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IL CALCIO E IL RITORNO DELLA FATA MORGANA

di Antonio Latella

PIPPO INZAGHI ( fonte: Reggina1914)

A volte ritorna inaspettato: quasi a voler alimentare le speranze di una comunità illusa e, al tempo stesso, delusa dalla sua classe dirigente. Il fenomeno della Fata Morgana, nella narrazione che si tramanda da secoli, nell’area dello Stretto di Messina, diventa un privilegio che, da più parti, viene indicato come un segnale che annuncia dei cambiamenti. A noi è sfuggito e nessun altro degli abitanti dello Stretto, di recente, pare abbia avuto il privilegio di assistere a questo naturale spettacolo.

 Eppure a Reggio Calabria si respira un’aria nuova, che genera entusiasmo e grandi momenti di aggregazione sociale. Non siamo in pochi a domandarci l’origine di questo nuovo fenomeno di massa che come il venticello di una afosa serata di agosto concede un po’ di sollievo alla gente delle due sponde. Non occorre un’analisi sociologica per scoprire che all’origine di questo entusiasmo ci sia il calcio. Anche da queste parti, in particolare sulla sponda continentale tagliata dal 38° Parallelo, il gioco più bello del mondo esalta la gente condizionandone i comportamenti: alla stregua di quanto si è registrato in moltissimi Paesi in occasione dei recenti campionati mondiali ospitati in Qatar.

Il delirio in Argentina, lo sconforto in Francia, la fine del sogno in casa delle altre due semifinaliste, il Marocco e la Croazia: diversi stati d’animo che solo il calcio riesce a suscitare. Per gli italiani niente emozioni dirette, considerato che gli azzurri non sono riusciti a qualificarsi; e in mancanza di una fede nazional calcistica, hanno avuto libertà di scelta.

Nella città che ospita i bronzi di Riace l’unica fede è l’amaranto: il colore della locale formazione calcistica che, dopo le brutte esperienze degli ultimi campionati, oggi è guidata da Filippo il “profeta”. Al secolo Pippo Inzaghi. In questa città dall’antica civiltà magnogreca, così abitudinaria e spesso priva di coscienza civica, l’amaranto della Reggina si è riguadagnato il fascio più luminoso nella straordinaria bellezza dell’iride. Sì, di quello che appare dopo un qualsiasi temporale che nell’immaginario della gente diventa un vero ponte che unisce la Calabria con la dirimpettaia Sicilia.

Il secondo posto in classifica nel campionato cadetto della squadra guidata da Inzaghi, settimana dopo settimana, successo dopo successo, sta diventando un valore aggiunto socio-economico di una provincia piegata su se stessa da un atavico sottosviluppo aggravato da due anni di pandemia, dalla guerra in Ucraina e dalla drammatica crisi globale.

Anche a questa latitudine, in una società sempre più votata al relativismo, il calcio si pone al centro di una sorta di religione laica. L’antropologo francese Marc Augé (ai più noto per la teoria dei “non luoghi”) considera il calcio come una manifestazione religiosa: “Il riunirsi di diverse migliaia di individui che provano – scrive in un suo libro – gli stessi sentimenti e che li esprimono attraverso il ritmo e il canto” crea le condizioni di una percezione sensibile del sacro.E tutto ciò che avviene negli stadi, veicolato dal mezzo televisivo e dai new media, coinvolge altri milioni di amanti del calcio.

Anche in una partita scialba bastano un assist, una giocata, un gol per scatenare l’entusiasmo: nello stadio si innanzano inni di gioia, gesti spontanei e nuvole d’incenso il cui odore inebria il tifoso. Quella stessa atmosfera viene traslata dai social nelle nostre case. Ed è festa.

Nel calcio non esistono differenze sociali: il popolo tifa per i suoi campioni, per i propri beniamini e non importa se a tirare calci ad un pallone sia uno che guadagna decine di milioni di euro d’ingaggio ogni anno. Il calcio è l’oppio delle masse. Anche il disoccupato non si formalizza se un decreto del governo stanzia 900 milioni di euro per consentire ai club di risanare (a rate) le loro inadempienze fiscali, accumulate per pagare ingaggi da pascià.

La fede calcistica assomiglia ad una lanterna: l’intensità della sua luce dipende dalla quantità e, ovviamente, dalla qualità dell’olio che alimenta la fiammella. Una filosofia che non bada a spese e che nel tempo ha dato vita ad una bolla economica che prima o poi esploderà con conseguenze drammatiche per il sistema pallonaro. E non solo.

Torniamo all’amaranto della Reggina, club prossimo ai centodieci anni di vita: nel cui recente passato, dopo l’epopea della serie A, ha vissuto stagioni contradditorie e discutibili sul fronte della politica economica. Nel campionato in corso, la premiata ditta composta da Saladini, Cardona, Martino, Taibi e Inzaghi, almeno fino ad oggi, dispone di scorte sufficienti per mantenere vive le ambizioni della tifoseria.

“Nord e Sud uniti nella lotta”: lo slogan delle folle sindacali dell’era del fordismo, oggi – mentre il Mezzogiorno rischia il baratro con la strana idea  nordista dell’autonomia differenziata – non sembra più semplice utopia. Ovviamente sul fronte calcistico: grazie a un lombardo di Piacenza che ha sposato la causa della squadra del lembo più meridionale del territorio italico – dove, citando Pascoli, “il mare è pieno di voci e il cielo è pieno di visioni” e “le onde greche vengono a cercare le latine” – il sogno della A potrebbe avverarsi. Come ai tempi della presidenza di Lillo Foti e dei “miracoli” di Bruno Bolchi e Walter Mazzarri (tanto per citare alcuni degli artefici del periodo aureo del calcio reggino).

Dall’estate dello scorso anno, in riva allo Stretto il calcio ha ridestato la gente dal torpore in cui è caduta profondamente a causa dei litigi della politica, della crisi economica, dei fenomeni degenerativi che condizionano la vita di tutti noi: sportivi e non sportivi, tifosi e non tifosi.

In una comunità dove l’inverno è stato sempre la stagione dominante, Inzaghi e la sua Reggina, finalmente, stanno portando il profumo della primavera. Mentre il mandorlo, in tutta la punta dello Stivale, sta per fiorire, lo stacanovista Pippo Inzaghi incomincia a sentire il profumo dei successi del suo grande passato calcistico. E in questo sforzo trova ristoro nell’incantevole scenario dello Stretto visibile, giorno e notte, dalla sua attuale residenza. Chissà se da questo suo strategico punto di osservazione non sia stato testimone esclusivo del ritorno della Fata Morgana.

E quella visione, che fin dalla “serenità del mattino” dà vita ad un immenso bagno di metalli scintillanti, ha coinvolto anche la compagna di mister Pippo, Angela, il cui impegno sociale l’ha candida a testimonial, sincera e appassionata, di un luogo unico al mondo.

ANTONIO LATELLA
giornalista e sociologo


Cos’è il neoliberismo

di Patrizio Paolinelli

Se qualcuno è interessato a sapere come è nata e come si è affermata la dottrina neoliberista una lettura da fare è senz’altro il libro di Marco D’Eramo, “Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi”, (Feltrinelli, Milano, 252 pagg., 19,00 euro).

Iniziamo col chiarire il significato del titolo: il dominio si distingue dal potere perché è una condizione senza possibilità di negoziazione. Una condizione spesso interiorizzata dagli sconfitti come un dato naturale: è così e non può essere altrimenti. “Guerra invisibile” sta invece a significare che i dominatori hanno portato avanti per decenni una battaglia culturale di cui i dominati si sono accorti troppo tardi, quando ormai la situazione politico-economica era irreversibilmente trasformata a loro svantaggio. Infine, con la formula i “potenti contro i sudditi” D’Eramo riprende Aristotele e ci avvisa che a fare le rivoluzioni non sono solo i sudditi contro i potenti, ma anche i potenti contro i sudditi. Questi ultimi talvolta si ribellano contro la disuguaglianza (il proletariato parigino del 1789), mentre i primi si ribellano contro l’uguaglianza (nel 411 a.C. una congiura oligarchia abbatte la democrazia ateniese). I potenti perseguono la disuguaglianza perché si percepiscono come una categoria che merita di occupare il vertice della piramide sociale, mentre chi sta sotto merita di stare in basso. E col neoliberismo la condizione di chi sta in basso non è quella più quella del cittadino, ma del suddito. Cambiamento che richiama le forme del potere feudale.

La sommaria analisi del titolo del libro di D’Eramo ci ha già condotto al cuore dei problemi della nostra società. Una società che involve di anno in anno sotto la spinta del neoliberismo. Una società in cui oggi una decina di capitalisti possiede all’incirca la metà della ricchezza mondiale e in cui persino chi ha la fortuna di avere un lavoro fisso rischia di trovarsi in povertà. “Dominio” spiega in maniera chiara, analitica e con fonti di prima mano come si è potuti arrivare a una situazione così irrazionale.

D’Eramo ricostruisce, tappa dopo tappa, come e perché si è affermato il neoliberismo. Iniziamo dal perché. Negli anni ’60 del secolo scorso il capitalismo statunitense è scosso dai movimenti di contestazione: università in subbuglio, rivolte razziali, proteste in ogni dove, sconfitta in Vietnam, sindacati sul piede di guerra, critica alla logica del profitto, modi di vivere alternativi e così via. Si trattava di un terremoto sociale che metteva in discussione la capacità del capitalismo di dirigere la società. Bisognava correre ai ripari. Ma come?

A compiere le prime mosse negli anni ’60 del ‘900 è la frangia più retriva del potere economico statunitense. Una frangia composta da ricchissime famiglie e magnati del Midwest. Iniziano in solitudine creando e finanziando una serie di fondazioni. Le quali godranno di un’immensa fortuna passando da circa 2mila nel 1959 a oltre 86mila nel 2015. Ed è proprio dalle fondazioni che partirà la controffensiva della rivoluzione conservatrice. Una rivoluzione che permetterà all’élite economica di recuperare il consenso perduto nella società statunitense e poi nel resto dell’occidente. Allo scopo le fondazioni reclutano economisti, intellettuali, scrittori, conferenzieri, docenti, ricercatori e predicatori. Tutti uniti da una fede incrollabile nel liberismo più estremo. Prende così corpo una nutritissima “classe di servizio” che scatena una vera e propria guerra culturale attraverso la produzione di una quantità impressionante di pubblicazioni, di molte delle quali D’Eramo dà conto nel corso del suo libro.

Gli obbiettivi di così tanta produzione intellettuale sono chiari sin da subito: 1) costruire una teoria economica funzionale agli interessi dei dominatori e in grado di legittimarne il potere; 2) impregnare le istituzioni culturali nazionali e internazionali di tale teoria in modo da farla diventare la principale chiave di lettura dei comportamenti umani; 3) occupare le posizioni strategiche all’interno dei governi, delle istituzioni economiche nazionali e internazionali; 4) in virtù di questa colonizzazione neutralizzare ogni tipo di contestazione al primato del mercato sulla società. Da tempo questi obiettivi sono stati raggiunti. A questo punto ci si chiederà cosa ne è della democrazia. In proposito i neoliberisti non difettano di chiarezza: il mercato è più importante della democrazia e la dittatura è preferibile alla democrazia se questa mette in discussione le politiche neoliberiste (come avvenne nel Cile di Pinochet).

La teoria neoliberista viene costruita passo dopo passo, anno dopo anno, successo dopo successo man mano che i movimenti di protesta nati tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso perdono colpi. E qui iniziano le sorprese. La più importante di tutte, e che fa di “Dominio” una lettura imprescindibile, è questa: i neoliberisti reagiscono alla contestazione della sinistra statunitense utilizzando a piene mani idee, tattiche e strategie della sinistra. Si rendono cioè conto dell’importanza della politica e fanno propri concetti come ideologia, capitalismo, classe, intellettuali, egemonia, conflitto e altri ancora. Ma soprattutto comprendono immediatamente l’importanza strategica dell’ideologia per la mobilitazione e il controllo della società.

Impressionante è l’apertura del libro. Nel primo paragrafo troviamo citati alcuni passi di un manuale antiguerriglia dei marines statunitensi che persino nel linguaggio richiamano l’Althusser degli apparati ideologici di stato. Ma cosa c’entrano i marines col marxista Althusser? C’entrano perché entrambi riconoscono l’importanza delle narrazioni ideologiche per spingere gli esseri umani all’azione. E per controllare l’agire di una società facendola passare da anticapitalista a ipercapitalista, da progressista a conservatrice i neoliberisti si rendono conto che occorre costruire una grande narrazione (proprio negli anni in cui Lyotard dava per spacciate le grandi narrazioni).

Il neoliberismo è infatti una grande narrazione e i suoi teorici non fanno alcun mistero di produrre idee, racconti, schemi di pensiero, valori, credenze, categorie, linguaggi, immagini dell’uomo e del mondo col preciso scopo di sconfiggere le visioni della vita fondate sulla solidarietà. Non basta. Il modo di organizzarsi dei neoliberisti ricalca per diversi aspetti quello della sinistra: penetrare all’interno delle istituzioni (in particolare nell’università e nell’amministrazione della giustizia), crearne di parallele (fondazioni, centri studi, istituti culturali, think tank, università private ecc.) Mentre il loro  modo di muoversi è quello di veri e propri militanti di partito al servizio della rivoluzione conservatrice. Militanti intenti a perseguire senza alcun tentennamento un obiettivo: l’egemonia dell’élite economica sulla società. A ben guardare Gramsci e Lenin hanno fatto scuola tra i loro avversari.

E così mentre nei circoli della sinistra ci si lambiccava il cervello sul vocabolario di Heidegger e si riponevano in soffitta gli strumenti utilizzati per la critica al capitalismo, lo stesso capitalismo li faceva propri e li utilizzava per scatenare una guerra ideologica totale. In molti ricordiamo che per anni buona parte dell’intellighenzia liberal si è baloccata con favole quali, per esempio, il tramonto delle ideologie. Nel frattempo il neoliberismo metteva in piedi la più efficiente macchina ideologica che si sia mai vista nella storia della modernità. Mai vista perché ad essa non ci si può opporre, se è vero come è vero che oggi è più facile ipotizzare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Il successo dell’ideologia neoliberale è arrivato al punto di impedire all’immaginario individuale e collettivo di pensare qualsiasi cosa oltre il perimetro recintato dai neoliberisti. In questo senso il controllo del linguaggio si è rivelato decisivo e ad esso D’Eramo dedica illuminanti riflessioni.

Ma quali sono i caposaldi teorici del neoliberismo? In breve:  la società non esiste; esiste solo l’individuo; neanche la disoccupazione esiste (se si perde il lavoro è razionale godersi il tempo libero); la giustizia sociale è un’espressione vuota; non c’è alternativa al primato dell’impresa privata sulla società; la concorrenza è una legge di natura; gli esseri umani sono solo dei razionali calcolatori che badano al proprio utile (la madre dona affetto ai figli per avere un utile psicologico); i lavoratori sono imprenditori di se stessi (se guadagnano poco è perché hanno sbagliato a investire il loro capitale umano); tutto si compra e tutto si vende (bambini da adottare compresi e dove il bambino bianco vale più di quello di colore); il livello d’inquinamento di un fiume va deciso in base a quanto ci guadagna o ci rimette l’azienda inquinante; le leggi vanno fatte rispettare minimizzando il costo per lo Stato (perciò se costa troppo far rispettare una legge conviene lasciar perdere perché altrimenti aumentano le tasse); al centro dell’economia non c’è il mercato ma l’azienda (rompendo così con l’economia classica); le crisi economiche non sono tragedie ma opportunità (per i paperoni naturalmente); lo Stato deve essere  minimo (per il cittadino, ma non per le grandi aziende, che al contrario, anche negli Stati Uniti mungono a più non posso le casse pubbliche).

Naturalmente l’elenco è molto più lungo. Tuttavia, quanto riportato è sufficiente per dimostrare che la teoria neoliberale non ha niente di scientifico. Alla fin fine tale teoria consiste in una lunga serie di idee blindate da dimostrazioni (operazione tautologica che si può efficacemente utilizzare per qualsiasi idea uno abbia in testa, e proprio per questo motivo è metodologicamente sbagliata). Tuttavia, seppure su principi del tutto arbitrari i neoliberisti hanno costruito cattedrali di parole e di formule matematiche con cui da decenni condizionano e dirigono le politiche dei governi occidentali.

Depurata delle sue tautologie cosa resta della dottrina neoliberista? Resta quel che è: un discorso politico finalizzato a redistribuire la ricchezza a favore dell’élite economica. Resta un’ideologia che esprime una visione dell’essere umano di una povertà sconcertante. Un essere umano desocializzato, inconsapevole dei suoi reali interessi e in competizione col suo prossimo. Niente di più conveniente per un’élite economica che invece è compatta, ben organizzata e solidale nella difesa dei propri interessi di classe.


Recensione a: Raffasofia. Per trovare la felicità-tà-tà

Raffaella Carrà è stata per oltre trent’anni una star del piccolo schermo. Ballerina, cantante e conduttrice di successo ha rappresentato uno dei volti più popolari della Tv italiana. Nel corso della sua lunga carriera ha lavorato all’estero, venduto 60 milioni di dischi in tutto il mondo, ricevuto premi e riconoscimenti nazionali e internazionali. All’artista, scomparsa nel 2021, la scrittrice Marina Visentin ha dedicato un libro agiografico che si ben si presta alla critica sociologica dei miti prodotti dall’industria culturale.

Per quanto Raffasofia si presenti sulle ali della leggerezza avanza pretese filosofiche. Ma non è un libro di filosofia divulgativa. Di quelli annoverabili nella cultura media così tanto disprezzata da Dwight McDonald e rivalutata da Umberto Eco. Raffasofia si colloca su un piano differente perché il suo lettore ideale non è l’agente di borsa che legge Hemingway, ma un pubblico sempre più educato allo schermo e dallo schermo. Un pubblico che alla pagina scritta chiede le stesse performance offerte dalle immagini in movimento: rapidità, cambiamento, sorpresa.

In coerenza con questo tipo di orientamento (cognitivo e contenutistico) Visentin ha organizzato la stesura di Raffasofia su tre piani interagenti: la personale filosofia di vita espressa dalla Carrà in numerose interviste; i testi delle sue canzoni; un pot-pourri di citazioni: scrittori, filosofi, religiosi e politici sono chiamati a raccolta per sostenere la visione del mondo della showgirl. Una macedonia di frasi celebri in cui il lettore può trovare di tutto: Aristotele e Nietzsche, Churchill e Che Guevara, Sant’Agostino e Confucio, Beckett e Bernanos, Alda Merini e Anaïs Nin e così via. Simili frullati di pillole di saggezza sono utilizzati anche nei manuali di auto-aiuto e di marketing. Servono a nobilitare il proprio discorso anche se il pensiero degli autori citati è travisato, così come accade alla Visentin quando associa il dibattito sulla felicità degli antichi filosofi greci al self-improvement di oggi.

Ma qui non si tratta di fare le pulci al testo. Sarebbe come sparare sulla Croce Rossa. Conviene invece chiedersi: qual è stato l’effetto-Carrà sulla coscienza collettiva degli italiani? Dalla lettura di Raffasofia risulta chiaro: un effetto potente. E l’operazione della Visentin è proprio quella di alimentare tale potenza mitizzando un personaggio dello spettacolo in grado di offrire un’etica e un’idea di felicità a un pubblico che apprezza l’intrattenimento su ogni strumento di comunicazione adottando contenuti facilmente digeribili. Un pubblico che anche con la lettura vuol passare il tempo economizzando energie mentali, che si nutre di pseudo-cultura e che non intende rinunciare al buonumore. Un pubblico allo stesso tempo anti-brechtiano e postmoderno.

A questo pubblico la Carrà offre un’idea di felicità condensabile in una parola: spensieratezza. E come ci si scrollano di dosso i pensieri? Ballando a perdifiato, gettando alle ortiche i falsi pudori, sorridendo alla vita. Ma la spensieratezza è un po’ come la bellezza: richiede impegno, costanza e fatica. Tra le righe di Raffasofia fa così capolino l’attaccamento della Carrà all’etica del lavoro, probabilmente appresa dai genitori, entrambi imprenditori. Un’etica che sovrasta ogni aspetto della vita e che, tra l’altro, condurrà la showgirl a rinunciare alla maternità. Visentin sottolinea spesso l’energia della Carrà e la sua capacità di adattarsi al nuovo. Per esempio, passando indifferentemente da un ruolo all’altro. Abbiamo ricordato che Raffaella Carrà è stata ballerina, cantante, conduttrice (all’inizio della carriera anche attrice cinematografica). Senza nulla togliere alle sue qualità artistiche, non eccelse in nessuno di questi ruoli. Fu la sua fortuna perché le consentì un successo duraturo all’insegna della medietà. E questo stare nel mezzo è la chiave di volta per comprendere la filosofia di vita della Carrà.

Naturalmente per Visentin le cose non stanno così. La Carrà è presentata come una rivoluzionaria, una donna libera da pregiudizi e indipendente nelle faccende di cuore. Lettura che isola il fenomeno-Carrà dal resto della vita sociale. Prendiamo il ruolo di sex symbol attribuito alla showgirl quando nel 1970 buca lo schermo della Tv in bianco e nero mostrando per prima l’ombelico davanti alle telecamere. Al netto dello scandalo, era quello che si aspettava il pubblico di una società industriale ancora sospinta dal boom economico e alla quale i valori e i pudori del mondo rurale andavano stretti. È questo uno degli equivoci di Raffasofia: presentare la Carrà come una contestatrice quando in realtà il suo agire è sempre andato in direzione della stabilità pur nel cambiamento, dei costumi beninteso. Tanto è così che pur cantando l’autonomia delle donne restò estranea ai movimenti femministi perché riteneva la libertà una questione interiore dell’individuo e non un tema sociale.

Raffaella Carrà ha rappresentato i valori di un ceto medio in ascesa e da cui proveniva. Un ceto orgogliosamente dedito alla propria attività professionale, a cui piace godersi la vita e che non vuole scossoni sociali. Ecco la ricetta della felicità. Ricetta politicamente moderata a cui corrisponde il glamour della donna perbene ma al passo coi tempi, il glamour incarnato dalla Raffa nazionale: una bellezza non esagerata, un sex appeal non debordante, un’emancipazione non sovversiva. Ossia il contrario di ciò che racconta Visentin. Perché così tanto contenimento? Perché questo tipo di donna ha tutto ciò che è essenziale: lavoro, denaro, prestigio. Le sue ansie riguardano le pene del cuore e i suoi problemi la sfera del tempo libero. Sono questi gli ostacoli alla gioia di vivere.

Il glamour conformista a uso e consumo del ceto medio in ascesa inizia a scricchiolare con l’affermazione della Tv commerciale fino a crollare col consolidamento del duopolio Rai-Mediaset. Fenomeno parallelo alla lenta discesa di un ceto-medio sempre più esposto ai venti delle crisi economiche. Ed ecco affermarsi, dentro e fuori gli schermi, un nuovo modello di glamour: erotizzato al massimo, esibizionista, spesso volgare. L’ombelico scoperto della Carrà fa sorridere e la sua medietà un ricordo del passato. Il disorientato ceto medio di una società deindustrializzata chiede ben altro: una felicità da rivoluzione passiva, in amore come in politica.

PATRIZIO PAOLINELLI, La Critica sociologica, LVI – 222, aprile 2022


IL PECCATO ORIGINALE DEL REDDITO DI CITTADINANZA

di Antonio Latella

Sullo stucchevole dibattito tra favorevoli e contrari al reddito di cittadinanza, riteniamo la neutralità una posizione buona e giusta.

<<===== Antonio Latella

Disinteresse a parte, ci sia consentito fare una considerazione di fondo sulla genesi politica che ha portato il governo Conte I e la sua maggioranza a legiferare in materia. Se l’art. 4 della Costituzione stabilisce che la Repubblica riconosce “ai cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto”, mentre milioni di italiani sono privi di occupazione, allora spetta allo Stato ricercare idonei strumenti per invertire questa atavica tendenza. Oppure, intervenire con l’assistenza, in attesa che disoccupati e inoccupati entrino a fare parte del sistema produttivo.

Non abbiamo elementi certi per dubitare che questa sia stata la logica che ha ispirato il governo dell’”avvocato” degli italiani e, soprattutto, del Movimento 5S (solida maggioranza parlamentare dell’epoca). Tuttavia non possiamo esimerci dal fare alcune considerazioni sulla cronica inefficienza dei Centri per l’impiego in seno ai quali sono stata catapultati i “navigator”: orientatori preposti a favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, cioè tra i beneficiari del sussidio e le imprese. Figure che sono rimaste ostaggio della vecchia burocrazia che ha negato loro qualsiasi spazio di autonomia d’iniziativa.

Per una corretta analisi sull’impatto sociale del reddito di cittadinanza bisogna scindere due aspetti: il profilo assistenziale da quello del reinserimento lavorativo. È incontestabile il dovere di solidarietà sociale dello Stato a favore dei cittadini che, trovandosi sulla soglia della povertà e non certo per negligenza, rischiano di non poter soddisfare i bisogni primari di una famiglia: la casa, il carrello della spesa, l’istruzione, la sanità. Su questo appare pacifica la bontà del reddito come strumento di welfare. E non bisogna neanche trascurare l’incidenza che lo stesso ha avuto sui consumi.

Altro, invece, è il giudizio sulla efficacia di questa misura nell’incremento dell’occupazione. In questo senso va osservato che, soprattutto in occasione dell’ultima campagna elettorale, il dibattito sul reddito di cittadinanza non ha mai visto nessuno fornire dei dati: quanti disoccupati hanno trovato lavoro grazie ai navigator? E conseguenzialmente di quanto è diminuita la platea dei percettori di questa misura?

In assenza di strumenti di misurazione, è molto difficile formulare un giudizio compiuto sul successo o l’insuccesso del Rdc, ma certamente emergono limiti (ad esempio sull’esperienza dei navigator, e gli  strumenti operativi in loro possesso) che hanno rafforzato la consapevolezza di dover correggere questa misura. Va inoltre riscritto il sistema dei controlli sui furbetti che hanno truffato lo Stato e, al tempo stesso, ne hanno minato la credibilità. Con un paradosso finale: il mancato rinnovo del contratto per migliaia di navigator passati in breve tempo ad ingrossare le file di quei disoccupati di cui prima si prendevano cura.

Adesso si presenta, nella migliore delle ipotesi, un orizzonte di incertezza. La crisi economica sempre più grave, anche per gli effetti del conflitto russo- ucraino, e le prospettate scelte di politica economica per la prossima legge di bilancio rischiano di accendere la miccia di uno scontro sociale reso più probabile dalla polarizzazione delle opinioni e dalla radicalizzazione dello scontro politico. Un’eventualità ancora più elevata nel Mezzogiorno, dove il numero dei percettori del reddito è più elevato e dove si respira un  particolare pessimismo alla luce della probabile introduzione dell’autonomia differenziata che potrebbe acuire il divario tra nord e sud del Paese.

Antonio Latella – giornalista e sociologo


LA SOLIDARIETA’ DEI SOCIOLOGI ASI NEI CONFRONTI DEI PROFUGHI UCRAINI

di Antonio Latella

Arese: complesso che ospita le famiglie di profughi ucraini

In un mondo sempre più egoista, la solidarietà sembra essere diventata lo specchio del narcisismo: si dà solo per apparire e, soprattutto, per ottenere o aumentare il consenso sociale. Nella vita è sempre meglio adottare un comportamento riservato, anche quando si pratica del bene, e tenere per sé le proprie intenzioni e pensieri. Un concetto che trae origine dal Vangelo: Matteo 6.3, “Quando fai l’elemosina, non sappia la sinistra quello che fa la destra”.

Non vogliamo discostarci da questo principio quanto invece mettere al corrente l’opinione pubblica dell’agire sociale di un’associazione no profit di professionisti: l’ASI- Associazione Sociologi Italiani.

Anche perché non siamo di fronte ad intenzioni o pensieri, ma davanti ad una precisa strategia di solidarietà dell’unica realtà di sociologi riconosciuta dalla legge 4/2013 e pertanto regolarmente iscritta nel registro del Ministero dello Sviluppo economico (oggi Ministero delle Imprese e del Made in Italy).

Assicurare un tetto a venti famiglie di profughi ucraini – da mesi ospitati in altrettanti appartamenti concessi in comodato d’uso gratuito da una S.p.A. del posto – mettendoli al riparo dalla guerra di aggressione decisa da Putin   nei confronti di uno stato sovrano: conflitto che sta provocando distruzione e morti tra la popolazione civile. Un massacro che si consuma nell’impotenza dell’ONU, organizzazione ingessata dal diritto di veto riservato ai 5 membri del Consiglio di Sicurezza (in questo caso la Russia): particolare, che, come testimonia la storia, nulla può nei confronti della politica imperialista .

La comunità ucraina, localizzata nel comune milanese di Arese, ha come punto di riferimento il sociologo Sabino Cipriano (presidente dell’ASI di Milano) il quale è riuscito ad intercedere presso una S.p.A del luogo, in seno alla quale è dirigente del personale.

Il tutto rientra in un preciso progetto di accoglienza varato dalla Deputazione Nordest dell’ASI di cui è presidente il professore, avvocato (nonché sociologo) Michele Miccoli, che  ricopre anche la carica di vicepresidente nazionale della stessa associazione di professionisti presente in tutte le regioni italiane.

Prof. Avv. Michele Miccoli ==>>

Accoglienza, solidarietà e aiuto nei confronti dei meno abbienti fanno parte della mission statutaria di un sodalizio, i sociologi italiani appunto, che non si limita alla formazione dei propri iscritti, allo studio della società e dei suoi cambiamenti ma entra nel cuore dei problemi alla ricerca di soluzioni per poi sottoporle alle istituzioni di buona volontà.

Ecco perché non si tratta di un caso spendersi in favore degli abitanti di questa cascina, iniziando dai bambini che frequentano l’asilo e la scuola primaria: per loro è stato realizzato anche uno spazio ludico e la consegna di giocattoli, mentre per venire incontro agli adulti è stato organizzato un servizio di assistenza.

trasporto materiale per allestimento della zona ludica per i piccoli ucraini

Prima ancora della guerra voluta dall’attuale inquilino del Cremlino -appoggiata dai suoi oligarchi e dalla Chiesa ortodossa che hanno intenzione di distruggere la civiltà occidentale- l’Associazione Sociologi Italiani,  con sede in via Federico Borromeo di Rho (Mi), è impegnata nel settore dell’assistenza sociale per sostenere persone svantaggiate o emarginate, per prevenire e contrastare le dipendenze di concerto con le scuole, enti locali, aziende sanitarie ed ospedaliere, associazionismo, mondo dello sport.

L’Asi organizza, inoltre, campagne tematiche riconducibili alla ludopatia, cyberbullismo, sexting, sextortion, e agli effetti dei new media su bambini ed anziani. Attività che non trovano cittadinanza sui vecchi e new media, sempre più sbilanciati sulla cronaca e, forse, utilizzati impropriamente per alimentare la litigiosità della politica

Antonio Latella

Il contributo della Scuola romana di Storia delle religioni

di Barbara G. V. Lattanzi

Il crescente tecnicismo e le esigenze di questa fase del capitalismo spesso ci impediscono di ricordare i molti ambiti umanistici a cui il nostro paese ha contribuito negli anni e nei secoli. Questa tendenza risulta particolarmente dannosa per le scienze sociali, spingendole a un riduzionismo che rischia di snaturarle.

<== dott. Barbara G. V. Lattanzi

La vita sociale non si può definire esclusivamente dalle espressioni economico-materiali, come ben sapevano anche gli studiosi marxisti, impegnati spesso nelle analisi dei fenomeni culturali (Antonio Gramsci ne è un luminoso esempio). Per questo non possiamo scordare che i due padri fondatori della sociologia, Weber e Durkheim, si sono cimentati entrambi con le tematiche religiose, considerandoli centrali per la definizione della vita sociale. Da questo punto di vista l’Italia può vantare una ricchezza di contenuti e ricerche che possiamo considerare un vero fiore all’occhiello.

Malgrado gli ostacoli costituiti dalla presenza forte delle istituzioni cattoliche – coinvolte anche esse nell’alimentazione di una importante cultura umanistica – l’Italia vede, nei primi decenni dello scorso secolo, la nascita di una disciplina tipicamente laica dedicata allo studio delle religioni comparate: la storia delle religioni.

Raffaele Pettazzoni

Il fondatore di questa branca di studi è considerato Raffaele Pettazzoni, che ottenne la prima cattedra di questa materia presso l’università la Sapienza di Roma nel 1923. I suoi allievi e successori, Angelo Brelich e Dario Sabbatucci, hanno poi arricchito la disciplina, che da riflessione umanistica sul trascendente nella linea di Mircea Eliade, Rudolf Otto e Wilhelm Schmidt acquisisce via via connotazioni più storico-antropologiche e riflessioni di carattere metodologico. Pur rimanendo ancora molto focalizzata sull’antichità classica, come è naturale per una disciplina che deriva in buona parte dalla filologia e archeologia nei paesi latini, con gli storici delle religioni di seconda generazione gli studi iniziano a spostarsi sulla storia di tutti i popoli e a comprendere l’etnologia dei popoli pre-religiosi.

Religioni classiche

Altro importante allievo di Pettazzoni fu Vittorio Lanternari, che scelse di allontanarsi dagli studi sul mondo classico per dedicarsi maggiormente all’etnologia dei popoli colonizzati e alle loro strategie di sopravvivenza culturale e esistenziale nella loro ricerca di riscatto. Un importante allievo di Angelo Brelich, Marcello Massenzio – di cui ho avuto l’onore di essere allieva – ha contribuito a collegare la scuola romana di Storia delle religioni con uno dei maggiori umanisti italiani e mondiali: lo studioso napoletano Ernesto de Martino, uno degli allievi di Benedetto croce che intrapresero una strada concettuale distinta dal proprio maestro. Il de Martino si impose al mondo accademico con uno dei saggi più affascinanti nella storia degli studi (Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo) interpretando i fenomeni etnico-religiosi alla luce delle teorie marxiste e esistenzialiste.

Proprio quest’ultimo ramo della storia delle religioni – che va da Lanternari a Ernesto de Martino e che vuole superare il relativismo culturale americano con una comprensione più profonda della vita cultuale e immaginale dei popoli partendo dalle condizioni delle popolazioni  delle classi subalterne – si è fatto strada nel pensiero e nelle cattedre universitarie sociologiche italiane. Fondamentali infatti furono i contributi di Clara Gallini, docente di discipline etno-antropologiche, studiosa del pensiero dell’etnologo napoletano e amica e collaboratrice di Massenzio, che ha saputo indirizzare la sociologia dei processi culturali verso la storia degli studi italiani e la metodologia dell’etnocentrismo critico (locuzione introdotta dal de Martino e che spiega il suo interesse per la mitologia e le tradizioni del meridione d’Italia).

Tarantismo

Oggi come oggi possiamo dire che le riflessioni e le ricerche di Ernesto de Martino, Vittorio Lanternari e Dario Sabbatucci siano parte integrante della sociologia italiana, in particolare per quanto riguarda gli indirizzi socio-culturali e antropologici. Tocca a noi tenere vive e alimentare queste metodologie e queste riflessioni, anche integrandole per mezzo  dei moderni studi sulle migrazioni e la società globale, con un occhio alle dinamiche di incontro e scontro tra i popoli e le classi sociali, i modelli risultanti dalle loro contaminazioni nel vortice di mutamenti che contraddistingue la nostra contemporaneità.

Per approfondire

Raffaele Pettazzoni, Storia delle religioni e mitologia; Mimesis 2018

Fabio M. Franceschelli, “La scuola romana di Storia delle religioni”; Draft su https://www.academia.edu/29232016/LA_SCUOLA_ROMANA_DI_STORIA_DELLE_RELIGIONI

Igor Baglioni, Dario Sabbatucci e la storia delle religioni; Bulzoni editore 2006

Ernesto de Martino, Marcello Massenzio (a cura di), Storia e metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro; Argo 1995

Ernesto De Martino,  Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo; Piccola Biblioteca Einaudi 2022

Clara Gallini, Ernesto De Martino e la formazione del suo pensiero. Note di metodo; ed. Liguori 2005


La nuova arena dell’homo faber: il mercato delle immagini

Il lavoro. Tutti lo cercano ma è sempre più difficile trovarlo o mantenerlo. Come se non bastasse sul tappeto restano aperte molte questioni. Ad esempio: è sufficiente considerare la nozione di basso reddito per definire un’attività che permette a malapena di sopravvivere o addirittura non garantisce di arrivare a fine mese? Ancora: che senso ha un impiego a tempo determinato quando si è alle soglie dei quarant’anni? La lunga pletora di contratti a termine è un problema sociale? E che dire della proclamata fine del posto fisso in nome della concorrenza globale?

Su questi interrogativi si confrontano e si dividono giuslavoristi, esperti e politici. Senza entrare nel merito di tali discussioni è utile osservare come i mutamenti in corso nel mondo della produzione stiano riconfigurando il significato del lavoro, ma soprattutto abbiano aperto nuove arene per una vita attiva in cui esprimere la propria unicità. Una di queste arene è il mercato delle immagini. Un mercato parallelo a quello del lavoro, esso stesso fonte di occupazione e che si è affermato con l’avvento dell’industria culturale (cinema, radio, Tv, editoria). Successivamente tale mercato si è sviluppato con l’espansione della pubblicità, la nascita dei nuovi media, il passaggio alla neotelevisione ed è oggi integrato con una lunga filiera di attività economiche: moda, cosmesi, chirurgia estetica, wellness, sport, turismo, design, architettura.

La presa del mercato delle immagini sulla società è dovuta essenzialmente a due fattori: essere largamente gratuito, essere presente nelle strade, nelle vetrine, sulla carta stampata e su ogni tipo di schermo. Per di più tale mercato è molto allettante in quanto propone stili di vita centrati sul glamour e la moda, la trasgressione e l’eros, la forma fisica e la bellezza, il successo e il lusso. Il mercato delle immagini ha i suoi promoter nei divi cine-televisivi, nelle star della musica pop, nelle top model, nei campioni sportivi, nella folla di celebrities, soubrette e personaggi che si succedono senza sosta sul piccolo schermo. Il pubblico non si limita a recepire passivamente queste icone. Le assume come immagini interne attraverso un lavoro di selezione, interiorizzazione e proiezione. Insomma, a chi somigliare? A Guè Pequeno o a Miley Cyrus? Come pettinarsi? Come abbigliarsi? Come atteggiarsi? Il mercato delle immagini è in grado di offrire un prodotto per ogni tipo di domanda, anche la più personalizzata, presentandosi come il regno dell’autorealizzazione in una situazione sociale in cui la paura di non trovare o di perdere il lavoro è diventata una condizione di vita.

Dato che per molti disoccupati, sottoccupati e precari non è il lavoro a determinare la loro identità ecco che si rivolgono al mercato delle immagini per trovare un posto nel mondo. L’adesione a tale mercato è un fenomeno socialmente trasversale, ma limitando il ragionamento a chi ha un legame debole con la vita produttiva il processo sembra abbastanza definito nei suoi contorni culturali: chi è escluso, chi si è autoescluso o chi si trova alla periferia della città del lavoro perde in larga parte lo status di homo oeconomicus mantenendo tuttavia quello di homo consumens su cui dirigere i propri sforzi e restando così homo faber, ossia un uomo in grado di trasformare la realtà fosse pure solo nella sua testa. In altre parole, il concreto calo del reddito monetario è bilanciato da un aumento astratto del reddito identitario alimentato dallo spettacolo delle immagini che fluttuano in ogni dove.

La forza d’urto delle trasformazioni che investono il mercato del lavoro non è in grado da sola di far accettare all’homo faber la prospettiva di una vita fatta d’incertezze e poche speranze. Non foss’altro perché ancora oggi molti giovani precari hanno davanti agli occhi i vantaggi del posto fisso dei genitori. E’ a questo livello che interviene la funzione culturale del mercato delle immagini assegnando all’homo faber il ruolo di imprenditore di se stesso così come sono imprenditori di se stessi i personaggi dello spettacolo, della moda e dello sport. A ben guardare c’è poco da scegliere perché il lavoro lo comprano in pochi, per periodi determinati e per paghe basse. Allora cos’ha da offrire l’homo faber? La sua capacità di consumare immagini. D’altra parte, le seduzioni della pubblicità come quelle della televisione e di Internet non costano nulla, mentre per quelle dei rotocalchi bastano pochi spiccioli e tutte invitano alla partecipazione attiva: incorporare immagini in qualche modo coinvolgenti. Il che accade parecchie volte al giorno e talvolta senza bisogno di un atto volontario come accendere la Tv. Da questo punto di vista la dieta di immagini è più abbondante di quella mediatica.

La trasformazione del consumo in una forma occulta di lavoro è una tendenza già notata da diversi studiosi. E’ ovvio che per molti aspetti lavoro e consumo restano attività separate. Ma quando si è spinti ai margini della società perché nonostante tutta la buona volontà non si riesce a mettere su famiglia, a comprarsi una casa e ad avere dei figli saltano alcune delle coordinate che regolavano l’epoca del posto fisso. Niente paura, è sempre la logica del mercato a offrire una soluzione: è vero, la povertà aumenta ma ciò non impedisce di fare di se stessi un bell’oggetto di consumo. Come? spostando la vita attiva sul corpo, il look, i desideri; ossia su elementi costitutivi del reddito identitario. In mancanza di un reddito monetario garantito è questa la mossa sociale dell’homo faber per salvare la faccia dinanzi agli altri e godere di un certo prestigio. E vero, l’homo faber scaturito dalla civiltà delle immagini ha enormi difficoltà ad accedere al mercato del lavoro, ha persino rinunciato all’idea stessa di diritto al lavoro, ma guardate il suo sex appeal. Chissà che non gli torni utile per entrare nel mondo dello spettacolo. Da qui la fortuna dei reality show e dei selfie postati sui social network. Fenomeni che lasciano trasparire quanto il quarto d’ora di celebrità per tutti fosse il premio di una società delle opportunità offerte da un mercato del lavoro in salute. Quella società si è fortemente indebolita e il premio si è trasformato in un lavoro per tutti offerto dal mercato delle immagini. Un mercato che paga con le monete dell’autostima e dell’ammirazione altrui.

L’immaginario collettivo costituisce da tempo un’area di investimento da parte di numerose aziende che hanno come core business il corpo e i cui prodotti sono le apparenze, il piacere, le emozioni, gli stili di vita, i miti e le icone dello spettacolo. E’ a questo livello di costruzione della realtà che per chi ha poche speranze di ascesa sociale il mercato delle immagini può diventare il naturale sostituto del mercato del lavoro. Nel primo è facilissimo entrare, nel secondo difficilissimo. E poi è l’unico modo per l’homo faber di dimostrare al mondo che, come l’homo oeconomicus, è artefice del proprio destino. La rappresentazione plastica di questa sostituzione è visibile nel concerto di una qualsiasi star della musica pop o nelle esibizioni in un talent show.

Tutto sta nel decidere con quali occhi si guardano i due eventi. Proviamo a cambiare sguardo. Nel concerto della popstar vediamo sul palco un imprenditore di se stesso, iper-impegnato e iper-pagato, offrire un prodotto artistico a una folla di giovani che in gran parte hanno uno scarso reddito e un futuro difficile davanti. E cos’è il talent show se non una gridata selezione del personale per accedere al mondo dello spettacolo? Ma l’homo faber dei nostri giorni non guarda il traffico di star e aspiranti tali come una manifestazione della produzione economica. Si appropria delle loro immagini emotivamente, disperatamente, disciplinatamente. Perché questo è il mercato in cui ha un’occupazione a tempo pieno. Un’occupazione non retribuita e per la quale gli capita di pagare, ma da cui nessuno lo può licenziare. Conformandosi al mondo dello spettacolo l’homo faber introietta le regole di un lavoro in gran parte fondato su carriere incerte e cambiamento, concorrenza e flessibilità, contratti a prestazione e formazione continua, individualismo e nomadismo, adattamento a orari indefiniti e incertezza del domani. Tutte caratteristiche che tendono a diventare dominanti nel mercato del lavoro in generale. Caratteristiche preoccupanti se si considera che il mondo dello spettacolo è poco avvezzo all’idea di ferie retribuite e per sua natura contempla il lavoro minorile.


Per una sociologia della felicità

Esiste un ramo della sociologia che non corrisponde ad alcuna cattedra né indirizzo di studio, ma che sta prepotentemente reclamando l’attenzione che merita un argomento centrale. Un ramo che potremmo definire trasversale alle varie sociologie corrispondenti dai sottosistemi e che sembra definire, nel suo prendere corpo, il vero scopo della sociologia. Definirei questo ramo la “sociologia della felicità” e il suo oggetto l’individuazione dei criteri e degli standard, nonché degli ostacoli che si frappongono al raggiungimento della felicità intesa come valore sociale (collettivo, strutturale, relazionale e individuale).

I pensatori degli ultimi decenni hanno giustamente indicato il fattore economico – la diseguale distribuzione delle risorse materiali – come il maggior ostacolo che impedisce alla maggioranza di  accedere non già alla piena felicità, ma alla possibilità di costruirla partendo dalla serenità esistenziale e sicurezza nel futuro.

Domenico de Masi, professore emerito di Sociologia del Lavoro, da anni si occupa di queste tematiche con uno sguardo rivolto al futuro, agli sviluppi tecnologici, produttivi e sociali che i suoi più giovani colleghi spesso non riescono a eguagliare. Il suo ultimo saggio edito da Einaudi collega il passato al presente e al futuro, passando in rassegna gli eventi e le due maggiori teorie del passato contemporaneo con la situazione presente e la costruzione del futuro: le molte occasioni mancate nell’intraprendere una via per una più egualitaria distribuzione delle risorse che renderebbe possibile una società della sicurezza e della felicità. Il saggio contrappone due teorie, due visioni e orientamenti politici estremamente polarizzati in una teoria neo marxista di sociologia critica e nel suo opposto, una scuola neoliberista economicista che non disdegna derive autoritarie per il mantenimento dello status quo.

Il primo capitolo è dedicato alla Scuola di Francoforte, la cui conoscenza è fondamentale per chi volesse approfondire le tematiche sociologiche. Essa ha contribuito a un importante sviluppo del marxismo integrandolo con riflessioni di carattere antropologico e psicosociologico con teorici quali Herbert Marcuse, Theodor Adrono, Max Horkheimer Jürgen Habermas e lo psicanalista Erich Fromm. Walter Benjamin la definì come una costellazione interdisciplinare di prestigiosi intellettuali che ha ruotato dal 1923 ai giorni nostri intorno all’Institut für Sozialforschung incardinato, senza farne parte, nell’Università  Goethe di Francoforte.

Nel secondo capitolo l’esposizione dei teorici e dei corollari della scuola di Vienna e del potere da essa acquisito grazie agli ingenti flussi di capitale scandisce gli eventi storici dello scorso secolo fino alla situazione attuale nell’affermare il neoliberismo economico e culturale in buona parte del globo terrestre anche per mezzo di potenti e coercitive ingerenze geopolitiche quali il “Washington consensus”.

La seconda parte si apre esponendo le quattro concezioni del lavoro che hanno segnato lo scorso secolo: quella cattolica, quella marxista, quella liberista e quella socialista, a cui se ne aggiunge una quinta: quella derivata dalla produttività industriale capitalista e che si propone di massimizzare l’efficienza minimizzando i costi, una sorta di versione ingegneristica del liberismo il cui maggiore esponente è stato indubbiamente Frederick W. Taylor, nella sua organizzazione della fabbrica della Ford (questa disposizione, immortalata dall’indimenticabile Charlie Chaplin nel suo capolavoro “Tempi moderni”,  è infatti comunemente chiamata taylorismo o fordismo). Il riferimento al protestantesimo calvinista come origine del capitalismo “ascetico” di Max Weber si infrange inevitabilmente contro la realtà dei fatti nell’emergere della società dei consumi. Autori illuminati come Keynes, che pur non mettendo in dubbio il capitalismo – per lo meno ufficialmente – antepongono il progresso e la sicurezza della piena occupazione al profitto hanno dato luogo a brevi periodi di serenità economica, un piccolo scorcio della felicità che ci è stata negata.

Non è possibile per un sociologo essere neutrale nelle analisi che puntano al cuore della vita individuale e collettiva: la sopravvalutata avalutatività del ricercatore rischia di fare la fine del suo teorico, colpito da depressione nel vedere tradita la propria fiducia nel capitalismo ascetico. De Masi non nasconde mai il proprio orientamento né i suoi desideri di vedere un giorno applicato interamente l’art. 3 della nostra Costituzione per la rimozione degli ostacoli che impediscono la realizzazione piena delle persone e della collettività. In una società più giusta lo sviluppo tecnologico industriale in tutti i settori e le nuove scoperte scientifiche consentirebbero a tutti di lavorare meno e in maniera più gratificante: la felicità è a un passo da noi, ma quel passo ci vene costantemente impedito.


La scuola e la cultura della donazione

di Antonio Latella

Antonio Latella ( Giornalista e Sociologo)

“Per donare – secondo l’antropologo Marcel Mauss, nipote di uno dei padri della sociologia, Durkheim – occorre possedere una forte dose di civiltà e, al tempo stesso, essere consapevoli che il valore del dono risiede nell’assenza di garanzia”.

L’attività extracurriculare nelle scuole e la formazione degli insegnanti registrano la mancata valorizzazione della cultura della donazione. Come se donare agli altri qualcosa di noi stessi, sangue e organi, non faccia parte dei nostri valori cristiani e, anche, del nostro dovere di uomini. Donare oggi, nella maggior parte dei casi ci riporta all’attuale società consumistica: a quella sorta di competizione che ci vede impegnati nello scambio di beni voluttuari in occasione di feste, onomastici, matrimoni, ecc. E non importa se per fare bella figura con familiari e amici siamo costretti ad usare la carta di credito revolving, far ricorso a una finanziaria o al vicino di casa “cravattaro”. L’ interessante è l’immagine: tanto per saldare il conto c’è sempre tempo. Nella speranza di un domani solvibile.

Per donare – secondo l’antropologo Marcel Mauss, nipote di uno dei padri della sociologia, Durkheim – occorre possedere una forte dose di civiltà e, al tempo stesso, essere consapevoli che il valore del dono risiede nell’assenza di garanzia. Questi concetti fanno maturare in noi la certezza che donare il sangue o gli organi appartiene alla solidarietà umana, all’aiuto verso il nostro prossimo: vissuti in silenzio senza lasciare tracce nella società dell’apparire.

Quante scuole italiane, nelle loro attività extracurriculari, danno la possibilità a studenti e docenti di apprendere la lezione dei coniugi americani Reginald e Margaret Green, i quali nell’ottobre del 1994 autorizzarono l’espianto degli organi del figlioletto Nicholas  (7 anni) una volta constatata dai medici la morte cerebrale del bambino, che era rimasto ferito, il 29 settembre di quell’anno, in un tentativo di rapina lungo il tratto calabrese dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria?

Chiusi in un eterno presente, impostoci dall’ultimo dio, Internet, nel nostro cervello non c’è  più spazio per certi meravigliosi ricordi del passato legati ad una società solidale e, soprattutto, impregnata di valori.

Oggi registriamo che l’attività extracurriculare nelle scuole è sbilanciata, quasi polarizzata, sulla violenza in un mondo in cui la brutalità fa parte del bagaglio umano. Secondo noi il tema trattato è giusto, ma è sbagliato il metodo usato per portare nelle aule scolastiche argomenti come il cyberbullismo, la violenza sulle donne e di genere, la lotta alla criminalità organizzata. Un metodo nel quale i profili pedagogici sono del tutto residuali, lasciati ai margini rispetto alla centralità della narrazione di “testimonial” in cerca di solidarietà e umana comprensione.

Il prevalere di quel segmento di società civile – sempre più preferito da dirigenti scolastici, corpo docente e consigli d’istituto – non fa altro che lasciare tracce nella rete e anche sui giornali dove, per una  conferenza sulle mafie (soprattutto  se i relatori sono magistrati, rappresentanti delle forze dell’ordine esponenti di una certa società civile) ricevi in dono un titolo su tre colonne corredato da foto e  didascalia. I risultati pratici? Estemporanei, con l’aggravante che la mentalità mafiosa diventa sempre più dilagante, la criminalità sempre più pervasiva, i femminicidi sempre più frequenti e la violenza di genere allarga i suoi confini.

E allora perché non affidarsi a progetti culturali sulla donazione del sangue e degli organi, magari inserendoli strutturalmente nel programma di educazione civica, da sviluppare negli istituti secondari di primo e secondo grado?


L’azienda del futuro

di Patrizio Paolinelli

Partiamo da una domanda: il capitalismo predatorio che ha divorato individui, società e ambiente da 30-40 anni a questa parte sarà sostituito nel futuro post-pandemico da un capitalismo dal volto umano? Il dibattito è aperto da tempo all’interno delle stesse élite economiche. Prova ne sia il libro di qualche anno fa di Frederic Laloux, “Reinventare le organizzazioni. Come creare organizzazioni ispirate al prossimo stadio della consapevolezza umana”, (Guerini Next, Milano, 2016, 534 pagg., 34,00 euro).

Sono passati sette anni dall’apparizione in Francia di questo corposo volume e come sappiamo l’élite economica se n’è bellamente infischiata. Ma oggi, seppure per una disgraziatissima circostanza come la pandemia, il libro di Laloux torna di grande attualità perché la crisi innescata dal Covid ha messo in luce, più di quanto già non fosse, i limiti dell’attuale paradigma organizzativo delle imprese.

Siamo tutti d’accordo: con la crisi innescata dalla pandemia la tanto paventata transizione verso un nuovo modello di sviluppo socio-economico ha subito una brusca accelerazione. Il problema è capire quale strada sarà effettivamente presa. Perché una cosa sono le previsioni su quel che accadrà domani, un’altra sono i fatti. Torna in mente la partizione del vecchio e intramontabile Machiavelli tra la realtà immaginata e quella effettuale, ossia la realtà concreta al di là delle parole, delle visioni e dei progetti di ognuno di noi.

Al momento la realtà effettuale ci dice che niente è cambiato sul piano degli assetti di potere: comandano le élite economiche globali di orientamento neoliberista, punto e basta. Il resto è quasi esclusivamente letteratura più o meno apprezzabile. Eppure ogni cosa è in movimento. In termini filosofici verrebbe da dire che in questo momento il divenire è più che mai in relazione dialettica con l’essere: l’eterno confronto tra Eraclito e Platone, tanto per capirci. Conviene allora cercare di comprendere cosa si muove all’interno del potere economico dato che è questo potere a governare ogni cosa.

Frederic Laloux è un consulente di grandi aziende. È dunque organico al modello di impresa liberista. Tuttavia negli anni si è reso conto che questo modello è anacronistico. Non solo per la crisi permanente in cui ha cacciato l’economia, per gli allucinanti costi umani e ambientali, ma per il funzionamento delle stesse aziende. Occorre allora reinventare le organizzazioni economiche, passando dall’attuale modello piramidale a un modello orizzontale in cui i lavoratori siano trattati come esseri umani e non come oggetti di nessun conto. Non si tratta di buonismo, ma di un’indicazione ispirata dalla volontà di migliorare le performance aziendali. Lavorare in un’impresa dove si è valorizzati e responsabilizzati, dove la gerarchia non è fondata sull’autoritarismo, dove le informazioni sono condivise, dove conta l’opinione di tutti, dove ci si confronta senza timori reverenziali tra management e lavoratori e dove la parola d’ordine è cooperare anziché competere; bene, tutto ciò rende l’ambiente lavorativo un luogo pieno di senso perché, per dirla con una battuta, non di solo pane vive l’uomo. E non si vive di solo pane perché gli esseri umani sono individui emotivi, spirituali e desideranti alla perenne ricerca di significati e di autorealizzazione.

Reinventare le organizzazioni” parte da una premessa: le organizzazioni sono il risultato di determinate visioni del mondo e di determinati stadi della coscienza. Ognuna di esse segue un paradigma per spiegare il quale Laloux ricorre al codice dei colori: le organizzazioni rosse sono guidate da un’autorità basata sul comando (per esempio, la criminalità organizzata); le organizzazioni ambrate sono guidate da gerarchie stabili e scalabili (per esempio, l’esercito); le organizzazioni arancioni da innovazione, responsabilità e meritocrazia (per esempio, le multinazionali); le organizzazioni verdi sono guidate da valori culturali (per esempio, la famiglia). Per quanto riguarda le attività economiche Laloux propone di cambiare paradigma e di passare al modello Teal, color foglia di tè. Tale modello prende il meglio delle culture aziendali del passato, le supera e si fonda su tre prerequisiti principali: fiducia nel prossimo, realizzazione integrale della persona, capacità di autorganizzazione degli individui e dei gruppi.

Sogno? Utopia? No. Si tratta di un processo in atto. E gli esempi non mancano. La gran parte del libro di Laloux consiste infatti in una minuziosa rassegna di pionieristiche attività economiche che da tempo adottano il paradigma Teal nei più diversi comparti: assistenza sanitaria, manifattura, scuola, industria energetica e alimentare. Attività le cui dimensioni vanno da 100 a oltre 40mila dipendenti. Si tratta organizzazioni passate dal modello del controllo totale e della rigida divisione tra chi comanda e chi ubbidisce a organizzazioni basate sull’investimento negli individui. Aziende che danno fiducia ai lavoratori, che puntano sulle loro abilità, che li premiano per il loro impegno e che creano un ambiente di lavoro in cui ci si sente per prima cosa persone. Risultati economici? Eccellenti. Assenteismo? Parola sconosciuta. Innovazione? Continua. Processi decisionali? Rapidi e efficaci. Clienti? Pienamente soddisfatti e fidelizzati.

Pur nella loro diversità queste attività hanno in comune l’idea di partecipazione. Collaborare è meglio che confliggere, ascoltarsi gli un gli altri è meglio di imperare, decidere insieme all’interno di un sistema di rapporti paritari è meglio di comandare calando dall’alto decisioni preconfezionate e indiscutibili. A ben vedere il salto qualitativo del paradigma Teal è quello di uscire definitivamente dalla visione del lavoratore inteso come un automa meramente esecutivo delle disposizioni stabilite in camera caritatis dal vertice aziendale. Fine della robotizzazione dell’umano. Praterie aperte alla valorizzazione e all’autovalorizzazione del soggetto. Il cuore al posto del potere. In termini filosofici verrebbe da dire che l’alienazione del lavoro ha chiuso il suo cerchio. Sarebbe ora. Si approda così a un nuovo stadio della coscienza dei lavoratori e delle imprese.

La sintesi migliore della portata critica del modello Teal la offre forse Yvon Chouinard, fondatore del marchio d’abbigliamento Patagonia e che vale davvero la pena di riportare per esteso: “Sono un imprenditore da quasi cinquant’anni. È difficile per me dire queste parole, come lo è per qualcuno ammettere di essere un alcolizzato o un avvocato. Non ho mai rispettato questa professione. L’impresa è l’indiziata numero uno, perché è nemica della natura, perché distrugge culture native, perché prende ai poveri per dare ai ricchi e perché avvelena la terra con i rifiuti delle sue fabbriche. Eppure le aziende possono produrre cibo, curare le malattie, controllare la popolazione, dar lavoro alle persone e in genere arricchire la nostra vita. E possono fare queste cose buone e realizzare un profitto senza perdere la propria anima.”

Che cosa occorre fare affinché le imprese non perdano la propria anima? Chiudere col passato e cambiare strada. Attraverso il racconto delle esperienze aziendali dell’avanguardia Teal, Laloux è molto chiaro. L’azienda del futuro deve fondarsi sulla leadership diffusa e abbattere la barriera tra vita e lavoro. Nelle aziende Teal ognuno risponde del proprio operato a tutti gli altri membri del gruppo di lavoro e ogni gruppo di lavoro non è ispezionato da un’unità superiore, ma dalle altre strutture operative presenti nell’organizzazione. Solo così si possono liberare energie creative autentiche, svincolate dalla logica dello sfruttamento e della paura, dalla guerra di tutti contro tutti, dall’alienazione del lavoro e dall’ideologia del profitto a ogni costo. Le aziende Teal passano in tal modo dal modello organizzativo imposto, che attualmente caratterizza la gran parte delle attività economiche, a un modello pulsante, vivente, strutturato intorno all’intelligenza collettiva e ai bisogni reali degli individui, primo fra tutti quello di vivere una vita degna d’essere vissuta. In termini etici ciò significa passare dall’egoismo all’altruismo. In termini politici da una democrazia formale a una democrazia sostanziale. In termini economici dal benessere esclusivo degli azionisti al benessere collettivo. Resta una domanda: l’élite economica che ancora oggi governa il mondo sarà in grado di accettare questa evoluzione o si ostinerà a precipitare il futuro in un nuovo feudalesimo?

Siamo tutti d’accordo: con la crisi innescata dalla pandemia la tanto paventata transizione verso un nuovo modello di sviluppo socio-economico ha subito una brusca accelerazione. Il problema è capire quale strada sarà effettivamente presa. Perché una cosa sono le previsioni su quel che accadrà domani, un’altra sono i fatti. Torna in mente la partizione del vecchio e intramontabile Machiavelli tra la realtà immaginata e quella effettuale, ossia la realtà concreta al di là delle parole, delle visioni e dei progetti di ognuno di noi. Al momento la realtà effettuale ci dice che niente è cambiato sul piano degli assetti di potere: comandano le élite economiche globali di orientamento neoliberista, punto e basta. Il resto è quasi esclusivamente letteratura più o meno apprezzabile. Eppure ogni cosa è in movimento. In termini filosofici verrebbe da dire che in questo momento il divenire è più che mai in relazione dialettica con l’essere: l’eterno confronto tra Eraclito e Platone, tanto per capirci. Conviene allora cercare di comprendere cosa si muove all’interno del potere economico dato che è questo potere a governare ogni cosa.


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