APOCALISSE CULTURALE E SOCIOLOGIA CLINICA, DIAGNOSTICA DEL DISAGIO
di Federica Ucci
In generale, quando lo scienziato sociale scende sul campo deve mettere impegno diretto all’interno della società, quindi l’attore sociale diventa centrale sia come singolo che all’interno di gruppi o organizzazioni. Questo è ancora più evidente nel caso della sociologia clinica, nell’ambito della quale il sociologo cerca di cogliere i segnali del condizionamento sociale in atto facendo in modo che ve ne sia consapevolezza da parte dei soggetti sociali.
<<== dott.ssa Federica Ucci
Coinvolgendo anche la loro appartenenza sociale cerca di produrre forme di conoscenza in grado di generare azioni e reazioni a catena che li spingano ad un utilizzo attento di atteggiamenti e comportamenti, con una accentuata capacità di regolazione dei propri interventi, pensando anche alle conseguenze individuali e sociali che ne derivano. La sociologia clinica è pratica, i primi utenti sono i sociologi stessi che però, di fatto agiscono in nome e per conto dei destinatari/utenti finali e possono essere definiti, quindi, dei mediatori scientifici.
Si può parlare di azione-ricerca, invertendo volontariamente l’ordine di questi due termini, in quanto il sociologo clinico svolge in primo luogo un’azione volontaria di sguardo rivolto all’attore sociale, e solo dopo giunge l’operazione di ricerca che stabilisce una circolarità. La sociologia clinica contribuisce ad una acquisizione agevole da parte degli individui sociali della loro identità e del loro ruolo per favorire processi di coesione e solidarietà in modo che il sociologo clinico sia anche agente di cambiamento in grado di rendere i propri interlocutori individuali e sociali a loro volta dei protagonisti del mutamento sociale. Lo specialista di sociologia clinica è quasi un meta-sociologo poiché va al di là della psicologia sociale, dell’antropologia,della psichiatria, dell’etnologia e di altre discipline ancora[1].
L’importanza del ruolo del sociologo di prossimità sta facendosi sempre più strada nell’ambito del lavoro svolto sul campo, soprattutto laddove la relazione d’aiuto diventa fondamentale per superare delle difficoltà strettamente legate alle situazioni di vita all’interno dei contesti di riferimento degli individui.Solo poco tempo fa lo sconvolgimento portato dal Covid-19 ha scosso l’immaginario di tutti facendo riemergere timori ancestrali legati addirittura all’estinzione della specie umana.
Il termine “Apocalisse” (o apocalissi), in latino apocalypsis ed in greco ἀποκάλυψις vuol dire «rivelazione».Viene usato come titolo o designazione di scritti, canonici o apocrifi, contenenti rivelazioni relative ai destini ultimi dell’umanità e del mondo[2] oppure è utilizzato per indicare una catastrofe, rovina totale, la fine del mondo.[3]
Sono passati quattro mesi dalla dichiarazione dello stato di pandemia, la specie umana è sopravvissuta e si accinge a tornare a quella normalità tanto rimpianta nei mesi di isolamento, quell’ottimismo e quella solidarietà di allora, come ogni cosa nell’epoca postmoderna, stanno diventando sempre più liquidi e si stanno contaminando con le solite routines, se davvero il mondo sarà un posto migliore per gli insegnamenti ricevuti da questa esperienza lo sapremo soltanto quando il tempo deciderà di rivelarcelo inaspettatamente.
Non si è trattata, dunque, di una fine del mondo in senso letterale, ma di quella che il filosofo Ernesto De Martino chiama Apocalisse Culturale in riferimento alla fine di un mondo specifico, nel senso che tutti i mondi possono e devono finire, pensiamo ad esempio all’apocalisse marxiana, che verte non sulla fine generalizzata del mondo, ma sulla fine di una organizzazione socio-economica del mondo.
Possiamo dire che questa visione è molto attuale e di pertinenza sociologica non solo perché nel rapporto Io-mondo entrano in gioco anche la dimensione sociale e quella culturale, ma anche perché a livello ideologico lo stato di attesa di una fine imminente si ripercuote nei rapporti sociali, influenzandoli, diversificandoli, costruendone di nuovi, introducendo contraddizioni all’interno dei gruppi. L’Apocalisse Culturale porta con se una “crisi della presenza” speculare a una “crisi della ragione” o meglio una “crisi di valori”.
A livello ontologico, il “qui e ora dell’esserci” genera relazioni che risentono sia della presenza all’interno del mondo sia del fatto che esse sono inserite in contesti socio-culturali determinati, costantemente minacciati dal rischio di crollare, facendo crollare con essi anche ogni presentificazione,anche l’“esserci”. Questo rischio antropologico costante subisce una continua reintegrazione culturale che garantisce un progressivo e continuo rinnovarsi dell’esserci-nel-mondo, De Martino lo chiama “ethos superumano del trascendimento”, ovvero un essere insieme, caratterizzato come necessità doverosa di schierarsi con quelle forze sociali e culturali che oggi si battono per la costruzione di un mondo migliore. L’essere nel mondo è legato in maniera indissolubile al concetto di domesticità, ovvero ciò che fa sentire il mondo come “proprio”, allontanandolo da ogni inquietante estraneità e facendolo percepire, quindi, come “normale”.
La nostra identità è dunque inscritta in tutto ciò che la circonda, nella propria comunità culturale. Quando un fenomeno assume rilevanza collettiva, genera casi di crisi della presenza al mondo che si configurano entro i termini spazio-temporali di un disagio della civiltà. Quando non si riesce ad opporre alcuna forma di soluzione culturale è la fine, al contrario, quando l’ethos del trascendimento risulterà vincente in tutte quelle situazioni, storicamente individuate, in cui la collettività sia giunta al controllo e al superamento culturale della crisi c’è progresso.
La perdita della normalità del mondo avviene quando si esce dal cammino che dal privato porta al pubblico, poiché il «privato», l’intimo, ha un senso fisiologico quando racchiude una promessa di pubblicizzazione, quando è immesso come momento in una dinamica di valorizzazione intersoggettiva, quando diventa, prima o poi, parola e gesto comunicanti. L’incomunicabilità è uno dei disagi oggi più che mai avvertiti, il contesto circostante cambia così velocemente che gli individui non riescono a prendere coscienza agli stessi ritmi delle loro debolezze in quanto sono costantemente immersi in un flusso di ansie, paure, incertezze che distoglie l’attenzione dalla problematica specifica e a volte può impedire di spiegarla correttamente a se stessi e agli altri.
A livello psicologico la percezione di un crollo del mondo è percepito come un parallelo crollo del Sé, De Martino parla di una “crisi radicale” che nell’uomo si declina a livello psichiatrico ma che noi sociologi, senza avere la pretesa di entrare in merito alla patologia individuale, attualmente potremmo ricollegare allo stato di panico e al senso di precarietà in cui molte persone sono scivolate a causa del lockdown. Il grande problema della nostra età è quello della “salvezza” dell’individuo all’interno della società umana, all’interno di una socializzazione che non sia massificazione, burocratizzazione, statolatria ma che si concentri, appunto, sul sostegno reale della persona.
Il dramma dell’Occidente mostra paradossalmente i tratti caratteristici delle apocalissi psicopatologiche: due antinomici terrori segnano il profilo della nostra epoca, quello di “perdere il mondo” e quello di “essere perduti nel mondo”, la presenza entra in rischio nel momento in cui perde i confini della sua patria esistenziale, quando perde “l’orizzonte culturalizzato oltre il quale non può andare”.[4]
Poiché la cultura non influisce solo sulla vita sociale ma anche su parti significative di quella individuale, molti casi di disagio possono originarsi da disfunzioni nei sistemi culturali in due modi.
Parliamo di disagio sociale quando ci sono problemi nella sfera socio-strutturale, quindi tra attori sociali o fra essi ed istituzioni: questi eventi generano conflitti ed incomprensioni fra diversi modelli culturali, per esempio, si può leggere la violenza sulle donne non solo come un problema di aggressività incontrollata da parte degli uomini ma anche come rappresentazioni della realtà che orientano il comportamento maschile in quanto raffigurano le donne come inferiori o come oggetti di proprietà. E’ indispensabile che ogni modello culturale sia efficace, cioè con una coerenza interna che permetta agli attori di usarlo nell’interpretazione e nell’interazione con il loro ambiente, diversamente non sarebbero in grado di capire cosa succede attorno a loro e si genera un disagio sociologico, perché c’è compromissione della capacità degli attori di interpretare la realtà esterna[5].
La sociologia attualmente deve essere in grado di diventare diagnostica del morbo culturale, in modo da contribuire a rendere l’individuo cosciente della crisi valoriale del mondo contemporaneo.La parola “clinica”rinvia all’intervento su situazioni particolari considerate problematiche e riconduce al concetto di problema sociale.
I problemi sociali sono qualcosa di tipicamente moderno, non perché non siano esistiti nelle società pre-moderne ma perché erano considerati o frutto di processi naturali o effetto di punizioni divine o ancora risultati di sconfitte che non prevedevano interventi terapeutici da parte di istituzioni della collettività (caso mai solo interventi volontaristici di un eventuale “buon samaritano”). Con l’accelerazione dello sviluppo economico e del mutamento sociale dovuti al capitalismo da un lato, e con la centralità che il principio di eguaglianza ha acquisito nel mondo modernizzato dall’altro, ma soprattutto con la secolarizzazione trionfante (che ha tolto ogni legittimazione religiosa alla sofferenza), le situazioni penose sono diventate problemi di cui la collettività si deve fare carico in vista di una loro soluzione e di un loro superamento.[6]
Esiste un legame inscindibile tra l’individuo e la comunità: nel momento in cui si avverte la perdita dell’orizzonte simbolico, garantita all’interno di quella specifica comunità, anche il singolo vacilla, con lo smarrimento di riferimenti simbolici stabili si incorre nel rischio di desertificazione di ogni memoria culturale. Di conseguenza, la perdita dell’orizzonte domestico, che caratterizza il nostro essere al mondo, porta a smarrire anche l’ethos, determinato dal crollo dell’orizzonte culturale comunitario. L’unico strumento per superare la crisi, per evitare il rischio della dissoluzione è quello di volgere lo sguardo alla stessa comunità e ritrovare, all’interno di essa, la salvezza. Le sorti del mondo, infatti, possono essere cambiate solo dall’uomo in quanto tale ma all’interno della comunità culturale.[7]
Una sociologia utile deve essere necessariamente vicina all’essere umano, diventa clinica quando il proprio metodo si concentra sullo studio del caso individuale ed è orientata a produrre un cambiamento in chi diventa “partecipe” di tale intervento.Il singolo, la comunità, l’organizzazione, la società possono essere accompagnati in processi di emancipazione da situazioni di conflitto, di sofferenza, di emarginazione.
La ricerca sociale in sociologia clinica ha l’obiettivo di diventare un momento diagnostico in cui definire insieme all’individuo i fattori che influenzano o determinano i propri schemi interpretativi della realtà o la definizione della propria situazione. La sociologia clinica, perciò, interviene per cambiare, diventa “vicina” al problema della persona stabilendo una specifica relazione che determinerà metodi e modalità di intervento.Il sociologo clinico, all’interno dell’interazione con l’altro, ne esplora la percezione e progetta con esso una possibile soluzione per migliorare la propria condizione.
L’inquadramento diagnostico ed il relativo percorso di emancipazione è sociologicamente orientato nel senso che viene decodificato utilizzando le conoscenze sociologiche e soprattutto considerando i problemi personali come problemi sociali, prospettando poi le varie possibilità di soluzione ad essi. Nella definizione del problema vengono considerate le variabili che nell’utente, nell’organizzazione, nel gruppo, nella comunità hanno determinato la sociogenesi dei comportamenti dei singoli e dei gruppi: non solo le variabili classiche della sociologia come l’età, il sesso, l’istruzione ma anche lo schema di relazione, il concetto di realtà, il modello interpretativo, la rappresentazione, le auto- ed etero-interazioni ecc. Fattori, questi, intercettati e decodificati all’interno di un modello sociologico e con strumenti sociologici come l’intervista, il colloquio esplorativo, l’analisi narrativa, l’analisi biografica ecc.
Le soluzioni vanno cercate più nell’analisi della situazione che mirando alle strutture o alle cause antecedenti un dato fenomeno, dall’esame accurato della loro lista, sviluppata anche attraverso tecniche come il brainstorming, si deve arrivare alla definizione delle alternative realmente praticabili.
L’integrazione dell’approccio dal basso nel paradigma relazionale evidenzia in ogni modo gli aspetti socio-culturali e propriamente umani della vita quotidiana, di conseguenza, senza volere contenere una tale prospettiva separata della relazione e del rapporto dialettico con altre dimensioni, è possibile privilegiare quella intersoggettiva interessandosi dei mondi vitali. Il ricorso alle fonti orali permette di dare voce alle comunità ricostruendo attraverso il linguaggio, la memoria e l’immaginazione, le logiche inter-soggettive ed i loro significati rispetto alla storia del corpo sociale. L’approccio socio clinico muove, dunque, dalla prospettiva dei singoli, dal punto di vista degli stessi operatori sociali e culturali che operano nel settore dei servizi alla persona e inter-agiscono con le realtà possibili.[8]
Purtroppo la figura del sociologo “pratico” è ancora troppo poco coinvolta nell’ambito dell’intervento territoriale, spesso chi è in possesso di una laurea in sociologia viene impiegato per ricoprire ruoli diversi e si ritrova a svolgere mansioni anche inferiori. Tuttavia, nell’esecuzione del lavoro la sociologia resta sempre presente, seppur sotto mentite spoglie in quanto la società può essere intesa come un grande laboratorio sul campo, nel quale si creano continuamente spazi di incontro-attivazione tra soggetti per intercettare l’emersione di eventuali problematiche. E’ necessario restituire al sociologo il proprio ruolo in ottica di collaborazione con le altre professionalità in quanto è una figura strategica per l’orientamento dell’individuo verso la riscoperta e la riappropriazione del senso della propria presenza nel mondo.
Inoltre, sollecitando alla consapevolezza e all’interpretazione attiva del mutamento che investe il proprio io, il proprio corpo e l’ambiente non solo può supportare l’educazione spontanea legata al processo del vivere ma anche quella intenzionale per la motivazione e ri-motivazione finalizzata a metabolizzare i cambiamenti. Infine, laddove intercettasse stati di necessità particolari, il sociologo potrebbe contribuire anche ad accompagnare le persone verso forme di sostegno professionale più specialistico, in quanto spesso gli individui non sono coscienti del fatto di averne bisogno perché non sanno riconoscere o definire il loro disagio.
Federica Ucci, Sociologa specialista in Organizzazione e Relazioni Sociali
NOTE
(1)Roberto Cipriani, Professore ordinario di Sociologia nell’ Università Roma Tre, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, pagg. 7-11 in “Sociologia Clinica e Terapia Sociale”, (a cura di) Massimo Corsale, Franco Angeli, 2010
(2) Ad esempio, l’Apocalisse di Abramo, di Mosé, di Paolo, di Pietro, ecc. In particolare, il libro che ha questo titolo, accolto nel canone del Nuovo Testamento, è attribuito tradizionalmente a s. Giovanni Evangelista.
(3) www.treccani.it
(4) E. De Martino, “La fine del mondo.Contributo all’analisi delle apocalissi culturali”,(a cura di) Clara Gallini, Einaudi, Torino 2002, brano 271, pp.479-480.
(5) M. Corsale, 2010, Op. Cit.
(6)M. Corsale, Università Suor Orsola Benincasa, Napoli e La Sapienza, Roma, pagg. 13-29, 2010, Op. Cit.
(7) E. De Martino, 2002, Op. Cit.
(8) Giuseppe Gargano, Presidente Associazione Sociologia Clinica, pagg. 127-147, in M. Corsale, 2010, Op. Cit.