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Toh! Si riparla del Ponte sullo Stretto

di Antonio Latella

foto Soc. Ponte di Messina

L’idea di un collegamento stabile tra Calabria e Sicilia è tornata ad alimentare le illusioni degli abitanti di quest’area strategica del Mezzogiorno. Quel cavallo di battaglia (quasi sempre elettorale), da qualche giorno grazie a Silvio Berlusconi, è tornato a stagliarsi tra Scilla e Cariddi. Ma non ha suscitato il benché minimo interesse nello schieramento di centrodestra e nemmeno in quella parte di opinione pubblica che in passato vedeva nel Ponte sullo Stretto l’occasione di sviluppo e, soprattutto, di riscatto del Sud del Paese.

Quell’antico sogno trasmessoci dai nostri avi sembrava definitivamente tramontato in applicazione di una certa ragion di stato – imposta in passato da un Governo e da un Parlamento della Repubblica – che non ha tenuto conto dei miliardi spesi per progettare l’opera e del grande e complesso lavoro della Società Stretto di Messina, iniziato dal senatore Nino Calarco e proseguita dal Dott.   Pietro Ciucci. – L’idea dell’on. Berlusconi ci lascia in balia di una serie di flashback che riportano in auge ipocrisie, inganni, contrapposizioni tra il Nord europeo e un Mezzogiorno “africano”: tra cittadini di uno stato fondato sul lavoro e lo sviluppo e milioni di sudditi che da Eboli in giù sono costretti ad arrangiarsi.

Personalmente nessun dubbio sulla buonafede del Cavaliere. Anzi.  Nei confronti del leader di Forza Italia da quasi 20 anni resiste quell’empatia nata il 30 marzo 2005 quando l’allora Presidente del Consiglio prese parte all’inaugurazione dall’Auditorium Nicola Calipari del Consiglio regionale della Calabria.

<<== On. Silvio Berlusconi

In quella circostanza, per incarico del mio editore avevo il compito di intervistare il capo del Governo.  Non fu un’impresa facile – dovetti lottare contro il servizio d’ordine e l’insofferenza di politici schierati e di colleghi giornalisti che rivendicavano l’esclusiva- alla fine però realizzai la più bella “marchetta” giornalistica della mia lunga carriera di cronista.

Anni dopo, in un’altra intervista- fatta questa volta ad Arcore da un altro Latella (Giampaolo), il Cavaliere mi mandò in dono tre delle sue belle cravatte. Una resiste al tempo, messa in bella mostra nel settore del mio studio occupato dalla grande Enciclopedia Treccani. E’ rimasta l’ empatia per l’uomo politico. Al momento la mia posizione sul Ponte è agnostica, ma se questa grande opera fosse inserita in un vero progetto di sviluppo del Mezzogiorno sono certo che Nord e Sud farebbero diventare l’Italia la vera locomotiva dell’Europa.

Ipotizzare un progetto di opere infrastrutturali con un razionale utilizzo delle risorse europee già concesse o che arriverebbero in futuro non è certo azzardato: una vera alta velocità ferroviaria tra Salerno e Reggio Calabria che, ovviamente, riguardi anche la Sicilia; l’ambiente, liberando i territori dai rifiuti e i fondali dei mari dalla plastica, da carcasse di auto; interventi sull’erosione delle coste, azioni sull’efficienza dei depuratori; utilizzo di energie da fonti rinnovabili.  E, soprattutto, decisioni contro la corruzione, gli intrecci politica -malavita organizzata, illegalità diffusa. 

A monte ci sono le riforme: sempre invocate e mai realizzate. La madre di tutte è quella relativa alla magistratura che la “Riforma Cartabia” in parte non è riuscita a completare, seguita dalla riforma della pubblica amministrazione e di quella burocratica in chiave di attrazione di investitori esteri. Ma non si possono dimenticare l’etica della politica, l’umanizzazione dei mercati, la ricerca di politiche per ridimensionare il capitalismo finanziario. – Il dubbio tormenta le coscienze di milioni di meridionali che si chiedono chi siano i responsabili della grande arretratezza di quest’area della Penisola nelle cui fondamenta troviamo secoli di civiltà e di cultura.

Responsabilità non sono sempre dello Stato, ma condivise tra i diversi livelli di governo: centrale, regionale, comunale. Come l’Unità d’Italia ha tradito l’idea Risorgimentale, anche la Repubblica, nata dalla lotta partigiana, non è riuscita a dare identiche chance a tutti gli abitanti della Penisola.

Da sempre il Ponte sullo Stretto di Messina è diventata una ricorrente occasione di lotta politica. Quando a sostenere la realizzazione sono le forze di governo, le opposizioni danno fuoco alle polveri del dissenso affidando le loro ragioni a leggende metropolitane e all’alibi della ‘ndrangheta. A ruoli invertiti c’è sempre una componente ideologica, ambientalista, di interessi economici (presenti ancora oggi anche in una o più forze governative) ad impedire di avviare una seria riflessione sull’utilità dell’opera. Nei mesi scorsi, un contributo l’hanno fornito gli imprenditori siciliani e calabresi aderenti a Confindustria che, in un dossier, ne hanno spiegato gli effetti positivi sull’economia e l’occupazione dell’intero Mezzogiorno. Mentre l’attuale Governo e i partiti che ad oggi lo sostengono si limitano al politichese.

Società Stretto di Messina

La presenza del ponte potrebbe diventare un volano di sviluppo di quest’area geografica del Mediterraneo. Milioni di persone sarebbero attratti dalle località turistiche siciliane e calabresi rispetto, se non a tutte, ad alcune tradizionali mete del turismo di massa. Il Ponte grande catalizzatore di investimenti internazionali e un importante snodo di traffici nel mare Nostrum. Il Ponte fa paura, ma non al Sud.

Forse anche per questo, quando stava per diventare realtà, è stato fatto “crollare” prima dell’inizio dei lavori. Una decisione politica, sostenuta da potenti lobbies che in questo Paese decidono cosa bisogna fare o cosa non fare. Senza farsi scrupoli sull’utilizzo di milioni di euro utilizzati per gli studi di fattibilità e per il progetto di massima. Uno spreco all’italiana di cui nessuno è stato chiamato a rispondere. Nessuno ha ritrovato il coraggio d’indignarsi e protestare seriamente. 

Sulla mancata realizzazione del collegamento tra le due sponde dello Stretto è stato apposto il sigillo  dell’atto politico che ha visto protagonisti sia il Parlamento (2011) sia il Governo Monti (2012), mentre la pietra tombale è stata posata il 15 aprile 2013 quando il Presidente del Consiglio dei Ministri dell’epoca, con un decreto, ha posto in liquidazione, con la nomina di un commissario, la società Stretto di Messina S.p.A. “Parce sepulto”. Anche questa decisione fa parte dei misteri dell’Italia Repubblicana: nessuna responsabilità e nessuno sarà chiamato a pagare. E come spesso accade quando a vincere sono le lobbies, i protagonisti di quella stagione sono stati messi da parte.

Il deficit infrastrutturale, in particolare, nel settore dei trasporti e delle reti telematiche, rappresenta un ostacolo alla crescita socio -economica di interi territori. Ecco perché gli industriali siculo -calabri sottolineavano che “la decisione di realizzare un attraversamento stabile nello Stretto di Messina è vitale per l’economia, strategica per gli investimenti pubblici e privati, che sono alla base della crescita economica e dell’occupazione”. Aggiungendo: “La dotazione infrastrutturale nel settore dei trasporti è la spina dorsale dello sviluppo, fondamentale per rimuovere i vincoli della crescita”.

NORD E SUD E LA DIVERSITA’ DEL TRASPORTO SU ROTAIA

Poco è cambiato dall’epoca della “Freccia del Sud”, della valigia di cartone, della fuga dei migliori cervelli. Oggi i nuovi convogli – che nel centro nord sfruttano le caratteristiche strutturali dell’A.V. – da Milano e Torino impiegano ancora troppe ore per raggiungere Reggio Calabria. Da Roma oltre sei ore.  I treni ci sono, ma c’è anche l’inadeguatezza della linea ferrata. Intanto nel Pnrr non esiste traccia dell’Alta Velocità. Ma c’è di più: un’alta percentuale di viaggiatori che prendono posto sulle frecce Rosse o Bianche o su Italo da Sapri fino a Reggio soffre maledettamente il mal di treno. Immaginiamo una Ferrari costretta a percorrere una vecchia provinciale il cui tracciato risale al regno Borbonico.  Eppure questa mendace novità viene spacciata come una grande conquista, una rivoluzione del trasporto pubblico, un grande regalo agli italiani del Mezzogiorno. Ipocrisia di un sistema fondato sugli inganni, sulla corruzione, sulle diseguaglianze e sulle promesse.

Al Mezzogiorno, solo piccoli interventi di maquillage, mentre le grandi opere di ingegneria sociale, propedeutiche allo sviluppo del territorio, in prevalenza, rimangono delle incompiute o, nel migliore dei casi, finite a metà (l’A3 docet!). La cantierizzazione rimane sulla carta, mentre, ed è storia recentissima, la decisione di far ripartire i lavori del tratto della SS 106 che porta in Puglia, diventa l’occasione per indossare il doppio petto, per comparsate televisive, post sui social e titoloni sui giornali.

Fumo negli occhi: un vecchio trucco per impedire la rivolta dei poveri. I quali, ammaliati dai populisti di turno, concedono il consenso elettorale a chi riesce meglio nell’arte di demonizzare gli avversari, a parlare alla pancia degli italiani. Non basta denunciare le ingiustizie, farsi paladini dei bisogni del cittadino pur sapendo che si tratta di propaganda, di populismo e, soprattutto, di disonestà intellettuale. Destra, sinistra, centro, movimenti, liste civiche: protagonisti della commedia degli inganni. E così cambiano gli schieramenti, ma il Mezzogiorno non cambia volto. E come dice il nostro amico Otello Profazio: “Qui si campa d’aria”.

Il Mezzogiorno oggi è interessato sia alla diminuzione delle nascite sia all’ emigrazione: fenomeni che entro due/tre decenni potrebbero dare vita a preoccupanti forme di desertificazione.  In un recente passato lo Svimez ha certificato che il Sud è alle prese con una “Trappola Demografica”. Dal 2000 -riportano nel loro dossier gli imprenditori calabresi e siciliani- “hanno lasciato il Mezzogiorno oltre due milioni di residenti: la metà giovani fino ai 34 anni, quasi un quinto laureati. Il meridione rischia di spopolarsi e questo crollo demografico ha un costo, stimato a oltre un terzo del Pil. Parallelamente alla fuga dal Mezzogiorno cresce il gap occupazionale tra il Sud e il Centro – Nord, che nell’ultimo decennio è passato dal 19,6 al 21,6%. In totale il Sud si ritrova 3 milioni di posti di lavoro in meno rispetto al resto d’Italia. Analogamente – si legge ancora nel dossier – la qualità del lavoro peggiora da Roma in giù. Al Sud aumenta la precarietà che si riduce invece nel Centro -Nord, ma cresce il part-time (+ 1,2%), in particolare involontario, che nel meridione raggiunge l’80% rispetto al 58% del Centro -Nord”.

 La mancanza di infrastrutture di base e la presenza della ‘ndrangheta, diciamocelo senza infingimenti, sono solo alcuni dei tanti alibi per mantenere lo status quo di un Paese a due velocità.  Tutto ciò fa comodo alla politica dominante alla quale spetterebbe il dovere di eliminare gli ostacoli che impediscono lo sviluppo di determinate aree dall’atavica arretratezza. Eppure queste realtà geografiche, ricche di storia, di tradizioni e di incomparabile bellezza, già prima dell’Unità d’Italia furono destinate a rimanere un grande serbatoio di braccia, funzionali alla ricchezza delle regioni nordiche. 

La convinzione che per ogni cantiere che si apra trarrebbe vantaggio solo la malavita organizzata (il che, in parte, è maledettamente vero, ma al “magna magna”, direttamente o in modo indiretto, partecipano tutti) è un atto di sfiducia, un’accusa nei confronti dello Stato: incapace di garantire legalità e giustizia, di difendere la libertà di impresa e di esercitare la forza per garantire la democrazia.  Gli italiani del Mezzogiorno sono stanchi dell’immobilismo della “paura”: repertorio di quelle forze politiche e sociali che da un lato condannano e dall’altro magari fanno affari con l’antistato. I santuari della ‘ndrangheta, già prima della globalizzazione, sono stati trasferiti al Nord dove operano i colletti bianchi della finanza e dove vengono prese le grandi e inappellabili decisioni rispetto alle quali, la manovalanza delle “locali” deve solo obbedire.

A condannare il Sud contribuiscono anche gli stereotipi negativi, le narrazioni che le forze indigene non hanno la potenza, e forse neanche la volontà, di cancellare sostituendoli con nuovi paradigmi socio-culturali ed economici.   I fenomeni sociali hanno un’origine e una fine. E non è certo utopia sperare in un’Italia libera dal condizionamento mafioso. L’origine del fenomeno è conosciuta, ma la fine non arriva per quel sottile confine tra politica e ‘ndrangheta, tra mafia e antimafia

Anche di fronte alla drammatica eredità lasciata dal coronavirus, il Paese si è ulteriormente diviso. Altro che unità. Dopo i morti per la pandemia e i gravissimi danni socio-economici prodotti dall’aggressione putiniana all’Ucraina stiamo assistendo al festival di “chi la spara più grossa”, con uno spezzatino di interventi tampone che stanno provocando proteste, delusioni in quasi tutti i segmenti della vita sociale ed economica. 

Si fa a gara per polverizzare le risorse attualmente disponibili: strategia che, nella legislatura che volge al termine è stata, prima, il collante del precario equilibrio politico, poi il tradimento alla causa anche in nome della pregressa e consolidata fedeltà a madre Russia. Mandare a casa il governo Draghi potrebbe non migliore la grave condizione in cui versa il Paese.  Eppure, l’Italia governata dall’ex presidente della BCE godeva di grande prestigio internazionale e, cosa ancora più rassicurante, dell’appoggio dell’UE. 

Il primo a rischiare è il Sud che – giusto ricordarlo – necessita di grandi opere in grado di modernizzalo e renderlo competitivo nel contesto nazionale e internazionale. Le risorse del PNRR non vanno spese per le realizzazioni di altre cattedrali nel deserto, di opere campanilistiche che, soprattutto nel Mezzogiorno, rimangono delle ferite inguaribili. Ancora una volta si rischia una guerra tra poveri e le promesse non spengono i tanti focolai di malcontento che dal prossimo autunno, con il ritorno alla realtà, potrebbero diventare incendi devastanti. A quel punto il libro dei sogni, infarcito da promesse elettorali, potrebbe diventare un’altra occasione perduta.

Un discorso a parte, infine, merita la politica europea che continua a considerare la solidarietà un optional e non tiene conto degli effetti devastanti prodotti dalla pandemia, di quelli legati all’imperialismo putiniano e  al disegno geopolitico della Cina di Xi Jinping. 

Antonio Latella -giornalista e sociologo

Coltivare il senso del Noi

di Patrizio Paolinelli

Il teologo avventista Hanz Gutierrez ha pubblicato un libro intitolato “La riscoperta del “Noi”. Cronache di una pandemia”, (Claudiana, Torino, 2021, 118 pagg., 12,00 euro). Il testo si concentra sugli effetti emotivi, esistenziali e spirituali provocati dalla diffusione del Covid-19. Si tratta di un riflessione densa di sensibilità, sapere e fede articolata in nove cronache scritte a Firenze dal 7 marzo al 19 dicembre del 2020, ossia durante la prima ondata della pandemia.

Sette delle nove cronache sono precedute dalla presentazione di un libro che vede come protagonista una malattia epidemica: il colera (Garcia Marquez); la poliomielite (Philip Roth) e soprattutto la peste (Sofocle, Tucidide, Lucrezio, Boccaccio, Camus). L’ottava cronaca consiste in una lettura pastorale del Salmo 61 di Davide e la nona in una discussione sul ruolo della teologia nelle crisi che colpiscono il mondo.

Per Gutierrez la pandemia in corso fa riemergere una serie di parole che avevamo dimenticato. Le principali, commentate dall’autore: umiltà, lentezza, solidarietà, vulnerabilità. Altre parole, che il lettore trova o ricava dal testo, sono: paura, vita, bene, giustizia, sacro, immaginazione. Tutte queste parole convergono in una direzione: il Noi. In virtù di tale convergenza il Noi costituisce l’asse centrale attorno a cui ruotano le cronache di Gutierrez. Il quale, in una prospettiva temporale, introduce le nozioni di Noi diacronico e Noi sincronico.

Il Noi diacronico ci collega col passato e con la storia delle epidemie. Eventi che non rappresentano semplicemente una successione di drammi. Oggi come ieri gli esseri umani fanno i conti con la medesima condizione: il disorientamento collettivo provocato da un virus che non si sa bene come combattere. Tale disorientamento connette il passato col presente, il Noi diacronico col Noi sincronico.

Ovviamente nel nostro mondo la medicina è molto avanzata e siamo in grado di contrastare epidemie e pandemie in maniera di gran lunga più efficace rispetto ieri. Nonostante ciò i dilemmi morali restano gli stessi. E le uniche risposte le possiamo trovare in mezzo agli altri e con gli altri: nella comunità, nella fratellanza, nel coltivare il senso del Noi.

Prof Patrizio Paolinelli

Il mondo di seconda mano. Una ricerca sociologica sull’espansione del mercato dell’usato

di Patrizio Paolinelli —

Recentemente la sociologia dei consumi si è arricchita di un importante contributo grazie a Domenico Secondulfo – ordinario di sociologia generale all’Università di Verona – che ha curato una ricerca intitolata, “Il mondo di seconda mano. Sociologia dell’usato e del riuso” (Angeli, Milano, 2016, 31,00 euro). Il libro contiene scritti dello stesso Secondulfo, di Paola Di Nicola, Gian Paolo Lazzer, Lorenzo Migliorati, Francesca Setiffi e Debora Viviani. La novità rappresentata da questo lavoro si può così sintetizzare: si tratta del primo studio sociologico sull’emergente mercato degli oggetti usati.

<<= Prof. Patrizio Paolinelli

Partiamo dai numeri: “Il volume d’affari generato in Italia dall’usato è stato nel 2013, 18 mld, 1% PIL, di cui 7 mld on line (come risulta da un’indagine Doxa commissionata da Subito.it); la Camera di commercio di Milano ha stimato, tra il 2009 e il 2014, un incremento regionale dei punti vendita di usato pari al 40%. Secondo il rapporto nazionale sul riutilizzo del 2013, pubblicato dal Centro di ricerca economica e sociale “Occhio al riciclone”, nel 2013 il 48% degli italiani ha fatto ricorso almeno una volta al mercato dell’usato, on o off line“. La consistente crescita della domanda di beni di seconda mano ha indotto l’Unione Europea a inserire il mercato dell’usato nel piano strategico (2014-2020) che prevede il passaggio da un’economia lineare (basata sulla produzione di scarti) a un’economia circolare (basata sul riuso e il riciclo).

Dinanzi a questi numeri e all’iniziativa dell’Unione Europea emerge in tutta la sua rilevanza un fenomeno dalle ragguardevoli proporzioni economiche fino ad oggi quasi del tutto trascurato dalla sociologia dei consumi. E il motivo di tale disinteresse è dovuto tra l’altro a una sorta di pregiudizio ancora oggi largamente diffuso: si intende per merce solo ciò che è nuovo, solo ciò che non è entrato in contatto col consumatore finale. A ben vedere si tratta di una credenza abbastanza fragile. Perché, per esempio, sarebbe molto complicato sostenere che un’automobile usata non sia una merce. Entra così in gioco il sistema dei valori che permea le società in cui la mistica del nuovo assume un ruolo centrale sotto il profilo simbolico.

Difatti sia per gran parte della sociologia sia per molti consumatori il mercato dell’usato assume i contorni della marginalità, della povertà e persino dello sporco. Come se un cappotto usato non godesse dello status di merce rientrando in un mercato informale, per non dire in un mercato degli esclusi. E per sostenere questo stigma nella nostra società il prodotto nuovo è idealmente considerato un valore in sé, mentre ciò che è vecchio è bollato come un disvalore. Ma come dimostrano i sociologi impegnati nella ricerca curata da Secondulfo le cose stanno cambiando anche sul piano simbolico. Ad esempio la sharing economy valorizza positivamente la condivisione di beni e servizi al di là del possesso personale mettendo così in discussione la mistica del nuovo. Entrano poi in gioco altri valori come la memoria depositata nelle cose tanto cara al consumo critico e che il mercato ufficiale delle merci tenta in qualche modo di recuperare attraverso l’effetto vintage su prodotti nuovi come nel caso dei jeans invecchiati artificialmente con strappi e toppe.

Lo studio del mondo dell’usato è inserito da Secondulfo e dagli altri autori che hanno partecipato alla ricerca all’interno della teoria della cultura materiale cercando di comprendere come i beni di seconda mano stanno gradualmente conoscendo un vero e proprio riscatto culturale caricandosi di nuovi significati. D’altra parte da precedenti studi Secondulfo e i suoi collaboratori avevano notato la tendenza delle famiglie italiane a non gettare le cose trasferendole a parenti o amici oppure cercando di ripararle. Successive ricerche hanno poi evidenziato che il fenomeno è in espansione fino a diventare un vero e proprio mercato parallelo. Oggi non è più l’usato nobile come l’antiquariato e il vintage ha occupare la scena nel mondo di seconda mano ma anche l’usato ordinario. Tant’è che molti punti vendita di tale usato stanno sempre più somigliando ai negozi che vendono merce nuova di zecca.

L’espansione del mercato dell’usato è legata a due fattori: da un lato, la lunghissima crisi economica che impone alle famiglie di riutilizzare il più possibile una vastissima gamma di prodotti; dall’altro, la consapevolezza da parte di una massa crescente di consumatori dei problemi ambientali causati dallo spreco a cui si è indotti dalla religione dei consumi. Entrambi i fattori stanno permettendo al mondo di seconda mano di uscire dallo stigma della povertà e dall’essere rappresentato come un mercato di scarsa rilevanza. Non basta. C’è un’altra dimensione che contribuisce al successo dei prodotti di seconda mano: quella estetica. A differenza dell’oggetto nuovo, che la martellante pubblicità incita ad acquistare soprattutto in base a un’estetica della seduzione, l’oggetto usato si fonda su un’estetica del ricordo permettendo così al consumatore di uscire dal gregge di chi segue la moda e di personalizzare il proprio modo di apparire agli occhi degli altri.

Il mondo di seconda mano” è un libro che sollecita molte riflessioni. Ne propongo brevemente una partendo da una domanda: stiamo uscendo dalla società dei consumi? In parte sembrerebbe sì. E l’espansione del mercato dell’usato parrebbe confermarlo. Allo stesso tempo risulta difficile immaginare che lo stile di vita fondato sul consumismo si estinguerà senza una violenta reazione da parte dei poteri economici. I quali, tanto per dirne una, non vivono i problemi ecologici causati dallo spreco e dall’usa e getta come un dramma. Ma, al contrario, come un’ulteriore occasione per realizzare profitti. Per farla breve, il capitalismo si fonda essenzialmente sulla distruzione. Che ci capiti di mezzo l’ambiente è per banche e grande industria del tutto secondario. Non a caso è stata inventata quella truffa ai danni dei consumatori qual è l’obsolescenza programmata. Naturalmente questa è una riflessione che nasce dalla mia personale interpretazione del libro curato da Secondulfo. Ma credo che ogni lettore troverà molti altri motivi per riflettere sul dominio della forma-merce che sta portando le nostre società a soffocare tra i rifiuti.

Prima di chiudere mi sia concesso di dire due parole sul prezzo del libro. 31 euro per un testo accademico stampato col contributo del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Studi di Verona (dunque senza rischi per l’editore) e destinato al mercato universitario (dunque senza rischi per gli autori) è davvero troppo. Sorvolando sulla presenza di diversi refusi “Il mondo di seconda mano” è tuttavia un libro che consiglio di leggere. Che fare allora? Semplice: compratelo usato.


L’era del caos: non siate resilienti, restate umani

di Emilia Urso Anfuso

Mala tempora currunt: nel 2020 è esplosa la pandemia da cui non siamo ancora usciti a causa delle continue varianti. Piaccia o meno, saremo costretti a convivere con questo tipo di problematica e attendere, giorno per giorno, le evoluzioni e le decisioni di chi governa le nazioni.

dott.ssa Emilia Urso Anfuso

Quando la tensione sembrava allentarsi…boom! Ecco arrivare il conflitto tra Russia e Ucraina. Addio bei discorsi sui decenni di pace assoluta sul territorio europeo. Non intendo in questo caso analizzare la bontà delle misure intraprese dai paesi membri dell’Alleanza Atlantica, tra sanzioni e forse qualche mancanza in termini di diplomazia, ma posso almeno valutare che la condizione economica e sociale, dalle nostre parti, non sta sicuramente mostrando il suo lato migliore.

Una sola cosa si può affermare senza patema di sbagliare: in tutto il mondo siamo messi male, anzi, malissimo. Le filiere produttive, a 360°, sono compromesse da questi due eventi di grandi proporzioni, pandemia e guerra, i rialzi dei costi delle materie prime si abbattono sulla quotidianità di milioni di nuclei familiari: è uno scenario da incubo e non si riesce a intravvedere la fine di tutto questo, non nel breve periodo.

Inflazione: mai così alta dal 1986

Tutto questo ha riportato un paese come l’Italia indietro di oltre 35 anni, esattamente al 1986, quando l’inflazione era davvero schizzata a livelli insostenibili. Si inizia ora a parlare di stagflazione, un termine che, quando è necessario applicarlo, mostra la terribile situazione che si sta vivendo: un aumento esagerato dei prezzi a cui non corrisponde una crescita dell’economia. Ci avviamo verso un processo di recessione di proporzioni importanti, manca una possibile analisi in prospettiva semplicemente perché è impossibile avviare un’analisi.

Alcuni potrebbero eccepire che nel corso della Storia si sono già vissuti periodi simili e che nazioni quali l’Italia ne sono uscite egregiamente. Sì, ma è troppo facile guardare al passato, metodo che oltretutto non consente di riflettere sul presente e sul futuro a breve termine. L’Italia è stata sicuramente una grande nazione, ma continuare a ritenere che questa immagine, portata avanti al pari di un vessillo, ci salverà dai morsi degli accadimenti è almeno infantile. E’ anche necessario riflettere sui cambiamenti sociali: dopo la Seconda Guerra Mondiale il popolo italiano è stato in grado di ricostruire una nazione, col sudore della fronte e con la capacità di lavorare insieme.

Oggi sembrano mancare gli elementi fondamentali affinché un simile miracolo possa essere replicato. Si osserva, semmai, tanto livore e poca voglia di rimettersi in gioco riconoscendosi come parte integrante della collettività. In tutto questo, personalmente penso che la pandemia e una errata narrazione della stessa da parte del governo e degli opinionisti televisivi, abbia contribuito a generare un maggior livello di individualismo, che è l’esatto opposto di ciò che serve per rigenerare un sistema paese.

Tanta tecnologia e poco progresso

E’ particolare osservare come, di pari passo a una grande accelerazione in ambito tecnologico, non stia corrispondendo un vero progresso. Almeno dalle nostre parti. Più si progredisce a livello tecnologico, digitale e scientifico, maggiore appare la distanza per raggiungere un livello di civilizzazione e modernizzazione di livello almeno accettabile.

Una sorta di imbarbarimento umano, evidentemente sviluppatosi a causa di una miscela composta di paura, insicurezza e opacità sulle sorti di ogni singolo individuo, sta distruggendo la possibilità di marciare oltre le criticità di questo periodo storico così pesante, contribuendo a rendere di difficile soluzione molti aspetti della nostra quotidianità, qualsiasi saranno le evoluzioni in termini di pandemia, conflitto, modifiche all’assetto politico e sociale.

Resilienza? No, grazie

In tutto questo, appare evidente un fatto: gli umani sono ormai rigorosamente gestiti da chi governa le nazioni. Non è certo una novità, ma si può affermare che si è compiuto l’ultimo metro di distanza che mancava per ottenere la gestione totale di ogni singola esistenza. Non è un male quando questa gestione è operata per il bene comune, ma chi può dire di fare solo del bene per la collettività? Ho molto da dire sul criterio di resilienza, che se è ammissibile in campo ingegneristico non può esserlo in campo psicologico.

Non voglio essere “resiliente” e quindi “far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici” se questi eventi, in alcuni casi, scaturiscono da misure governative inique. Un esempio tra i troppi: se la politica sperpera denari pubblici, se non li destina alle imprese affinché possano continuare a produrre e quindi a garantire i posti di lavoro, non si può chiedere ai lavoratori licenziati di essere “resilienti“.

Diverso è il discorso degli esseri umani capaci, per carattere, ad affrontare i momenti negativi della vita con forza, volontà e coraggio. Fare confusione sul significato di questo termine è parte integrante di un sistema politico che sta tendendo sempre più all’utilizzo di metodi che sento di poter definire…bizzarri.

Non siate resilienti e nemmeno sterilmente ottimisti. Semmai, siate realisti.

Il consiglio che mi sento di dare a tutti è quello di restare lucidi, di non cedere di fronte al caos imperante e alle incognite che si presentano con una velocità accelerata rispetto a un tempo.

Osservare, giorno dopo giorno, i fatti che accadono e restare saldamente ancorati a terra può contribuire a generare quell’ombrello di protezione che va aperto ogni qualvolta si presenta un temporale improvviso. Quando le soluzioni non dipendono dalle nostre scelte e decisioni, l’unico metodo per non beccarsi un fulmine in testa è quello di continuare a osservare il cielo e mettersi al riparo se le nubi si gonfiano e sentiamo i tuoni in lontananza.


Il neoliberismo è causa dell’infelicità

di Patrizio Paolinelli

Sarà perché vivere nelle società postindustriali è un vero e proprio affanno che il tema della felicità è tornato di recente a interessare parecchi studiosi. Domenico De Masi è intervenuto sull’argomento con un tascabile intitolato, La felicità negata, (Einaudi, Torino, 2022, pp.137, 12,00 euro).

Per De Masi la ricerca della felicità dipende da come la nostra società affronta le sfide del progresso e della complessità. A queste sfide la nostra cultura ha dato due risposte diametralmente opposte: quella della Scuola di Francoforte e quella della Scuola di Vienna.

Prof. Domenico De Masi – sociologo =>

I francofortesi della prima generazione daranno vita a una critica radicale della sovrastruttura sociale. L’ideologia, la famiglia, l’estetica, l’informazione, la cultura di massa, la tecnologia, l’organizzazione dei consumi, i modelli dell’autorità e lo Stato vennero analizzati come mezzi per dominare gli individui all’interno di una società capitalistica fondata sulla mercificazione di ogni cosa. Come è noto la Scuola di Francoforte ispirerà i movimenti di contestazione giovanile degli anni ’60 e ’70 del Novecento, i quali ritennero la società borghese un pervasivo sistema di dominio e un impedimento alla ricerca della felicità. Pertanto andava costruita un’altra società. Una società più libera, più giusta, più umana.

La risposta della Scuola di Vienna ai francofortesi sarà altrettanto radicale, ma a completo favore della borghesia. Meglio ancora, dell’élite borghese. I suoi teorici si sbarazzarono degli economisti classici che ipotizzavano la felicità collettiva e fondarono il neoliberismo. Dottrina che più che alla felicità guarda all’accumulazione della ricchezza senza farsi alcuno scrupolo morale, considera il lavoro una merce e i sindacati un problema, ha travolto le istanze di emancipazione dei francofortesi e da lungo tempo presiede pressoché incontrastata sia le politiche economiche dei governi sia la globalizzazione dei mercati.

I neoliberisti hanno reso più felici i cittadini delle società avanzate e più in generale gli abitanti del pianeta? Nient’affatto. Le loro risposte alle sfide del progresso e della complessità hanno causato disuguaglianze sociali sempre più marcate, disoccupazione, precarietà, instabilità, violenza sulle persone e sull’ambiente. Hanno dunque fallito? No, e da questa negazione scaturisce la tesi di De Masi: il neoliberismo ha come obbiettivo l’infelicità. Dunque non lo si può accusare di aver fallito proprio perché nega la felicità.

È chiaro tuttavia che l’infelicità prodotta dal neoliberismo è ormai insostenibile. Occorre invertire la rotta e il banco di prova della felicità sarà il lavoro. È necessario trasformarlo partendo dalla netta riduzione della giornata lavorativa, la garanzia di un reddito universale e l’ozio creativo, ossia: “la soave capacità di coniugare lavoro per produrre ricchezza con lo studio per produrre conoscenza e con il gioco per produrre allegria.”

Prof Patrizio Paolinelli

Il borgo come luogo dello spirito

di Patrizio Paolinelli

Piccolo è bello, vero e giusto. Sembra essere questo il messaggio lanciato dal filosofo Gianluca Galotta col suo libro: “Paesofia. Filosofia e viaggi nei piccoli paesi”, (La Scuola di Pitagora editrice, Napoli, 2021, 174 pagg., 15,00 euro).

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

In quest’opera l’autore individua nei piccoli borghi i luoghi ideali per avviare un percorso interiore. Un percorso non turbato dall’eccitazione perenne a cui è sottoposto l’abitante della città. Galotta riprende così le suggestioni di Simmel sull’uomo metropolitano, obbligato a un atteggiamento distaccato e indifferente per resistere alla sovrastimolazione sensoriale imposta dalle grandi concentrazioni urbane.

Paesofia va oltre questa premessa. Seppur in forma divulgativa il libro si occupa del rapporto tra spazio, tempo e filosofia. Rapporto che Galotta affronta con la delicatezza di chi ha tra le mani oggetti preziosi e fragili quali sono i piccoli paesi. In parecchi dei quali la popolazione cala di anno in anno. Tanto che per contenere lo spopolamento le amministrazioni locali si spingono a offrire case a prezzi irrisori in modo da richiamare altri abitanti.

La lotta di quest’Italia per evitare di sparire riempie di tanto in tanto le cronache dei giornali, è oggetto di convegni e da ultimo di una letteratura di viaggio i cui autori sono attratti dalla quiete, dall’intimità, dall’armonia dei borghi. Luoghi decongestionati dall’eccesso di presenza umana, dal traffico automobilistico, dall’onnipresente pubblicità.

Se da un lato le grandi città offrono opportunità che sono impossibili per i piccoli centri, dall’altro, sottraggono agli individui la loro principale caratteristica: l’umanità. In altre parole, la grande città genera un mondo poco umano o, addirittura, disumano. Per Galotta il processo di riumanizzazione può avvenire proprio nei piccoli paesi: contesti ideali nei quali è possibile concentrarsi su sé stessi per ritrovarsi.

I piccoli paesi costituiscono dunque i luoghi privilegiati dello spirito. E, in quanto tali, luoghi dove è possibile esercitare il pensiero filosofico. Con una scrittura piena di tatto e sobrietà Galotta mette in relazione le teorie di una serie di filosofi (da Epicuro a Nietzsche, da Sant’Agostino a Rousseau e così via) con i piccoli paesi. Grazie al loro silenzio, alla natura che li circonda, ai ritmi di vita rallentati e alla qualità dei rapporti umani è nei borghi, più che altrove, che si può riflettere sulla vera essenza delle cose.


Riflettere sullo smart working

di Patrizio Paolinelli

Lo smart working non rappresenta una discontinuità con le politiche di smantellamento delle tutele del lavoro messe in atto da trent’anni a questa parte dai governi dei più diversi colori politici. Al contrario, può condurre al loro definitivo compimento. È questa la tesi sostenuta da Savino Balzano in un libro dal titolo inequivocabile: “Contro lo smart working”, (Laterza, Bari-Roma, 2021, 104 pagg., 12,00 euro). Diciamo subito che l’autore non è affatto contrario allo smart working in quanto tale. Semplicemente si interroga sul suo utilizzo generalizzato guardando più ai fatti che alle parole e tenendo conto della guerra al lavoro condotta dal neoliberismo.

Nell’affrontare il tema Balzano avverte che lo smart working non rappresenta una novità perché era già stato introdotto, ben prima dello scoppio della pandemia, con la legge n. 81 del 2017 e denominato con l’espressione lavoro agile. In secondo luogo, lo smart working emergenziale, imposto per contenere la diffusione dei contagi, ha presentato diverse affinità con il telelavoro.

<<== Prof. Patrizio Paolinelli

Nell fase pandemica il lavoro agile si è configurato come una sorta di lavoro a domicilio mediato dalla tecnologia digitale. Tuttavia, proprio la sua diffusione ha fatto venire l’acquolina in bocca ai datori di lavoro (pubblici e privati) per i vantaggi che si sono immediatamente palesati. Innanzitutto, il risparmio su una serie di voci che impattano sul costo del lavoro: buoni pasto, straordinari e trasferte. A cui vanno aggiunti i risparmi sulle utenze per mancato utilizzo delle sedi: luce, acqua, gas, condizionamento e pulizie. Ma il vantaggio forse più importante è quello che i datori di lavoro otterranno in prospettiva: destrutturare ulteriormente la comunità del lavoro separando e isolando i dipendenti.

I quali, operando da casa, hanno minori opportunità di aggregazione. D’altra parte, la comunità del lavoro si crea con la compresenza fisica, con la condivisione di spazi comuni, con lo scambio de visu di idee e opinioni, con l’istituzione di gruppi formali e informali, con la partecipazione alla vita aziendale e a quella sindacale. L’eventuale istituzionalizzazione dello smart working di massa fa deflagrare questo modello di socializzazione. E quello on-line non è che un surrogato come la pandemia ha dimostrato.

La disgregazione della comunità del lavoro è l’aspetto che maggiormente preoccupa Balzano. Si tratta di un processo implacabilmente perseguito dalle classi dominanti dalla fine degli anni ’80 a oggi. Dal pacchetto Treu al Jobs Act, pezzo dopo pezzo è stato smontato il sistema di tutele del lavoro fondato sul dettato costituzionale. Il suo posto è stato progressivamente occupato da una pletora di contratti a tempo determinato e da una flessibilità sempre più spinta. A ogni controriforma del lavoro politici e giornalisti hanno fatto a gara nel sostenere che c’era un prezzo da pagare per uscire dalla crisi, rivitalizzare il mercato, attrarre investimenti stranieri, favorire l’occupazione. Per i lavoratori il risultato è stato una perdita netta: meno diritti, meno occupazione, maggiore precarietà, maggiore incertezza.

Tale risultato ha sfibrato i legami che tenevano unita la comunità del lavoro e per di più ha messo i lavoratori gli uni contro gli altri: coloro che sono senza diritti (stagisti, precari, lavoratori in nero, finte partite IVA) si scagliano contro coloro che ancora qualche diritto lo conservano in una corsa al ribasso che fa gli interessi dell’impresa. La guerra tra poveri è poi alimentata da continue campagne stampa finalizzate a mettere i figli disoccupati contro i genitori occupati, gli impiegati pubblici contro quelli privati, i lavoratori contro i pensionati. Più di recente invece è partita la campagna “Dimenticate il posto fisso” i cui testimonial sono in genere giornalisti, docenti universitari, esperti, politici. Nella maggior parte dei casi si tratta di personaggi che hanno il posto fisso o solide posizioni economiche.

È su questo sfondo, descritto con rapidi ed efficaci tratti da Balzano, che si colloca l’attuale narrazione sulle magnifiche sorti e progressive dello smart working. Uno dei passaggi più seducenti di questa narrazione recita così: “Puoi lavorare dove vuoi e quando vuoi, l’importante è il risultato.” Alla fiaba Balzano contrappone la realtà. E la realtà dimostra che l’immagine del lavoratore in spiaggia sotto l’ombrellone a sbrigare pratiche d’ufficio col suo portatile va considerata una finzione pubblicitaria. E così come la finzione pubblicitaria ha come obiettivo il portafogli del consumatore e non la sua felicità, allo stesso modo l’esaltazione dello smart working di massa ha come obiettivo l’azzeramento del concetto di orario di lavoro e non un incremento del tempo libero.

È già così nelle multinazionali che con lo smart working e i dispositivi tecnologici vampirizzano la vita dei propri dipendenti. Si dirà: ma il contratto stabilirà il diritto alla disconnessione. Sì, sulla carta. Nella realtà non è e non sarà così. Facciamo un esempio. La pubblica amministrazione si accinge a reclutare alcune centinaia di migliaia di giovani con un contratto triennale. Se il capoufficio ti telefona quando in teoria non dovresti essere reperibile che fai? Non rispondi?

Con lo smart working di massa lo spazio-tempo all’interno del quale fino a ieri si strutturava la vita in fabbrica e in ufficio subisce una trasformazione che non migliora la condizione dei lavoratori. Già durante la pandemia abbiamo visto che stando a casa si lavora di più e si guadagna di meno. Ma a parte questo aspetto, Balzano fa notare quanto l’assenza di una sede di lavoro recida il valore più importante per la rivendicazione dei diritti: la solidarietà. Se non c’è solidarietà non c’è comunità. Se non c’è comunità non c’è protesta. Se non c’è protesta non c’è difesa dei diritti. Ecco perché potere economico, potere politico e potere mediatico hanno tutto l’interesse a spingere verso la massima estensione dello smart working. L’obiettivo è un mercato del lavoro trasformato in una sorta di far west dove vige la legge del più forte, ossia della proprietà. Più o meno il modello statunitense. 

Con lo smart working il metro di misura per valutare la capacità del dipendente è spostato dal tempo di lavoro al raggiungimento dell’obiettivo. Dinamica che ha come conseguenza necessaria l’implementazione di meccanismi di rilevazione quantitativa della prestazione esattamente come accade oggi col lavoro gestito dalle piattaforme digitali. Si tratta di un altro passo in avanti per separare la retribuzione dall’orario di lavoro. Il rischio è che poi si arrivi a generalizzare il cottimo: più lavori, più guadagni. Uno scenario di questo tipo favorisce la concorrenza spietata tra lavoratori e un aumento a dismisura dello stress da lavoro correlato. Se si aggiunge che lo smart working comporta una maggiore sorveglianza da parte della proprietà, la deresponsabilizzazione dell’impresa in materia di sicurezza e praticamente l’impossibilità di scioperare risulta chiaro quante incognite presenti lo smart working. Il merito del piccolo e prezioso libro di Balzano è quello di opporre alla narrazione dominante una riflessione critica di cui oggi si è persa l’abitudine.


Le responsabilità del potere e il potere della responsabilità

di Patrizio Paolinelli

Dinanzi al continuo susseguirsi di scandali che investono la pubblica amministrazione, il mondo politico e quello imprenditoriale si sente spesso dire che “In Italia nessuno si assume le proprie responsabilità”.

<<= Prof. Patrizio Paolinelli

In genere con questa affermazione si intendono diverse cose: 1) gli attori coinvolti nello scandalo faranno di tutto per sottrarsi alla punizione; 2) la tecnica dello scaricabarile impedirà di individuare i colpevoli; 3) dei maggiori responsabili nessuno pagherà; 4) nel nostro Paese esiste una sorta di impunità delle classi dirigenti in virtù della quale le persone coinvolte nello scandalo se la caveranno, al massimo si troverà un capro espiatorio che coinciderà quasi sempre con un pesce piccolo.

Questa elaborazione del senso comune contiene parecchi elementi di verità ma non tiene conto, da un lato, che l’emergere della corruzione è di per sé un fatto positivo anche se estremamente preoccupante date le sue dimensioni, e, dall’altro, che la responsabilità a cui fa riferimento è di tipo giuridico, cioè deriva da una norma che impone un dovere. Su questo piano l’ordinamento giuridico è assai complesso e suddivide la responsabilità in civile, penale, patrimoniale e così via. Dunque sarebbe più opportuno affermare che nessuno in Italia si assume la responsabilità giuridica. Anzi, il ginepraio di leggi e norme è utilizzato proprio per farla franca. In proposito basti pensare all’uso spregiudicato dell’istituto della prescrizione.

Raramente e per lo più di sfuggita nelle chiacchiere dei bar e dei talk-show si sente parlare di responsabilità morale. Probabilmente perché è la più difficile da cogliere in quanto strettamente connessa con la dimensione culturale dove il criterio di imputabilità per la mancanza di responsabilità si intreccia col portato storico di un Paese coinvolgendo interi gruppi sociali e in particolare i ceti dominanti. Eppure la riflessione sul concetto di responsabilità è andata molto avanti fino a implicare con Hans Jonas l’estensione di tale concetto alle conseguenze future delle azioni umane. Insieme alla bioetica la questione ambientale era una di quelle che stavano maggiormente a cuore al filosofo tedesco. Jonas esortò la tecnologia a prendere consapevolezza dei suoi effetti deleteri sulla biosfera sostenendo con forza il criterio di responsabilità umana nei confronti della natura.

Il precetto che formulò non ammetteva equivoci: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza della vita umana sulla terra”. Jonas scrisse queste parole nel 1979 e il suo libro, “Il principio di responsabilità“, ebbe grande risonanza e continua a esercitare la sua influenza ancora oggi. Ma, come è sotto gli occhi di tutti, non sembra abbia convinto le élite al potere, o se non altro non la sua maggioranza. E proprio il potere – la sua conquista, detenzione e diffusione – pare costituire oggi il fattore maggiormente critico in rapporto all’idea di responsabilità. Si tratta allora di stabilire, se non la natura, quantomeno alcune caratteristiche determinanti del potere nella nostra società.

Gli ultimi tre decenni hanno sancito un passaggio storico: la politica sta diventando sempre più l’ancella dell’economia. In parole povere i Consigli di Amministrazione delle grandi imprese, delle banche, delle assicurazioni e le organizzazioni degli imprenditori condizionano pesantemente le decisioni dei partiti e dei parlamenti in diverse materie. La vulgata giornalistica e alcuni osservatori sociali sostengono che si tratta di un fenomeno tipico delle democrazie mature e che non c’è nulla di cui preoccuparsi. È così negli USA e dunque deve essere così ovunque. Francamente pensiamo l’esatto contrario perché da quando il mercato domina incontrastato sulla società la responsabilità nei confronti del prossimo, dell’ambiente e del futuro sembra arretrare più che avanzare.

Tant’è che la politica cerca di correre ai ripari. L’Unione Europea ad esempio ha da tempo istituito tutta una serie di norme finalizzate a incentivare la responsabilità sociale dell’impresa. Per ottenere determinate certificazioni le aziende si confrontano con le implicazioni etiche del loro agire impegnandosi a rispettare determinati standard a tutela dei lavoratori e del territorio. La discussione sull’efficacia delle raccomandazioni da parte dell’Unione Europea è aperta e tra gli economisti c’è chi sostiene che la corporate social responsibility sia più un fatto di immagine che di sostanza. Senza entrare nel merito del dibattito di certo la questione ambientale è ormai un’emergenza planetaria: consumiamo più risorse di quante il pianeta ne produca e il riscaldamento globale sta generando pesanti sconvolgimenti climatici.

Papa Francesco con la pubblicazione dell’Enciclica sulla cura della casa comune, “Laudato sì‘”, ha assunto una posizione molto ferma: occorre cambiare stile di vita, occorre maggior senso di responsabilità da parte di tutti. Quanto Papa Francesco abbia colto nel segno lo dimostra la tiepidissima accoglienza della stampa mainstream rispetto alla sua proposta di uno “sviluppo sostenibile integrale”.

Un secondo fattore che caratterizza il potere nelle nostre società è costituito dal primato del consumatore sul cittadino. Zygmunt Bauman è senz’altro uno dei sociologi che maggiormente hanno insistito su questo punto ritenendolo centrale nella sua elaborazione della modernità liquida, dove nulla è permanente e non ci sono valori di riferimento. L’homo consumens è funzionale al ridimensionamento dei diritti sociali rivendicati dal cittadino. Anzi si può dire che è il tipo umano prodotto da trent’anni di neoliberismo. L’homo consumens è libero di comprare ogni cosa, di scegliere ad esempio tra una gamma sempre rinnovata di automobili ma è facilmente percepibile quanto questa libertà sia in realtà una costrizione a comprare.

Non è più il bisogno a muovere il consumatore ma il desiderio. Il bisogno è finito, caratterizza cioè una mancanza che può essere soddisfatta (se ho fame mangio e una volta sazio mi occupo d’altro). A differenza del bisogno il desiderio invece è infinito e non può mai essere soddisfatto. In gran parte i desideri dell’homo consumens sono determinati dalla pubblicità. La quale è una branca del marketing e ha tra i suoi scopi quello di far nascere nel consumatore un senso di frustrazione: il tuo corpo non è abbastanza tonico? Compra questa crema e ringiovanirai. Sempre in crisi con se stesso e sempre pronto ad acquistare le soluzioni offerte dal mercato l’homo consumens se ne infischia della responsabilità verso il mondo. Anche volendo non ha tempo, preso com’è dalla spirale produzione-consumo.

Il neoliberismo sta costruendo un mondo a sua immagine e somiglianza. Un mondo dove tutto è quantificabile e mercificabile e dove la qualità della vita si misura col conto in banca. L’ideologia che lo muove non teme di provocare guerre o catastrofi naturali. Al contrario, le calamità sono trasformate in business. Dopo i disastri si dovrà pur ricostruire. Insomma su un piano meramente affaristico l’irresponsabilità conviene quanto e talvolta più della responsabilità. Il dissesto idrogeologico del nostro Paese sta lì a dimostrarlo. D’altra parte il neolibersimo ha trovato in Italia un terreno fertile perché ben concimato dal familismo amorale. Ci rendiamo conto che questa categoria sociologica presenta aspetti critici e non è immune dallo sguardo del conquistatore. Tuttavia un nocciolo di verità lo contiene. E’ innegabile che tra gli italiani ci sia la tendenza a massimizzare nel breve termine i vantaggi materiali della propria famiglia ritenendo che anche gli altri si comportino allo stesso modo. Quest’atteggiamento è un invito alla deresponsabilizzazione nei confronti della società.

Atteggiamento che, solo per fare un esempio, possiamo constatare nel fenomeno delle discariche abusive. Si può invertire questa rotta? Si può passare dall’irresponsabilità sostenuta dal neoliberismo alla cittadinanza responsabile? Sì, si può, anche se la strada da percorrere è tutta in salita. I movimenti ambientalisti, il consumo critico, le proposte di Papa Francesco sono tutte realtà che lasciano sperare di passare dalla mancanza di responsabilità del potere al potere della responsabilità.


Dal collocamento diretto alle politiche attive del lavoro. Quale futuro per un servizio fondamentale?

di Barbara Lattanzi

Alla fine dello scorso secolo nascono, dalle ceneri del sistema del collocamento, i centri per l’impiego come presidi territoriali volti a tutelare, in maniera nuova e più complessa, il diritto di tutti a partecipare al mercato del lavoro. Il mondo e il sistema produttivo erano mutati, le tecnologie si avviavano a una sempre maggiore informatizzazione e le telecomunicazioni lasciavano intravedere un futuro oltre le aspettative di Marshall MacLuhan. 

<<== Dott.ssa Barbara Lattanzi

La produzione, i servizi, le amministrazioni sarebbero mutati: tecnologie e nuove macchine, sempre più governate dalla cibernetica e l’informatica necessitavano di altre forme di gestione, di lavoratori nuovi e con competenze sempre più specifiche. Sarebbero nati infatti nuovi istituti professionali e di lì a poco gli stessi programmi scolastici avrebbero dovuto adeguarsi alle nuove materie di insegnamento. Il sistema di produzione fordista, che un tempo aveva spinto l’efficienza delle fabbriche al punto da avviare l’inizio dell’epoca dei grandi consumi pian piano veniva sostituito da nuovi metodi organizzativi e gestionali. Nel 2000 l’operaio non era più il lavoratore manuale poco istruito, ma un esperto governatore di macchinari con competenze informatiche. Uno solo di questi lavoratori produceva, gestendo le manovre di robot, quanto 15 addetti alla catena di montaggio. Nel ventesimo secolo l’uomo non è più parte della macchina ma suo conducente.

Nel frattempo si modificavano flussi migratori, cambiavano le valute e, insieme ad essi,  i valori, le aspirazioni, i bisogni, i diritti.

Il secolo scorso attuava il diritto al lavoro secondo un sistema di collocamento generico per mezzo di graduatorie, ma nel ventesimo secolo non esisteva più il lavoro in quanto tale, sostituito sempre più dalle competenze professionali specifiche, trasversali e specialistiche. Il diritto quindi si è trasformato dal diritto ad essere incluso in una lista da collocare presso una qualsiasi posizione non qualificata, al diritto ad ottenere i servizi necessari per sviluppare una propria professionalità seguendo le inclinazioni personali e i fabbisogni del tessuto produttivo, e ottenendo tutte le informazioni e l’accompagnamento per orientarsi nella giungla del mercato del lavoro.

L’abolizione delle province con Legge 56/2014 ha travasato la governance dei centri per l’impiego verso le Regioni, secondo un modello di competenze concorrenti sancito nel titolo V della Costituzione, laddove le politiche passive del lavoro sono di competenza del welfare dello Stato per mezzo di Inps, mentre le politiche attive del lavoro – l’inclusione occupazionale vera e propria – sono in carico alle Regioni.

Sia lo Stato che le Regioni possono accreditare servizi privati di formazione e di intermediazione per il recruiting. Queste agenzie private  possono entrare in gioco per alcune mansioni (essenzialmente erogazione di singoli servizi mirati). La formazione professionale breve, sempre più importante, è spesso erogata da enti privati con finanziamenti regionali

Come si può intuire questo modello territoriale, ereditato dagli uffici di collocamento del secolo scorso, è ormai completamente sorpassato dagli sviluppi delle modalità di produzione e dalle innovazioni del lavoro  nel secolo dello smart working, del telelavoro e delle nuove frontiere dei mezzi di comunicazione e trasporto.

La mancata riforma delle politiche attive del lavoro secondo le reali esigenze e gli sviluppi tecnologici dei servizi e del tessuto produttivo tende a rendere le procedure troppo burocratiche e farraginose, poco personalizzate e a rischio di risultare inconcludenti. A fronte dei molti piani e programmi – alcuni con finanziamenti europei come Youth Guarantee – i servizi sembrano irrigiditi su norme che rispondono a criteri astratti più che a reali fabbisogni. Distanza che si cerca di ricuperare con metodi di valutazione dei percorsi degli utenti quali la profilazione quantitativa, che dà luogo a indici di occupabilità individuali; e qualitativa, che misura la distanza dai servizi per l’impiego e dalle strategie di ricerca di lavoro. Recentemente, anche grazie al PNRR, si sono introdotti programmi focalizzati sulla formazione, aggiornamento e perfezionamento delle competenze, al fine di colmare eventuali lacune che generano disoccupazione strutturale dovuta alla velocità di mutamento tecnologico e produttivo.

La Legge 28/2019 – nota come Reddito di Cittadinanza – ha inoltre modificato i criteri per la definizione della disoccupazione amministrativa, che può ora riferirsi anche a chi possiede un contratto di lavoro o partita iva se non raggiunge una soglia di reddito corrispondente alla soglia di esenzione fiscale (per la distinzione tra disoccupazione statistica e amministrativa rimando a un mio breve saggio elencato sotto, tra i testi consigliati). Questa innovazione nel concetto di disoccupazione è spesso stata sottovalutata, anche a causa della forte lotta politica che si è scatenata intorno a questa misura, identificata spesso con un mero sussidio che potrebbe essere facilmente elargito a degli immeritevoli (personalmente giudico questo tipo di affermazioni con particolare severità). In realtà è proprio questo punto, il criterio di autonomia economica, a suscitare importanti riflessioni sul diritto ai servizi, il rapporto tra povertà e lavoro, dumping salariale tipico degli ultimi anni, strumenti metodologici di rilevazione dei fabbisogni e di ideazione e pianificazione di strategie di intervento.

Questa è una delle tante sfide che il nostro paese, stremato da emergenze e decisioni dolorose – forse a volte anche discutibili – si appresta ad affrontare, mentre l’inflazione morde il potere d’acquisto e l’Unione Europea vara una direttiva sul salario minimo orario ancora troppo vaga e poco incisiva.

Barbara G.V. Lattanzi – sociologa

Testi consigliati per approfondimenti

A.A.V.V., In-work poverty in Italy – European Social Policy Network (ESPN) – European Commission on Employment, Social Affairs & Inclusion 2018

A.A.V.V., Rapporto nazionale dell’Eurobarometro 94; Eurobarometro, 2021

A.A.V.V., Le politiche attive del lavoro in Italia. Primo rapporto annuale congiunto; Agenzia Nazionale per le Politiche attive del Lavoro, 2019

A.A.V.V., Navigator a vista. Storia e storie del reddito di cittadinanza; Mimesis 2021

De Masi Domenico, Smart working. La rivoluzione del lavoro intelligente; Marsilio editore, 2020

Lattanzi Barbara G.V., Lavoro e inclusione sociale per vincere disoccupazione e povertà; Edizioni HB, 2020

Tridico P. e Pariboni, R. (2017b), Structural Change, Aggregate Demand and the Decline of Labour Productivity: A Comparative Perspective, (Working Paper 221), Dipartimento di Economia Roma Tre


Decostruire il potere della comunicazione

di Patrizio Paolinelli

All’età di 96 anni Franco Ferrarotti non smette di riflettere sulla società contemporanea e ha dato alle stampe un tascabile intitolato “La comunicazione come strumento di potere”, (Edizioni di Comunità, Roma, 2021, 109 pagg. 12,00 euro).

Il libro è composto da nove brevi saggi e da un’Appendice che ne contiene altri due. Scorrendo l’Indice del volume troviamo, da un lato, riflessioni sull’informazione, Marshall McLuhan, Harold Adam Innis (in linea col titolo del tascabile); dall’altro, interventi che spaziano da Pierre Bourdieu al tempo, lo spazio, la scienza, la tecnica, la religione e gli intellettuali. Abbiamo quindi tra le mani una classica miscellanea in cui l’autore riflette su una serie di temi di rilevanza sociale selezionati in base a un criterio, una logica, una scala d’importanza.

È proprio questo criterio, questa logica e questa scala d’importanza che ci fa ritenere “La comunicazione come strumento di potere” qualcosa di più di una miscellanea. Qualcosa di più perché la comunicazione non è osservata da Ferrarotti come un fenomeno sociale tra altri fenomeni sociali. È ovviamente un’istituzione a sé stante composta da aziende, prodotti, professioni ed effetti sociali specifici. Ma è anche un’istituzione che attraversa tutte le altre.

Il linguaggio infatti dà senso alle categorie di spazio, di tempo e consente di raccontare storie di vita; le religioni fondano il loro credo su testi sacri; la scienza e la tecnica permettono il perfezionamento dei mezzi di comunicazione; gli intellettuali trasmettono le loro idee attraverso la scrittura e i libri. Tuttavia, per quanto sia importante, la trasversalità della comunicazione non esaurisce le differenti scelte tematiche all’interno di uno stesso volume. Ferrarotti analizza più istituzioni per offrire al lettore una serie di concetti da combinare autonomamente individuando così il senso globale dei fenomeni sociali. 

Nel suo libro Ferrarotti esordisce con un’affermazione forte: l’informazione è “oggi il vincolo che tiene unita la società.” Un primato raggiunto attraverso una serie di passaggi. Per esempio: la nostra è una società in cui la logica della scrittura e della lettura è ridimensionata a favore dell’audiovisivo; la scrittura non muore, ma tramonta il prestigio sociale degli intellettuali; il libro sacro non si estingue, ma le religioni devono fare i conti col weberiano “disincanto del mondo” e condividere la loro presa sulla coscienza individuale con la tecnoscienza.

Questo modo di analizzare la società presenta un doppio vantaggio: permette di uscire sia dai domini dell’iperspecialismo, tipico dell’accademia, sia dai domini dell’ipersemplificazione, tipico del dibattito pubblico. Permette cioè di evadere dalla forma-pensiero burocratica e dalla forma-pensiero postmoderna restituendo alla sociologia la sua funzione critica.

Prof. Patrizio Paolinelli

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