GIOVANI DELUSI, INQUIETI, ASOCIALI, VIOLENTI

di Antonio Latella *

L’attuale fotografia del Paese ci aiuta a mettere a fuoco il presente e immaginare il futuro della nostra società sempre più anziana e alle prese con il fenomeno della violenza giovanile. Una istantanea nitida il cui orizzonte è carico di nuvoloni di rassegnazione, inquietudine, di comportamenti asociali, di violenze.

<<== Antonio Latella *

Ragazzi contro ragazzi, adolescenti contro adolescenti: da Firenze a Trieste, passando per Mantova. Scontri di natura ideologica e accoltellamenti per futili motivi, forse sentimentali. Gli ultimi due episodi hanno come protagoniste ragazzine in possesso di armi bianche. Quasi come i guappi di un tempo, eppure appartengono a famiglie comuni, perbene e senza ombre, il cui status viene offuscato da simili vicende.

In una società che trasuda violenza, fisica e verbale, dai suoi gangli vitali, non si salvano neanche quelle comunità che affondano le radici in antiche civiltà. Per questo appare quasi discriminatorio emettere “sentenze” di  condanna dei territori teatro dei fatti di cronaca.  Anche perché il “virus” si espande così velocemente che non trova anticorpi in grado di frenarne gli effetti deviati per poi far ricorso ad appropriate terapie sociali.

Nella foto, dai contorni nitidi e inequivocabili, notiamo una società individualista e competitiva, contaminata dai comportamenti materialisti del consumismo, in cui ai beni voluttuari riserviamo maggiore importanza delle persone. Insomma, un’omologazione totale ai paradigmi dell’occidentalizzazione in una metamorfosi a tappe: dalla laicizzazione della società al boom economico e alle successive lotte operaie, dal Sessantotto (tappa importante per frantumare i residui di una società arcaica avviando una rivoluzione dei costumi) al neoliberismo, fino alla società post industriale e all’attuale dittatura della globalizzazione digitale.

Cambiamenti epocali, lasciati senza governo, che hanno agevolato la nascita della società liquida e provocato lo sradicamento delle nostre radici umanistiche.

Effetti che nel tempo hanno messo in crisi le due principali agenzie educative: famiglia e scuola, entrambe in profonda difficoltà, al punto di aver perso la grande funzione pedagogica del passato. Famiglia e scuola: la prima che in poco più di un secolo è passata dalla patriarcale alla nucleare per proseguire con un numero di tipologie crescenti (un solo genitore, ricostruita, impersonale, fino a quella di fatto). L’attuale modello, Vittorino Andreoli lo definisce “famiglia digitale”: “…influenzata dal trionfo di internet e dall’uso dello smartphone che è diventato un’appendice del nostro corpo e della nostra mente”. Nel saggio di Andreoli si analizzano gli effetti della trasformazione digitale: si evidenziano i pericoli di un adattamento passivo, il rischio di una società senza famiglia, ma si riconosce anche la capacità del nucleo parentale di ritrovare la forza e le funzioni peculiari che l’hanno caratterizzato in millenni di storia.

Ma non dimentichiamo che i social hanno chiuso tutti noi (giovani, meno giovani e anziani) in un eterno presente: qui e ora, tutto e subito. All’interno delle famiglie non esiste più la comunicazione, ma le connessioni che ci rubano il tempo anche durante i momenti di convivialità, nonostante il nostro corpo rimanga seduto attorno al tavolo con gli altri familiari. Affetti e interessi evadono fuori delle mura domestiche in un nomadismo virtuale che ci illude di approdare in altri mondi, di fare nuove amicizie. E con lo sfaldamento della famiglia, i figli si ritrovano senza punti di riferimento. Questa assenza poi incide sulla loro crescita psico-sociale e causa anche la solitudine degli anziani conviventi.

La disarticolazione del primo nucleo di società consente al virus della violenza giovanile di contagiare nuovi territori della nostra società, sempre più anemica di anticorpi del vivere civile.

Ecco perché il pestaggio dei due studenti sul marciapiede del Liceo Michelangiolo di Firenze e gli accoltellamenti avvenuti in altrettante comunità delle province di Mantova e Trieste – sommate al bullismo, all’azione delinquenziale delle baby gang e a tutti gli altri episodi di violenza giovanile passate alla cronaca – necessitano di un nuovo protagonismo delle famiglie e risposte forti e immediate da parte dello Stato.  L’indignazione, i convegni e i progetti di recupero pagati da Pantalone fino ad oggi hanno prodotto scarsi risultati con un grande spreco di risorse pubbliche. E allora, considerato che non esiste più la funzione pedagogica, “dura lex sed lex”.

Se la famiglia è in crisi non meno gravi sono le condizioni della scuola che si porta dietro il peso di riforme sempre funzionali alla politica dominante che ha governato il Paese per oltre mezzo secolo. In particolare la sinistra che sulla spinta emozionale del movimento studentesco del ’68 ne ha modificato l’autonomia, limitando al minimo sia la gestione, sia il prestigio degli insegnanti. E da quando il portone degli istituti scolastici è stato spalancato, al suo interno è entrata anche la politica che, in parte, ha contratto le scelte dei docenti anche sul fronte didattico. Come se non bastassero gli episodi di violenza giovanile già passate alle cronache, il Paese ha l’urgenza di decodificare altri segnali: pensiamo allo sciopero annunciato dal sindacato nell’immediatezza dell’aggressione di Firenze, probabilmente inopportuno. Ma questo lo capiremo tra qualche tempo.

L’Italia si trova davanti ad un bivio pericoloso, intanto per il clima rovente della contrapposizione politica tra maggioranza e opposizione sulla recente sentenza della Cassazione che ha respinto il ricorso di Alfredo Cospito, anarchico insurrezionalista, che dal 2014 in regime di 41bis sta scontando una pena di poco più di 9 anni per la gambizzazione di un dirigente dell’Ansaldo. Una situazione che potrebbe far scoccare la scintilla di una malaugurata rivolta sociale. Una miscela “esplosiva”, che ha costretto lo Stato ad intensificare la sorveglianza su eventuali obiettivi sensibili

Torniamo agli ultimi episodi di violenza giovanile. Se da una parte è compito esclusivo della giurisdizione penale accertare le responsabilità dei neofascisti e, di conseguenza, irrogare la giusta sanzione, dall’altra riconosciamo all’opinione pubblica, alle istituzioni, alla stessa politica, nonché agli organi scolastici del Liceo fiorentino, il diritto di condanna sociale.

La foto risulterebbe taroccata se non si tenesse conto di due ulteriori particolari: l’intervento del ministro all’Istruzione e al Merito sul caso del Liceo Michelangiolo con una risposta affrettata, forse di parte, alla preside della scuola, che in una circolare aveva difeso i suoi studenti.  Al posto della moderazione il Ministro ha preferito annunciare sanzioni prima di ascoltare e capire certe iniziative. Ascolto e moderazione fanno parte, o meglio dovrebbero far parte, delle virtù della politica, ancor più quando svolge una funzione di governo che attribuisce il “potere di esternazione”, che richiederebbe una componente di prudenza maggiore rispetto al più generalizzato diritto alla libertà di manifestazione del pensiero che spetta a tutti i cittadini.

Su questo aspetto, illuminante è stato recentemente il prof. Michele Ainis.

Sulla vicenda di Firenze, preside e ministro potrebbero aver preferito la visibilità mediatica al più appropriato esercizio dei rispettivi ruoli svolti.  Il dibattito che è seguito ha provocato un forte senso di irritazione e divisione dell’opinione pubblica: scontri dialettici che utilizzano il linguaggio di contrapposte ideologie che hanno caratterizzato il ‘900 e che non aiutano a riportare serenità negli ambienti studenteschi.  Uno spettacolo che, ne siamo certi, neanche gli studenti stessi, futura classe dirigente del Paese, hanno gradito. Cosi come non tutte le classi del Michelangiolo intendono  omologarsi al pensiero della preside in merito ai riferimenti storici contenuti nella lettera a loro inviata. Anche loro hanno idee politiche che a volte non professano (o preferiscono rimanere neutrali) al punto di respingere l’idea che la scuola possa diventare una fucina ideologica in contrapposizione al dettato della nostra Costituzione.

La scuola e i docenti non hanno la funzione di indottrinare i discenti, trasferendo loro simpatie o antipatie nei confronti di qualsiasi parte politica o partitica.  Se ciò dovesse capitare, come in modo larvato potrebbe, si perde la fiducia dello Stato, tradendo così il giuramento di fedeltà fatto al momento dell’assunzione di chi lavora nella pubblica amministrazione. Un dovere rispetto al quale non ci sono deroghe: né per i presidi, né per i docenti, e, ovviamente, neanche per il personale amministrativo.

Le ideologie e le militanze partitiche rientrano nel novero delle libertà individuali, ma sono off-limits prima di varcare i cancelli della scuola pubblica dove la funzione è quella del trasmettere i saperi.

  • Antonio Latella – sociologo, giornalista, presidente
    • Associazione Sociologi Italiani


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