“AUTISMO: FAMIGLIA, SCUOLA, ASSOCIAZIONI METODOLOGIE, BUONE PRASSI, INTERVENTI ASSISTENZIALI”

foto maria rita dicembre 2014Sin dall’infanzia, il compito più difficile per un essere umano è quello di dotarsi di una serie di strumenti che lo aiutino a comprendere il mondo sociale.

Sono strumenti che facilitano la comprensione soggettiva di tutta una serie di stimoli, raggruppandoli in categorie mentali di facile utilizzo.

E’ così che tutti impariamo a concettualizzare il mondo che ci circonda: lo semplifichiamo, pensiamo e ricordiamo in maniera più efficace, comunichiamo meglio con gli altri, controlliamo l’ansia

Nasce così nella mente il concetto di “normalità”, all’interno del quale ognuno mette ciò che riesce a comprendere, a trattare e che non gli fa paura.

Quando, all’interno di una famiglia, nasce un bambino autistico, cioè un bambino speciale, i parametri sociali comunemente adottati non hanno più la medesima collocazione, poiché l’autismo è un disturbo che tocca i fondamenti della relazione umana, compromettendo l’attivazione sociale, la comunicazione, i   comportamenti, l’accesso alla conoscenza ed i rapporti affettivi.

La mancanza generalizzata di conoscenza di questo problema, innesca un meccanismo letale che si chiama pregiudizio.

Il pregiudizio è un atteggiamento che definisce una modalità, positiva o negativa, di rispondere in modo veloce e automatico ad uno stim

Quando tale stimolo sollecita una parte di noi che   non sappiamo gestire, che non conosciamo abbastanza e che ci procura disagio, in maniera logica ed immediata si alza la barriera della discriminazione: restringiamo i confini delle relazioni umane e tendiamo a non approfondire le nostre conoscenze.

Ma facciamo un passo indietro e posizioniamoci virtualmente davanti ad un famiglia al cui interno vi è un bimbo autistico.

Essere mamma è una condizione sociale di appartenenza.

Quando nasce un figlio, una donna entra in una dimensione sociale nuova che, soprattutto quando il bambino comincia a frequentare la scuola ed a partecipare alle attività sportive, significa anche condivisione di ruolo.

Ma quando il figlio è un “bambino speciale” questa evoluzione non avviene né con semplicità né con naturalezza, perché la condivisione è una questione di comunanza di sensazioni, di impegni e di organizzazione.

Dunque la mamma di un “bambino speciale” è una “mamma speciale”.

Quando dico mamma intendo anche papà e ambiente familiare, dando per scontato che, almeno in questa prima fase della vita, il nucleo sociale di riferimento del bambino condivide la sua problematica.

In ogni caso la figura materna è determinante nel rapporto con la scuola: fino a quando il proprio bimbo non va a scuola, questa mamma si prodiga sempre di più per offrirgli il massimo, affrontando, in ogni modo e a qualunque costo, tutte le difficoltà comprese quelle che prodotte dagli “scontri” con coloro che non comprendono la gravità della situazione.

E’ una mamma convinta di capire il figlio meglio di chiunque altro, compresi gli specialisti, è caparbia e ostinata nel volere il meglio per lui, e quando giunge il momento di frequentare la scuola, la situazione si complica per entrambi.

Da una parte il bambino autistico si trova di fronte alle regole da rispettare, relativamente ai comportamenti, agli spazi, ai tempi ed alle relazioni con i compagni e con la maestra;  dall’altra parte la mamma che fino a quel momento lo ha coccolato, lo ha difeso da ogni pericolo, ha sopportato ogni sua stravaganza, ogni suo silenzio ed ha ipervalorizzato gli atteggiamenti affettuosi che il piccolo le ha rivolto.

Adesso è una mamma angosciata e si domanda come potrà trovarsi, il bambino, nel nuovo ambiente e se i suoi comportamenti saranno tollerati.

E’ un momento cruciale e complicato perché lei sa di aver sempre saputo interpretare le esigenze del proprio figlio e sa anche che le difficoltà nascono dal fatto che il piccolo non pensa e non si esprime in modo convenzionale.

Il rapporto fra la mamma, intesa anche come famiglia, e la scuola è fondamentale e deve essere soprattutto caratterizzato dalla fiducia, deve essere acclarata la condizione collaborativa che include anche l’ambito terapeutico: famiglia, scuola e specialisti devono concertare univocamente un programma che conduca il “bambino autistico” verso un percorso di crescita emotiva, relazionale, comportamentale, affettiva e cognitiva.

Per questo è importante che la strada imboccata sia caratterizzata da una certa “filosofia della accettazione”, per giungere alla quale è utile passare dal concetto di “integrazione” a quello di inclusione”.

Mentre l’integrazione è una procedura che, partendo dalla tolleranza (che evoca una certa sopportazione e forzatura) conduce il più possibile il “bambino speciale” lungo un percorso che tenterà di renderlo simile ai suoi compagni (neurotipici), l’inclusione delinea una cornice all’interno della quale tutti gli alunni, a prescindere da abilità, genere, linguaggio, origine etnica o culturale, possono essere ugualmente valorizzati, trattati con rispetto e forniti di uguali opportunità a scuola.

I compagni di classe possono attivare una serie di interazioni che facilitano la crescita sociale e relazionale del bambino autistico.

E’, quindi, necessario concertare il loro coinvolgimento, sensibilizzandoli nei confronti di tematiche che, poiché sono molto difficili, devono essere trattate adeguatamente.

Tenendo sempre presente che le caratteristiche comportamentali, relazionali e cognitive del “bambino speciale”, non sono di facile accesso e comprensione per i suoi compagni, è importante condurre tutta la classe verso la creazione di un clima non competitivo, che favorisce l’attivazione di esperienze comuni.

Educare i compagni, attraverso programmazioni speciali, a vedere la presenza del bambino autistico in classe come una risorsa per l’intero percorso educativo.

Si impara ad allargare i propri orizzonti, ad acquisire nuovi punti di vista e a trovare diverse soluzioni.

Si impara, anche, a “leggere” le differenze in chiave costruttiva e positiva.

L’inclusione è in ogni caso una sfida, perché non è solo far posto alla diversità, ma anche affermarla e metterla al centro di un progetto educativo condiviso da tutta la classe: compagni e maestra.

Per concludere vorrei segnalarvi un’esperienza di autismo che ha trovato nel web una modalità di espressione.

Federico De Rosa è un ragazzo che adesso ha 21 anni, è nato e cresciuto a Roma, sin da piccolo, lui si definisce bellissimo con i boccoli biondi, gli viene diagnosticata il disturbo autistico in forma grave, viene cresciuto con amore da tutta la sua famiglia e il silenzio assoluto caratterizza la sua infanzia e la sua adolescenza.

In questo periodo, Federico scopre la possibilità di scrivere, e lo fa sul web, dove tutti i suoi pensieri e le sue riflessioni “contenute” nella sua mente per anni, fuoriescono come un fiume in piena.

Scrive così il suo libro “Quello che non ho mai detto” che è stato pubblicato circa un mese fa.

Mi ha colpito molto una sua intervista rilasciata alla giornalista Cinzia Ficco, sempre sul web, nella quale proprio lui ci restituisce la sua immagine del mondo al di fuori di sé stesso.

Cito testualmente:

Federico: “… la normalità non esiste, non è un concetto, ma solo la più fine forma di discriminazione al servizio delle nostre paure più profonde”

Cinzia: Pensi che siamo un po’ strani noi neurotipici?

Federico: “Molto”. Non immaginate quanto. Autocentrici, potenzialmente sempre conflittuali, rumorosi per paura dell’incontro con voi stessi nel silenzio.Cercate di difendere i figli da ansia e paura, che sono bloccanti, e di provare, poi, a fare un piccolo passo avanti ogni giorno.

Io a tre anni ero una statua.


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