LA DITTATURA DEL CAPITALISMO FINANZIARIO, DELLE BANCHE E DELLE BORSE
Mentre prosegue il braccio di ferro tra i rappresentanti del Governo greco e la Troika (Ue, Bce, Fmi), non sembra azzardato domandarsi quali conseguenze un eventuale default di Atene provocherebbe sui Paesi dell’Europa economica e, soprattutto, sul futuro dell’euro.
Difficile non solo a dirlo, ma anche immaginarlo. E allora, più che delle intenzioni di Tsipras, il quale non accetta tout court i piani di austerity e chiede per il suo Paese la rinegoziazione del debito, è importante soffermarsi sulle cause della grave crisi economica che oggi interessa la Grecia, ma che domani potrebbe riguardare altri Stati dell’Unione. Alcuni di questi, e tutti sappiamo quali, sono sotto osservazione.
Leggendo i commenti della maggior parte dei giornalisti economici, soprattutto le firme dei grandi quotidiani nazionali, si ha l’impressione dell’esistenza di una sorta di crociata tesa a legittimare la politica dell’austerity.
L’economia capitalista, soprattutto durante lo scorso secolo, ha creato, a sua immagine e somiglianza, il cittadino – consumatore regalandogli il sogno del benessere eterno. Quella vita non possiamo più permettercela. Il passaggio della società dei produttori a quella dei consumatori ha segnato un grande mutamento antropologico e un cambiamento dell’organizzazione economica.
Negli anni caratterizzati da un’economia del “tutto e subito”, in cui si spendeva anche in assenza di danaro – Zigmunt Bauman indica nella carta di credito uno dei paradigmi del “passaggio dalla società umana alla massa dei debitori –, i cittadini sono rimasti risucchiati dal vortice di nuovi debiti senza preoccuparsi di ripianare quelli contratti in precedenza. Oggi, di fronte alla grave crisi, si rende necessaria una inversione a U.
Dopo gli sprechi, passati e presenti, l’austerity è apparsa d’obbligo ma essa non rappresenta l’unica via per la “salvezza dell’umanità”. I mezzi di informazione, dai giornali alla tv, seminano forme di paura sociale ed i loro commenti si basano, in prevalenza , sul paragone tra chi, come la Grecia, continua a resistere alla logica dell’Europa e delle banche, ed i Paesi che hanno accettato la linea Ue, Bce, Fmi, le cui economie, dopo anni di sofferenza, registrano oggi piccoli, quasi impercettibili miglioramenti.
Una ripresa, ma a quali condizioni? Una qualsiasi guerra si lascia dietro morti e feriti, distruzione, e tutti pagano un prezzo che a volte, come insegna la storia, appare molto più alto rispetto a benefici che ne traggono i popoli. E di questo, il cittadino difficilmente si rende conto.
Non è azzardato, dunque, come affermano economisti e studiosi di scienze sociali, rilevare, ancora una volta, come la crisi rappresenti una delle patologie della globalizzazione che ha realizzato un nuovo ordine sociale e che vede contrapposte, da un lato, gli Stati nazionali con le loro politiche e, dall’altro, il potere sovranazionale dell’economia e della finanza. Queste due entità hanno poco in comune e le loro finalità sono inconciliabili. Soprattutto perché è venuto meno quel tacito accordo, che ci riporta al periodo post bellico, tra capitale e lavoro, grazie al quale lo stato sociale raggiunse conquiste inimmaginabili. Lo stato di non belligeranza, alla fine, ha accontentato un po’ tutti, impedendo ad una delle parti di prevalere. E mentre gli Stati nazionali, forse appagati dai risultati raggiunti nel periodo dei “magnifici Trenta”, segnavano il passo, il capitalismo ha avviato quella metamorfosi che lo ha trasformato da industriale a finanziario, diventando così un potere globale.
Gran parte dei governi, probabilmente per un errore di valutazione, si sono accontentati della gestione del potere che si basava sul consenso privando la classe politica di quella lungimiranza indispensabile per gestire il processo di trasformazione della società che continuava a cambiare pelle sotto gli effetti provocati dalle nuove tecnologie.
Nel tempo, si è così creato un modello economico che produce diseguaglianze, solitudine ed esclusione, con quest’ultima ritenuta “la più lampante e potenzialmente esplosiva disfunzione dell’economia capitalistica”. Il fatto di non essere sfruttati (lo sosteneva lo scorso secolo l’economista britannico Micael Burawoj) è un male peggiore dello sfruttamento. E il sociologo Bauman – in un’intervista dello scorso inverno all’Espresso – definisce il caso greco l’esempio di divorzio tra potere e politica. Nell’Unione europea, infatti, è nata una contesa tra gli Stati nazionali, la finanza e le borse. I primi rimangono ancorati al territorio, mentre il capitalismo finanziario e le borse, con la loro dimensione globale, sono “disancorati” da ogni istituzione politica, indipendentemente dal suo livello.
Il Liberismo economico (con la politica del libero mercato) ha demolito i sistemi sociali di sicurezza collettiva (State of Insicurity di Isabel Lorey) consentendo l’affermarsi del lavoro precario ed i breve termine. Tale sistema ha indebolito, se non eroso, le organizzazioni collettive professionali e dei lavoratori. E come dice Bauman – sempre nell’intervista all’Espresso del febbraio 2015, concessa a Giuliano Battistoni-, i luoghi di lavoro, “le fabbriche sono state trasformate in fabbriche di sospetto reciproco e di competizione spietata”.
Il braccio di ferro in atto in Italia tra il Presidente del Consiglio, i sindacati e i partiti (sia all’interno di quello del Premier che nella coalizione di Governo) rafforza il pensiero del sociologo polacco sul ridimensionamento delle organizzazioni collettive, in particolare del sindacato. E conferma così, il divorzio tra la politica degli Stati nazionali, sempre più priva di strumenti decisionali, e il potere sovranazionale dell’economia e della finanza.
Antonio Latella
Presidente Dipartimento Calabria ANS ( Associazione Nazionale Sociologi)