DAL GUSTO “DI CLASSE” ALL’ANARCHIA POPOLARE: IL POLITEISMO ALIMENTARE NELLA GLOBALIZZAZIONE

sonia-angelisi (1)Le tipologie di prodotti alimentari acquistati e le loro modalità di consumo, riflettono comportamenti sociali che sono espressione di identità. Tutti i comportamenti alimentari, infatti, passano attraverso una scelta, la quale è determinata da fattori economici, culturali, storici, sociali e inerenti al gusto.

Uno dei primi a definire il gusto come elemento di distinzione sociale, è stato il sociologo francese Pierre Bourdieu, secondo il quale il consumatore opera in base a una logica distintiva, logica incorporata nel proprio gusto. Per Bourdieu il consumatore non solo distingue per distinguersi, ma anche perché non può fare a meno di farlo.

Attraverso il gusto si stratifica la società e si distinguono le diverse classi sociali. E’ così, ad esempio, che oggi il consumo critico alimentare si configura in parte come consumo di nicchia del “buon gusto” dominante, riservato a soggetti con un determinato capitale culturale ed economico. A tal proposito, Bourdieu considera i gusti anche e soprattutto come strumenti di potere e, precisamente, strumenti di potere simbolico proprio perchè riproducono relazioni di dominio.

Tuttavia, non è sempre vero che le abitudini alimentari corrispondano esclusivamente al gusto degli individui, in quanto la disponibilità economica per il reperimento delle risorse, gioca e ha giocato un ruolo fondamentale soprattutto negli anni di crisi e carestie. Inoltre, il gusto è storicamente determinato e mutevole a seconda delle trasformazioni culturali.  Nell’epoca postfordista, in cui le classificazioni sociali sono sempre meno nette e  la complessità sociale si acutizza e deframmenta, notiamo, infatti, che gli attori sociali adottano strategie di consumo che puntano alla mescolanza di prodotti diversi.

E’ in questo contesto che si inserisce il concetto di politeismo alimentare.

Da un recente rapporto di Censis e Coldiretti sulle abitudini alimentari degli italiani, risulta una forte tendenza a prediligere la varietà nei consumi, tanto da parlare di politeismo alimentare, inteso come volontà degli individui a diversificare sempre più la loro dieta, generando combinazioni soggettive di alimenti e di luoghi di acquisto, che neutralizzano ogni ortodossia alimentare. Da evidenziare che la crisi recente ha rinforzato questa dinamica dei comportamenti sociali. Il rapporto con il cibo passa sempre più attraverso una dimensione soggettiva, espressione dell’Io che decide e che, a partire dalle proprie preferenze, abitudini, prassi e aspettative, nonché dalle risorse di cui dispone, definisce il contenuto del carrello e della tavola, tanto da poter dire che il modello alimentare prevalente è in realtà un patchwork di opzioni che spesso, in linea di principio, possono anche apparire contraddittorie. Ad esempio: tra le persone che dichiarano di acquistare regolarmente prodotti Dop e Igp, (comportamento che denota grande attenzione alla qualità) una quota non lontana da un terzo acquista regolarmente anche cibi precotti, addirittura più di due terzi acquistano regolarmente scatolame, e oltre tre quarti surgelati; tra coloro che acquistano regolarmente prodotti dell’agricoltura biologica, circa tre quarti acquistano anche surgelati, circa due terzi anche scatolame, e una percentuale simile prodotti con marchio del distributore; tra gli acquirenti regolari di prodotti del commercio equo e solidale, una nettissima maggioranza acquista i prodotti a marchio commerciale del distributore, oltre tre quarti acquista prodotti surgelati e oltre due terzi scatolame. Addirittura si recano presso i fast-food: il 27% degli acquirenti abituali di prodotti del commercio equo e solidale, il 26,7% degli acquirenti abituali di frutta e verdura da agricoltura biologica, il 22,6% degli acquirenti di prodotti Dop e Igp, e il 21,6% di coloro che acquistano direttamente dal produttore. Questo atteggiamento eterodosso, quasi anarchico, sottende però una linea di principio: quella di ricercare il punto di first best tra qualità, sicurezza e prezzo, tendendo conto della responsabilità sociale e ambientale che comporta ogni atto di acquisto e il rapporto tra cibo e territorio in virtù del riconoscimento di una identità territoriale delle produzioni.

A questo, punto si potrebbe affermare che, ad oggi, la raffinatezza e la sofisticazione culturale, distintive del cosiddetto “buon gusto”, si riconducono principalmente all’esperienza della maggior varietà possibile di cose. Tale varietà consentirebbe di tenersi al passo con il numero più ampio possibile di gruppi sociali, accrescendo così le proprie chances di essere riconosciuti come persone esteticamente competenti e di “buon gusto”. È ovvio che coloro che dispongono di un grado non elevato di combinazione tra capitale economico, sociale e culturale, riscontreranno maggiori difficoltà nel raggiungere la cima del politeista alimentare, perché le loro pratiche di consumo culturale sono nel complesso più ristrette. Così ragionando, c’è da chiedersi se è del tutto vero che il controllo della varietà funziona come una strategia di formazione del capitale simbolico, idoneo alla riproduzione delle differenze sociali.

Analizzando il passaggio dalla società della scarsità alla società dell’abbondanza, possiamo riscontrare cambiamenti notevoli nei consumi alimentari, a cominciare proprio dall’illusione di aver ottenuto una più ampia e flessibile scelta dei cibi rispetto al gusto. Infatti, non solo il ventaglio di scelta risulta fortemente ridimensionato a causa, sia di una omologazione dei prodotti e sia di un disorientamento del consumatore, provocato dall’eccessiva e confusionale promozione delle merci sul mercato; ma, nel passaggio dalla povertà alla ricchezza, si registra, secondo alcuni recenti studi, un’inversione di tendenza dei gusti nell’ottica sociale: l’oggetto del desiderio non è più il cibo abbondante, ma quello raro(Montanari M., 2004). I motivi di distinzione sociale, infatti, si sono modificati continuamente nel tempo nel momento in cui un prodotto diventava maggiormente disponibile sul mercato e, di conseguenza, più accessibile anche per le fasce meno abbienti. È storicamente dimostrabile come l’abbondanza di cibo per tutti, rovescia anche i modi di consumo del cibo. Mentre in passato si ostentava la ricchezza con il desiderio di quantità sempre maggiori di cibo sulle tavole dei panciuti signori di corte, con la rivoluzione dei consumi imposta dalla logica industriale di produzione, è la magrezza a incarnare il nuovo status symbol delle èlites. L’antica abitudine di abbuffarsi appartiene, ormai, alla cultura popolare, pertanto si rilancia già a partire dal ‘700, la figura dell’uomo borghese snello e produttivo.

Tuttavia, come afferma Montanari “l’abbondanza di cibo tipica delle società industriali postmoderne pone problemi nuovi e di difficile soluzione a una cultura storicamente segnata dalla fame e dal desiderio di mangiare molto: atteggiamenti e comportamenti ne restano condizionati e l’irresistibile attrazione all’eccesso, che una millenaria storia di fame ha impresso nei corpi e nelle menti, a questo punto comincia a colpire”.

Le malattie legate all’eccesso di cibo diventano un fenomeno di massa. Logoriamo il nostro fisico non solo attraverso l’esagerazione delle quantità, ma anche col peggioramento della qualità del cibo, come ad esempio, il cosiddetto junk food, cibo spazzatura. La FEAR OF OBESITY sembra sostituire l’atavica paura della fame. Da sottolineare che, tale visione di opulenza, riguarda in particolare le società occidentali, le quali ancora risentono degli effetti positivi e negativi legati alla rivoluzione industriale e alla modernizzazione. E’ in un’ottica globale, dunque, che si inserisce il problema dell’alimentazione, concepita sia come denutrizione(ossia vera e propria carenza quantitativa di cibo), e sia come malnutrizione(ovvero carenza qualitativa di cibo che può essere conseguente alla denutrizione stessa o ad un eccesso di cibo). In Italia ben quattro italiani su dieci (43%) risultano sovrappeso o addirittura obesi (11%), con una netta prevalenza degli uomini rispetto alle donne. Le malattie collegate direttamente all’obesità sono responsabili di ben il 7% dei costi sanitari dell’Unione europea, poiché l’aumento di peso è un importante fattore di rischio per molte malattie come i problemi cardiocircolatori, il diabete, l’ipertensione, l’infarto e certi tipi di cancro. Sulla base dei dati della Commissione europea, le spese socio-sanitarie correlate all’obesità in Italia sono stimate in circa 23 miliardi di euro annui, per più del 60% dovute all’incremento della spesa farmaceutica e ai ricoveri ospedalieri.

Secondo Montanari, tale diacronia è dovuta al fatto che ci si muove nell’epoca dell’abbondanza con una struttura mentale modellatasi nel corso del tempo sulla carestia e sulla fame.

Per questa ragione, una delle sfide culturali dei nostri tempi è proprio quella di ricostruire comportamenti alimentari che tengano conto delle mutate condizioni di produzione del cibo, dell’oscurita’ percettiva che ha provocato una disconnessione tra la nostra conoscenza della natura e degli alimenti e il loro consumo, delle SPEREQUAZIONI ECONOMICHE le quali continuano a generare disparità sociali, della necessità di garantire un consumo di qualità che tenga conto di una più equa redistribuzione della ricchezza. Il politeismo alimentare che imperversa e regna sovrano sulle tavole degli italiani, potrebbe rappresentare la deriva dei consumatori, sempre più disorientati e passivamente prigionieri dell’offerta del mercato; oppure potrebbe configurarsi come il preludio di una ritrovata identità alimentare, che tenga conto di tutti i fattori succitati e che sia capace di conferire un potere decisionale forte e chiaro di intenti alle scelte di consumo che operiamo ogni giorno. L’osservazione costante della realtà sociale ci fornirà la risposta.

Sonia Angelisi  – sociologa

 


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