”. E ancora: “Niente lega due persone quanto il dir male di una terza: forse il più grande vincolo della società.” Conclusioni assai riduttive verrebbe da dire, e non ci addentriamo oltre. Ma in effetti la forte rivalità tra scrittori per affermarsi nel mercato editoriale alimentava la maldicenza e costituiva un dispositivo linguistico abituale nell’universo di discorso che animava la loro vita notturna. Cene, serate, feste, ricevimenti, occasioni mondane sono tra i momenti in cui i Goncourt raccolgono le battute, gli sfoghi, le schermaglie, le confidenze, le preoccupazioni, i pettegolezzi dei partecipanti. Rientrati a casa li riportano nel loro Journal. Ovviamente non disdegnano di raccontare gli incontri diurni. In cui descrivono l’arredo delle case di chi li ospita, l’abbigliamento dei proprietari, il più delle volte gli stessi della bohème letteraria, facendone lo specchio delle singole personalità.  

Svelare manie, preferenze sessuali, calcoli personali e meschinità che agitavano le interazioni tra i rappresentanti della vita letteraria pagina dell’Ottocento serviva forse a rinsaldare l’indissolubile legame tra i due fratelli. I quali erano infatti un corpo e un’anima. Condividevano ogni cosa. Della scrittura, del tetto e dell’amante abbiamo già detto. Si può aggiungere la visione del mondo, gli orientamenti culturali, i desideri, i viaggi, i rancori, le paure e le idee reazionarie. La loro simbiosi era unica, perfetta e in quanto tale immune alla critica che riservavano unicamente al prossimo. “Gemelli in tutto e per tutto” i Goncourt del Journal sono stati soprattutto testimoni di un’epoca che non amavano e come altri naturalisti nulla fecero per cambiarla. Il valore del loro Journal resta tuttavia intatto in quanto documento sulla formazione dello spirito borghese.

Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro


Essere performanti

di Patrizio Paolinelli

Ecco un repertorio linguistico diventato familiare: capitale umano, imprenditori di sé stessi, meritocrazia, management del sé, leadership, coaching, empowerment, concorrenza. Proprio in quanto ordine discorsivo tale repertorio è portatore della Weltanschauung neoliberista oggi imperante e viene analizzato in chiave sociologica da Federico Chicchi e Anna Simone in un libro intitolato “La società della prestazione”, (Ediesse, Roma, 2017, pagg., 12,00 euro).

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

Il principio di prestazione è un noto concetto elaborato da Herbert Marcuse in “Eros e civiltà”.  Nella riflessione del pensatore tedesco tale concetto rappresenta “la forma storica prevalente del principio di realtà”. In soldoni significa che costituisce una delle forme repressive della società capitalistica avanzata e si fonda sull’adattamento dell’individuo al ruolo che la divisione in classi e divisione del lavoro gli impongono. Prendendo le mosse da Marcuse, Chicchi e Simone sviluppano il concetto di prestazione a tal punto da presentarlo come un passe-partout in grado di interpretare e definire la società contemporanea. In virtù di questa estensione compiono un primo passo che li allontana dall’esponente della Scuola di Francoforte, per il quale invece la prestazione costituisce un elemento di un sistema di dominio assai più complesso. Ma ciò che li separa del tutto da Marcuse è il collegamento della prestazione al desiderio anziché al lavoro. Ipotesi sorprendente e che viene a lungo motivata nel corso del libro.

Per spiegarla Chicchi e Simone abbracciano la tesi secondo la quale il postfordismo ha messo in crisi l’idea novecentesca del lavoro. Il presupposto di tale tesi è che le frontiere tra lavoro e non lavoro siano evaporate: in pratica si lavora sempre. La centralità sociale è dunque assunta dalla prestazione: in ogni momento del vivere occorre essere performanti. Ossia: sapersi proporre, riuscire a vendersi, vincere sugli altri, non arrendersi mai. In poche parole, la società della prestazione non fa altro che creare, alimentare e sfruttare queste disposizioni rendendole commerciabili. Per sostenere la propria intuizione Chicchi e Simone fanno riferimento all’idea di società del rischio di Ulrich Beck, alla critica di Christopher Lasch nei confronti della cultura del narcisismo e all’idea di società della stanchezza sostenuta da Byung-Chul Han.

A differenza di Marcuse questi tre autori non hanno contribuito a stimolare il rifiuto del sistema sociale in cui viviamo né hanno prospettato, anche solo in linea teorica, il superamento del capitalismo. Si tratta di limiti che comportano una disamina tutta intellettuale della società. Ciò non toglie che Chicchi e Simone non denuncino problemi, ingiustizie e contraddizioni della società neoliberista. Per esempio quando affrontano le psicopatologie della prestazione: l’obbligo ad avere sempre successo genera eserciti di depressi e di disturbati mentali. Altro esempio: il condizionamento mentale effettuato dai cosiddetti coacher: i quali addestrano i clienti non a vivere meglio ma a ottenere risultati come se dovessero sempre vincere una gara.

Essere sempre “prestanti” ha un costo soggettivo e sociale enorme. Genera una sofferenza diffusa e un mondo di squilibrati. Esperienza che ognuno di noi fa quotidianamente. E a proposito di squilibri   per Chicchi e Simone due film rappresentano le polarità della società della prestazione: il Lupo di Wall Street, di Martin Scorsese, e Daniel Blake, di Ken Loach. Nella prima pellicola uno spregiudicato broker, dedito all’alcol e alla droga nella vita privata e alla truffa e all’imbonimento in quella pubblica, imbroglia una quantità enorme di ingenui risparmiatori. Alla fine il suo castello crolla, ma pur caduto in disgrazia se la cava. Il protagonista del film di Kean Loach non è un vincente che perde, è uno che ha perso in partenza: un carpentiere infartuato. Danielnon può più lavorare e lotta con un welfare ormai aziendalizzato per ottenere l’assistenza necessaria per sopravvivere. Il giorno prima del processo di ricorso per ottenere l’indennità per malattia Daniel muore. Entrambi i personaggi sono vittime dell’insicurezza in cui il neoliberismo ha gettato le vite di tutti. E naturalmente il meno performante ci lascia la pelle.

Come si resiste alla società della prestazione? In tre modi suggeriscono Chicchi e Simone: attraverso la misura, il desiderio e l’arte. La misura si può tradurre in un reddito di base a difesa dei soggetti sociali più vulnerabili; il desiderio va sottratto alla tirannia della performance e inteso come rigenerazione del sé in rapporto agli altri; l’arte dovrebbe liberare l’individuo facendolo diventare un soggetto in grado di affrontare l’imprevisto in maniera imprevedibile.

Col rispetto dovuto ci sembra di poter dire che la ricetta di Chicchi e Simone è debolissima. E lo è perché debolissimi sono i pilastri su cui si fonda la loro teoria, a iniziare dal concetto di società del rischio. Come è ormai tipico della sociologia accademica quello che manca nel loro libro è un’analisi dei rapporti di forza tra le classi, tra politica e mercato, tra sapere e spettacolo. Invocare “una via etica all’umano” è ammirevole ma inefficace. Appoggiarsi a Foucault, Lacan e Castel (quest’ultimo parecchio sopravvalutato da Chicchi e Simone) è stimolante ma intellettualistico. Un intellettualismo che paradossalmente non comprende la natura del capitalismo e del suo attuale volto, il neoliberismo. Il quale persegue il proprio progetto sociale e lo perseguirà a costo di commettere qualsiasi violenza nei confronti della società. Lo sta già facendo da decenni e non basteranno certo le buone intenzioni a fermarlo.

Per chiudere, resta da dire che oggi contiamo almeno una ventina di definizioni diverse della nostra società. Una vera e propria babele. È utile che Chicchi e Simone ne abbiano aggiunta un’altra? Lasciamo aperta la domanda. E tuttavia non possiamo esimerci dal ricordare che la nostra era ed è una società capitalistica. Capiamo che ciò dispiaccia perché l’accademia ha sete di continue novità per alimentare dibattiti, convegni, pubblicazioni, carriere e così via. Ma è da un’analisi del capitalismo che bisogna partire. Altrimenti, sul piano della conoscenza si perde la rotta e sul piano sociale si perde la battaglia.


LA GUERRA IN UCRAINA E LA SOLIDARIETA’ DEI SOCIOLOGI ASI

Come tutte le guerre anche quella che si sta combattendo Ucraina registra distruzione, migliaia di morti, violenze e milioni di profughi. Le armi convenzionali – dai carri armati ai missili, dai droni ai bombardamenti aerei, fino alla minaccia nucleare – sono posizionate su due versanti contrapposti: quello che mira alla cancellazione e l’altro che si batte per difendere i valori dell’Occidente. Una guerra che, paradossalmente, vede uno scontro tra cristiani che si stanno uccidendo a vicenda.

Lo schieramento del Primate russo Kirill, che difende l’intervento armato, continua a creare fratture e malcontento all’interno del mondo cristiano ortodosso. Al punto da vanificare gli accorati appelli alla pace di Papa Francesco e la costante e sapiente attività della diplomazia vaticana. Ad alimentare il pericolo di una guerra mondiale stanno contribuendo anche le cosiddette “armi improprie”: le fake new, una classe politica che nell’attuare strategia di pace presta grande attenzione al consenso popolare, lo strana posizione di intellettuali schierati, l’azione incessante di gruppi di persuasi occulti che contribuiscono alla formazione di un’opinione pubblica eterodiretta.

Chi fermerà questo massacro? Non certo l’ONU che ha superato l’inutilità e l’impotenza della vecchia Società delle Nazioni. Al momento l’unica forza di interposizione sembra essere l’esercito della solidarietà che taglia trasversalmente la società- mondo.

IL VOLONTARIATO DEI SOCIOLOGI ASI DELLA LOMBARDIA

Prof. Avv. Michele Miccoli vicepresidente nazionale ASI

Un plotoncino di volontari fa parte dell’Associazione Sociologi Italiani di stanza in Lombardia (sede dalla macro-deputazione ASI “Nordest”, presieduta dall’Avv. Prof. Michele Miccoli) coordinato da sociologo Sabino Cipriano il quale si sta distinguendo nell’attività di supporto ai profughi provenienti dell’Ucraina.

lavori per arredare uno degli appartamenti

 Il dott. Cipriano, che da due mesi conferisce in una delle tante strutture Caritas generi di prima necessità (vestiario, giocattoli, alimentari), sempre per conto dell’ASI è riuscito ad ottenere in comodato d’uso gradito tre appartamenti per ospitare altrettante famiglie di profughi. Le unità abitative fanno parte di un complesso che sorge in un’area industriale di Arese dove insiste un insediamento produttivo il cui titolare ha messo a disposizione i tre alloggi. Il tempo di arredarli e finalmente donne e bambini avranno di nuovo una casa.

Altro locale dove fervono i lavori di arredamento

Il mito della società dell’informazione

di Patrizio Paolinelli

Nel 1971 il governo giapponese diede il via a un piano che avrebbe dovuto realizzare la società dell’informazione entro il 2000. Nel recente passato l’Onu ha organizzato due Vertici mondiali sulla società dell’informazione e sullo stesso tema da circa trent’anni l’Unione Europea ha sviluppato una complessa macchina amministrativa a sostegno dell’ICT (Information and Communications Technology).

Prof. Patrizio Paolinelli

L’interesse del mondo politico, gli investimenti degli Stati e dei privati sono dunque concentrati su un nuovo modello socio-produttivo in cui il sapere, la conoscenza, la formazione, l’informazione e le tecnologie digitali costituiscono risorse strategiche. Per Manuel Castells il mondo di oggi è caratterizzato dall’avvento del “capitalismo informazionale” in cui la produzione di ricchezza è sempre più intrecciata con la capacità di comunicare. Corona il sogno della società dell’informazione la sua vocazione universalista e a-ideologica.

E’ interessante osservare quanto il paradigma dell’informazione sia accompagnato dalla logica del progetto sociale pensato a tavolino e calato poi nella realtà. Progetto di illuministica memoria dato per morto e sepolto. Ed è altrettanto interessante notare quanto tale logica sia vituperata dalla stessa società dell’informazione – nella veste della stampa mainstream – quando qualcuno propone di realizzare un mondo più giusto avanzando modelli alternativi di produzione e consumo. Tali proposte sono immediatamente bollate come ideologiche, novecentesche, anacronistiche, utopistiche e così via. Ma c’è anche chi, come  David Hesmondhalgh – di cui nel 2008 per i tipi di Egea è uscito il ponderoso volume “Le industrie culturali” – ritiene che sia improprio parlare di economia della conoscenza o di età dell’informazione a causa dei minori volumi d’affari delle industrie creative e culturali rispetto ad esempio a quelli delle industrie energetiche. E tuttavia sono proprio i prodotti delle industrie creative e culturali a costituire la seconda voce di esportazione degli USA.

Per non perdersi in discussioni a questo punto la domanda da farsi è: siamo o non siamo la società dell’informazione? Purtroppo non si può rispondere con un sì o con un no. Basti pensare al fatto che quasi nessun consumatore sa quanto costano all’origine gli abiti che indossa o la frutta che compra al supermercato e allo stesso tempo è quotidianamente informato su eventi che accadono nei quattro angoli del mondo. Dinanzi a questa ambivalenza una cosa è certa: la società dell’informazione è funzionale alle pratiche del laissez-faire ed esclude le periferie economiche come dimostra il digital divide. Attualmente la società dell’informazione è in tumultuoso sviluppo e tuttavia molto resta ancora da fare. Per come l’hanno immaginata i suoi teorici (un luogo di pace e di democrazia computerizzata) è di là da venire, eppure ha già modificato radicalmente il nostro modo di produrre e interagire. D’altra parte la vita quotidiana è circondata da schermi di ogni dimensione i cui testi e le cui immagini ci lasciano solo quando dormiamo e forse si insinuano nei nostri sogni. Ogni giorno siamo bersagliati da centinaia di messaggi pubblicitari e ci teniamo costantemente informati sui fatti del giorno. Per di più la maggioranza della forza-lavoro svolge un’attività mentale manipolando simboli e producendo messaggi. Attività che si estende anche nella vita quotidiana e per esperienza diretta ognuno di noi sa quanto tempo si spende per risolvere problemi che hanno a che fare con l’informazione: reperirla, selezionarla, organizzarla, trasmetterla, tutelarla.

Indubbiamente tutte queste pratiche depongono a favore del concetto di società dell’informazione. La sua forza è effettuale e risiede nelle ricadute pratiche che si esplicitano in notizie a mezzo stampa, telefoni cellulari, Web Tv, proliferare di blog, finanziamenti dell’Unione Europea e così via. Tant’è che in un libro curato da Jérôme Garcin e intitolato “Nuovi miti d’oggi. Da Barthes alla Smart” (Isbn Edizioni, Milano, 2008) delle 57 voci che compongono il volume ben 20 riguardano l’informazione e un suo stretto parente, lo spettacolo. Sia l’una che l’altro hanno conosciuto un’enorme fortuna in termini di speculazione teorica e di ricadute sociali. Ma mentre l’idea di società dello spettacolo il più delle volte muove da un approccio critico rispetto all’impatto dei media sulla coscienza collettiva, l’idea di società dell’informazione si presenta nella forma apparentemente neutra del progresso tecnologico e pertanto risulta gradita all’establishment politico-economico. Cosicché la società dell’informazione è in crescita e continua a battersi per diventare sempre di più senso comune. Anche in questa circostanza va osservato come il progresso, dato da decenni come una delle defunte grandi narrazioni, continua in realtà a presiedere l’agire del potere politico-economico e degli attori che si muovono sul mercato della comunicazione: nelle intenzioni dei suoi profeti la società dell’informazione promuove infatti la qualità della vita, il benessere, la libera espressione di sé.

Battuta la critica alla società dello spettacolo il mito della società dell’informazione si impone in virtù del successo delle sue applicazioni pratiche, della sua continua produzione di novità, della convergenza tra le tecnologie di trasmissione e quelle di comunicazione, dei fatturati in ascesa delle corporation legate al digitale, della promozione globale di icone quali Bill Gates, Steve Jobs, Mark Zuckerberg. E quali sono i pilastri su cui poggia tale mito? Uno ricorre all’equazione che a maggior informazione corrisponde automaticamente maggiore libertà. Il fenomeno del sovraccarico informativo dimostra esattamente il contrario. All’inizio l’information overload si è presentato come una disfunzione del mercato della comunicazione, poi è stato utilizzato come un’efficace tecnica di controllo: se si vuole deviare l’attenzione pubblica da un problema basta inondare uno o più media di informazioni ben selezionate su quel problema; di lì a poco le informazioni si trasformeranno in rumore, ossia in disturbi alla comunicazione, allora il pubblico cambierà canale e il problema è risolto. Meglio, irrisolto, ma finisce di costituire un serio ostacolo politico perché riguarda solo da una minoranza di cittadini. Un esempio: da anni siamo informatissimi sul riscaldamento globale, ma ancora oggi non ne veniamo a capo e continuiamo a “riscaldarci”.

Essere informati su un problema non equivale dunque a risolverlo. Si dirà che non è compito della stampa. Vero. Ma la stampa può essere strategica nel condizionare le scelte dei decisori come quando influenza gli orientamenti dei cittadini al voto, ai consumi, agli stili di vita. Espressioni entrate nell’uso comune come “gogna mediatica”, “manganello mediatico“, guerra mediatica”, “macchina del fango”, “disinformatia” suggeriscono quanto spazio di manovra hanno i mezzi di comunicazione nel gestire l’informazione. Tra parentesi, è da notare il sapore rétro di termini quali: gogna (Medioevo), manganello (fascismo), fango (ruralità). L’avanzare della società dell’informazione presenta poi un altro vulnus: quello di trasformarsi in una società della sorveglianza. Il dibattito sull’argomento conquista le prime pagine dei quotidiani quando emergono gravi casi di violazioni della privacy per poi ritornare nell’ombra in attesa dello scandalo successivo. Senz’altro polizie ed esperti di marketing non possono che gongolare con l’avvento dei social network. Spazi in cui gli individui forniscono volontariamente un’immensa quantità di informazioni sui loro gusti, consumi, credenze, aspirazioni, idee politiche.

L’opinione pubblica è un altro pilastro che sorregge il mito della società dell’informazione. La si cita quotidianamente sui vecchi e nuovi media come un faro della laicità e della democrazia liberale, ma cosa sia realmente è oggetto di discussione. In proposito Herbert Blumer aveva le idee chiare e da molto tempo ci ha informati che l’opinione pubblica è: 1) un prodotto collettivo; 2) in quanto tale non è un’opinione unanime con cui tutti i membri del pubblico concordano; 3)non è necessariamente l’opinione della maggioranza; 4) l’opinione di gruppi minoritari può esercitare un’influenza più efficace di quella del gruppo maggioritario. Quando si fa riferimento all’opinione pubblica il lettore, l’ascoltatore, il telespettatore, il navigatore della Rete dovrebbe tener conto che raramente, se non mai, si sta parlando a nome di tutti anche se l’emittente dà l’idea che sia così. In definitiva il ricorso all’opinione pubblica non garantisce di per sé che l’informazione segua un percorso trasparente.

La società dell’informazione pullula di notizie. I quotidiani nazionali vanno dalle 40 alle 100 pagine. Impossibile leggere tutto quello che c’è dentro. E’ un bene? E’ un male? Non lo sappiamo. Di sicuro sappiamo che anche lo statuto della notizia è incerto. Su cosa essa sia non c’è accordo tra gli addetti ai lavori. Per Furio Colombo “La notizia non è quasi mai nel fatto specifico che vi viene mostrato. Nel migliore dei casi è un lato, una coda, un sintomo, un dato di qualche altra cosa”. Per David Randall “Una notizia è tutto ciò che è nuovo, mai pubblicato, insolito e interessante in senso generale”. Per Sergio Lepri la notizia si può definire come “la massima approssimazione possibile all’effettivo svolgimento del fatto […] … notizia è il fatto che il giornalista è convinto possa soddisfare i bisogni informativi del lettore e accrescere il suo patrimonio di conoscenze, aiutandolo a essere più libero nei suoi giudizi, più sicuro nelle sue decisioni, più soddisfatto nelle sue curiosità”. A queste definizioni potremmo aggiungerne altre, ad esempio la notizia come merce. Ma quelle elencate sono sufficienti a dimostrare quanto sia epistemologicamente fragile ma politicamente orientabile anche quest’altro pilastro della società dell’informazione.

Per Shannon e Weaver la comunicazione consiste nel passaggio di informazioni. Il modello proposto negli anni ’40 dai due esperti è lineare e considera la comunicazione come trasmissione di dati da una sorgente a una destinazione attraverso un elemento codificatore, un canale e un elemento decodificatore. In una versione più elaborata inclusero anche il feedback. A partire dagli anni ’60 ci si è accorti che trasferire informazioni non è proprio così scontato e la comunicazione è stata osservata come un processo di trasformazione degli attori che interpretano messaggi e sono dotati di intenzionalità. L’irruzione dell’interpretazione e dell’intenzionalità di emittenti e riceventi ha complicato enormemente le cose dando vita alle indagini sulla pragmatica della comunicazione (fatta anche divergenze, incomprensioni, equivoci, inganni) e innescando un dibattito che continua ancora oggi con risvolti sorprendenti. Ad esempio, per alcuni dei suoi guru la società dell’informazione costituisce lo stadio immediatamente precedente prima di arrivare alla società della comunicazione e ricalcando così la celebre dinamica relativa al passaggio dal socialismo al comunismo. In ogni caso, il risultato è che non c’è accordo su cosa sia la comunicazione tanto che Ugo Volli la considera come un “fare problematico che lascia difficilmente spazio alla parità e alla reciprocità degli uomini e si presta sempre almeno al sospetto dell’autoritarismo e della manipolazione”. Osservata tramite questa chiave di lettura la società dell’informazione va smitizzata affinché possa esprimere tutte le sue potenzialità per l’avanzamento dei processi di partecipazione e di emancipazione.

Patrizio Paolinelli, via Po Cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro


La feudalizzazione della società italiana

RECENSIONE: “La società signorile di massa” di Luca Ricolfi (La nave di Teseo, Milano, 2019, 267 pagg., 18,00 euro).

di Patrizio Paolinelli

Come dice chiaramente il titolo ci troviamo dinanzi a una nuova definizione della società. Per la precisione: non di tutte le società contemporanee, ma della società italiana. Che il sociologo torinese ritiene un unicum nel mondo occidentale; beninteso un unicum negativo.

<<<==Prof. Patrizio Paolinelli

Ma perché la nostra società sarebbe “signorile di massa”? Perché la maggioranza degli italiani vive in una condizione paragonabile a quella dei signori feudali. Ipotesi parecchio audace ma che incuriosisce. Per dimostrarla la prima cosa che fa Ricolfi è sgombrare il campo da ricostruzioni pessimistiche della realtà. E così le prime pagine del suo libro presentano un affresco del nostro Paese in cui, a fianco di un’Italia che se passa male (per esempio i 13 milioni di anziani che vivono con una pensione inferiore a mille euro al mese), c’è un’Italia che se la spassa alla grande: milioni di persone che pur non lavorando conducono una vita agiata, a cui vanno aggiunti i ristoranti pieni, il tutto esaurito dei luoghi di villeggiatura, i giovani che “apericenano” e così via. Tuttavia, l’attuale società opulenta ha fondamenta assai differenti da quella che si sviluppò nel trentennio di crescita ininterrotta (1946-1975) per il semplice fatto che la crescita non c’è più da lungo tempo e oggi viviamo sulle spalle del surplus accumulato dalle generazioni passate. In sintesi le condizioni della società signorile di massa sono tre: le persone che non lavorano sono più numerose di quelle che lavorano; i consumi opulenti avvengono in assenza di lavoro; l’economia stagna.

Per dimostrare l’esistenza della società signorile di massa Ricolfi ricorre a una serie di dati statistici. Dei quali va tenuto ovviamente conto, ma decidere cosa significano è tutt’altra storia. In altre parole, i numeri in sé non dicono tutto del fenomeno che rappresentano. Occorre interpretarli. E le strade sono in genere due. Una lenta, costosa e comunque incerta, ossia attraverso indagini qualitative che confermino quelle quantitative; l’altra rapida, economica e ancora più incerta, ossia attraverso personali interpretazioni. Ricolfi sceglie la seconda strada con tutti i rischi che essa comporta. Soprattutto quello di far rientrare il suo sforzo intellettuale nel campo delle opinioni più che in quello della scienza.

Prendiamo il fronte dei consumi. Negli anni ‘60 gli italiani ebbero accesso alle cure mediche, all’istruzione, ai servizi igienici in casa e così via. Consumi (così li intende Ricolfi, ma forse sarebbe più opportuno chiamarli diritti) che nel Medioevo si potevano permette solo i nobili. Da questo livello di benessere negli anni ’80 si è passati a consumi di massa decisamente voluttuari, che Ricolfi stima posseduti o fruiti da oltre metà degli italiani. Quali sono? La seconda auto, la seconda casa, costose attrezzature da sub o da sci, weekend lunghi e ripetuti, vacanze in località esotiche, abbonamenti televisivi, svariati corsi extrascolastici per i figli, cibi e medici alternativi, tecnologia e così via. Tutto vero.

Ma siamo proprio sicuri che il possesso dell’abbonamento alla Tv satellitare e dell’attrezzatura da sub da parte di un impiegato del Comune (il cui stipendio è mediamente molto basso) sia sufficiente a metterlo sullo stesso piano del medioevale signore del castello o anche dell’agiato cardiochirurgo dei nostri giorni? Inoltre è la struttura economica della società che ha reso indispensabili a chi non può permetterseli consumi non necessari. E spesso lo ha fatto imponendoli: tralasciando la violenza simbolica della pubblicità, milioni di italiani non si sarebbero indebitati per decenni se la casa fosse stata davvero un diritto, forse avrebbero investito altrove i soldi destinati per la seconda casa se le città non fossero invivibili e probabilmente neanche avrebbero comprato la seconda auto se i trasporti pubblici fossero economici e efficienti.

Questo tipo di lettura dei dati statistici è assente dalle interpretazioni di Ricolfi. La sua critica è sempre in termini di efficientamento dell’attuale società e non del suo superamento (come ormai suggerisce il buon senso più che le posizioni politiche). Anche quando affronta le peggiori forme di sfruttamento del lavoro. Su tale aspetto il filo del suo ragionamento è il seguente: come nelle società signorili i vantaggi della nobiltà comportavano gli svantaggi della servitù della gleba, oggi i consumatori di beni voluttuari godono della loro condizione di privilegio grazie alla riduzione a una condizione paraschiavistica di una serie di categorie sociali. Ecco quali: i lavoratori stagionali (circa 200mila persone, per lo più di origine africana); le prostitute (tra 75mila e 120mila unità), il personale di servizio (865mila soggetti secondo l’INPS, circa 2 milioni secondo altri studi); i lavoratori in nero (450mila). Totale: quasi 3 milioni di persone, in maggioranza straniere. A queste figure Ricolfi ne aggiunge altre collocandole in quelle che definisce “situazioni di confine”. Esse sono: la massa di persone sottopagate nei settori del commercio, della ristorazione e non solo, a cui vanno aggiunti: gli spacciatori di sostanze stupefacenti, i lavoratori della gig economy (economia dei lavoretti) e quelli delle aziende esternalizzate. Si tratta complessivamente di un numero che oscilla tra 2.700.000 a 3.500.000 unità.

La ricostruzione dell’infrastruttura paraschiavistica del lavoro nel nostro paese fornisce il quadro di un’impressionante condizione di sudditanza di diversi milioni di persone e costituisce la parte più interessante del libro di Ricolfi. Il quale legge in termini politici la crisi italiana. Interpretata dal sociologo torinese come un caso esemplare di immobilismo. Tra i responsabili di tale immobilismo: la scuola che non boccia più e i giovani che preferiscono stare a casa nel dolce far niente piuttosto che accettare lavori non corrispondenti alle loro aspirazioni. Si tratta di problemi reali, non c’è dubbio. È dannoso per la società e per gli stessi studenti che la scuola promuova tutti. Fenomeno da cui però non è immune una parte consistente dell’università (e che dire delle lauree on-line?). Ma la soluzione non è certo quella di tornare alla scuola e all’università di classe com’era ai tempi di don Milani e come invece il ragionamento di Ricolfi induce a fare (e non solo nel caso dell’istruzione).

Allo stesso tempo è vero che molti giovani attendono l’impiego dei loro sogni e non si sporcano le mani con attività di second’ordine. Ma è altrettanto vero che troppe volte questi rimproveri sono mossi da chi non considera le paghe ridicole che vengono offerte, ha un ottimo posto di lavoro e non manderà mai i suoi figli a farsi sfruttare in un call center. Anzi, troverà, per le italiche vie traverse, un posto ben retribuito ai propri rampolli, magari da dirigente nella tanto disprezzata pubblica amministrazione. Evento che Ricolfi avrà sicuramente notato nell’università italiana. Notoriamente un mondo dove il nepotismo impera, proprio come in epoca feudale.

Ricolfi non fornisce ricette per uscire dalla società signorile di massa. E tuttavia sia la sua interpretazione dei dati statistici sia l’approccio ai problemi che affronta lasciano intendere che in Italia sono necessari più ordine e disciplina. A vantaggio di chi? In genere la richiesta di ordine e disciplina va a vantaggio del potere economico, il grande assente del libro di Ricolfi pur essendo il maggior responsabile della crisi italiana dato che, direttamente o indirettamente, da decenni controlla tutte le leve di comando della società. Eppure all’inizio del suo libro Ricolfi sostiene che il corpo principale della società italiana è capitalistico. Poi però se ne dimentica. E a ben guardare la società signorile di massa ha fatto soprattutto la fortuna dei capitalisti. I quali effettivamente somigliano sempre più alla nobiltà di un tempo che al ritratto dipinto da Max Weber.

Patrizio Paolinelli, Via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro.


Punti di vista sulla pandemia

di Patrizio Paolinelli

La pandemia fa male. Uccide, chiude, blocca, isola, impoverisce. E, naturalmente, fa parlare. Tanto. Praticamente all’infinito. Ma accanto alle paginate dei giornali e agli interminabili sproloqui dei talk-show, stimola anche qualche parola diversa, qualche riflessione su quello che sta avvenendo e come sta avvenendo, sul modo in cui si sta gestendo questa fase drammatica e sulle sue prospettive.

<<==Prof. Patrizio Paolinelli

Sono diversi gli studiosi che in questo periodo si stanno esprimendo con le loro analisi e, per fortuna, non mancano coloro che non si fermano al coronavirus, ma scavano nel profondo di una società che era già alle corde. Eccone alcuni.

Iniziamo con due arrabbiati: il filosofo Giorgio Agamben e il sociologo Andrea Miconi. Il primo ha dato alle stampe “A che punto siamo? L’epidemia come politica”, (Quodlibet, Macerata, 2020, 106 pagg., 10,00 euro). Il secondo, “Epidemie e controllo sociale”, (manifestolibri, Roma, 2020, 127 pagg., 10,00 euro). Entrambi gli autori polemizzano violentemente con le decisioni del governo in merito alle restrizioni alla libertà di movimento dei cittadini per frenare la diffusione del contagio. Ovviamente non negano la pericolosità del Covid-19, ma contestano come le misure di contenimento del virus sono state imposte e sospettano che nascondano ben altre intenzioni. Quali sarebbero?

Per svelarle ricorrono alla categoria foucaultiana di biopolitica, ossia il governo degli esseri umani attraverso la regolazione della vita biologica (sessualità, riproduzione, morte e così via). Nel caso dell’epidemia in corso la biopolitica si esprime tramite pratiche di controllo della salute pubblica quali: l’obbligo al distanziamento interpersonale e all’uso dei dispositivi sanitari di protezione individuale, la quarantena, la limitazione degli orari degli esercizi pubblici, la chiusura di una lunga serie di attività culturali, ludiche, sportive, della scuola e dell’università, restrizioni nella libertà di spostamento sul territorio. Agamben connette la nozione di biopolitica con quella di stato di eccezione, celeberrima categoria della dottrina politica di Carl Schmitt e con la quale si intende la sospensione dell’ordine giuridico a cui segue l’esercizio di un potere sganciato dal diritto. Nei mesi della pandemia sono state infatti messe tra parentesi le garanzie costituzionali trasformando ogni individuo in un potenziale untore.

Situazione che per il filosofo romano ricorda molto da vicino gli anni del terrorismo e i provvedimenti d’emergenza che allora vennero presi. Con una differenza sostanziale rispetto a ieri: mentre la fine dell’estremismo extraparlamentare riportò l’ordine giuridico più o meno allo statu quo ante, oggi è cresciuta enormemente la tendenza a fare dello stato d’eccezione il paradigma di governo in nome della sicurezza pubblica. In altre parole, l’eccezione diventa regola. Per Agamben la nuova normalità è costituita da crisi perenni e da perenni misure di emergenza, dalla progressiva separazione degli individui gli uni dagli altri e dalla continua erosione delle libertà costituzionali. Andrea Miconi è assai vicino alle posizioni di Agamben. Utilizza la nozione di stato d’eccezione e alla critica nei confronti delle azioni di contrasto al contagio aggiunge quella rivolta alla rappresentazione mediatica dell’epidemia. Nel suo pamphlet arriva a parlare del 2020 come dell’anno che ha inaugurato lo stato di polizia. Per dimostrarlo riporta un lungo elenco di fatti di cronaca che la stampa ha rubricato nell’ordine del pittoresco, del bizzarro e della curiosità. Mentre per Miconi indicano un eccesso di controlli, un preoccupante potere discrezionale delle forze di sicurezza, la violazione dei diritti della persona e lo sconvolgimento del clima sociale.

Ecco alcuni di questi fatti: una donna è stata multata mentre pregava in chiesa da sola, stessa sorte è toccata a una psicologa che si recava a visitare un paziente, a una coppia che accompagnava la figlia a una visita oncologica dopo un trapianto di midollo spinale e a un uomo che accompagnava la moglie disabile a fare la spesa. Al lungo elenco di Miconi si possono aggiungere i video circolati sui social network dopo la pubblicazione del suo pamphlet e in cui si assiste a pesanti interventi delle forze dell’ordine nei confronti di cittadini colti per strada senza mascherina sanitaria. A questo proposito ci sarebbe da osservare che durante la pandemia le morti sul lavoro sono proseguite come prima, ma da parte dello Stato non si sono viste all’opera la stessa determinazione e la stessa energia per combattere il fenomeno.

Ma torniamo a Miconi. Il succo della sua critica è il seguente: con la pandemia è stata messa in atto una strategia di colpevolizzazione del cittadino e di deresponsabilizzazione della classe dirigente (potere politico, potere mediatico, potere economico). Ha preso così forma una sorta di populismo alla rovescia tramite il quale l’opinione pubblica si è assunta la colpa di quanto accadeva anziché prendersela con le élite. Per esempio, non si è troppo indignata dinanzi alla scarsa attenzione degli imprenditori per la salute di lavoratori e che nel bergamasco ha portato a consumare una vera e propria strage. Tuttavia ha accettato di essere sigillata in casa, di sentirsi dire dai media che tutto sommato la reclusione domiciliare è una cosa bella e di sottoporsi all’umiliante rituale dell’autocertificazione. Ancora: ha abbracciato lo slogan “C’è troppa gente in giro” anziché pretendere dei servizi di trasporto pubblici adeguati all’emergenza sanitaria. In definitiva, per Miconi lo scopo sommerso delle misure anti-contagio è duplice: da un lato, la normalizzazione di una pervasiva forma di controllo sociale; dall’altro, la possibilità per classe dirigente di togliere ai cittadini libertà fondamentali senza subire alcun scossone.

Anche Donatella Di Cesare si è occupata della pandemia dando alle stampe un tascabile intitolato “Virus sovrano? L’asfissia capitalistica”, (Bollati Boringhieri, Torino, 2020, 89 pagg., 9,00 euro). A differenza di quanto potrebbe lasciar supporre il sottotitolo del libro l’astro nascente dell’italica filosofia prêt-à-porter non muove una critica al capitalismo inteso come modo di produzione. Pertanto la sua riflessione risulta fortemente depotenziata. Tuttavia è utile dato il terrificante clima culturale in cui ci troviamo in termini di conformismo, adesione all’ideologia liberale e negazione dello spirito critico (in questo senso, sempre in tema di pandemia, un caso esemplare è il libro intitolato “Nella fine è l’inizio” di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti).

L’asfissia capitalistica di cui parla Di Cesare riprende il tema dell’accelerazione dei ritmi di vita nelle nostre società radicalizzando l’analisi critica. Avendoci costretti a un’esistenza rallentata, se non addirittura sospesa, la pandemia mette in luce “l’aberrazione della frenesia di ieri” e “la maligna velocità del capitalismo”. In quanto al virus, è sovrano sia per l’aureola che lo circonda sia perché ha oltrepassato ogni confine facendosi beffe proprio dei sovranisti. L’aspetto più interessante del libro della Di Cesare consiste nella correlazione costante tra le contraddizioni della nostra società prima della pandemia e durante la pandemia. Destano tuttavia qualche perplessità diverse affermazioni assai generiche e la tendenza a mettere sullo stesso piano la narrazione mediatica degli eventi con la realtà effettuale delle cose.

C’è poi un altro aspetto che lascia ancor più perplessi. E cioè, mentre le riflessioni di Agamben e Miconi invitano il lettore a prendere coscienza della gravità della situazione e dunque alla mobilitazione, quelle della Di Cesare non si sa bene dove vadano a parare. Le abbondanti critiche che muove al rapporto tra società pre-pandemica e società pandemica non indicano una direzione e sembrano esaurirsi nell’autocompiacimento di una brillante scrittura.

L’ultimo tascabile della nostra carrellata è quello di Mariana Mazzucato: “Non sprechiamo questa crisi”, (Laterza, Bari-Roma, 2020, 160 pagg., 12,00 euro). Il libro è composto da tredici interventi di cui otto scritti a quattro mani con altri studiosi e ripropone il pensiero dell’economista italiana applicandolo al dramma scatenato dalla pandemia. Semplificando al massimo la tesi centrale della Mazzucato si articola su alcuni punti: 1) da sempre le grandi imprese private beneficiano di enormi finanziamenti pubblici, diretti o indiretti che siano; 2)  numerosi colossi dell’economia non sarebbero neanche nati senza i massicci investimenti dello Stato, a iniziare dalla grandi corporation della Silicon Valley; 3) in parecchie occasioni banche e multinazionali sono state salvate dal fallimento con i soldi del contribuente; 4) i famosi imprenditori restituiscono pochissimo alla società che pur gli ha permesso di nascere, prosperare e sopravvivere.

Il timore della Mazzucato è che con la pandemia si rimetta in moto il circolo vizioso di privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite, accaparramento delle risorse pubbliche, scarsi ritorni per la collettività, recessione economica. Il suo intento non è quello di superare il modo di produzione capitalistico ma di “fare capitalismo in modo diverso” correggendo le storture provocate dai mercati lasciati a sé stessi. E per questo occorre che le risorse pubbliche siano indirizzate nell’interesse pubblico e non del profitto. Non certo per realizzare il socialismo, ma per salvare il capitalismo dalla spirale autodistruttiva in cui è finito col neoliberismo. Detto con una battuta, troppo successo porta al decesso. E allora come intervenire?

La ricetta della Mazzucato prende le mosse dalla necessità di riconoscere che la ricerca di base in campo farmaceutico è largamente a carico dello Stato (40 miliardi di dollari nel 2019) ed è sempre lo Stato che è intervenuto economicamente sui sistemi sanitari per combattere il Covid-19.  Non solo: gli enormi stimoli all’economia per scongiurare la catastrofe (negli Usa oltre 2mila miliardi di dollari) derivano dalle tasse dei contribuenti, pertanto il sostegno pubblico alle imprese non può più essere incondizionato come è accaduto fino a oggi. E ancora: lo Stato deve tornare a essere un protagonista attivo dell’economia e non più un soggetto passivo che elargisce soldi alle imprese nella speranza che queste creino ricchezza per tutti. Speranza mal riposta: da decenni nelle società occidentali la povertà aumenta, così pure le disuguaglianze e si passa da una crisi economica all’altra precipitando in lunghe fasi di stagnazione

Per la Mazzucato la pandemia è un’occasione per voltare pagina e dar vita a un circolo virtuoso dell’economia. Come? Attraverso l’implementazione di misure quali il dividendo di cittadinanza, che consiste in una remunerazione dei cittadini per gli investimenti statali nell’economia privata, premiando le aziende che creano davvero valore, plasmando i mercati affinché la ricchezza creata collettivamente sia messa al servizio di scopi collettivi, favorendo una green economy centrata sui lavoratori, rivedendo il sistema fiscale e così via.  Come si vede le proposte della Mazzucato sono piene di buon senso e data la situazione sembrerebbe irragionevole non accoglierle. Certo, non ci si può nascondere che il potere economico dovrebbe rinunciare almeno in parte al potere assoluto che ha a lungo perseguito e conquistato. I prossimi anni ci diranno se la ragione prevarrà sull’anarchia del capitale.


Pandemia e dilemmi dell’economia

di Patrizio Paolinelli

Emergenza sanitaria e emergenza economica sono sempre andate di pari passo. Storicamente l’una non si dà senza l’altra. L’abbiamo imparato a nostre spese noi contemporanei, colpiti come siamo da un anno a questa parte dal Covid-19. Un dramma mondiale che non ha risparmiato nessun angolo del mondo.

<<= prof. Patrizio Paolinelli

Come chiamare con una sola parola l’intreccio tra emergenza sanitaria e emergenza economica? La risposta ci giunge direttamente dal titolo di un piccolo tascabile scritto dal sociologo Tonino Perna: “Pandeconomia. Le alternative possibili”, (Castelvecchi, Roma, 2020, 69 pagg., 8,00 euro). Ma, innanzitutto, che cosa si intende con pandeconomia? Molto semplice: si tratta della “trasformazione dell’economia dei singoli Paesi come del mercato mondiale al tempo della pandemia”.

Se la definizione è netta, le cose diventano assai più complicate quando si entra nel merito. Ossia quando si cerca la via d’uscita dalla destabilizzazione del sistema economico provocata dal Coronavirus: caduta del Pil, aumento esponenziale del debito pubblico, crollo del mercato internazionale, ulteriore impoverimento di chi vive di precariato e lavori informali. Bisogna riconoscere che Perna affronta l’argomento con rigore e allo stesso tempo in maniera molto chiara. Perciò il suo intervento ha il merito di parlare a tutti, addetti e non addetti ai lavori.

Pandeconomia” si divide in tre agili capitoli: “Breve storia della pandeconomia”, dove a volo d’uccello sono presentate alcune epidemie che hanno investito l’Europa nei secoli scorsi; “La pandeconomia al tempo del Coronavirus”, dove in rapida successione sono affrontati in termini critici gli effetti economici, sociali, politici, emotivi e ambientali scatenati dal Covid-19; infine, “Oltre la pandeconomia: gli scenari possibili”, dove sono ipotizzate le alternative che la stessa pandemia ha messo in moto.

Perna avvia la propria riflessione partendo dal concetto di catastrofe elaborato dal matematico René Thom. Il quale considera la catastrofe (un terremoto, una guerra, un’epidemia) come un punto di svolta, ossia come l’interruzione improvvisa di una continuità, di un processo strutturalmente stabile. Calando la catastrofe pandemica dei nostri giorni nella realtà sociale, le elaborazioni teoriche a cui fare riferimento sono, secondo Perna, quelle di due economisti: Walther Rathenau e John Maynard Keynes.

Rathenau fu il primo economista del ‘900 a occuparsi delle conseguenze economiche della guerra. Conseguenze che si ripresentano pari pari oggi con l’esplosione della pandemia. Esse sono: la messa in discussione della globalizzazione, l’inevitabile processo di deglobalizzazione, la rivalutazione del mercato interno, il rafforzamento delle istituzioni statali, l’accelerazione dei processi sociali. A ben vedere si tratta di una serie di fattori che già premevano sulle società ben prima della pandemia. Ma a cui la pandemia ha dato una spinta impressionante.

L’altro economista che ha offerto un importante contributo nell’analisi sull’economia di guerra è stato John Maynard Keynes. Il quale spiegò che lo sforzo bellico dovevano pagarlo tutte le fasce sociali. Ma per le classi lavoratrici era necessario prevedere un “salario differito”, ossia la restituzione di una parte di quanto tali classi avevano versato una volta terminato il conflitto. In tutta evidenza si tratta di una soluzione le cui intenzioni erano quelle di conciliare la ripresa dell’economia con la giustizia sociale dopo la catastrofe bellica.

La pandemia in corso non è una guerra, né, come lo stesso Perna precisa, l’attuale emergenza economica può essere definita un’economia di guerra. Eppure ha innescato effetti simili a quelli di una guerra. Per diversi aspetti la società non sarà più come prima e tuttavia il rischio maggiore è che sia peggio di prima. Proprio per evitare questa involuzione la conciliazione tra economia e giustizia sociale proposta da Keynes all’indomani del Secondo conflitto mondiale vale anche per l’oggi visti gli ottimi risultati che diede allora. E tale conciliazione costituisce l’aspetto principale della riflessione di Tonino Perna. È vero: la pandemia in corso rappresenta un punto di svolta nella storia, “Ma senza una redistribuzione dei redditi, senza giustizia sociale, la guerra contro il Coronavirus la vinceranno ancora una volta gli speculatori di Borsa, i rentiers, i privilegiati di questo modo di produzione”. Uno snodo decisivo del libro che ne spiega il sottotitolo: “Le alternative possibili”.

Quali sono le alternative di cui parla Perna? Possono riassumersi in una parola: equonomy. Che cos’è? “Si definisce equonomy un’economia che ritrova l’equilibrio nel nome dell’equità”. Su cosa si fonda? Sulla valorizzazione dei cambiamenti positivi emersi durante l’anno del Covid. Tali cambiamenti sono: il maggior uso dello smart working; il recupero dell’economia di prossimità (piccola agricoltura, piccoli negozi, vita di quartiere); il riequilibrio tra città e campagna; la riscoperta della solidarietà; il rilancio della cooperazione internazionale; infine, l’importanza di riconsiderare l’economia fondamentale secondo quanto sostenuto dalla scuola di Manchester (cioè il ritorno all’economia dei beni essenziali come il cibo, l’acqua, la casa, l’elettricità). Da questo insieme di cambiamenti è possibile secondo Perna un’altraeconomia, “che, in prima istanza come mero esercizio teorico, ma non sganciato dalla realtà, chiamiamo equonomy. L’equonomy come un modo di produzione che punta a un rinnovato equilibrio tra l’attività umana e il patrimonio naturale che abbiamo ereditato.”

Ora, non solo sul piano teorico l’equonomy è una prospettiva desiderabile. Ci chiediamo però quanto sia realizzabile su larga scala. Intanto presenta qualche intrinseco elemento di debolezza. Per esempio, chi l’ha detto che l’incremento massiccio dello smart working sia solo un fatto positivo? Indubbiamente dà luogo a delle positività (riduzione del traffico automobilistico e del pendolarismo), ma anche a delle negatività (rischi di isolamento sociale, di indebolimento dei legami tra lavoratori e sindacati, di indistinzione tra vita lavorativa e vita privata e così via). Tralasciamo gli altri punti che secondo Perna caratterizzerebbero un nuovo modo di produzione perché il nocciolo della questione non risiede nelle criticità dei singoli fattori che compongono l’equonomy, ma nel pensare di superare il neoliberismo con delle buone idee e delle buone pratiche.

Il neoliberismo non ha conquistato il potere perché rappresenta una teoria migliore di un’altra, ma perché è più violenta di ogni altra (comprese quelle che rientrano nell’alveo del liberismo). E poi con la pandemia i neoliberisti non si sono fatti da parte. Sono più che mai saldamente al potere. Un potere totale, che controlla tutto: parlamenti, governi, Unione Europea, mass-media, università, tecnologia, finanza, industria, risorse statali e chi più ne ha più ne metta. Sarà l’élite economica a gestire il dopo-Coronavirus. E non lo farà certo nell’interesse dei lavoratori e dei cittadini. In poche parole, il futuro dell’equonomy si gioca sulla sua capacità di passare da movimento di idee e di pratiche a forza politica.


I processi di socializzazione di gruppo

di Giovanni Pellegrino e Mariangela Mangieri

Una volta che un individuo è riuscito ad entrare in un gruppo è necessario che impari a rimanervi. I processi di socializzazione danno la possibilità agli individui di rimanere in un dato gruppo.

Prof.. Prof. Giovanni Pellegrino

La Speltivi afferma che il processo di socializzazione è un processo attraverso il quale gli individui acquisiscono le conoscenze, le abilità, le disposizioni che li rendono in grado di restare in gruppo assumendo al suo interno un ruolo ben preciso. Infatti affinché un individuo resti in un dato gruppo deve acquisire uno o più ruoli che diano un senso ed un significato alla presenza di un gruppo. E’ innegabile come tutti i sociologi sanno il carattere bidirezionale di qualunque processo di socializzazione tuttavia è vero che nella realtà dei piccoli e dei grandi gruppi il neofita si trova in una condizione di maggiore dipendenza. Egli è nella necessità di dover capire cosa debba fare in quel gruppo.                        

Palmonari mette in evidenza che un individuo che entra in un gruppo deve capire cosa il gruppo si aspetti da lui, quali siano le norme e i regolamenti dominanti e quale sia la struttura gerarchica formale e informale esistente nel gruppo.  Quando un individuo entra in un gruppo deve immergersi nella cultura particolare di quel gruppo che include modi condivisi di percepire e di interpretare la realtà nonché costumi comuni che sono l’espressione comportamentale di una data cultura. Essi includono routine, resoconti, parole e gesti comprensibili solo dai componenti del gruppo nonché simboli ovvero oggetti che hanno un significato speciale per i membri del gruppo. Come ha messo in evidenza Lewin la percezione sociale della realtà condiziona in maniera evidentissima il comportamento di tutti gli individui ivi compresi i membri di un determinato gruppo sociale che leggono la realtà utilizzando un codice condiviso.

Quei gruppi che adottano comportamenti devianti avranno alla loro base dei veri e propri codici devianti che condizioneranno anche i processi di socializzazione di gruppo come ha messo in evidenza D’Agostino. Esistono vari modelli teorici che cercano di individuare le fasi della socializzazione di gruppo, tuttavia noi prenderemo in considerazione solo quello di Lewin che si basa sulla individuazione dei tre processi psicologici ognuno dei quali può essere visto sia dalla prospettiva del gruppo, sia da quello dell’individuo. I tre processi psicologici in questione sono la valutazione, l’impegno e la transizione di ruolo.    Per quanto riguarda la valutazione dobbiamo dire che ogni gruppo ha degli scopi da raggiungere e per tale ragione valuta gli individui in base a quanto possono contribuire al raggiungimento di questi scopi. Nello stesso tempo ogni membro del gruppo ha dei bisogni personali da soddisfare e di conseguenza valuta il gruppo nei termini di quanto esso potrà contribuire a soddisfare i suoi bisogni.

Per quanto riguarda l’impegno dobbiamo dire che esso produce sia nel gruppo sia nell’individuo l’accettazione dei reciproci scopi e bisogni. Inoltre induce sia il gruppo sia i singoli membri ad impegnarsi al massimo delle proprie possibilità per soddisfare le reciproche aspettative. Infine col termine transizione di ruolo Lewin indica il mutamento delle aspettative reciproche. Riguardo il processo di socializzazione Lewin applica a tale processo la famosa teoria del campo che indica le modalità con le quali a livello energetico gli individui interagiscono tra di loro. Lewin ha mutuato dalla fisica il concetto di campo di forza volendo far presente che nel processo di socializzazione gli individui si influenzano a vicenda come i vettori nel campo di forza si condizionano a vicenda.

Per quanto riguarda la durata temporale del processo di socializzazione di gruppo dobbiamo dire che essa dipende da vari fattori tra i quali ci limiteremo a prendere in considerazione la complessità della cultura di gruppo, la durata temporale del gruppo ed il tempo di permanenza dell’individuo all’interno del gruppo.( Per quanto riguarda tale fattore dobbiamo dire che esso è una delle cause e dei meccanismi che determinano l’uscita di un individuo dal gruppo). Per quel che concerne la complessità e il grado di strutturazione della cultura di gruppo appare evidente che quanto più complessi e numerosi sono i costumi comuni e i modi condivisi di interpretare la realtà, tanto più lungo e complicato sarà per il nuovo arrivato il processo di socializzazione. Infatti in alcuni gruppi il modo di interpretare e leggere la realtà è condizionato da numerosi fattori cosicché i nuovi arrivati vanno incontro a notevoli problemi per accettare e fare propri il modo in cui i membri del gruppo interpretano e leggono      la realtà sociale. Anche la durata temporale dell’esistenza del gruppo condiziona la durata del processo di socializzazione.

Infatti appare chiaro che se il gruppo si scioglie dopo poche settimane dall’ingresso del neofita, la durata del processo di socializzazione del nuovo venuto sarà molto limitata dal punto di vista temporale. Vogliamo mettere in evidenza che la durata della vita di un gruppo dipende dalle caratteristiche che assume il processo di sviluppo di gruppo che comprende cinque stadi: lo stadio di formazione, lo stadio di conflitto, lo stadio normativo, lo stadio di prestazione, lo stadio di sospensione. Per quanto riguarda il primo stadio i membri sono piuttosto ansiosi ed incerti rispetto alla loro appartenenza di gruppo ragion per cui sono disposti ad investire poco dal punto di vista psicologico nelle attività del gruppo. Nello stadio di conflitto i membri del gruppo diventano più attivi e cercano di modificare il gruppo secondo i propri bisogni. Come conseguenza in tale comportamento scoppiano ostilità e risentimenti all’interno del gruppo dal momento che il bisogno dei vari individui sono diversi ed entrano in conflitto tra loro.

Nel terzo stadio i membri risolvono i conflitti che erano scoppiati nel precedente stadio e di conseguenza aumenta il grado di coesione interna del gruppo. In tale stadio aumenta di molto la conformità dei membri alle regole e alle norme di gruppo. Nel quarto stadio tutti i membri del gruppo lavorano attivamente e si impegnano notevolmente per raggiungere gli scopi comuni.   Infine nell’ultimo stadio della vita di un gruppo la maggior parte dei componenti di esso va incontro a processi di demotivazione dovuti a diverse ragioni.  Pertanto il gruppo perde gran parte della sua importanza per quasi tutti i membri. Infatti essi si danno da fare per cercare di stabilire nuovi rapporti interpersonali in modo da evitare di restare isolati nel momento in cui il gruppo si scioglie.                            

   In genere quando un gruppo sta per sciogliersi esiste un piccolo numero di membri che cerca di evitare lo scioglimento del gruppo ma il loro tentativo è destinato a fallire poiché il malcontento e la demotivazione esistenti in quasi tutti i componenti del gruppo rende vano il loro tentativo. Palmonari mette in evidenza che nell’ultima fase dello sviluppo di gruppo scoppia “la guerra di tutti contro tutti” cosicché il valore del gruppo è messo in dubbio e negato, viene criticato il comportamento del leader ed inoltre si mettono in evidenza i fallimenti del gruppo, dimenticando completamente i successi ottenuti e gli obiettivi raggiunti.   In tale fase si cercano i capri   espiatori sui quali scaricare l’aggressività e le frustrazioni e si diffonde l’inerzia sociale e l’apatia. Prima dello scioglimento del gruppo sono anche possibili una serie di comportamenti violenti che funzionano da valvola di sfogo della collera di alcuni membri del gruppo.

Prof. Giovanni Pellegrino // Prof.ssa Mariangela Mangieri


Territori resilienti, coscienza e conoscenza del presente

di Domenico Stragapede

La crisi non è solo uno stato psicologico, un disincanto del carattere eccezionale dell’uomo, ma una manifestazione cronica del disagio della struttura sociale, disintegrazione della sfera adattiva dei processi di previsione e programmazione strategica delle policy, in grado di poter combinare le diversi livelli territoriali (sociale, economico, istituzionale, naturale).

Dott. Domenico Stragapede (sociologo)

La realizzazione di una governance, caratterizzata da uno strumento che permette la definizione efficace del benessere nella forma sostanziale di equità e sostenibilità attraverso la ricerca di nuove dinamiche sociali e istituzionali, è la base per calcolare l’impatto delle risorse a propria disposizione.

 Il principio dinamico dell’interpretazione del carattere sostenibile e innovativo risiede nell’ adattamento che privilegia la Rigenerazione sostenibile dei territori, mobilità e coesione territoriale, transizione energetica, qualità della vita, economia circolare sono le cinque macroaree in cui si sviluppano le sue linee programmatiche. La comunità con al centro la persona, promuove stili di vita sani, definizione delle tempistiche di vita, progettazione di condizioni di vita eque, alla definizione di azioni che mettono in moto lo sviluppo del Capitale sociale attraverso formazione continua, principio creativo della società del futuro.

La volontà e la consapevolezza della coscienza dei territori, caratterizzata dal voler avviare un cambio di rotta alle imminenti o future problematiche, si concretizza nella emergente società del rischio o crisi globale dell’ecosistema mondo, in cui la pervasività umana è motivo di sfruttamento intensivo delle risorse presenti.

Il giudizio sociale si esprime attraverso il ripensamento dei luoghi enfatizzando la dimensione dell’habitat comunitario. La difficoltà, lo stallo nel realizzare e portare a termine gli obbiettivi dei vari bilanci/agende è segno della mancanza di interconnessione nella rete inter/intra comunitaria dove non viene esalta la possibilità, necessità di adeguamento sociale delle strutture di esercizio delle policy top down e bottom up.

 La forma resiliente di comunità si esprime armonicamente riflettendo il collante che definisce e bilancia la partecipazione, per mezzo dell’attività delle istituzioni/società civile le quali attraverso la combinazione, condivisione e cooperazione creano un circolo virtuoso (middle circle).

Gli elementi che meglio definisco il circolo virtuoso di accrescimento e bilanciamento del carattere resiliente della comunità è da collegarsi al sistema dello sviluppo economico(innovazione sostenibile), di capitale sociale, informazione/comunicazione e alla competenza di comunità, elementi che enfatizzati rafforzano i legami dei sistemi macro, meso e micro ambientali, riferiti alla connessione materiale/immateriale della” struttura della struttura” dei legami deboli e forti in ambito sociale.

In conclusione la realizzazione della comunità resiliente prescrive la messa in atto di un flusso circolare tra sistema politico e forze civiche, una dimensione intermedia fra i sistemi top down e botton up, in cui si realizzi il circolo virtuoso (middle circle), lo sviluppo economico, l’informazione/comunicazione, la competenza di comunità e per ultimo, ma non meno importante il capitale sociale che genera fiducia e, quindi, legittimazione che a sua volta alimenta il sistema dell’habitat che produce, in ultima analisi, nuovi spazi sociali di ragione e azione etica, morale e funzionale adattiva dando luogo alla prassi della sostenibilità ambientale.

Il presente in cui viviamo, con l’avvento della crisi pandemica prima, e della guerra dell’Ucraina dopo, rappresenta un fattore di coscienza e conoscenza potenziale della “Transizione”, non solo del sistema ambiente, ma dei suoi sottosistemi, in cui la società si combina ( “tradizione”/”natura”, “scienza/tecnologia”) affermando la migliore soluzione, per mitigare, adeguare ed equilibrare l’idea di resilienza all’interno dell’idealità di società sostenibile.

BIBLIOGRAFIA

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