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Niente è per sempre. Diagnosi sociologica di una massima mediatica

di Patrizio Paolinelli

La campagna comunicativa fu breve ma intensa. Pochi anni prima della pandemia da Covid-19 alla radio, in Tv e su Internet si sentiva ripetere spesso: Niente è per sempre. A pronunciare queste parole erano i più diversi personaggi: attori, cantanti, comici, sportivi, politici, scrittori, giornalisti, influencer e comparse varie. La sentenza divenne così popolare da vibrare nelle conversazioni quotidiane del grande pubblico. I bersagli del nientesemprismo erano i più diversi: dalla vita lavorativa alle scelte politiche, dagli orientamenti culturali alle storie d’amore e così via. Poi è arrivata la pandemia e “Niente è per sempre” scomparve dalla ribalta mediatica. Finita l’emergenza sanitaria la sentenza è tornata solo occasionalmente a fare capolino sui mezzi di comunicazione. Evaporata nel nulla? No, semplicemente non è stato più necessario insistere. La campagna comunicativa aveva raggiunto il suo obiettivo: oggi Niente è per sempre costituisce un input (un frame direbbero i linguisti cognitivisti) che permette di elaborare una visione del mondo basata principalmente su due convinzioni: 1) tutte le relazioni sociali sono all’insegna del provvisorio; 2) rifiutare il Per sempre lascia la porta aperta a occasioni, avventure, piaceri.

Ma né Simmel né i sociologi che a lui si ispirarono tentarono di connettere in maniera critica l’indifferenza metropolitana con la realtà storica di un capitalismo che forgiava i rapporti umani a uso e consumo della borghesia. La quale è blasé di natura. Ossia: indifferente e insensibile verso l’altro (salvo inconfessabili convenienze o pelose filantropie). Si dirà che anche in passate civiltà l’indifferenza e l’insensibilità facevano parte del panorama sociale. Ma intanto, che ci sia stato qualcuno come noi o peggio di noi non può costituire un’assoluzione, e poi si tratta di un’astrazione che non permette di cogliere la qualità particolare dell’indifferenza e dell’insensibilità in società fondate sulla merce. Il blasé ben si adatta a questo tipo di società e si è imposto a tal punto da diventare un atteggiamento necessario anche per chi avrebbe tutto l’interesse a non essere snob, scettico, o peggio ancora cinico. Comunque sia, il blasé di un secolo fa si è evoluto e la chiave per comprendere il suo sviluppo risiede in tre storiche mosse attuate dal capitalismo nei confronti dei dominati: 1) averli espropriati del proprio tempo come produttori; 2) averli impiegati a tempo pieno come consumatori; 3) averli socializzati come feticisti della merce, i famosi prosumer.

Per sempre e la sua negazione, Niente è per sempre, costituiscono due facce della stessa medaglia: una appannata, l’altra sfavillante. 1) Faccia appannata. Per sempre ipoteca il tempo e punta alla realizzazione di un’utopia collettiva, fosse anche quella minima delle vecchie fiabe: E vissero felici e contenti. A suo modo la fiaba è iscritta in un tempo escatologico: dopo tanto penare, finalmente la felicità per tutti: principi, principesse e plaudenti folle contadine. 2) Faccia sfavillante. Niente è per sempre libera il tempo da qualsiasi ipoteca e punta alla realizzazione di un’utopia soggettiva, quella massima della fiaba mediatica: la vita lussuosa delle star dello spettacolo. Sul piano cognitivo è la strada più facile perché la vita lussuosa non va immaginata. Si presenta a chiunque posi gli occhi su qualsiasi schermo o sulle vetrine nelle vie dello shopping. Lo sguardo si fa tattile e il sogno dell’happy end è a portata di mano.

Attraverso i suoi protagonisti i media mettono il suggello a ciò che è già avvenuto in una vita quotidiana immersa nella spettacolarizzazione del Sé. Immersione che destruttura il mondo della fabbrica produttrice di manufatti (la casa automobilistica) e lo ristruttura intorno alla fabbrica produttrice di immagini (la casa cine-televisiva). La produzione di immagini è di un’abbondanza alluvionale, spesso gratuita, persino autoprodotta tramite i social network e completamente mercificata. In breve, è fatta per non durare. Tanto basta a rendere sufficiente una semplice parola d’ordine come “Niente è per sempre” per ridare senso a una realtà quotidiana che ha sempre meno senso. Salta subito agli occhi che una sintesi temporale di questo tipo lubrifica i modelli culturali dominanti. Chi balla al ritmo del Niente è per sempre fa parte a pieno titolo delle agenzie di socializzazione in costante ascesa quali i mezzi di comunicazione: il mediatizzato può scimmiottare sui social network quel che vede in Tv, nei video musicali, negli spot pubblicitari e nelle copertine patinate. Ed è legittimato a trascurare agenzie di socializzazione in costante discesa quali la famiglia, la scuola, la chiesa, i partiti, i sindacati: il mediatizzato può sopportarle o addirittura ignorarle ottenendo così la patente di rivoluzionario/a dalla Tv, dai video musicali, dagli spot pubblicitari e dalle copertine patinate.

Da quando i rivoluzionari anticapitalisti sono stati politicamente sconfitti, la patente di rivoluzionario/a è generosamente distribuita dai media a parecchi personaggi pubblici o aspiranti tali. Gli spazi di manovra di questi rivoluzionari sono ben definiti: la tecnologia e il costume. Non resta allora che chiedersi: cos’è una rivoluzione politica? È un’accelerazione del tempo. In quanto tale ha vita breve. È un momento: un momento entusiasmante, un momento in cui tutto cambia, un momento destinato a segnare il futuro. Passato il turbine rivoluzionario si fanno i conti: o si è vinto, o si è perso. Normalmente una rivoluzione politica comporta forti rischi (carcere, condanne a morte, torture) e spesso i giovani sono tra i più inclini a correrli. La rivoluzione tecnologica e quella dei costumi conoscono un diverso andamento: difficilmente comportano la perdita della vita o della libertà per i loro protagonisti, rappresentano buoni affari per il potere economico e sono coccolate dalla stampa. Perciò hanno dalla loro parte il tempo: da più di mezzo secolo le star cine-televisive scandalizzano incitando alla rivoluzione sessuale, da più di mezzo secolo gli araldi della rivoluzione digitale promettono un avvenire meraviglioso. Entrambi danno spettacolo.

No, perché sono i padroni del tempo. In quanto tali decidono le regole del gioco. Per esempio legittimando la concorrenza come regola di vita (chi ha più ascolti? Chi ha più follower?). La posta in gioco? Il successo, il sex-appeal, i soldi. Per conseguire questi risultati occorre un ordine del tempo molto ben strutturato. Il problema si pone quando tale ordine vacilla perché i dominatori esplorano nuove strade per mantenere il potere. In tal caso si parla di società in transizione. Si parla della nostra società. Niente è per sempre non è che un diabolico dettaglio di questa transizione. Dettaglio rivelatore di una società che cresce mentre decresce, che migliora mentre peggiora, che avanza mentre arretra. Chiamiamo questi movimenti di unità e opposizione con un nome di vecchia conoscenza: contraddizioni. Anziché limitarsi a certificarle, la sociologia critica ha il compito di analizzarle e combatterle con tutte le proprie forze.

Tutto cambia davanti allo schermo e non c’è una puntata uguale all’altra. Tuttavia la durata non scompare. Come potrebbe? Senza un qualche tipo di durata non ci si impadronisce del tempo. Per questo pubblicità, video musicali e videogiochi funzionano sulla ridondanza. Per questo generi, sottogeneri e serie televisive rassicurano i mediatizzati: tutto passa, tutto resta, tutto circola. E in caso di esaurimento della vena creativa tutto ritorna: sotto forma di remake, prequel e sequel. Ecco indotta una stabilità che non subisce strappi a causa delle discontinuità della vita fuori dallo schermo. Difficoltà presagite e allo stesso tempo ignorate nella speranza che le cose non vadano come potrebbero andare, e cioè male. Ma in fondo a che scopo preoccuparsi? Tutto finisce perché dopo il matrimonio c’è il divorzio, dopo l’occupazione la disoccupazione, dopo l’alfabetizzazione l’analfabetismo. Tre evidenze che come tutte le evidenze hanno una presa notevole nella formazione degli schemi con cui i mediatizzati costruiscono la realtà del moto perpetuo. È la forza di un pensiero che non pensa. È la forza dell’ovvio. E l’ovvio non si interroga sulle cause dell’ovvietà. La sua arte è la fuga.

Niente è per sempre è un semplicismo. Va in crisi per un nonnulla. Basti pensare al fatto che la lingua madre è per sempre, così come i genitori e i figli. Se poi si aggiunge che una volta imparato non ci si dimentica più come si nuota o come si va in bicicletta, allora il nientesemprismo presenta troppi punti deboli per essere preso sul serio. Invece va preso molto sul serio proprio perché non regge alla minima analisi critica. La sua forza di convinzione proviene dal potere magico-sacrale dei media. Cioè da una realtà che è vicina e lontana al tempo stesso e che il mediatizzato percepisce come fonte di inesauribili rivelazioni. Dunque una realtà che possiede almeno un paio di requisiti del sovrannaturale. Oltretutto la defunta star dello spettacolo può risorgere sullo schermo in qualsiasi momento. E poi l’espressione Niente è per sempre colpisce come uno slogan pubblicitario. Offre una massima con cui chiunque può liberarsi dalle costrizioni che imprigionano il corpo, la mente, la vita. Niente è per sempre è un invito alla libertà e un modo di stare al mondo. È la formula magica della felicità.

Il precetto Niente è per sempre è di tipo morale: si è liberi perché senza vincoli. Ma senza vincoli non si può vivere perché tutti hanno bisogno del fornaio e degli affetti. Come risolvere il problema? La soluzione è già contenuta nel precetto. Il provvisorio al posto del permanente, il discontinuo al posto del continuo, l’intervallo al posto della ripetizione sono temporalità che esigono rotture continue della durata. Perciò la noia incombe sulla vita del mediatizzato. E allora è bene cambiare fornaio e cambiare affetti. Dopodiché cambiare ancora. Ci si trova così in una incresciosa situazione: Niente è per sempre è Per sempre. Torna il tempo ciclico. Che ovviamente non è quello della regolarità stagionale con le sue attese e le sue attività produttive. È il tempo ciclico del consumo con le sue spese e le sue attività riproduttive: l’apericena e la discoteca, la vacanza e la festa, la movida, il concerto. È il tempo disimpegnato dei rentier. Dei giovani agiati che spendono e spandono i soldi guadagnati dai genitori. È il tempo a cui aspirano i giovani meno agiati che lavorano nei locali notturni frequentati dai coetanei più fortunati e di quelli che li riforniscono di droga.

Nella realtà industriale di ieri il nientesemprismo non avrebbe avuto la stessa presa sul senso comune che ha oggi perché il tempo aveva traiettorie definite (scuola, lavoro, pensione) e divisioni altrettanto definite (tempo libero, tempo di lavoro). Nella società in transizione dei nostri giorni traiettorie e divisioni tendono a convergere in un’unica dimensione: la prestazione occasionale. Poiché le occasioni sono scarse nella realtà e abbondanti nei mondi delle apparenze, Niente è per sempre comporta per l’individuo: un costante lavoro di ricerca delle opportunità; l’impegno per sfruttare tali opportunità; una strategia per trovare nuove opportunità. Questo circuito che in tanti devono percorrere è accompagnato dal refrain: dimenticati il posto fisso. Di solito tali coristi sono dei mini-ulisse che hanno colto l’opportunità e sono arrivati in alto: il celebre cantante, il giornalista affermato, il famoso esperto. Tutti insieme invitano i giovani a lavorare gratis per muovere i primi passi nel mondo della produzione e presentano la workation (il lavoro associato alla vacanza) come una moda da seguire per sentirsi parte della tribù dei Millennial o della Gen Z. È una questione di stati danimo. In fondo anche uno schiavo può essere felice se non ha coscienza della propria schiavitù.

I padroni del tempo lo sanno molto bene: gli individui hanno bisogno di lavorare per sopravvivere. Ma sembra che di lavoro ce ne sarà sempre di meno e sempre peggio pagato. Se le cose stanno così occorre adattarsi a cambiare lavoro diverse volte nel corso della vita? E come si fa? Nessun problema: cè la formazione permanente. Ma quanti sono i permanentemente formati che fanno rientrare dalla finestra il posto fisso cacciato dalla porta? Pochi. Tuttavia quei pochi segnalano ai molti che nonostante il lavoro sia scarso e malpagato è ancora un ordinatore della nostra società. Indubbiamente un ordinatore in crisi. Finora il nostro modo di produzione ha resistito mantenendo alta la tensione tra occupazione e disoccupazione, posto fisso e posto precario, debiti e crediti. Allinterno di quella tensione si potevano inventare finti lavori, opere inutili e selve di contratti a termine. Ma cosa accadrà quando il lavoro salariato non occuperà più il tempo e i pensieri di una moltitudine assai più cospicua dell’attuale? Accadrà che in barba a Monsieur Robot e Madame Intelligenza Artificiale sbarcherà comunque il lunario. E come battezzeremo questa massa di indigenti? Incontemporanei. Perché questo strano nome? Perché non avendo vincoli temporali saranno fuori dal tempo sociale. Per costoro unità standardizzate come la settimana e il mese saranno inutili e perderanno di significato. Lavorando di fantasia potremmo immaginare nel futuro una società dotata di calendario e una senza.

La contemporaneità esige il suo tributo: il lavoro della fabbrica e dell’ufficio cede il passo alle tipicità del lavoro nel mondo dello spettacolo. Un mondo dove tutto è provvisorio. Ogni contratto è temporaneo, ogni performance un’occasione per essere notati, ogni forma di solidarietà una nota di demerito. Perciò nessuno è più imprenditore di se stesso dell’attore. E all’attore deve somigliare il salariato e lo stipendiato se vuole sopravvivere. D’altra parte, mentire ai colleghi e ai superiori non è forse una recita? Mentire a sé stessi non è forse un film di cui si è protagonisti? Il contratto è finito? Si va a caccia di un altro. Ma le risorse sono scarse, perciò procurarsi un reddito diventa una questione di vita o di morte e i concorrenti vanno eliminati. Ognuno è solo, il tempo stringe e occorre prendere le occasioni al volo: anche se retribuite poco, pochissimo, talvolta niente. L’importante è darsi anima e corpo. Non è proprio questo che fanno gli attori sul palco e davanti a una telecamera?

La massima Niente è per sempre ha una funzione sociale: sollecitare gli individui al cambiamento continuo per rispondere alle esigenze di qualsiasi mercato: del lavoro, dell’esperienza, dei desideri. È evidente che la sovranità dell’incertezza ha come conseguenza l’indebolimento di una delle basi fondanti di qualsiasi relazione sociale: la fiducia. Eppure persino tanti rapporti commerciali, pur blindati da norme e contratti, vacillerebbero senza un’iniezione di fiducia. Dunque Niente è per sempre non implica l’assolutismo della sfiducia sul mondo, perché in tal caso la coesione sociale andrebbe in briciole. Implica l’accettazione di una vita da free lance: nel lavoro, nell’esperienza, nel desiderio. Investimenti. I padroni del tempo lo sanno molto bene: gli individui non si isolano. Cercano di stare insieme, di dare e avere fiducia. Ma non ci riescono, o ci riescono sempre meno. E cosa fanno per appianare un bilancio troppe volte in rosso? Attingono a risorse psichiche offerte dall’industria culturale. Un’ottima fonte è la pubblicità. Per esempio si può regalare un diamante. Perché come recita un vecchio e fortunato slogan Un diamante è per sempre. Sono pochi i prodotti che fanno rientrare dalla finestra il Per sempre uscito dalla porta. Ma quei pochi segnalano che senza regolarità e aspettative la società precipita nell’anomia. D’altra parte, popolarizzare il lusso tiene in vita l’ordine economico. E l’ordine economico mantiene viva la tensione tra permanenza e impermanenza, continuità e discontinuità, aspettative realizzate e aspettative deluse. È tutta una questione di investimenti. Basta chiedersi: fino a quando un diamante è per sempre? Finché rende. Si apre al mediatizzato un problematico campo d’azione: gestire il valore d’uso dell’altro e decidere quando è esaurito il suo valore di scambio.

Il conformismo può essere genericamente definito come l’accettazione passiva delle regole del gioco sociale. Categoria che va molto stretta al mediatizzato. Eppure sui social network le forme espressive sono largamente mutuate dai vecchi media. Ossia: immagini e contenuti riproducono rappresentazioni del corpo, forme estetiche, modelli di intrattenimento collaudati da tempo. Se si fa notare che si tratta di impercettibili variazioni sul tema, o peggio ancora di Tv fatta in casa, il rischio di suscitare reazioni rabbiose è molto alto. Chi può ammettere di non essere originale? La ferita all’Io sarebbe troppo dolorosa per essere sopportata. Tanto più se il tiktoker ottiene contratti pubblicitari. E per mantenerli attivi le leggi della visibilità impongono di rompere continuamente gli schemi. Per le star dello spettacolo il gioco è facilitato in virtù della loro posizione dominante sul mercato delle immagini. Per i creatori di coreografie e gag sui social network il gioco si fa duro una volta raggiunta una massa critica di utenti: occorre mantenerla e incrementarla. E allora che cosa possono mettere sul tavolo per continuare a partecipare alla partita? Il loro tempo. Con questo capitale cercano di stupire e essere stupiti, di sorprendere ed essere sorpresi. Naturalmente a vincere è il banco.

Le sorprese sono classificate dalla sociologia come irregolarità temporali. Quando nella vita privata tali irregolarità sono ossessivamente ricercate e magari ostentate pubblicamente sui mezzi di comunicazione, le sorprese finiscono di sorprendere e per i protagonisti inizia la noia, l’insoddisfazione, il disagio del tempo vuoto. A questo punto arriva in soccorso la famosa attrice. La quale si iscrive alla piattaforma Tinder non per inseguire occasionali partner sessuali, ma nientemeno che per trovare l’anima gemella. E come lei altre belle ragazze (almeno così ci informa la stampa). Segno che il promiscuo, il provvisorio, il discontinuo non funzionano? Al contrario: funzionano proprio perché non funzionano. Detto altrimenti, funzionano bene proprio perché funzionano male. L’ordine socio-temporale non è contradditorio a caso. Produce patologie, disfunzioni e fratture che poi gli individui devono aggiustare da soli tentando, talvolta a costo di tremende sofferenze psichiche, di ricucire la trama del proprio vissuto. Come? Introducendo nella vita personale continuità, durate, regolarità. Dove? In una realtà sociale dominata da rotture, discontinuità, irregolarità. Per i più questo conflitto tra ricerca soggettiva e costrizione oggettiva è impossibile da risolvere nella vita pratica. Ma non nella vita immaginaria. Su Tinder la famosa attrice può tornare a sognare, sperare, sperimentare. E con lei gli iscritti all’app.

Le relazioni sociali fondate sulla coscienza del provvisorio alimentano due complementari sentimenti del tempo: quello dell’impermanenza e quello della vita adrenalinica. Gli spazi in cui i due sentimenti si esprimono sono: la cornice, il recinto, l’arena. Essi corrispondono alle chances che i mediatizzati si giocano per realizzare una vita intesa come opera filmica, esibizione circense, conflitto. I media istruiscono il grande pubblico a far proprie tutte e tre le dimensioni e a mescolarle tra loro. Beninteso: il film va continuamente riscritto, l’esibizione sempre rinnovata e nell’arena non si smette mai di combattere. Se si vuole Niente è per sempre è un genere biografico. Ecco nascere la dipendenza dai social network. Ecco nascere la partecipazione attiva alla propria dipendenza. Ecco il business dell’infelicità.

Ovviamente si generano conflitti tra regolarità temporali socialmente imposte (orari e calendari) e irregolarità temporali soggettivamente autodeterminate (disimpegno, spontaneità). Meno ovviamente si viene a generare uno scambio vantaggioso sia per l’individuo senza potere sia per il potere dei media. Per l’individuo senza potere perché lo stimola a cercare le novità con cui ammazzare il tempo; per il potere mediatico perché lo spinge a offrire un presente dietro l’altro da ammazzare. Per i mediatizzati Niente è per sempre si caratterizza come uno strumento di difesa: bruciare letteralmente i tempi. Per i mediatizzatori come uno strumento di offesa: produrre tempi da bruciare. Il circolo è vizioso, per non dire perverso. Però funziona. Funziona per andare oltre la fretta, oltre la velocità, oltre l’accelerazione: nell’era del capitalismo eterno. La fine della storia è certamente un’illusione. Ma è un’illusione reale con cui fare i conti.

Il nientesemprismo non ha nulla a che fare con l’interrogarsi sulla caducità della vita. Assume un significato solo all’interno dell’esperienza effettuale nell’era della sua mediatizzazione. La morte non appare all’orizzonte perché è la fine del mondano. Perciò non è contemplata, pur essendo il sangue sparso in grande abbondanza nell’universo dell’intrattenimento. Innumerevoli morti ammazzati scorrono davanti agli occhi di spettatori cine-televisivi e giocatori di videogame sin dalla più tenera età, facendo dello smisurato un esorcismo per schivare la falce che tutto e tutti miete. Gabbata la Nera Signora Niente è per sempre esprime una massima energetica che permette di aprire e chiudere contatti comunicativi con individui, gruppi e istituzioni dando senso ad un agire. Daccordo: è un agire per agire. Ma chi si ferma è perduto non è solo un modo di dire. È un fare che legittima agli occhi della società una sentenza morale: è bene correre da una situazione all’altra e da una sensazione all’altra; è male tutto ciò che frena la corsa e che inibisce l’eccitazione. La città che non dorme mai, il fascino della notte, le trasgressioni clandestine diventano realtà ideali per un modo d’essere, di vivere e di pensare. Un ethos che non si spegne neanche nelle ore diurne.

Nella vita quotidiana le cose non vanno lisce come in un villaggio turistico. Di solito rotture della continuità come un divorzio o un licenziamento lasciano ferite psicologiche e materiali. E i più sensibili possono provare una stretta al cuore nel gettare via un paio di vecchie scarpe. Ma negando il futuro Niente è per sempre è una di quelle massime che permette di fare il callo nei confronti di qualsiasi perdita. A curare i vuoti comunicativi con gli altri, con sé stessi e col mondo ci penseranno gli esperti. I quali scaveranno nel passato per offrire un futuro (psicologo). Oppure scaveranno nel presente per offrire un altro presente (coacher). Quanto resisterà il callo psichico alle continue perdite è un affare soggettivo. Diventa un affare sociale nel momento in cui si diffonde l’inutilità di credere in qualcosa di permanente. Il mondo appare allora molto chiaro e molto ostile. Non occorrono particolari titoli di studio per arrivare a questa conclusione: fa parte del senso comune. Come fa parte del senso comune che il denaro è il più potente mediatore del rapporto con l’altro. Sia per attrarlo quando conviene sia per respingerlo quando non conviene.

Come per il giocatore d’azzardo chi fa propria la massima Niente è per sempre si trova nella condizione di prendere continue decisioni. Brivido e studio, simulazione e dissimulazione, vincere o perdere. Tutte tensioni, strategie e risultati che richiedono propensione al rischio e un complesso expertise. Con un vantaggio: anche in caso di sconfitta il dispiacere dura poco perché, volenti o nolenti, non si tarda ad assaporare il piacere di una nuova partita. Ciò che tiene insieme piacere e dispiacere è la coazione a ripetere, che, patologica un tempo, ha assunto di recente un nome taumaturgico: resilienza. Per il resiliente le partite sono tutte uguali e tutte diverse. Per fortuna si può sempre barare. La cosa si fa interessante perché come si fa a barare contro il tempo? Manipolandolo. Un esempio: per quanto tempo nella vita occorre essere resilienti? L’ideologia neoliberista non risponde chiaramente. Ma lascia intendere che si debba essere resilienti per sempre.

Il mediatizzato si priva volentieri del libro. Non c’è da allarmarsi: è ovvio che sia così. E non solo perché dedica il proprio tempo ad altri strumenti di comunicazione o perché nei film quasi mai protagonisti e comparse sono ripresi mentre leggono. Ma soprattutto per due motivi. Primo motivo, perché la parola stampata non è modificabile, è fedele anche se incita all’infedeltà e col trascorrere del tempo resta identica a sé stessa: un libro è per sempre. Secondo motivo, la lettura della carta stampata è uno di quei rari momenti in cui si è davvero soli con se stessi, inaccessibili agli altri e sovrani della propria vita privata: in pratica invisibili. Per tutti questi motivi il nientesemprista coglie al volo l’occasione di presentarsi come un eretico: perché assegnare così tanto valore alla pagina stampata quando quella digitale posso modificarla a mio piacimento e se mi va farla sparire in un attimo? Certo, i file cestinati possono essere riportati alla luce da software di recupero, i messaggini cancellati ripescati dalla polizia postale e tutti siamo sorvegliati dalle Big Tech. Ma l’eresia resta. Per far felice il nientesemprista basta il suo odore. Non sa di bruciato e nessuno si scotta. È l’individualismo disperato di un individuo mutilato. Un individualismo lontanissimo dalla tradizione illuminista. In vita i Lumi più che la felicità conobbero censure e persecuzioni. Portarono al massimo delle sue possibilità la cultura tipografica e il tempo lungo della lettura. Al potere dei media digitali e del tempo reale l’illuminista non serve più. Tornano più utili gli eretici senza eresia.

Se volessimo analizzare il nientesemprismo sul piano comunicativo giungeremmo alla facile conclusione che a indebolirsi è soprattutto il referente. Cioè, l’aggancio tra la parola e il suo oggetto. Niente è per sempre esige dunque un modesto patrimonio linguistico con cui leggere gli altri e il mondo. Meno parole scorrono tra Ego e Alter più è rapido il contatto. Tempo fa capitava di vedere in qualche film la seguente scenetta: una giovane coppia ha appena finito di fare l’amore e un partner chiede all’altro: A proposito, come ti chiami? Di solito i due si erano appena conosciuti a una festa molto alcolica. La scenetta ha funzionato così bene che non c’è stato più bisogno di replicarla e infatti non la si vede più. Tuttavia ci dice molte cose sulla percezione dei ritmi sociali. Ordini di successione come il corteggiamento prima e la consumazione dell’atto sessuale dopo, possono essere ribaltati dentro e fuori lo schermo senza provocare alcun trauma. La vacanza trasgressiva, la discoteca, il Progetto Orgasmus costituiscono situazioni in cui disarticolare consolidate ritualità ormai considerate dantan. Di buono c’è che scardinare l’ordine di successione degli eventi rende euforici e catapulta nel futuro. Di meno buono c’è che l’usa e getta fa dell’esperienza una discarica. Si può non comunicare.

A dispetto della propria tradizione Niente è per sempre necessita di alcune condizioni. Per esempio, un corpo tonico, giovane e in salute Per sempre. Sui social network ci si può imbattere nell’esibizione di madre e figlia che ballano davanti alla telecamera al ritmo di un motivetto orecchiabile. Le due donne sono bionde, in splendida forma fisica, indossano T-shirt, jeans, scarpe da ginnastica e sono quasi indistinguibili come le Barbie, di cui sono la rappresentazione vivente. Una mise, un’esibizione, una filosofia giovanilista che mal sopportano la malattia, i difetti dell’età, la mancanza di sex appeal. Niente di nuovo. La glamourizzazione del sé corporeo costituisce una sfida perenne al compiacimento e all’autocompiacimento. E da sempre l’aura che accompagna i divi cinetelevisivi è fatta proprio dal grande pubblico che ammira le star per poi ammirare se stesso. Dove collocare questo processo all’epoca del Web 2.0? Nell’appropriazione indebita dell’immagine? Nell’economia del dono? Né luna né l’altra. Semplice mitologia. Mitologia dell’eterna giovinezza. Mitologia confortante perché non si può vivere perennemente nel provvisorio. Anche il nientesemprista ha così un progetto di vita e un lavoro a tempo indeterminato: gestire il proprio corpo. È vero, altro non gli è rimasto. Ma è più che sufficiente per lenire la sofferenza di vivere in una società in cui tutto muore.

Recita un vecchio adagio: Dalla vita non si esce vivi. Ma sarà per sempre così? Non lo sappiamo. Di certo sappiamo che nell’attuale fase di transizione le élite al potere cercano di accaparrarsi nuove risorse senza rinunciare alle vecchie. E la nuova risorsa oggi si chiama tecno-scienza. Così avanzata da sconfiggere molte malattie, ritardare l’invecchiamento e forse sconfiggere la morte. Su quest’ultima frontiera si colloca il transumanesimo. Unita dall’idea che la specie umana possa trascendere se stessa questa discussa corrente di pensiero presenta al suo interno alcune tendenze. C’è chi sostiene che dopo la morte solo il cervello può essere salvato dalla degenerazione, chi prospetta l’upload della mente di un individuo su una piattaforma, chi l’avanzata dei cyborg, chi pensa alla vita eterna, chi più modestamente a una vita millenaria e così via. Come andrà a finire nessuno lo sa. Tanto più se, come fanno i transumanisti, si isola la tecnologia dalla politica pensando che goda di vita autonoma. Comunque sia, si può ragionevolmente ipotizzare che la storica linea del tempo umano (nascita, educazione, lavoro, riproduzione, vecchiaia e morte) sia destinata a subire forti trasformazioni. Quello che il transumanesimo lascia in sospeso sono almeno tre questioni: il sé dell’individuo sarà disincarnato in tutto o in parte? Tutti godranno del prolungamento esponenziale della vita o solo una minoranza? Differenti durate della vita diventeranno conclamate discriminanti di classe? Domande da film di fantascienza. Domande legittime se un giorno dalla vita si uscirà vivi.

Negare il potere dei media è come negare la luce del sole. Eppure è quello che avviene da circa trentanni a questa parte nelle facoltà di scienze della comunicazione. Ma se i media non influenzano il comportamento collettivo cosa resta? Resta la borghese libertà del soggetto. Per il quale le istituzioni mediatiche esistano per favorirne il movimento: si può passare da un canale televisivo allaltro, si può scegliere questa o quella app, questo o quel social network, questa o quella piattaforma. Dalla libertà formale al potere sostanziale il passo è stato breve. Anno dopo anno i manuali più diffusi di sociologia della comunicazione hanno finito per trasferire il potere dei media dai produttori di contenuti ai consumatori. Dunque, si insegna agli studenti a non criticare la cultura di massa (perché non esiste più dato che l’audience è frammentata), a non indagare la pubblicità (perché è un linguaggio tra gli altri), all’inerzia nei confronti del sistema dell’informazione (perché non influenza i destinatari). Obiettivi raggiunti, almeno nel mondo dell’accademia. Dove da decenni non si protesta più e dove fioriscono cavillosi studi (prevalentemente provenienti dall’area culturale anglosassone e ruminati in Italia) che si soffermano su aspetti particolari nel comportamento dello spettatore e li assumono come esemplari. Per esempio, la scoperta che frange di pubblico intrepretino più o meno a loro uso e consumo determinati contenuti trasmessi dai tradizionali mezzi di comunicazione serve a confermare, da un lato, lidea di un destinatario partecipante, attivo, messo alla pari con l’emittente e, dall’altro, la bontà della formula determinista secondo la quale il medium è il messaggio. Perciò la critica ai contenuti è inutile per non dire sbagliata. Di conseguenza la ricerca e la riflessione sono sempre meno orientate a verificare le abissali disuguaglianze tra chi genera i prodotti mediali e chi ne fruisce o a esplorare quanto i valori promossi dai media vecchi e nuovi appartengano all’ideologia neoliberale. La sociologia accademica fa bene il suo lavoro e contribuisce alla produzione delle idee dominanti. Il risultato sono nuove alienazioni.

Dott. Patrizio Paolinelli, La Critica Sociologica, LVIII 229, Primavera 2024


Rompere il tabù del suicidio

di Sofia Pulizzi

Il 7 novembre nelle sale è uscito il film “Il ragazzo dai pantaloni rosa” un film “necessario” come definisce anche l’attore protagonista Samuele Carrino, necessario perché ci sono storie, come questa, che devono essere raccontate, per far sì che determinate vicende non si ripetano mai più. Un film che per fortuna ha fatto molto rumore, proprio per quello che si cela dietro, ovvero la storia realmente accaduta di un ragazzo di nome Andrea Spezzacatena che purtroppo non c’è più. Questa pellicola ha avuto e sta continuando ad avere un enorme successo, non solo nelle sale ma anche a livello mediatico, tutti ne parlano, tutti lo commentano, tutti mostrano la vicinanza a questa storia e alla famiglia del ragazzo, molti si sono rivisti nelle dinamiche che viveva il protagonista, molti sono stati sensibilizzati, molti hanno trovato il coraggio di aprirsi dopo la visione del film. Ringraziamo, innanzitutto , la mamma di Andrea, per essersi aperta con il mondo, raccontando il dramma di cui è stata vittima lei e tutta la sua famiglia.

Questo film racconta la storia di Andrea, un ragazzo di 15 anni che si è tolto la vita a causa dei comportamenti umilianti, denigratori e violenti che alcuni bulli mettevano in atto nei suoi confronti, portandolo all’esasperazione. Questa vicenda risale al 2012, anno in cui Andrea purtroppo ci ha lasciati. Era un ragazzo brillante, aveva ottimi voti a scuola, seguiva con molta ambizione le sue passioni, era un bravo fratello maggiore e un bravo figlio. L’opera cinematografica racconta che Andrea iniziò ad essere vittima di bullismo quando un giorno si presentò a scuola con dei pantaloni rosa, per i bulli troppo “femminili” per essere indossati da un ragazzo, da quel momento Andrea subì bullismo, attacchi e insulti omofobi. Sarebbe però troppo superficiale credere che un gruppo di ragazzi se la prese con Andrea solo per dei pantaloni rosa, c’è dell’altro non credete? Lo presero di mira proprio perché volevano spegnere quella luce che tutti vedevano in lui o forse ancora, per invidia delle sue innumerevoli capacità, per la persona per bene che era, quello che non riuscivano ad essere loro. L’adolescenza è un periodo transitorio, di crescita e di scoperta di sè, i bulli invece avevano già stigmatizzato ed etichettato Andrea con degli epiteti offensivi e discriminatori. Il protagonista del film, a proposito di questa fase della vita, dice: “Si pensa che solo i poeti soffrano, ma si dimenticano di quanto sia difficile essere adolescenti”; in questa riga si nasconde tutta la fatica che i ragazzi fanno in quel periodo, si perché a quell’età, la più piccola delusione, che sia d’amore, scolastica o d’amicizia può sembrare una catastrofe, poiché essendo ancora inesperti non hanno gli strumenti interiori per affrontare e gestire alcune dinamiche . E’ l’età in cui si sperimentano le prime esperienze ma anche i primi rifiuti, i primi fallimenti, le prime sconfitte e noi adulti, genitori, insegnanti, psicologi, medici, esperti, dobbiamo fornire loro gli strumenti per essere in grado di gestire la perdita, la delusione, le angosce, facendogli capire che la vita è anche questa, non si scappa dai dolori. La sociologia, che si occupa dei fatti sociali considerati nelle loro caratteristiche costanti e nei loro processi, del rapporto tra il singolo e la società che lo circonda, può rivelarci molto riguardo le motivazioni che insorgono in alcuni soggetti per arrivare a compiere un atto così estremo. Gli anni dell’adolescenza, gli ultimi vissuti da Andrea Spezzacatena, come dicevamo, sono anni in cui la persona esplora il mondo che lo circonda, i ragazzi iniziano ad uscire dalla bolla di protezione che i genitori hanno costruito per anni nei confronti dei figli e si trovano a dover fare i conti con il gruppo dei pari, che come ci insegna la sociologia, può influenzare molto la persona e i percorsi che deciderà di intraprendere. In questa fase di vita, non si ha piena coscienza di sé, né la forza e la consapevolezza che ha sviluppato nel tempo un adulto, proprio per questo, Andrea, essendo un ragazzino molto sensibile, empatico, buono, fu portato sul fondo da tutto ciò che stava subendo e purtroppo decise di lasciarci. Un famosissimo sociologo, Émile Durkheim si è espresso sui meccanismi che spingono gli individui al suicidio, egli pensa sia determinato dal tipo di società in cui esso si verifica, perché è la società a produrre atteggiamenti e costruzioni mentali individuali. Come dargli torto, in molti casi il suicidio è una scelta estrema che deriva dal non sentirsi accettati e dal non sentirsi amati dagli altri. Come vedete tutti fattori riconducibili “agli altri” a come ci fanno sentire gli altri, perché forse ci guardiamo non con i nostri occhi ma con gli occhi degli altri. L’approvazione del prossimo sta diventando più importante del nostro pensiero, tendiamo a cambiare per gli altri, a sforzarci di piacere a tutti i costi, per svariati motivi: lo facciamo per sentirci parte di un gruppo, o perché crediamo che cambiando aspetto o lati del carattere risulteremo più attraenti agli occhi degli altri, o ancora per venire notati, per non sentirci invisibili. Compiamo tutte queste azioni, non per stare in pace con noi stessi, con il nostro IO interiore ma per stare in pace con il prossimo, nulla di più disfunzionale, perché gli altri devono accettarci malgrado ciò che siamo e non volendoci diversi. Alla base di tutti questi comportamenti disfunzionali c’è una bassa autostima e una non accettazione di sé, altrimenti, se così non fosse, non ci impegneremo così tanto ad impressionare gli altri, non spenderemo così tante energie per cercare amore , approvazione, consenso da chi ci circonda. Perciò è importante parlare di quello che ci attanaglia per risolvere le problematiche personali, parlando ci focalizzeremo sul problema, lo scardineremo punto per punto e potremmo arrivare a trovare le giuste soluzioni, potremmo capire da dove nascono insicurezze che ci portiamo dietro, le paure che ci limitano, per arrivare alla consapevolezza che il nostro valore non nasce in relazione a nessun altro, ma deriva solo da noi stessi, nessuno ci darà più valore o ce lo toglierà, è la percezione che abbiamo di noi stessi la cosa più importante. Dipende solo da noi vederci come esseri unici ed irripetibili, perché è questo che siamo. Le nostre stranezze, i nostri difetti, le nostre peculiarità sono i nostri tratti caratteristici, sono la nostra luce.

Mai come negli ultimi anni abbiamo assistito a tassi di suicidio così allarmanti e purtroppo l’età in cui questi ultimi si manifestano, scende sempre più, si parla di ragazzi tra i 13 e i 36 anni. All’interno dei paesi dell’Unione Europea tra i giovani di età compresa fra i 15 e i 19 anni, il suicidio è la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali. I dati del Telefono Amico e di numerose ricerche che sono state condotte su questa tematica, ci riportano che 1 adolescente su 7, di età compresa fra i 10 e i 19 anni soffre di problemi legati alla salute mentale e secondo i dati di un sondaggio il 50% si sente triste, preoccupato, angosciato, ansioso. In Italia nel 2023 sono state oltre 7.000 le persone (+24% rispetto al 2022) che si sono rivolte a Telefono Amico per farsi aiutare a gestire un pensiero suicida, proprio, di un familiare o un conoscente. Più che dell’atto in sé, porre importanza sulle motivazioni che portano i ragazzi a lasciarsi travolgere da questi pensieri estremi, perché solo capendone le motivazioni più intime e profonde, potremmo riuscire a prevenire tempestivamente questo fenomeno.

La domanda quindi è, perché nei giovani iniziano a farsi strada questi pensieri? C’è una frustrazione e insoddisfazione generale, delle proprie vite, dei rapporti che instauriamo che non sono come quelli che vorremmo, l’incertezza sul futuro che crea ansia, angoscia…tutto questo aggiunto ai giudizi/pregiudizi degli altri, le parole sbagliate pronunciate al momento sbagliato, il basso valore che ci attribuiamo, sono una combinazione letale, che spinge le persone a pensare che non esistere più in questo mondo sia l’unico modo per trovare la pace. In genere si stima che il rischio di suicidio diminuisca se lo stato emotivo migliora, ma il dato curioso, a riprova della complessità del fenomeno, è che i più alti tassi di suicidio si verificano entro circa tre mesi da un apparente miglioramento post-depressione, è importante perciò prestare attenzione al prossimo, andare oltre ciò che mostra in superficie. Se qualcuno di voi o qualcuno che conoscete ha determinati pensieri per la testa, parlatene, con chi volete, ma parlatene, con un esperto se potete, questi ultimi esistono proprio per dare ascolto e soluzioni laddove noi da soli non riusciamo ad arrivare. Il giorno scelto per parlare di questa tematica è il 10 Settembre, a livello mondiale dal 2003 ricorre la Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio, un modo per sensibilizzare l’opinione pubblica alla prevenzione sul suicidio e alla tutela della salute mentale, ma non basta un giorno. L’obiettivo del World Suicide Prevention Day e delle compagnie di prevenzione, locali e globali, è quello di ridurre il più possibile il numero di vittime per anno, cercando di individuare i fattori che possono indurre le persone a decidere di porre fine alla propria vita e adottando le giuste contromisure. I campanelli d’allarme possono essere molteplici, frasi come “Non ce la faccio più” o “Vorrei morire”, cambiamenti improvvisi nel sonno, nell’appetito, isolamento sociale, o gesti simbolici come la donazione di oggetti personali, sono indicatori che non dovrebbero mai essere sottovalutati. Inoltre offrire un ascolto empatico e privo di giudizi è il primo passo verso un supporto concreto. Rompere il silenzio su questo argomento delicato può contribuire a salvare vite. Ascoltatevi e ascoltate, non siete mai soli, c’è qualcuno nel mondo che sta attraversando il vostro stesso malessere e si sente esattamente allo stesso modo, vogliatevi bene, aiutatevi e fatevi aiutare. Ai bulli e non solo, invece, dico: “Smettetela e cercate di fare tutto il bene che potete, con tutti i mezzi che potete, in tutti i modi che potete, in tutti i luoghi che potete, tutte le volte che potete, finché potrete”. (John Wesley)

Dott.ssa Sofia Pulizzi, sociologa, criminologa e docente di Scuola Primaria


COME I SOCIAL HANNO CAMBIATO IL NOSTRO MODO D’AMARE, IL BRACCIO DI FERRO TRA SENTIRE E ANESTESIA.

di Sofia Pulizzi

I sentimenti sono emozioni antiche come il mondo eppure le loro dinamiche non smettono mai di sorprenderci. I sentimenti sono mutati insieme a noi e nel corso degli anni, hanno attraversato diverse ere… oggi parleremo della nostra, di quella in cui stiamo vivendo. Sociologi e psicologi non smettono di indagare, approfondire e scrivere riguardo questo tema, perché il nostro cervello, quando si tratta d’amore, è davvero incredibile. Cristina Obber, giornalista e attivista, concludeva un suo saggio in questo modo “Mancano rassicurazioni in ogni ambito e la conseguenza è che stiamo razionalizzando l’amore, che invece è una dimensione di rischio, nella sua inquietudine trova la sua spinta e in questa, il nostro corpo, vive.”                                                                                                                                                                     

Come ben sappiamo, viviamo nell’era del digitale, dove l’importante non è essere felici ma fare bella figura,  regna una sovraesposizione non solo dei soggetti famosi, dei volti noti della tv, ma anche di gente comune, che, o per imitare qualcun altro o semplicemente perché sono figli della loro epoca, espongono ogni ambito della loro vita sui social network. Tendiamo a mostrare il bello, tendiamo a manifestarci invidiabili per la vita che facciamo, per quello che possediamo, perché in fondo cos’è quello a cui aspirano tutti? Essere NOTATI, ESSERE VISTI, far sapere che esistiamo a questo mondo e che la gente si ricordi di noi, questo ci importa, ma ancor di più: essere amati. Per tale motivo non facciamo altro che mostrarci sui social nella speranza che qualcuno rimanga colpito dai nostri contenuti, dal nostro stile di vita o semplicemente dal nostro aspetto e ci faccia entrare nella sua vita, ci faccia sentire apprezzati. Si fa presto a capire però che tutto questo ci fa rimanere ad un livello superficiale delle relazioni umane, perché una persona non può esistere solo tramite i contenuti che pubblica, non è la macchina che sfoggia sui social né tantomeno l’aperitivo che fotografa con la sua cerchia di amici. Conoscere e amare qualcuno significa apprendere il suo funzionamento, capire come funzioniamo a livello mentale, caratteriale, sapere in anticipo come reagiremo, sapere cosa ci piace e cosa ci infastidisce, sapere i traumi che abbiamo vissuto, questo significa conoscere qualcuno e per farlo c’è bisogno di tempo, empatia, cose incompatibili con il rapido mondo social, per questo non possiamo avere la pretesa di conoscere qualcuno solo da quello che decide di mostrare sulle sue piattaforme personali. Instagram, Facebook, TikTok, ci hanno tutti un po’ abituati al bello, a mostrare bellissime vacanze, cene in posti lussuosi, oggetti costosi, immagini di coppie felici, ma è davvero così? Tutto questo ci sta un po’ anestetizzando e ci sta facendo perdere di vista un po’ la realtà; la realtà è che la vita è fatta di luci sì, ma anche di ombre e quando arriveranno le ombre, sapremo gestirle? I social ce l’hanno insegnato questo?

Amare non è non provare e non provocare emozioni negative nell’altro, anzi questo significa avere rapporti completi, questo scrive Stefania Andreoli nel suo libro “Vivere le relazioni nell’era del narcisismo” e non potrebbe trovarmi più d’accordo. A volte è anche necessario ferire gli animi di chi amiamo pur di essere onesti con loro, è necessario non dirgli solamente ciò che vogliono sentirsi dire, è necessario essere duri con loro per far scaturire un cambiamento o miglioramento. L’amore non è una sala operatoria asettica e protetta da contaminazioni esterne: è tutto il contrario, noi esseri viventi siamo portatori dei nostri virus, di batteri emotivi che sporcano e corrodono i nostri sentimenti. Siamo formati da retaggi culturali, trasmessi dalla famiglia d’origine che ci risuonano nella testa, facendoci auto convincere del fatto che amare significhi stare sempre e solo bene, dentro relazioni impeccabili con partner che non sbagliano mai. Ci inculcano che devono essere bandite le emozioni scomode, in questo modo si trasferiscono messaggi fuorvianti, poco realistici e poco funzionali perché quando poi queste generazioni incontreranno dei problemi in coppia e non solo, non sapranno come gestirli. Il rifugiarsi nella negazione delle difficoltà, nell’annullamento delle domande, auto convincersi che le cose vadano bene, sono “soluzioni” contro la paura. Paura della verità, del dolore, del sentirci addosso sensazioni negative, paura della morte, del fallimento, del nonsenso, della solitudine, del confronto, paura di non capire e non essere capiti, paura dei nostri istinti, paura di noi stessi e paura degli altri.

Sembra proprio che noi stessi siamo i primi a sabotarci, una forma di sabotaggio è il fatto di non chiederci nulla, proprio perché ormai abbiamo tutto pronto, con la nostra amica tecnologia a portata di mano. Non ci chiediamo niente perché la paura di pensare ci uccide, siamo i primi a ignorarci o ignorare i segnali che ci manda il nostro corpo, mente e cuore.  Non domandare nulla a noi stessi implica non darci la possibilità di scoprire cosa si cela dentro di noi, impedisce di fare pensieri critici e di scoprirci. E’ tutto un  “non lo so, non ne sono sicuro/a” nessuno si da più una spiegazione per come agisce, oppure ci si è dati una spiegazione tempo fa e ce la siamo fatti bastare per il corso degli anni, ma questa spiegazione non l’abbiamo più portata a fare una revisione, preferiamo non pensare per non scombussolarci troppo, perché non abbiamo coraggio. Non vogliamo ricevere domande che ci riguardano perché siamo gli unici competenti in materia di noi stessi e questo ci mette timore, abbiamo paura dell’elettricità, delle scintille, di un contatto reale a un livello ben più profondo, ben più sotto la pelle: nervi a nervi, nudi e scoperti. Ci concentriamo più su conversazioni di circostanza, sul descrivere cosa abbiamo fatto durante la giornata, raccontarci i nostri hobby e cosa cucineremo per cena, parliamo dei nostri impegni, magari ci diciamo anche parole dolci per abitudine ma ci ascoltiamo mai dentro veramente? E non parlo del nostro umore, parlo di qualcosa di più profondo, delle insicurezze che ci accompagnano, delle paure che ci turbano e di cosa non ci fa essere sereni al cento per cento, della nostra storia di vita che ci ha resi così come siamo. Abusiamo dei telefonini, delle uscite serali, ci cimentiamo in innumerevoli attività pur di non stare a casa fermi a pensare, ci fate caso? Ma se è vero che, con tutti questi espedienti cerchiamo di annientare il dolore, ci siamo ammalati della paura di sentire qualunque cosa. Come credete sia possibile incontrare l’amore vero, a queste condizioni?

La sociologia delle emozioni ci dice che per stare al passo con i ritmi imposti dall’esperienza moderna, gli individui agiscono principalmente attraverso l’intelletto, amano con il cervello, non con il cuore, per proteggere la propria sentimentalità dall’accelerazione e dal mutamento continuo. Il prezzo che si paga però è alto, l’amore viene “calcolato” non “sentito” le relazioni risultano private del loro ingrediente fondamentale: l’emotività, perché distacco e indifferenza diventano le emozioni prevalenti. Vogliamo proteggere il nostro “sentire affettivo” e questo sembra imporre una manifestazione costruita e artificiale di sentimenti o stati emozionali che spesso non sono quelli autentici provati dal soggetto. Perciò viviamo tra il desiderio di fonderci con qualcuno per i sentimenti forti che sentiamo ma, per via dell’ansia di non perdere la propria individualità, finiamo per attaccarci a qualcuno che sia “tiepido” né gela, né brucia o addirittura finiamo per non attaccarci a nessuno. Le persone forti, i sentimenti forti ci fanno paura, preferiamo evitarli piuttosto che viverli. Ma che vita sarebbe senza? So che terrorizza, che può far male, che non ne siamo capaci, ma più di tutto che non ne possiamo fare a meno. L’amore è, tra le tante cose, anche caos perché le persone sono un caos. Siamo solo persone che per rimanere umane devono commettere il gesto eroico di rischiare di amare qualcuno, quando spesso vorrebbero solo essere lasciate in pace per evitare lo scoppio della guerra, perciò a volte la cosa giusta ci sembra sbagliata e la cosa sbagliata ci sembra quella più giusta, ma privarci di sentire che spreco! Privarci di sentire cose forti, nel bene e nel male, non equivale a vivere; al contrario, chi vive di questo, chi vive d’amore, VIVE, non appassisce.

Dott.ssa Sofia Pulizzi, sociologa e criminologa


Il mobbing e lo straining in ambito lavorativo: strumenti preventivi

di Massimo Dagnino

Nell’ambito lavorativo, la parola mobbing assume il significato di pratica persecutoria più in generale di violenza psicologica perpetrata dal datore di lavoro o da colleghi (mobber) nei confronti di un lavoratore (mobbizzato) mettendolo in difficoltà in ambito lavorativo, sociale e familiare.

Il termine mobbing deriva dall’inglese mob, il mobbing è definibile come un insieme di comportamenti aggressivi di natura fisica, psicologica, emotiva e verbale esercitati nei confronti di uno o più lavoratori, un comportamento considerato come una vera e propria forma di abuso.

Secondo la definizione di uno considerato tra i massimi esperti e studiosi del fenomeno, Heinz Leymann (17 luglio 1932 – 26 gennaio 1999) accademico svedese, il mobbing viene indicato come  una forma di terrorismo psicologico che implica un atteggiamento ostile e non etico posto in essere in forma sistematica da una o più persone nei confronti di un solo individuo, il quale a causa per l’appunto del mobbing, viene a trovarsi in una condizione indifesa e fatto oggetto di una serie di iniziative vessatorie e persecutorie. Le conseguenze sul lavoratore colpito possono essere profonde e durature, si va dal disagio e dall’insicurezza iniziali a disturbi psicosomatici, emozionali e comportamentali più gravi.

La vittima può soffrire di sintomi quali:

  1. cefalea;
  2. tachicardia;
  3. problemi gastrici;
  4. ansia e stress;
  5. irritabilità e aggressività.

Nei casi più seri, il mobbing può sfociare in disturbi depressivi con uso di farmaci.

Gli elementi identificativi del mobbing possono essere:

  1. la presenza di almeno due soggetti, il mobber (parte attiva) ed il mobbizzato (parte passiva), che entrano in contrasto tra di loro;
  2. l’attività vessatoria continua e duratura;
  3. lo scopo di isolare la vittima sul posto di lavoro e impedirle di esercitare un ruolo attivo sul lavoro.

Dall’analisi del fenomeno sono state individuate principalmente due tipologie:

  1. il mobbing di tipo verticale che è quello messo in atto da parte dei datori di lavoro verso i dipendenti, per questo è stato coniato il termine di Bossing;
  2. il mobbing di tipo orizzontale che viene invece praticato dai colleghi di lavoro verso uno di loro per varie ragioni.

Un altro fenomeno che si verifica negli ambienti lavorativi è lo “straining” cioè una specifica condotta vessatoria sul luogo di lavoro. A differenza del mobbing, noto come una serie continua di comportamenti ostili, tutti rivolti ad emarginare e allontanare il dipendente, lo straining può riguardare un atto isolato che causa stress significativo a chi lo subisce, con effetti negativi che persistono nel tempo. Lo straining rappresenta quindi una forma attenuata di mobbing, mentre il mobbing implica vessazioni continue, lo straining può manifestarsi anche in assenza di tali continuità, ma è sempre legato alla violazione dell’articolo 2087 Cod. Civ. che impone al datore di lavoro di tutelare la salute psicofisica dei dipendenti. Nelle aziende e nelle amministrazioni pubbliche per sensibilizzare il personale si potrebbero organizzare dei Focus Groups specifici di approfondimento sulle dinamiche  dei conflitti, sulla cooperazione, sulla gestione della diversità e dell’integrazione. In questa attività il professionista assume il ruolo di facilitatore, stimolando la discussione, il confronto, nonché il cambiamento di atteggiamenti e di comportamenti potenzialmente ostili. Per evitare situazioni di mobbing e straninig il datore di lavoro potrebbe inoltre introdurre strumenti preventivi, come la stipula di accordi basandosi su codici di condotta condivisi, corretta informazione sui fenomeni, ossia informare i lavoratori facendo prendere coscienza dei danni che il mobbing e lo straining possono provocare, in modo da non creare le condizioni affinché possano avvenire.

Questo articolo vuole dare un’indicazione generale dei potenziali disagi che il mobbing e lo straining possono creare nei lavoratori, questo a discapito dell’ambiente lavorativo e successivamente di quello sociale e familiare. E’ fondamentale informare sul rispetto dell’essere umano, la cui tutela non deve essere affidata solo alle istituzioni ma anche al nostro senso di responsabilità sociale e familiare, facendo attenzione alle dinamiche relazionali che si vengono a creare nel proprio ambiente lavorativo, cercando sempre di migliorarle nell’ottica di avere un buon rapporto con i colleghi.

Dott. Massimo Dagnino, Psicologo e Sociologo

Sitografia

laborability.com

randstad.it

www.progettofamigliaformazione.it




Riconoscimento e prestigio di un’associazione locale: un approccio sociologico

di Antonio Rossello

Scopo di questo articolo è quello di fornire i lineamenti del mio studio: “Elevare il riconoscimento e il prestigio di un’associazione locale: un approccio sociologico”1, inerente a una strategia innovativa ideata da una piccola associazione locale per aumentare il proprio riconoscimento e prestigio a livello nazionale. Nonostante la mancanza di risorse finanziarie, l’associazione sfrutta l’abbondanza di tempo volontario disponibile, implementando un programma di premi locali e creando una rete virtuale, attraverso un’opportuna azione di networking. Questo studio esamina come un approccio ben strutturato possa amplificare il valore percepito di un’organizzazione in un contesto sociale competitivo.

L’associazione locale trattata rappresenta un esempio concreto di come una strategia ben articolata possa trasformare le limitazioni in opportunità. Sebbene l’associazione non disponga di risorse finanziarie, il suo capitale umano volontario costituisce una risorsa fondamentale per la realizzazione delle sue ambizioni. In un contesto sociale in cui la stratificazione è evidente e il riconoscimento spesso legato a risorse economiche, questa associazione dimostra che il capitale umano e il volontariato possono essere altrettanto potenti. L’approccio metodologico adottato si concentra su due pilastri principali: il programma di riconoscimento locale e la creazione di una rete virtuale. Questi elementi sono progettati per rafforzare il riconoscimento e il prestigio dell’associazione.

Il secondo pilastro della strategia è la creazione di una rete virtuale. La piattaforma online user-friendly sviluppata dall’associazione facilita la registrazione, il networking e la comunicazione tra i membri premiati. Le funzionalità interattive, come forum, chat rooms e webinar, stimolano l’interazione e la collaborazione, creando un ambiente dinamico e coinvolgente. Posizionando l’associazione come nodo centrale della rete, si garantisce un flusso continuo di informazioni e supporto, mantenendo una presenza attiva con l’organizzazione di eventi, incontri e sessioni formative online. Questo approccio consente all’associazione di consolidare la sua posizione e di diventare un punto di riferimento centrale per la comunità.

Per assicurare il successo del programma, l’associazione stabilisce obiettivi SMART (specifici, misurabili, raggiungibili, rilevanti e temporizzati). Un esempio concreto è l’obiettivo di riconoscere 50 individui e organizzazioni meritevoli entro il primo anno di attività. Ogni iniziativa è direttamente collegata agli obiettivi definiti, e le azioni sono prioritizzate per massimizzare il ritorno in termini di visibilità, riconoscimento e relazioni stabilite. Metriche chiave e strumenti di analisi sono utilizzati per monitorare i progressi e apportare miglioramenti basati sui risultati ottenuti. Questo approccio metodico e ben strutturato consente all’associazione di adattarsi e rispondere in modo proattivo alle sfide.

La gestione delle risorse, soprattutto il tempo dei volontari, è ottimizzata attraverso un sistema di gestione efficace e la formazione continua. La collaborazione e le partnership sono esplorate per integrare le limitate risorse finanziarie. L’ambiente di rete è inclusivo e accogliente, con risorse utili come guide, toolkit e servizi di consulenza per supportare i membri. La gestione proattiva delle criticità e il mantenimento di alti standard etici garantiscono la trasparenza e la reputazione dell’associazione.

1) Sviluppo di un sistema premiale

  • Criteri di Benemerenza: Definire chiaramente i criteri per classi di benemerenza (ad es. bronzo, argento, oro) per garantire trasparenza e coerenza nel riconoscimento.
  • Processo di Selezione: Implementare un processo di selezione rigoroso e imparziale, coinvolgendo giurie composte da esperti dei vari settori.
  • Cerimonie di Premiazione: Organizzare cerimonie pubbliche per aumentare la visibilità e l’impatto del riconoscimento.

2) Estensione Nazionale del Riconoscimento

  • Premiazione a Distanza: Ampliare la portata del programma, utilizzando canali di comunicazione digitale per facilitare la partecipazione e il riconoscimento a distanza.
  • Collaborazione con i Media: Collaborare con media locali e nazionali per promuovere i risultati e i premi assegnati, aumentando la reputazione dell’associazione.

1) Piattaforma on line

  • Sviluppo della Piattaforma: Creare una piattaforma online user-friendly che faciliti la registrazione, il networking e la comunicazione tra i membri premiati.
  • Funzionalità Interattive: Implementare funzionalità come forum, chat rooms e webinar per stimolare l’interazione e la collaborazione tra i membri.

2) Centralità dell’associazione

  • Nodo Centrale della Rete: Posizionare l’associazione come nodo centrale della rete, garantendo un flusso continuo di informazioni e supporto tra il centro e i punti della rete.
  • Presenza Attiva: Mantenere una presenza attiva nella rete, organizzando eventi, incontri e sessioni formative online.

1) Definizione Chiara degli Obiettivi

  • Obiettivi SMART: Stabilire obiettivi specifici, misurabili, raggiungibili, rilevanti e temporizzati (SMART) per il programma di riconoscimento e la rete. Ad esempio, “Riconoscere 50 individui e organizzazioni meritevoli entro il primo anno di attività.”

2) Allineamento delle Azioni con gli Obiettivi

  • Collegamento delle Iniziative: Assicurarsi che ogni iniziativa sia direttamente collegata agli obiettivi definiti.
  • Prioritizzazione delle Azioni: Prioritizzare le azioni che offrono il massimo ritorno in termini di visibilità, riconoscimento e relazioni stabilite.

3) Monitoraggio e Valutazione dei Progressi

  • Metriche di Valutazione: Stabilire metriche chiave per monitorare il successo del programma, come il numero di premi assegnati, la crescita della rete e il livello di interazione tra i membri.
  • Analisi dei Dati: Utilizzare strumenti di analisi per raccogliere dati e valutare regolarmente i progressi, apportando modifiche e miglioramenti basati sui risultati ottenuti.

1) Gestione delle risorse

  • Ottimizzazione del Tempo dei Volontari: Creare un sistema di gestione dei volontari che assicuri una distribuzione equa ed efficace delle attività, fornendo formazione e supporto per massimizzare l’efficienza e il coinvolgimento.
  • Collaborazione e Partnership: Esplorare opportunità di collaborazione e partnership per integrare le limitate risorse finanziarie.

2) Coinvolgimento della Rete

  • Ambiente Inclusivo: Promuovere un ambiente di rete inclusivo e accogliente, incoraggiando la partecipazione attiva e il senso di appartenenza tra i membri.
  • Supporto e Risorse: Fornire risorse utili, come guide, toolkit e servizi di consulenza, per aiutare i membri della rete a trarre il massimo vantaggio dalla loro partecipazione.

3) Gestione della Reputazione

  • Trasparenza ed Etica: Mantenere alti standard etici in tutte le attività, garantendo trasparenza nei processi decisionali e nella comunicazione.
  • Gestione Proattiva delle Criticità: Rispondere tempestivamente e con integrità a eventuali critiche o sfide, gestendo proattivamente le problematiche reputazionali.

In conclusione questo caso di studio evidenzia come un programma di riconoscimento locale ben strutturato e una rete virtuale possano elevare il riconoscimento e il prestigio di una piccola associazione. Attraverso un miglioramento continuo della metodologia, una chiara focalizzazione degli obiettivi e una gestione efficace delle criticità, l’associazione può affermarsi come entità rispettata e influente nelle sfere locali e nazionali.

Ing. Antonio Rossello, Dr hc in Sociologia e socio ASI.

Bibliografia:

  1. (1) Rossello, A. (2024). Elevare il Riconoscimento e il Prestigio di un’Associazione Locale: Un Approccio Sociologico. Presentato il 15 giugno 2024, presso Roma Seraphicum, Collegio Serafico di San Francesco, Via del Serafico 1 – 00142 Roma, 2^ Edizione Open-Day FareRete 2024. Associazione FareRete InnovAzione BeneComune APS, Laboratorio di Dialogo e Azione per il Bene Comune.
    ↩︎

Profilo: ▷ La vetrina di Antonio Rossello – 25 opere pubblicate su www.BraviAutori.it – Savona – Italia

Per approfondimenti, si rimanda al lavoro scientifico completo: “Elevare il Riconoscimento e il Prestigio di un’associazione Locale: Un Approccio Sociologico” di Antonio Rossello, con il contributo di Franco Faggiano. (Entrambi Soci A.S.I., curatori del sito: RETI SOCIALI & NETWORKING)


Narrazioni digitali. Diagnosi di un’immagine mentale.

di Patrizio Paolinelli

Corrono gli anni ’70 del 900 e il governo statunitense crea de facto la Silicon Valley2. Se nella patria del profitto privato l’intervento dello Stato nell’economia fosse diventato di dominio pubblico per i tecno-imprenditori a la Steve Jobs si sarebbe trattato di un catastrofico danno d’immagine. A salvargli la faccia ha contribuito lo storytelling globale3 che accompagna i processi di automazione da un’ottantina di anni a questa parte in un crescendo impressionate. Andando per punti, lo storytelling globale consiste in una permanente campagna di comunicazione planetaria gestita in maniera il più possibile coordinata da governi, Tech Giants, sistema dei media. Una campagna che mitizza i tecno-imprenditori e promuove l’alta frequenza di innovazioni: calcolo quantistico, realtà mediate, nanotecnologie, biotecnologie, auto senza pilota e così via di meraviglia in meraviglia. Infine, una campagna che attua strategie di coinvolgimento del pubblico e dei consumatori facendoli sentire protagonisti della rivoluzione digitale.

Per essere ancora più efficace lo storytelling globale è corredato da efficaci rappresentazioni visive. Rappresentazioni che con un semplice colpo d’occhio indicano la best way per interpretare il passaggio da una rivoluzione industriale all’altra. Quella che vediamo nella Figura 14 è la successione temporale culturalmente istituzionalizzata di tale chiave di lettura. Non c’è narrazione delle tecnologie digitali che, in maniera esplicita o implicita, non la contempli. Si tratta di una rappresentazione iconica che costituisce allo stesso tempo un’istruzione visiva per spiegare un processo storico-sociale e un’immagine mentale di impronta chiaramente evolutiva. Un’immagine che: fa da matrice ad altre sequenze dello stesso tipo aggiornate con le ultime novità tecnologiche; gode di largo consenso nelle comunità di pensiero; è implicita nelle strategie di comunicazione delle Big Tech; si stampa facilmente nella mente di chi la osserva. Per tutti questi motivi la Figura 1 potrebbe fare bella mostra di sé in un museo della scienza e della tecnologia. Ma c’è da chiedersi: i significati di cui è portatrice reggono alla critica sociologica?

In senso lato la narrazione può essere intesa come un discorso pubblico trasmesso nell’infosfera da vecchi e nuovi media. Ma la posta in gioco è altissima: organizzare l’esperienza dei riceventi. Perciò anche la più generica definizione di narrazione incontra un ostacolo: solo in teoria è previsto un confronto sullo stesso piano di dignità tra storie divergenti. In pratica le narrazioni che godono di maggior spazio, attenzione e visibilità sulla scena mediatica formano un ortodossia in grado di battere la concorrenza di storie disallineate. Continuando a prendere prestiti dall’advertising, la narrazione ufficiale sulla rivoluzione digitale è dominante nella stessa maniera in cui il linguaggio della pubblicità domina il racconto della merce. Si può contestare tale racconto finché si vuole e così è stato dagli anni 50 del 900 fino all’altro ieri ma alla fine è uscito vincente e deborda in ogni dove: dalla radio a Internet passando per la carta stampata. Sul piano comunicativo tale risultato è sintetizzabile in un semplice slogan: vince chi convince. È necessario aggiungere che non convince chi ha ragione, chi dice la verità, o chi è nel giusto: convince chi detiene il potere mediatico5.

Nel corso degli anni 90 la generazione dei pionieri di Internet ha conosciuto il suo quarto d’ora di celebrità e cantava la Rete come spazio di libertà, democrazia e anarchica creatività. Ci hanno pensato governi e multinazionali hi-tech a riportare l’ordine sommergendo la tecno-utopia dei pionieri con un diluvio di narrazioni focalizzate sull’innovazione permanente. Nel giro di pochi anni il cyberspazio è passato da luogo della reciprocità a prateria per il business, per la sorveglianza di massa, per veicolare l’ideologia neoliberista. Come le praterie di un tempo Internet è diventata anche un luogo pieno di insidie e nell’insieme la società on-line ha finito per costituire un doppione di quella off-line (atomizzata, edonista, aggressiva). Sul piano culturale questa come quella è governata dalla coalizione tra i proprietari dei tradizionali strumenti di comunicazione (il cui ruolo è ancora strategico nel generare le forme espressive della cultura di massa)6 e i grandi gestori di Big Data (i maggiori accumulatori di informazioni sul pubblico-cliente della Rete). Un vantaggio competitivo in grado di battere qualsiasi contronarrazione o addirittura renderla funzionale a un disegno egemonico così come è accaduto coi pionieri di Internet: immaginando di instaurare il regno della gratuità hanno aperto la strada a un nuovo, immenso mercato.

La forza della rivoluzione digitale è data dal sodalizio tra cose e parole. Vale a dire che la rivoluzione digitale è di per sé evidente: la stampa 3D costituisce un dato di fatto così come il robot Sophie e ChatGPT. Ma un dato di fatto è zoppo se non è legittimato da una narrazione destinata a produrre consenso sociale. Se vuole occupare uno spazio culturale la novità dell’oggetto digitale deve cingersi di un’armatura retorica in grado di respingere dubbi, ragioni contrarie, volontà di capire. L’armatura retorica non serve per imporre il silenzio. Ma a incrementare il flusso dei discorsi per trarre nuovi spunti narrativi e a mettere le redini al dibattito pubblico per farlo galoppare nella direzione desiderata: la futura civiltà del silicio. Lo scopo è politico: permettere all’oggetto digitale di proseguire il suo corso: che lo si lasci fare, che lo si lasci raccontare. Incontriamo così un’ipoteca storica della narrazione digitale: l’evoluzione tecnologica è un vantaggio per tutti. Non siamo forse passati dal primo calcolatore elettronico che pesava 30 tonnellate al portatile da meno di un kg? Grazie a Internet delle cose possiamo o non possiamo accendere la caldaia di casa da remoto? E nel prossimo futuro non saranno i robot pets a tenere compagnia agli anziani?

Per l’uso pubblico della storia la rivoluzione digitale è: una rivoluzione industriale caratterizzata da un inarrestabile evoluzione tecnologica che provoca un mutamento sociale senza precedenti, sovvertendo i meccanismi di produzione (il modo di lavorare) e di riproduzione (il modo di consumare) dando vita a una new economy e a una new society. Da questa vulgata scaturisce l’immagine mentale che stiamo analizzando così come Venere scaturisce dalla spuma del mare. E sui lucidi corpi artificiali delle meraviglie hi-tech si tessono le più svariate narrazioni. Nella nostra immagine la progressione delle rivoluzioni industriali si ferma alla quarta, genericamente definita Sistemi cibernetici. Ma per l’Unione Europea siamo già avviati alla quinta7. Fase in cui si compie un importante salto di qualità: l’industria 5.0 è insieme il collettore dell’innovazione tecnologica e dell’innovazione sociale. In altre parole, l’impresa privata non ha più bisogno di mascheramenti: prende ufficialmente in mano la riproduzione della società guidando la transizione digitale e quella verde. Nella cronaca giornalistica ci si può imbattere persino nella sesta ondata di innovazioni e probabilmente la graduatoria è destinata a salire come sul termometro salgono i gradi della temperatura corporea in caso di febbre. Con la rivoluzione digitale la febbre aumenta in conseguenza dell’apparizione di fantascientifiche novità tecnologiche e la scoperta di nuove nicchie di mercato. Ad ogni apparizione, ad ogni scoperta lo storytelling globale solleva la temperatura con diluvi di notizie, racconti, profezie.

Ecco un elenco di eccitanti apparizioni: nel 1946 fa la sua comparsa quello che per la maggioranza degli analisti è il primo computer (Eniac); nel 1947 è presentato il primo transistor; nel 1948 Claude Shannon getta le basi della teoria dell’informazione e nello stesso anno Norbert Wiener conia il termine cibernetica; nel 1949 viene inventato il primo robot industriale (Ultimate) presentato nel 1954, entrato in produzione nel 1961; nel 1958 appare il circuito integrato; nel 1969 vengono collegati i primi due computer della rete Arpanet; nel 1971 viene alla luce il microchip; nel 1972 nasce Internet; nel 1984 la Apple mette sul mercato il personal computer Macintosh; nel 1989 Tim Berners-Lee inventa il World Wide Web al CERN di Ginevra; nel 2004 si afferma il Web 2.0.
Per quanto incompleto questo elenco suggerisce che la rivoluzione digitale ha alle spalle una storia che per durata si avvicina a quella della prima rivoluzione industriale. Una storia che secondo i teorici del transumano si concluderà tra una ventina di anni quando l’accumulo di innovazioni tecnologiche produrrà una svolta improvvisa e si entrerà nell’era della singolarità tecnologica
8. Un’era in cui gli esseri umani potranno aspirare alla vita eterna. Non si sa se tutti o solo alcuni, ma al là di questo dettaglio la narrazione digitale istituzionalizza un nuovo demiurgo: la tecno-scienza. Se progresso c’è è affare dell’impresa privata e nessun’altra forma di emancipazione è consentita, a iniziare dall’emancipazione del lavoro. Nella prospettiva dello storytelling globale l’evoluzione delle macchine prende il posto dell’evoluzione sociale. Perché mai così tanta intransigenza? Per spoliticizzare la tecnologia agli occhi della forza-lavoro e della forza-consumo e per ripoliticizzarla clandestinamente secondo le convenienze degli imprenditori. Perché clandestinamente? Perché la tecnologia si presenta come neutrale, come frutto del puro genio creativo. Perciò avanzare dubbi significa opporsi al progresso, o meglio, all’inevitabile.

La rivoluzione permanente scatenata dal susseguirsi di oggetti digitali si presenta sulla scena mediatica con un particolare tempo del racconto ben rappresentato da alcuni slogan: Microsoft: «Il futuro è ora»; Toshiba: «Un impegno per le persone, un impegno per il futuro»; Gigaphoton: «Il futuro è oggi»; Olympus Corporation: «La tua visione, il nostro futuro»9. In questo legame tra l’oggi e il domani, il futuro è nel presente e il presente è nelle mani della cooperazione fra produttori di tecno-novità e clienti che le acquistano. La stessa cooperazione è sottintesa nel passaggio dalla macchina a vapore ai sistemi cibernetici come illustrato dalla nostra immagine sulla successione delle rivoluzioni industriali: il passato perde di significato (come è nata la prima rivoluzione industriale?), mentre il futuro risiede nell’avvenire in via di fabbricazione nei tanti cantieri digitali, dalla piccola start-up alle gigantesche multinazionali dell’hi-tech. L’idea del futuro a portata di click, gode del vantaggio di un cartello stradale: è facilmente comprensibile da chiunque. Il segreto del suo successo si basa su tre fattori: la necessità degli individui di economizzare risorse mentali per sopravvivere in una società dove il tempo è una risorsa scarsa; la spaventosa retrocessione culturale delle ultime due generazioni di giovani (gli attuali quarantenni e gli attuali ventenni); la mobilitazione collettiva per partecipare alla rivoluzione digitale (come consumatori, come produttori, come narratori).

Siamo alla soglia di un avvenire radioso. I lavoratori possono attenderlo con fiducia e non hanno nulla da temere. L’ automazione è una chiave magica per la creazione di valori; non è un rozzo strumento di distruzione e il talento e le capacità di chi lavora avranno il loro compenso anche nel futuro paradiso terrestre Guidato dagli apparecchi elettronici, sulle ali dell’energia atomica e con l’aiuto dell’automazione, che non costa fatica e corre liscia come l’olio, il tappeto magico della nostra libera economia si solleva in volo verso mai sognati orizzonti. Viaggiare su quel tappeto, sarà la più straordinaria esperienza immaginabile10. Queste parole sembrano scritte oggi, invece risalgono al 1954. Un tempo in cui nella manifattura statunitense comparvero i primi computer. Nel brano troviamo alcuni dei principali mattoni con cui costruire la narrazione digitale di ieri e di oggi: l’ottimismo nel domani (l’avvenire radioso); l’illimitato credito di fiducia concesso all’innovazione tecnologica (l’automazione non è uno strumento distruttivo); la commistione tra credenza religiosa (il paradiso terrestre) e l’invenzione favolistica (il tappeto magico); l’archetipo del viaggio (il volo verso mai sognati orizzonti); lo spirito d’avventura (l’esperienza straordinaria).

Bill Gates: Questo è un momento emozionante dell’età dell’informazione. Tutto comincia ora. Dovunque io vada a tenere una conferenza o a cena con gli amici assisto a discussioni su come l’informatica cambierà la nostra vita. Ci si chiede: cambierà in meglio o in peggio? In che senso renderà diverso il futuro? Ho già detto di essere ottimista per carattere, e sono ottimista anche sugli effetti che le nuove tecnologie determineranno: valorizzeranno il tempo libero e arricchiranno la cultura, incrementando la diffusione dell’informazione; aiuteranno a decongestionare il traffico nelle aree urbane, perché ciascuno potrà lavorare a casa o in uffici vicini alla propria abitazione; contribuiranno a un minor consumo delle risorse naturali, perché un numero sempre crescente di prodotti potrà prendere forma di bit anziché di beni materiali; ci consentiranno di esercitare un maggior controllo sulla nostra vita, di fare esperienze che rispondano perfettamente ai nostri interessi. I cittadini della società informatica avranno a loro disposizione possibilità fin’ora sconosciute di inventare nuove attività, studiare e divertirsi. Le nazioni che, collaborando tra loro, prenderanno iniziative coraggiose godranno di grandi benefici economici. Verranno alla luce mercati completamente nuovi, e saranno create infinite opportunità di lavoro».11 Quanto può turbare l’homo digitalis lo sfiorato en plein di previsioni sbagliate contenute in questo lungo elenco? Nulla. Nulla per tre motivi. Primo: perché nella realtà mediatizzata la coerenza non è una virtù (qualcuno ricorda la promessa mai mantenuta di un milione di posti di lavoro grazie alla quale un tycoon dei media salì a Palazzo Chigi?). Secondo motivo: perché le previsioni sbagliate autorizzano dilettanti, imbonitori e incompetenti che pullulano dentro e fuori la Rete a dire la loro sugli effetti sociali della tecnologia fornendo un inesauribile carburante al moto narrativo. Terzo motivo: perché la narrazione digitale si nutre del mito statunitense della frontiera, e la nuova frontiera è il cyberspazio, che per sua natura non ha limiti: superato un confine eccone apparire un altro e così via all’infinito.

La narrazione digitale è incurante delle previsioni sbagliate sugli effetti sociali della tecnologia proprio perché si afferma come un racconto perennemente in progress. Se si vuole, un racconto di racconti in cui si alternano, si intrecciano e si sostengono molteplici libri. È vero: Bill Gates è uno che ama lanciare profezie e spesso sbaglia, ma qualche volta ci prende. Chi può negare che milioni di posti di lavoro siano andati perduti e che in futuro molti altri andranno perduti a causa della robotica e dell’intelligenza artificiale? Bastano poche evidenze, in atto e soprattutto in potenza, per permettere agli storyteller di continuare a intrecciare nuove trame12. D’altra parte la dieta mediatica prevede dei consumatori insaziabili. Ecco perché le previsioni sul futuro lanciate dagli eredi della rivoluzione digitale non sono quasi mai di tipo scientifico. O meglio: sono doxa travestita da episteme. S’intuisce il motivo: la previsione narrativa è mediaticamente più efficace di quella scientifica perché un serio scienziato sociale è sempre molto cauto nel fare previsioni sulla società di domani e di sicuro non apre le porte al sogno, perciò non fa notizia. Mentre un tecno-visionario ha mano libera nell’anticipare il futuro, lanciare profezie, eliminare incertezze, respingere la prudenza dei tecno-realisti (coloro che valutano l’impatto della tecnologia alla prova dei fatti)13. Trasmesse incessantemente da ogni tipo di media le previsioni narrative sul futuro hi-tech generano un effetto-realtà in grado di plasmare il presente. Non importa tanto il tipo di cambiamento prodotto dalla rivoluzione digitale quanto il suo sviluppo ideativo. E così qualsiasi guru della civiltà del silicio può permettersi il lusso di sbagliare previsioni senza che nessuno o quasi gli chieda conto: ciò che non accade oggi, accadrà sicuramente domani. Non è una questione parareligiosa. O almeno non solo. È una questione di educazione visiva. Basta andare su YouTube per vedere coi propri occhi che prima o poi i robot sostituiranno i camerieri e i giornalisti.

Dal punto di vista storico la rivoluzione digitale nasce nei centri direzionali della grande industria statunitense durante gli anni 50 del 900. Dal punto di vista narrativo nasce nel garage di qualche geniale programmatore informatico. Nascono in un’autorimessa: Google, Amazon, Apple, Hewlett-Packard14. Almeno nel caso della Apple questa venuta al mondo è smentita. Evgeny Morozov: Appena poteva Jobs ricordava che la Apple era nata in un garage gli piaceva argomentare sulla purezza del garage e descrivere il suo sovversivo progetto Macintosh nei termini di un garage metafisico ma il co-fondatore della Apple, Steve Wozniak, ha sempre sostenuto che quel famoso garage svolse un ruolo davvero marginale nella storia della costruzione del primo Mac. Ho assemblato la maggior parte di quel computer nel mio appartamento e nel mio ufficio alla Hewlett-Packard confidò al Rolling Stone nel 1996. Non so da dove salti fuori tutta questa storia del garage lì dentro successe veramente poco.”15

La nascita di una Big Tech all’interno di un luogo dimesso come un garage alimenta i sogni e le speranze di giovani garage tinkerers intenti a creare in camerette e scantinati le loro start-up. A ben guardare sono nate in locali di fortuna anche diverse band della musica pop diventate poi celebri. Il che suggerisce la genesi spettacolare della narrazione digitale. E a guardare ancora meglio, secondo il racconto ufficiale anche Mattel, Disney, Harley-Davidson e Lotus sono nate in un garage. Dettaglio che indica quanto, sul piano simbolico e su quello ideologico (mito del self-made man), la terza rivoluzione industriale sia figlia della seconda. Maternità confermata da fattori assai concreti. Per esempio: presentato a lungo come tecnologia pulita si è poi scoperto che il digitale inquina, è energivoro e per funzionare fa uso degli stessi combustibili fossili della vecchia manifattura. Al netto delle innovazioni tecnologiche la rivoluzione digitale presenta un’altra continuità col passato decisamente interessante: l’organizzazione gerarchica dell’impresa. Rigidità che nell’aprile di quest’anno ha permesso al magnate Elon Musk di licenziare 6.500 dipendenti di Twitter su un totale di ottomila. Però sotto questo profilo una discontinuità tra la seconda e la terza rivoluzione industriale va ammessa: nella Silicon Valley i sindacati praticamente non esistono.

La nostra immagine mentale narra un modo particolare di fare storia: il mutamento sociale passa attraverso le invenzioni tecnologiche16. Ma la storia delle invenzioni tecnologiche non esaurisce la comprensione del cambiamento sociale. In tema di rivoluzioni industriali l’etica protestante non fu estranea all’accumulazione del capitale necessaria alla nascente industria manifatturiera, così come lo sviluppo dell’automazione nella manifattura non è estraneo alla conflittualità operaia. Due casi di scuola che indicano la molteplicità di forze del cambiamento sociale: forze economiche, culturali, politiche, tecnologiche, demografiche. Queste forze sono soggette all’azione collettiva e in misura variabile si combinano tra loro. La regola generale, ricavabile da qualsiasi manuale per studenti di sociologia, è che nessun passaggio da un modo di produzione a un altro e, più in generale, da un modello sociale a un altro può essere compreso se non si tiene conto di tale combinazione. E tuttavia quasi mai i narratori della rivoluzione digitale si confrontano con la complessità della transizione da una rivoluzione industriale all’altra perché verrebbe meno l’enfasi narrativa. È molto più efficace raccontare la storia dell’industria moderna col mero passaggio da una generazione tecnologica all’altra. D’altra parte le storie di successo funzionano sulla base di una trama semplice costellata di episodi più o meno complicati. Ma al di là dell’intreccio narrativo ci troviamo dinanzi a una forma di riduzionismo storico-sociale che non aiuta a comprendere i cambiamenti del passato e del presente. A conquistare il grande pubblico sono le storie semplici e avvincenti.

Il riduzionismo rende molto efficace l’immagine mentale che stiamo esaminando. Ma se si nutrono ambizioni culturalmente egemoniche le scorciatoie del pensiero, per quanto efficaci siano, da sole non bastano. Hanno necessità di almeno due coperture: una teorica e l’altra ideologica. Il passaggio automatico da una rivoluzione industriale all’altra lascia trasparire la prima copertura: il determinismo tecnologico. Si tratta di una nota teoria che vede nel livello tecnologico raggiunto da una società la causa fondativa della sua cultura, della sua struttura e della sua storia. Concezione ben illustrata da un’immagine con cui si induce a credere che la storia si ripeta sempre nella stessa maniera e le ondate tecnologiche costituiscano di per sé un miglioramento della società. Proprio perché monocasuale il determinismo tecnologico facilita le narrazioni e sulle sue spalle siedono i cantori della rivoluzione digitale. I vantaggi sono evidenti: oscurare la natura capitalistica della transizione epocale in cui si trovano le nostre società; produrre un pubblico plaudente o rassegnato dinanzi allo spettacolo della tecnologia; affermare un modello politico-culturale di tipo tecnocratico.

Per sostenere i vantaggi del determinismo tecnologico ecco avanzare la copertura ideologica: il darwinismo sociale. Corrente di pensiero ottocentesca adattata al Terzo millennio grazie all’abbraccio fra teoria economica neoliberista (nata nella prima metà del 900) e la rivoluzione digitale (seconda metà del 900). L’incontro fra neoliberismo e new economy ha richiesto e continua a richiedere un nuovo tipo di produttore il cui profilo può essere così tratteggiato: si adatta a una vita lavorativa fatta di incognite; lotta senza esclusione di colpi contro i colleghi-concorrenti perché le opportunità sono scarse; accetta i contratti individuali e il lavoro nero senza protestare; lo stesso orario di lavoro non ha limiti ed è soggetto a qualsiasi variazione; è disposto al cambiamento continuo, alla mobilità occupazionale (almeno dieci volte nella vita) e a non avere fissa dimora; non sa cosa siano le ferie retribuite; i diritti sindacali appartengono a un passato considerato superato; la sanità la paga di tasca propria; vive perennemente in tournée. A chi somiglia questo flessibile globetrotter? A una vecchia conoscenza: il lavoratore dello spettacolo. Un lavoratore da sempre precario, in balia del mercato, per il quale la solidarietà è uno svantaggio e la vita è la lotta per la sopravvivenza. Con l’affermazione di questa figura di produttore il passato più lontano si salda col Terzo millennio smentendo l’illusione che una rivoluzione industriale azzeri le eredità storiche. Ovviamente non così per la narrazione digitale. Secondo la quale l’era del silicio costituisce un futuro nuovo di zecca. Un futuro che si materializza col susseguirsi di innovazioni tecnologiche e che è continuamente rinviato a domani. Nel frattempo? Miti, fiabe, spettacoli. Nel frattempo c’è da chiedersi come fa un’immagine mentale così discutibile come quella che abbiamo fin qui analizzato a non suscitare un diffuso ripensamento in grado di mettere in crisi la narrazione dominante. La risposta non è difficile da individuare: la rivoluzione digitale si iscrive nel registro dell’immaginario e può presentarsi sotto diverse forme espressive: mito, fiaba, spettacolo. In tutti i casi è un esempio da manuale di de-storicizzazione. Tuttavia mette ordine in una realtà che altrimenti richiederebbe molte spiegazioni (perché abbiamo bisogno di essere circondati da così tante macchine?) e argina la formazione della tecno-consapevolezza (perché vivere con gli occhi puntati su uno schermo?). Queste prevalenze sono generate dall’irruzione sulla scena mediatica delle tecno-novità e dalle mille storie che vengono raccontate a un pubblico che le fa proprie e le ri-racconta contribuendo ad alimentare fiabe, miti, spettacoli. Mille nuove storie vengono alla luce attraverso testi, parole, gesti, eventi, personaggi che appaiono sulla ribalta mediatica. Non necessariamente le storie devono essere confortanti. Anzi, possono seminare paure collettive come per esempio la minaccia dell’intelligenza artificiale di sostituire gli esseri umani dentro e fuori il mondo del lavoro. Un punto a sfavore dell’innovazione tecnologica? No. Sul piano narrativo l’ansia del lettore e dello spettatore non è un problema, è una risorsa chiamata suspence. Si è mai vista una fiaba, una mitologia, un film di fantascienza senza peripezie, senza prove da superare e senza che sia scorso del sangue?

La sequenza di rivoluzioni industriali che ha dato vita a un’immagine mentale diventata senso comune passa da un mutamento sociale all’altro secondo una scansione che autorizza una lunga serie di innovazioni: tecnologiche, scientifiche, organizzative, finanziarie e così via. Una sola innovazione non è prevista: quella politica. Nel senso che non è prevista la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non è prevista l’eguaglianza sociale, non sono previsti i diritti sociali, non è prevista un’equa distribuzione della ricchezza, non è prevista la piena occupazione, non è prevista la fine della povertà, non è prevista la fratellanza, non è prevista la sacralità della vita. Dato che la negazione di tutte queste possibilità costituisce sempre più la realtà degli europei, la rivoluzione digitale sembra essere più l’esportazione nel Vecchio continente dello stile di vita statunitense che una new society. Sembra essere l’affermazione di un paradosso che tiene insieme l’avanzare della tecnologia e l’arretramento della società.

dott. Patrizio Paolinelli

  1. Sulle fortune di tale etichetta e le sue numerose declinazioni cfr. G. Baldi, L’ultima ideologia. Breve storia sella rivoluzione digitale, Bari-Roma, Laterza, 2022. ↩︎
  2. Cfr., É. Laurent, Mitologie economiche, Neri Pozza, Vicenza, 2017. M. Mazzucato, Lo Stato imprenditore. Sfatare il mito del pubblico contro il privato, Laterza, Bari-Roma, 2014. ↩︎
  3. Sulla nascita, gli sviluppi, l’uso e soprattutto l’abuso di questa tecnica narrativa cfr., C, Salmon, Storytelling. La fabbrica delle storie, Fazi Editore, Roma, 2008.
    ↩︎
  4. Fonte: Wikipedia. Voce: Industria 4.0 consultata il 10 dicembre 2023.
    ↩︎
  5. Avviso per i lettori: questa posizione è da tempo largamente minoritaria tra i sociologi della comunicazione. Ci pare un buon segno.
    ↩︎
  6. Per gli amanti delle novità ad ogni costo una brutta notizia: per quanto frammentata la cultura di massa esiste ancora. Perlomeno nel rapporto del tutto asimmetrico che separa i detentori dei mezzi di comunicazione dai loro fruitori.
    ↩︎
  7. Commissione europea, Direzione generale della Ricerca e dell’innovazione, Breque, M., De Nul, L., Petridis, A., Industria 5.0 Verso un’industria europea sostenibile, incentrata sull’uomo e resiliente, Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione europea, 2021, https://data.europa.eu/doi/10.2777/308407
    ↩︎
  8. Cfr. R. Kurzweil, La singolarità è vicina, Apogeo Education Maggioli Editore, Sant’Arcangelo
    di Romagna (RN), 2014.
    ↩︎
  9. L’interesse della comunicazione commerciale per il domani è di vecchia data e si estende ben oltre il comparto strettamente hi-tech. Per restare in Italia: ENEL – Accendiamo il presente per illuminare il futuro; Ferrovie dello Stato Il futuro è una realtà tangibile; Calzedonia Il futuro è rosa.
    ↩︎
  10. Volantino per l’Introduzione all’era dell’automazione della statunitense National Association of Manufactures e citato da F. Pollock in, Automazione. Conseguenze economiche e sociali, Einaudi, Torino, 1970, pagg. 24-25.
    ↩︎
  11. B. Gates, La strada che porta al domani, Mondadori, Milano, 1997, (Ed. aggiornata), pag. 356. Grassetto nostro. Il domani di Gates sarebbe stato un capitalismo senza attriti.
    ↩︎
  12. Nella sua lettera annuale del 2014 Bill Gates spiegò che entro il 2035 non sarebbero più esistite nazioni povere, mentre di recente ha assicurato che ChatGPT cambierà il mondo.
    ↩︎
  13. Osservare sul piano della realtà gli effetti della rivoluzione digitale è l’operazione che conduce Vanni Codeluppi in Mondo digitale, (Laterza, Bari-Roma, 2022) e le conclusioni a cui arriva non sono confortanti per i tecno-ottimisti. In proposito ci sia consentito rinviare anche al nostro, Transizioni digitali. Sindacato, lavoro privato e pubblico impiego nell’era hi-tech, Arcadia Edizioni, Roma, 2019.
    ↩︎
  14. La leggenda delle aziende appartenenti alla old e new economy nate in un garage è assai diffusa. A titolo di esempio si veda: A. Delli Compagni, Otto grandi aziende nate in un garage, (www.wired.it, 24 ottobre 2016); G. Nadali, I business multi milionari nati in un garage, (www.fortuneita.com, 28 agosto 2018). ↩︎
  15. E. Morozov, Contro Steve Jobs. La filosofia dell’uomo di marketing più abile del XXI secolo,
    Codice edizioni, Torino, 2012, pag. 57. ↩︎
  16. Per una sintesi delle prospettive storiche alternative all’ortodossia del mutamento fondato sulla tecnologia cfr., S. Agnoletto, Rivoluzioni industriali e grande divergenza (tra XVIII e XIX secolo): miti e paradigmi, in, Into the black box, (a cura di), Capitalismo 4.0. Genealogia della rivoluzione digitale, Meltemi, Milano, 2021 ↩︎

GIORNATA CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE, I PENSIONATI DELLA CISL AVVIANO UN LABORATORIO PER LA TUTELA DELLE APPARTENENTI ALLA TERZA ETA’

LOCANDINA LABORATORIO MAI PIU' SOLI

Alla vigilia della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, la FNP della CISL di Reggio Calabria ha avviato l’attività del laboratorio intergenerazionale “Mai più soli”, costituito in collaborazione con l’Associazione Sociologi Italiani. La struttura è coordinata da Pasquale Loiacono, segretario provinciale della FNP -CISL, e da Antonio Latella, presidente nazionale dell’Associazione Sociologi Italiani.

Non è certo casuale che l’attività laboratoriale parta in occasione della “Giornata contro la violenza sulle donne”, tema che trova la Cisl, con le sue articolazioni territoriali, impegnata da tempo nella promozione della cultura del rispetto dell’universo femminile. Un impegno che sia in Calabria, con il coordinamento donne guidato a Nausica Sbarra, che nel reggino, con la segreteria provinciale della Federazione Nazionale Pensionati, viene portato avanti con importanti iniziative pubbliche scaglionate nel corso dell’anno. E le donne, ormai uscite dal mondo del lavoro, diventano facile obiettivo di violenze, fisiche e psicologiche e di “ingiustizie che – come sostiene Papa Francesco- assieme alla violenza feriscono l’umanità”.  Gli anziani, appartenenti ai due sessi, se aiutati ad invecchiare attivamente, sono una miniera di esperienza da mettere a disposizione delle giovani generazioni in una società sempre meno coesa e povera di valori. L’anziano non vuole morire d’inedia rimanendo passivo davanti alla televisione sempre più caratterizzata da scene di violenza, da format di poco interesse e da modelli che non stimolano il benché minimo interesse.  Il rischio della solitudine di pensionati ed anziani aumenta nel Mezzogiorno, dunque anche in Calabria, per la cronica carenza di infrastrutture sociali e di centri di aggregazione in cui le generazioni non più attive entrino in relazione con i giovani.PENSIONATI

“Viviamo – ha detto Pasquale Loiacono durante la firma del protocollo d’intesa tra le parti che costituiscono il laboratorio “Mai più soli” – in un periodo contrassegnato dalla fragilità dei legami sociali che provocano isolamento, incertezze, senso di vuoto, paure, insicurezze. Da questo rischio, soli in pochi riescono a salvarsi. Eppure, gli anziani, soprattutto nel Mezzogiorno, nella stragrande maggioranza dei casi, rappresentano il vero sostentamento di figli e nipoti senza lavoro per averlo perso o mai avuto.  Lo sviluppo socio-culturale passa attraverso un patto intergenerazionale che diventi il vero antidoto per esorcizzare i mali della globalizzazione, strumento di diseguaglianze nelle mani dei mercati e della finanza”.

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L’attività del laboratorio “Mai più soli”– come ha sottolineato Antonio Latella  riprendendo  il pensiero dell’attuale Pontefice –   nasce  dalla consapevolezza che “per camminare verso il futuro serve il passato, servono radici profonde che aiutano a vivere il presente e le sue sfide”.

 

 

 

 

 

 

 


Terme Repubblicane di Pompei

Pompei,riportate alla luce le Terme Repubblicane

Terme Repubblicane di Pompei

Un nuovo risultato, è stato raggiunto a Pompei, durante gli scavi nei luoghi meno noti del sito archeologico. Dopo il ritrovamento di alcuni resti umani nella Necropoli di Porta Ercolano, ”hanno rivisto la luce ” le Terme Repubblicane”, il quinto stabilimento termale pubblico, della”Città dipinta d’eterno ”e con tutta probabilità quello dalle origini più antiche. Un progetto di studio , avviato dall’Università di Berlino (Freie Universität) diretto da Monika Trümper, in collaborazione con la Oxford University, e voluto dalla Sopraintendenza Speciale per Pompei , Ercolano e Stabia. Sita adiacente all’ ingresso del Foro Triangolare, la costruzione, durante la prima età imperiale (I sec. d.C.), caduta ormai in disuso, venne inglobata dalla ”Casa della calce” e dalla ”Casa dalle pareti rosse”, ovvero dalle due dimore private confinanti, custodita nel segreto del tempo, fino alla prima metà del secolo scorso. Fu, infatti, nel 1950, per primo Amedeo Maiuri, ad effettuare lo scavo dell’edificio ed a documentarne la planimetria. Dei primi scavi, ai quali, tuttavia, non succedettero altre indagini, cosicché l’area, fu nuovamente ricoperta dalla vegetazione e dalla terra, almeno fino ad oggi. Due le fasi che hanno caratterizzato l’operazione : la prima con lo scopo di ripulire l’area e il rilievo architettonico per riportare alla luce le strutture scavate nel ’50 da Maiuri, e la seconda, una campagna di scavo, della durata di tre settimane e terminata in questi giorni volta a comprenderne sia l’evoluzione architettonica nel tempo, sia le tecniche utilizzate per il funzionamento del complesso termale. Tra gli stabilimenti più antichi ritrovati a Pompei, le Terme Repubblicane, possono essere identificate come una fase sperimentale, per raggiungere l’ottimo risultato,del vicino, e cronologicamente, successivo complesso delle Terme Stabiane, ideale modello di stabilimento termale, con le tradizionali caratteristiche, ovvero tecnologia e suddivisione, utilizzati poi, in tutte le strutture dello stesso genere. Intercapedini areate,costituite da una serie di canali paralleli, situate sotto i pavimenti, al posto delle usuali suspensurae, successivamente utilizzate in tutti gli stabilimenti termali romani, per favorire il passaggio dell’aria calda, ed il conseguente riscaldamento dei locali, l’indizio che potrebbe costituire la conferma delle loro antiche origini. La scelta di concentrare l’attività di studio nelle aree del ”Laconicum” (sauna) e del ”praefurnium” (fornace),è stata dettata, in quanto, risultano tra i più antichi esempi conosciuti, per ciò che concerne la fase di passaggio,dal modello greco a quello romano, con lo scopo di comprenderne il funzionamento, e precisarne lo sviluppo cronologico. Insieme agli scavi, una nuova mappa dell’area è stata prodotta e mediante fotogrammetria e/o laserscan, una schedatura di tutti gli elementi decorativi ed architettonici. Ovviamente l’attività di studio non è affatto conclusa, ma la campagna, continuerà in futuro,con altre indagini stratigrafiche della struttura per precisare fasi e funzioni dei diversi settori. D’importanza fondamentale sono stati i risultati ottenuti durante queste ricerche, poiché forniranno gli strumenti scientifici necessari sia alla progettazione dei lavori di restauro, che alla conservazione ed alla,da parte del pubblico, finale fruizione del sito.

Sabrina Gatti sociologa ANS Lombardia


La fedeltà dei libri

Zocconali-Pietro-giungo-2014-204x300“La giungla di Asfalto” di William R. Burnett, uno scrittore statunitense del secolo scorso. Un bel poliziesco/noir, dal quale è stato tratto a suo tempo un famoso ed apprezzato film di John Houston “Giungla d’asfalto”.
I miei lettori diranno: perché ci stai raccontando questa cosa; non è neanche un libro di sociologia. Così recita un commento critico (grazie Internet!): Questo romanzo è “…il prototipo di diritto dei romanzi criminali a base sociologica…”. Cari amici, la sociologia sta un po’ dappertutto! Ma io sto scrivendo questo articolo per un motivo per me speciale: aprendo il volume, prelevato dalla mia biblioteca formata da circa cinquemila testi, tutti ben catalogati, mi sono accorto di averlo acquistato esattamente cinquanta anni or sono: trattasi di un Oscar Mondadori datato 28 settembre 1965.
Avevo comprato questo libro in edicola, quando era esploso, in quel periodo, il fenomeno dei libri pocket economici, in vendita settimanalmente proprio dalle rivendite di giornali; l’Oscar Mondadori n. 1, “Addio alle armi”, di Hemingway, era apparso nelle edicole pochi mesi prima, con un grande successo di pubblico, al prezzo di 350 lire (meno di 20 centesimi di Euro, cifra che oggi lasciamo di mancia quando ci prendiamo il caffè al bar).
Naturalmente avevo letto a suo tempo il capolavoro di Hemingway e, a seguire, tanti altri, ma il testo di Burnett, era caduto nel dimenticatoio; quando mi sono sposato mi ha seguito all’interno di uno scatolone, poi ha cambiato altri due appartamenti ed ora dimora nella mia abitazione principale, a Roma in sala hobbies, archiviato come letteratura anglo-americana, ed è a disposizione della mia famiglia.
Finalmente l’ho letto, dopo 50 anni: un capolavoro nel suo genere, quasi un “Delitto e castigo” di dostoevskiana memoria, capostipite della “rapina del secolo” e di quel “gran colpo che ci sistemerà per sempre”, e che invece al termine della storia si rivelerà un fallimento, con uno strascico di morti ammazzati e con la giustizia che alla fine trionfa.

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Ma io voglio arrivare a questo: esistono altre cose, di così poco valore commerciale, che acquistate 50 anni prima riescono ad allietarci per alcune ore? Che in tanti anni non ci sono mai state di intralcio, che fanno parte del nostro bagaglio culturale? Non certo i cellulari, i PC, i tablet o cose del genere, tutto intercambiabile. Ma come potrai mai sostituire i tuoi manzoniani “Promessi sposi”, quelli con le tue annotazioni?
Tante volte capita di pensare a cosa mettere in salvo a causa di un improvviso incendio, o a cosa portare con se davanti ad una fuga dal proprio Paese (e i media stanno ampiamente documentando il fenomeno fuga dalla Siria e dall’Africa sub-sahariana).
Se mi dovesse capitare di fuggire via all’improvviso, o se mia moglie, stufa di me, mi dovesse cacciare di casa, credo proprio che porterei con me una edizione economica di “Guerra e Pace”, di Tolstoj, comprata negli anni 60, libro da me letto già tre volte.

 

Pietro Zocconali, presidente Associazione Nazionale Sociologia, Giornalista


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