QUANTO CONTA L’ASPETTO EMOZIONALE NELLO STUDIO DEI CONSUMI?
“Le emozioni hanno un carattere particolare da cui non può fare astrazione chi si occupa della vita sociale dei suoi simili”. (Lucien Febvre)
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un profondo cambiamento di paradigma per quanto concerne lo studio dei consumi. Accanto alle abbondanti indagini sui movimenti aggregati di consumo critico, si affiancano i consumi individuali finora poco analizzati dal punto di vista sociologico. La tesi principale a sostegno di questo articolo che intendo porre alla vostra attenzione, è che la componente emozionale gioca un ruolo fondamentale nella determinazione delle scelte di acquisto. Il primo aspetto che mi preme sottolineare, come differenza marcata rispetto al passato, è la valenza simbolica del consumo: il consumo è sempre meno consumo effettivo di merci, bisogno tangibile ridotto al mero valore d’uso e sempre più veicolazione di significati e, dunque, preminenza del valore simbolico comunicato attraverso un continuo processo di desemantizzazione e risemantizzazione. Il senso che diamo agli oggetti e l’uso che ne facciamo è mirata all’espressione di una identità che, nell’epoca postmoderna caratterizzata dalla dematerializzazione e dall’atomizzazione degli individui, si presenta polimorfa e proteiforme, in cui fattori razionali ed emotivi interagiscono costantemente nell’indirizzare le scelte del consumatore.
All’esasperazione dell’individualismo si lega il concetto di tribù del sociologo francese Michel Maffesoli. Il mondo globalizzato propone diversi modelli valoriali impossibili da conciliare contemporaneamente. Questo disagio provoca l’emergere di una società pluralista e relativista, in cui l’unica via di uscita è quella di unirsi agli altri per ritagliarsi degli spazi di condivisione di sentimenti, proprio sotto forma di tribù.(1) La postmodernità ha portato ad una società orizzontale in cui non esiste un pensiero unico, bensì un relativismo di opinioni, in cui l’uomo stesso diventa una molteplicità di persone, con ruoli diversificati da interpretare in base alle circostanze.
La rilevanza assunta dall’individualismo, però, secondo alcune indagini empiriche da me condotte in Italia e in Spagna sui consumatori non strutturati e secondo alcuni studi riconducibili a Maffesoli in chiave strutturata, non implica la rarefazione dei legami con il sociale. Nella società postmoderna, infatti, possiamo ravvisare forme comunitarie basate sul “sentire”, nuove forme di socialità non basate sulla razionalità tipica dei grandi ideali della modernità, ma fondate su elementi di empatia, socialità emozionali non basate sull’appartenenza di ceto o di classe, ma legate da un comune sentire. Il consumo critico, pur praticato individualmente, contribuisce alla nascita di nuove forme di socialità basate non solo su elementi valoriali contrari al pensiero dominante, ma anche su una serie di emozioni che accomunano tutti consumatori responsabili, così come è emerso dall’analisi dei due casi empirici di questo lavoro.
Riprendendo alcune categoria dalla sociologia della conoscenza, potremmo azzardare che il consumatore, in quanto attore senziente, origina i suoi pensieri e le sue emozioni rielaborando in modo del tutto personale un sistema di valori e credenze radicato nel contesto socioculturale, tanto da poter parlare di emozioni collettive al pari di pensiero collettivo come suggerisce la sociologia della conoscenza (Santambrogio, 2013). Il campo di indagine si amplia, sfuggendo a pregiudizi di tipo razionalistico e irrazionalistico. I beni di consumo rappresentano l’oggetto esterno al quale pensieri ed emozioni sono rivolti e verso i quali si indirizza un’azione cognitiva connessa ad un peculiare modi di vedere il mondo. Le emozioni, dunque, sono confuse nelle capacità di ragionamento e non possono prescindere le une dalle altre, poiché l’influenza reciproca ne modella e muta la forma, obbligandoci a non estromettere dall’analisi dei fenomeni il discorso emotivo in virtù di quella oggettività che le scienze sociali tendono a perseguire.
E’ in questo quadro teorico che si inserisce l’utopia pragmatica del nostro consumatore critico individuale. Il concetto di utopia si sposa bene con il postmodernismo che vede la fine delle grandi ideologie e l’affacciarsi di nuovi collanti sociali. La scomparsa delle dottrine che operavano una netta stratificazione sociale, opacizza i confini tra modo di pensare e collocazione nel mondo, con la conseguente formazione di identità molteplici e nuovi modi di organizzare il pensiero collettivo (Santambrogio, 2013). Le classi sociali della modernità lasciano il posto a cittadini atomizzati, agli sciami di consumatori baumaniani, ad aggregazioni animate da un immaginario collettivo multisfaccettato.(2)
In questa nuova prospettiva, i bisogni cedono il passo ai desideri e alle emozioni. Oggi più che, l’uomo ha l’opportunità di godere di un numero di beni superiore rispetto al passato e la sua domanda incontra un’offerta diversificata atta proprio a sopperire a qualsiasi esigenza del consumatore postmoderno (Fabris, 2003). L’edonismo , ossia la continua ricerca del piacere, e il narcisismo inteso come riappropriazione dell’amore e del rispetto verso se stessi, rappresentano due trend crescenti nel consumatore della postcrescita di Fabris.
Da sottolineare che l’interesse della sociologia per l’elemento irrazionale caratterizzato, appunto, dalle emozioni è recente e tuttora visto con diffidenza. Nel corso della storia è stato dato via via sempre più rilevanza all’elemento razionale e ciò ha comportato l’emergere di una dicotomia tra pensiero e sentimento ancora più marcata, dando luogo a quel dualismo tra logos e pathos nell’uomo come elementi inconciliabili tra loro.
Già nell’antica Grecia, i filosofi tendevano a stigmatizzare le emozioni come malattie ed elementi disturbanti. L’emozione era percepita come sinonimo di passione (più avanti vedremo, invece, che sono due categorie concettuali connotate da elementi di differenziazione) e soprattutto come incapacità di controllare la realtà. Questa scissione tra ragione e sentimento è stata il fondamento della cultura moderna, tant’è che il famoso Cogito ergo sum cartesiano, eleva il pensiero a principio unico e sufficiente a determinare l’essere.
L’inizio dell’attenzione della scienza nei confronti delle emozioni si può far risalire all’ascesa della psicologia, disciplina votata all’esplorazione del mondo interiore. La psicanalisi, in particolare, ha posto al centro dell’analisi le emozioni quali elementi fondanti della personalità, determinanti nelle scelte e nei comportamenti e perfino nell’evoluzione del pensiero. Tuttavia anche queste scienze dedicate all’introspezione della mente e dei sentimenti hanno riscontrato non poche difficoltà nella definizione e nello studio delle emozioni fino a che negli anni ’50 molti studiosi si pronunciarono favorevoli alla soppressione dello studio delle emozioni in quanto elementi ambigui e destabilizzanti.
“Le emozioni erano considerate dagli psicologi comportamentisti stati interni che non si potevano osservare in modo affidabile ed erano pertanto escluse dal campo della psicologia scientifica” (Sentimenti passioni, emozioni. Le radici del comportamento sociale. Bernando Cattarinussi. Franco Angeli, Milano, 2006. Pag. 12)
Negli anni ’60 si assiste ad un rinnovato interesse per il mondo controverso delle emozioni sia dal punto di vista teorico e sia dal punto di vista empirico e negli anni ’80 finalmente anche la sociologia si affaccia allo studio dei sentimenti. Questo coinvolgimento scientifico scaturisce da una nuova consapevolezza: si riconosce, infatti, l’incidenza delle emozioni e dei sentimenti nel nostro legame con le cose e con le persone, modificando i nostri comportamenti ancor prima di qualsiasi pensiero razionale. Gli esseri umani, in definitiva, non sono affatto motivati esclusivamente da interessi di natura razionale ed economica. La dicotomia emozione-ragione si appalesa nella sua arcaicità, le varie discipline si uniscono nello sforzo comune di superare questo rigido schema dicotomico e di comprendere il ruolo cognitivo e comunicativo delle emozioni. Questa necessità si può riassumere nelle parole dello psicologo e giornalista statunitense Daniel Goleman, autore de “L’intelligenza emotiva”, il quale afferma che l’intelligenza emotiva viene prima di quella razionale e rappresenta il primo contatto tra due persone. Ognuno di noi mischia continuamente acuità emotiva ed intellettiva perchè nessuna delle due intelligenze potrebbe funzionare da sola (ivi, p. 14).
Da sottolineare che la scoperta della rilevanza del fattore emotivo nelle scienze sociali non significa contrapporre il paradigma razionale a quello emozionale, ma semplicemente di integrare la ricerca ottenendo un quadro più esaustivo dei comportamenti sociali. E’ per questa ragione, che la sociologia delle emozioni può e deve venire in supporto allo studio dei consumi, proprio per raffinare la descrizione che ruota intorno al comportamento dei consumatori critici le cui scelte, nella più ampia categoria dei consumatori, si contraddistinguono in particolare per connotazioni afferenti alla sfera introspettiva.
Sonia Angelisi – sociologa ANS
[1] La tribù permette di cristallizzare in un nucleo ridotto dei sentimenti e dei modi di pensare che non si adeguano al polo inglobante della massa in cui ogni cittadino è assorbito. Le tribù non vanno intese come radicate in una località specifica, ma anche semplicemente come la vicinanza che può essere data dall’appartenere a gruppi con interessi comuni in cui vivere intensamente emozioni e passioni represse dall’ideologia dominante. E’ importante sottolineare come il tribalismo, secondo Maffesoli, prima di essere politico, economico o sociale, è un fenomeno culturale.
(2) Si tratta di una dimensione creativa e simbolica maggiormente in sintonia con i nostri tempi, capace, in un mondo senza ideologie, di non cancellare per sempre l’utopia. Alle spalle dell’immaginario, agisce la fantasia creativa mossa dal desiderio di correggere un mondo che non soddisfa a partire da esigenze concrete, da bisogni che emergono direttamente dai vissuti. Come dice bene Jedlowski, mentre il senso comune «è un meccanismo finalizzato a ridurre l’incertezza», l’immaginario «non riduce le nostre incertezze: ci arricchisce, ma l’incertezza, se mai, con ciò si moltiplica» (Jedlowski 2008, p. 236). L’immaginario, in effetti, contiene al tempo stesso una chiusura (in questo è riconoscibile) e una apertura (in questo è incoerente): con la prima, identifica uno spazio, anche se ampio (in fondo molto più ampio di quello delle ideologie), entro il quale collocare le proprie scelte; con la seconda, dà a questa chiusura un carattere sempre incerto e provvisorio.