ASPETTI SOCIOLOGICI DELL’ESPERIENZA MIGRATORIA E DELLE COMUNITÀ

                                   

MARIA RITA MALLAMACI GIUGNO 2015Con la scelta, spesso obbligata, di cambiare il luogo dove vivere per dare dignità e valore alla propria esistenza, l’essere umano compie un’esperienza tra le più forti della propria vita. Di questa, i toni e i colori divengono accesi e rasentano spesso la violenza, laddove i sentimenti perdono la loro tranquilla linearità e divengono pezzi di una vita da cambiare a qualunque costo. Questo è quello che una persona, costretta a partire, patisce per periodi a volte davvero lunghi. Non si giunge mai a cuor leggero al momento di una decisione migratoria, perché è insita nell’animo umano una certa tendenza al radicamento ed all’assestamento della vita dell’uomo sia nei confronti del luogo che lo ospita da quando è nato, sia nei confronti delle persone che insieme a lui hanno caratterizzato dinamiche di vita sociale ben precise. Anche rispetto alle tradizioni e alle tipicità che ogni angolo del pianeta offre in modo assolutamente unico, un individuo trova molto complicato agire il distacco, poiché la sua essenza è fatta di sapori e odori speciali che egli riconosce essere “casa propria”.Ciononostante l’opera migratoria degli esseri umani è sempre esistita e, al di là delle antiche esigenze di effettuare grandi spostamenti per avvantaggiarsi nell’ottenimento di nuove proprietà, gli ultimi due secoli hanno prodotto grandi esodi da parte di popolazioni che si sono poste il problema della sopravvivenza quotidiana.

Se chiedessimo alle persone che ci sono vicine se hanno mai fatto i conti con la frustrazione provocata dalla partenza di un proprio familiare, ci sentiremmo rispondere più volte di sì e potremmo anche scoprire che oltre alla frustrazione anche la rabbia, l’impotenza ed una certa disillusione hanno caratterizzato i loro distacchi.Sembra un po’ banale, ma se proviamo a toccare da vicino le loro storie prestando il nostro ascolto e con esso anche il nostro cuore, la già sentita frase “… partire è un po’ morire” trova spiegazioni inattese che di banale non hanno nulla. E’ un continuo mettersi in gioco, fare i conti con ciò che si lascia e ciò che, forse, si può trovare e una volta che questa faticosissima scelta si compie, è fatta: si va.La comunità che deve lasciare andare uno dei propri membri soffre a sua volta, in ogni suo componente, diventando in maniera amplificata un deposito inattaccabile di ricordi, memoria storica e familiare, usi, abitudini e tutto ciò che collettivamente può essere utile e funzionale per perpetuare le proprie tradizioni al di là delle forzate assenze.L’emigrante porta con sé parte di queste cose e, una volta divenuto immigrato, proverà a vestirsi, a mangiare, a pregare ed a pensare come quando era ancora nella sua terra, ma dopo un certo periodo tutto questo non gli sarà proprio facile da attuare.

L’arrivo nel luogo in cui egli ha pensato di poter rinegoziare la propria vita per restituire a sé stesso, e alla propria famiglia se ce l’ha, quella dignità umana data dal possedere un lavoro, una casa e dal poter perpetuare le sue più imprescindibili realtà di valore, si rivela molto spesso una sorta di passaggio transoceanico col mare in tempesta. Ciò che più frequentemente accade è che la comunità, che dovrebbe accogliere questo disperato e smarrito essere umano, non si accorga neppure della sua esistenza. Naturalmente, a condizioni non proprio esemplari, questa stessa comunità gli darà da lavorare e gli consentirà di sopravvivere, ma non sempre gli aprirà le porte attraverso le quali egli potrà accedere a nuovi capitoli esistenziali.La condizione di immigrato è la sintesi tra la realtà umana, creata anche dalla necessità, e il punto di vista di un valore che dovrebbe essere considerato “aggiunto” e che dovrebbe caratterizzare la comunità accogliente.

Ma mentre il primo elemento di questa formulazione non è una condizione variabile, quanto piuttosto un punto fermo purtroppo inderogabile, il secondo elemento rappresenta una situazione più complicata ed instabile. La comunità che ospita l’immigrato molto frequentemente non lo accoglie, lo tollera adottando comportamenti e atteggiamenti fortemente alienanti, rivelandosi chiusa e molto impegnata a definire i confini della diversità. D’altronde la storia umana è avvezza a lotte finalizzate all’isolamento di ciò che non è comunemente riconosciuto, la diversità che connota una cultura proveniente da altre parti del mondo, ha sempre fatto paura. Barriere di questo genere costituiscono un limite sociale ed una certa instabilità, poiché non danno luogo ad auspicabili fenomeni di osmosi culturale e non lasciano spazio ad arricchimenti umani.E’ onesto sottolineare come la responsabilità di questo fenomeno non sia unilaterale ma va ripartita, anche perché riconoscere questo limite sociale aiuta ad innescare un meccanismo di apertura e di accoglienza.Non è mai necessario adottare a prescindere un atteggiamento arroccato sia mentale che comportamentale, e questo vale per entrambe le parti in causa.Diventa più utile conservare di sé stessi ciò che rappresenta la propria essenza umana e culturale proponendosi agli altri con serenità, essendo consapevoli che nello scambio di più bagagli culturali non si perde nulla ed il risultato sarà sempre positivo.

Maria Rita Mallamaci – Sociologa ANS (Vicepresidente Dipartimento Calabria dell’Associazione Nazionale Sociologi)

 


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