COMUNICAZIONE, DAI MASS MEDIA AI NEW MEDIA
L’uomo postmoderno è alle prese con una vera e propria rivoluzione prodotta dalle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione. La nostra vita è esposta a un continuo bombardamento di messaggi che producono nel cittadino -dal bambino all’adolescente, dal giovane all’adulto fino all’anziano- effetti sia di natura psicologica che sociale. Nella vita dell’uomo tutto è comunicazione, perché, lo si voglia o no, qualsiasi cosa è un atto comunicativo: dal linguaggio, ai gesti, alle emozioni, al silenzio. Ovviamente, ogni era storica è caratterizzata da nuovi strumenti di comunicazione: l’era Gutemberg, con i caratteri mobili della stampa; l’era meccanica; l’era digitale di cui noi siamo diventati sudditi. Assieme a voi, cari colleghi, mi piacerebbe analizzare, velocemente, le principali trasformazioni della comunicazione: dai mass media ai new media.
Quando alla fine degli anni Quaranta dello scorso secolo Marshall McLuhan, analizzando gli effetti prodotti dai media, di quelli esistenti e di quelli che stavano prepotentemente entrando nella vita dell’uomo, parlò della nascita del cosiddetto “Villaggio globale” (sostenendo tra l’altro che il medium è il messaggio), pochi, forse, compresero la portata di quella sorta di profezia che a distanza di oltre mezzo secolo ha reso possibile la creazione di una sorta di ecosistema sociale in cui l’uomo è costretto dividersi tra il reale (offline) e il virtuale (online). Non dimentichiamo che già, soprattutto in America, esisteva già l’elaboratore elettronico: cioè l’antenato del computer.
Tutti, certamente, ricordiamo il concetto di mezzi della comunicazione, con i singoli media che l’allora professore di letteratura francese dell’università di Toronto indicò come “prolungamento degli strumenti stessi che la natura ha dato all’uomo per percepire e comunicare”. Erano gli anni in cui al telefono, al telegrafo alla radio si aggiungeva la Televisione, questo media freddo, così diverso (dal media caldo) della radio.
Quel tempo fu caratterizzato da un dibattito tra scienziati, intellettuali, sociologi, psicologi esperti della comunicazione impegnati a riflettere sugli effetti che i media, partendo dalla TV, avrebbero prodotto sull’uomo, sia come individuo, sia come componente di un gruppo sociale, che come appartenente ad una comunità, facendo una distinzione tra “apocalittici”, cioè tra quanti osservavano criticamente la nascente realtà, e “integrati” i quali, invece, si dimostravano ottimisti sugli effetti positivi socio-culturali prodotti dai nuovi mezzi di comunicazione.
LA TELEVISIONE
Con l’avvento della televisione prende il via un mutamento radicale della società. La parola, fino a allora preponderante nel sistema della comunicazione, assume una sorta di subalternità rispetto all’immagine. Seduto nel salotto di casa, il telespettatore, come se si affacciasse alla finestra, vede cosa avviene dall’altro capo del mondo. Il piccolo schermo diventa uno strumento di comunicazione, d’intrattenimento, d’informazione, di cultura, mezzo di promozione della società consumistica.
Enorme, dobbiamo riconoscerlo, il contributo fornito dalla televisione allo sviluppo socio-culturale dell’Italia: programmi come “Non è mai troppo tardi”, infatti, hanno inciso moltissimo sulla scarsa scolarizzazione della generazione del primo dopoguerra. Molti hanno avuto modo di assistere alle lezioni del maestro Alberto Manzi, dal 1960 al 1968 un punto di riferimento, con le 484 puntate, per centinaia di migliaia di italiani. Il possesso di un televisore rappresentava uno “status simbol” delle famiglie italiane che per avere un elettrodomestico in casa si affidavano alle cambiali. La televisione è stata l’artefice del radicale cambiamento dei costumi di milioni di persone.
E con i mutamenti culturali, sociali ed economici registrati nella società occidentale, dunque anche in quella italiana, si pensi all’entrata della donna nel mondo del lavoro (dunque non più casalinga), la televisione svolge un ruolo di sussidiarietà, quasi di supplenza, nella formazione delle nuove generazioni.
Televisione cattiva maestra, ricorderete il saggio di Karl Popper (il quale invocava una patente per gli operatori televisivi), mentre John Condry, riferendosi agli effetti dannosi prodotti dal piccolo schermo sulla psiche del bambino la definì “ladra di tempo e serva infedele”. Oltre a svolgere una funzione pedagogica, la TV, nel corso degli anni, ha agevolato la nascita della cultura di massa, il formarsi di nuove elite, soprattutto politiche, agevolato il cammino della società consumistica che oggi domina il mondo. I caroselli pubblicitari, le tribune politiche, i telegiornali, i reportage giornalistici hanno inciso moltissimo sul formarsi dell’opinione pubblica influenzata dalle immagini trasmesse dal piccolo schermo. La presenza della TV e, soprattutto, gli effetti da essa prodotti nella società apre una grande discussione, che coinvolge anche il mondo intellettuale, e non solo, italiano.
Mi piace ricordare il prof. Giovanni Sartori, editorialista del Corriere della Sera, il quale nel suo testo “Homo Videns” sottolinea come l’immagine provoca la metamorfosi della natura dell’Homo sapiens e introduce un modello di nuova paideia (quel sistema educativo in vigore nell’Atene classica nel V sec. a.C.). Avviene così una sorta di mutazione antropologica con il passaggio dall’Homo sapiens all’Homo videns. L’uomo, privato dalla capacità di astrazione, si trasforma in “insipiens”: crede, cioè, esclusivamente a quello che vede, dimenticando un’importante fonte di cultura come il libro. E al pari di Karl Popper, il prof. Sartori si schiera contro l’influsso malefico della televisione: soprattutto nella formazione del bambino la cui prima scuola è senz’altro il piccolo schermo; un mondo –quello della TV- incentrato sull’immagine che “alleva l’uomo che non legge”. Giovanni Sartori va oltre il concetto di televisione cattiva maestra di Popper e la definisce “una sorta di divinità perversa, un demiurgo che clona gli individui a propria immagine e somiglianza”. E come tutti gli altri mezzi di comunicazione, la TV mente e questo suo modo di mentire è rafforzato dalle immagini.
In una delle sue tante pubblicazioni – “Quant’è cieco l’homo videns” – l’editorialista del Corriere fa una spietata analisi del mondo dominato dalla Tv: la politica ridotta a spettacolo, notizie enfatizzate e subito dimenticate, opinioni appiattite. Mentre ci si preoccupa di chi controlla i media, non ci “avvediamo – è il suo ammonimento – che lo strumento ci è scappato di mano”.
Erano gli anni – siamo nel periodo a cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo – caratterizzati dal dibattito sulla videocrazia. Dura la sua critica alla video – politica che distrugge l’opinione pubblica, personalizza le elezioni, con le facce dei candidati che contano più dei programmi, attribuisce peso “esasperato alle testimonianze di attori e soubrette, privilegia le emozioni rispetto ai ragionamenti, utilizza in modo disinvolto i sondaggi. Una televisione scadente, un personale di basso livello e il dramma dell’ascesa al potere della generazione del Sessantotto”. Un’analisi quanto mai attuale: pensiamo alla ultime campagne elettorali e a quella in corso. Sull’influenza psicosociale dei mezzi di comunicazione di massa Antonio Marziale, sociologo, e collega giornalista – nonché presidente dell’osservatorio sui minori di Milano – ha trattato il tema in una pubblicazione edita da Rubettino “L’onnipotenza dei Media: sua maestà la Tv”.
La comunicazione, già dalla prima fase del passaggio dall’era meccanica a quella elettrica, ha costretto l’uomo a ricercare una nuova dimensione per adeguarsi all’uso della nuove tecnologie della comunicazione che hanno portato alla nascita della futura società globalizzata che continua – come sottolinea Zygmunt Bauman – a rendere sempre più sottili le nostre radici per proiettarci nella cosiddetta società liquida.
L’avvento del computer (il primo Commodore, poi apparecchi più versatili 8086, 286, 386, fino ai pentium IBM o della Apple) di Internet, ieri lento nella trasmissione, oggi velocissimo, e delle tecniche digitali hanno prodotto, è vero, nuovi e imprevedibili effetti sulla vita degli uomini: più comunicazione, più informazioni, che non significa più democrazia. Il cittadino corre il rischio di perdere concretamente la capacità di agire per via delle tante ore trascorse alle prese con questa Babele di messaggi, sempre più veloci, sempre meno decodificabili.
Secondo teorie sociologiche ricorrenti, il modello occidentale di società, oggi, è caratterizzato dalla virtualità: anche perché mediamente trascorriamo online sei/sette ore della nostra giornata e quando stacchiamo la spina, cioè ritorniamo nella posizione di offline, avvertiamo un forte senso di disagio, di disorientamento, come dopo una sbornia.
Nella stessa famiglia si diventa estranei. A tavola non si parla più: c’è chi guarda il telegiornale, chi assiste alla partita di calcio, chi non perde un frame della telenovela del momento, chi chatta con l’amica e chi spedisce la posta elettronica.
LA COMUNICAZIONE NELL’ERA DIGITALE “Il paradigma comunicativo è mutato. Il cittadino, infatti, non è più solo oggetto, ma anche soggetto di comunicazione. Cambia il nostro senso della posizione della comunicazione: nei blog, nei siti di social network, costruiamo la nostra riflessività connessa e da lì produciamo, distribuiamo, consumiamo in modi diversi le forme simboliche e i significati che ci servono per abitare il mondo. Quello che stiamo costruendo è un equilibrio sociale diverso. In discontinuità con le categorie conoscitive della modernità. Ne siamo consapevoli solo parzialmente”. In queste poche righe è condensato il pensiero che Giovanni Boccia Artieri (professore ordinario di sociologia dei new media dell’Università “Carlo Bo” di Urbino) affida alla pubblicazione “Stati di connessione” edita da Franco Angeli.
La comunicazione e l’informazione oggi viaggiano velocissime lungo la rete. Con la prima che assume caratteristiche di una nuova agorà, di una comunità di un gruppo di persone che interagiscono, discutono, concludono affari, sviluppano relazioni e legami di vario genere. Ma la rete nasconde anche insidie di vario genere: si annidano pericoli per le varie fasce d’età come la violazione della privacy. Grazie alla rete è possibile acquisire una nuova dimensione, nuove forme di socialità, nuovi incontri con persone in ogni parte del pianeta. La rete, infatti, ha aperto nuove frontiere della comunicazione permettendoci di superare il timore della solitudine. I cambiamenti sociali intervenuti con l’introduzione delle nuove tecnologie comunicative producono ripercussioni sui comportamenti dei singoli e dei gruppi. L’avvento di Internet e del Web 2.0 sono il risultato di questa nuova rivoluzione che ci ha fatto diventare cittadini di due mondi: quello online e l’altro offline, diversi, tanto diversi, l’uno dall’altro.
La rete e i social network non ci fanno sentire mai soli in un mondo che tende sempre più all’individualismo. La solitudine –secondo il credo baumaniano– è un concetto generalizzato. Tutti abbiamo paura di restare da soli. E nelle società moderne il tempo che l’uomo trascorre da solo è diventato esponenzialmente maggiore. Oggi basta avere un account Facebook che non si è mai soli, perché nel mondo online c’è sempre qualcuno disposto a comunicare. Ma c’è di più, perché attraverso i social media si diventa personaggi pubblici: basta premere un tasto del computer per mandare un tweet (cinguettio) e il tuo messaggio può raggiungere diverse migliaia di persone, che possono scegliere se diventare followers: basta un semplice like (cioè mi piace al tuo messaggio).
Nel mondo offline le cose diventano difficili da gestire, soprattutto perché continuiamo a perdere la capacità di coesistenza. Preferiamo così rifugiarci nel mondo virtuale grazie ai social media che sono una facile via di fuga dai problemi reali. Ma queste connessioni sono sempre molto fragili: possono essere interrotte in qualsiasi momento senza bisogno di scuse o giustificazioni. Insomma, niente radici: ecco la società liquida.
Nell’ottobre dello scorso anno a latere di un ciclo d’incontri sulla cultura digitale, organizzato dalla Camera di Commercio di Milano, il sociologo della modernità liquida, Zygmunt Bauman ha affrontato il tema del web e della democrazia. Un tema che in Italia è stato il cavallo di battaglia di Beppe Grillo e del suo movimento. Questo tipo di democrazia oggi ha subito un appannamento. Il professore polacco naturalizzato inglese, rispondendo a una domanda sull’esperienza alternativa di democrazia portata avanti da M5S, ha sostenuto che le conseguenze a lungo termine non sono ancora chiare. E citando concetto d'”interregno” di Antonio Gransci (preso in prestito da Tito Livio) –inteso come il vecchio che non muore e il nuovo che non nasce- ha affrontato la crisi delle istituzioni politiche, “dovuta al divorzio tra la politica, che è la facoltà di decidere cosa va fatto, e il potere che è la facoltà di farlo. Nel mondo globalizzato, infatti, i governi devono prendere le decisioni in base a due diverse spinte: quella degli elettori e quella dei poteri sovranazionali, che spesso sono contrastanti. Pensiamo per un attimo all’effetto della primavera araba. La gente oggi dubita di poter credere alla promesse dei politici: non solo di una parte politica, ma di tutti i versanti. Le è stata tolta la possibilità di farlo. Si stanno cercando, disperatamente, dei sostituti, ma non sappiamo cosa succederà”.
Sull’esperienza di Beppe Grillo si aggiunge il pensiero di Ilvo Diamanti, con Democrazia Ibrida, per il quale “il grillismo parlamentare è una contraddizione –da qui l’imbarazzo di Grillo– perché la sua idea era quella di un grillismo informatico. Cioè, se è impossibile riunire per legiferare i cittadini su una piazza, si crea una piazza informatica e mediante Internet in cui tutti parlano con tutti si ricrea l’agorà ateniese, per cui il Sovrano è ‘online’. Ma l’idea non tiene conto del fatto che gli utenti del web non sono tutti cittadini (e per lungo tempo non lo saranno) per cui le decisioni non vengono prese dal popolo sovrano ma da un’aristocrazia di blogghisti. Pertanto non avremo mai il popolo in perpetua assemblea”. Per Ilvo Diamanti “questo è l’empasse del grillismo che deve scegliere tra democrazia parlamentare (che esiste e che lui ha accettato partecipando alle elezioni) e agorà, che non esiste più o non ancora”. E sull’impatto che i nuovi mezzi di comunicazione orizzontali stanno avendo sulle dinamiche politiche italiane, negli anni scorsi, è intervenuto anche lo spagnolo Manuel Castells per il quale i social network “saltano del tutto la mediazione dei leader formali tradizionali (politici o intellettuali), ormai in crisi di legittimazione, stimolando cooperazione e reciprocità”. Il sociologo catalano sostiene che la network society (la società in rete) modifichi radicalmente i rapporti di forza tra comunicazione e potere e che proprio il nuovo spazio della comunicazione in rete (interattivo, digitale, aperto a tutti e orizzontale) diventi il nuovo spazio pubblico, lo spazio sociale di costruzione e deliberazione di significato e potere”. Questo spazio orizzontale, caratterizzato dal passaggio da forme da mass-communication a mass-self-communication (cioè la comunicazione individuale di massa) produce continuamente un nuovo spazio pubblico realizzando così una nuova società civile che prende forma grazie alla tecnologia. Si è passati dalla logica dell’uno a molti (tipica della televisione, ma anche dei giornali e di alcuni siti Internet) a quella dei molti a molti, grazie ai blog, al cellulare, alla connessioni wireless, e alle reti di amici presenti nei social network. “Nel nuovo spazio comunicativo orizzontale e di rete -per Castells- non serve raggiungere immediatamente milioni di persone è necessario piuttosto essere in una rete nella quale sono presenti milioni di persone”. Si realizza così una grande rivoluzione che parte dal basso.
La campagna elettorale che ha segnato la riconferma di Obama alla Casa Bianca è un classico esempio di mass-self-communication con un successo che ha riguardato tre fronti: mobilitazione, partecipazione, finanziamento.
“I nuovi media hanno permesso a esperienze locali e sociali periferiche di connettersi, al di fuori del controllo verticale dei soggetti politici, dei mediatori e dei media tradizionali. La rete, pertanto, ha costituito il riferimento per un modello diverso e alternativo di partecipazione politica, ma anche di democrazia”, con questo passo tratto dal capitolo “La democrazia dei pubblici e della rete” del libro “Democrazia dimezzata” del prof. Diamanti mi avvio alla conclusione.
I social media e le nuove tecnologie ci proiettano nell’epoca della comunicazione istantanea. Con tablet, Ipad, smartphone, pc siamo sempre connessi, sette giorni su sette, h24, perché c’è sempre qualcuno disposto a rispondere al nostro messaggio. Con la rete e gli altri new media siamo sempre in cammino verso luoghi che altrimenti sarebbero irraggiungibili. Al punto che diventa più facile comunicare con gli “amici” di Berlino rispetto agli inquilini del palazzo in cui viviamo. Pensiamo a un gruppo di amici che in treno viaggia nello stesso scompartimento: ognuno di loro ha in mano un telefonino, uno smartphone. Fisicamente sono assieme, ma singolarmente, anche se in modo virtuale, sono vicini ad altri amici sparsi negli angoli più remoti del mondo.
Nell’era del web 2.0 non esiste più la distinzione tra produttore e utilizzatore di contenuti. Siamo cittadini di una grande comunità in cui tutti collaboriamo per la creazione, la modifica e lo sviluppo della conoscenza e in cui tutti, nel contempo, possiamo essere produttori e utilizzatori o utilizzatori di contenuti, cioè “producer” (produttore e utilizzatore). L’esempio è WIKIPEDIA.
Ultima considerazione sull’utilizzo del telefonino: diventato una sorta di cordone ombelicale che non riusciamo a recidere. I telefonini cellulari di nuova generazione, che riescono a svolgere funzioni di più media (televisione compresa), hanno cambiato le nostre abitudini: la nostra vita familiare, quella lavorativa, il tempo libero. La tecnologia viaggia velocissima, più veloce, dunque, più avanti della società. Essere perennemente connessi per i giovani è più che un’esigenza: è un modo di rapportarsi con il resto del mondo. Sono collegato, dunque esisto. A volte questo collegamento lascia spazio a reati come lo stalking e, per rimanere ai giovani, al bullismo. Anche nel rapporto genitori–figli il telefonino ha assunto un ruolo quasi indispensabile sia per quel poco di dialogo che ancora esiste con la “net-generation”, ma anche per usarlo come strumento di controllo a distanza per tenere a bada le ansie e i pericoli che insidiano i figli quando escono dalle mura domestiche. Un fenomeno questo definito teleparentage, un guinzaglio elettronico che restringe l’autonomia dei ragazzi e ne ostacola lo sviluppo psicologico, così come emerge da una ricerca dell’osservatorio “I pinco pallino”.