UN FIUME CARSICO ATTRAVERSA UNA SOCIETÀ SEMPRE PIÙ ARIDA
di Antonio Latella –
Il digitale come un fiume carsico attraversa le nostre vite, inaridisce i nostri sentimenti, affievolisce i nostri valori e provoca forme di mutazione della natura umana.
Antonio Latella ===>>
La società postindustriale, diversamente dalle precedenti, genera gravi forme di intossicazione sociale che spesso inquinano i rapporti interpersonali e di gruppo. Eppure questa tecnologia, dopo l’era Gutenberg, è la più grande innovazione al servizio dell’umanità.Il digitale ci ha resi spettatori e al tempo stesso attori: ruoli che, in pochi attimi, si inseguono, s’intrecciano, si sorpassano fino a provocare confusione, aggressività, perdita di identità, dipendenza. Una situazione che è alla base di quella quotidiana guerra di tutti contro tutti che, nessuno escluso, coinvolge cittadini, politica, istituzioni, società civile, sport e, soprattutto, il mondo della comunicazione. Un sistema che orienta l’opinione pubblica sempre più alla mercé dei manipolatori occulti, dei modelli consumistici, degli influencer, della politica.
L’uomo è ormai costantemente esposto agli effetti delle reti, che – secondo Castells – “costituiscono la nuova morfologia sociale delle nostre società”. E “la diffusione della logica della rete modifica sostanzialmente il funzionamento e gli esiti dei processi di produzione, esperienza, potere e cultura”. Da ricordare che la forma di “organizzazione sociale in rete è esistita in altri tempi e spazi”, ed oggi “il nuovo paradigma informativo fornisce la base materiale per la sua espansione pervasiva in tutta la struttura sociale”.
La pervasività di questi strumenti finalizzati allo sviluppo del progresso umano ci ha colti di sorpresa: impreparati culturalmente, innanzitutto, ma anche un po’ spregiudicati nell’uso che se ne fa, al punto da illuderci che le comunità reali possano essere sostituite da quelle virtuali. Questa nuova dimensione è funzionale ai paradigmi della globalizzazione capitalistica, perché ci proietta in un mondo lineare e privo di identità, dove tutto gira intorno alle logiche liberiste che interessano sia le merci che le persone. Identità che diventa informe, senza sembianze e consistenza. Zygmunt Bauman, infatti, riteneva che tramite i social l’identità si fosse trasformata da “liquida in gassosa”.
Il digitale, matrice di tutti i new media, ci costringe a ritmici frenetici di vita: talmente veloci e devastanti che fatichiamo a discernere il vero dal falso (fake news docet!), il reale dal virtuale. E’ questo il “prezzo” che la società-mondo è obbligata a pagare all’attuale sistema di comunicazione globale che, tramite nuove scoperte tecnico-scientifiche, a causa dell’impropria utilizzazione che se ne fa, rischia di diventare, come accennavamo in precedenza, strumento di mutazione antropologica.
Siamo proiettati nel nebuloso e forse arido mondo della post umanità, che trova le sue principali espressioni nell’intelligenza artificiale e, soprattutto, nel metaverso, ecosistema la cui funzione futura viene ritenuta ineludibile. L’uomo contemporaneo ha assunto lo status di cittadino della società del rischio (Beck): e da parte nostra, azzardare un futuro apocalittico rischia di aggiungere ulteriori incertezze a quello che molti autorevoli sociologi hanno definito il “secolo della paura”. Ci asteniamo, per il momento, da riflessioni a sfondo distopico; osserviamo però che questa applicazione del digitale alla vita dell’uomo sta determinando una evoluzione (o involuzione?) sociale.
Forse è mancata in noi la capacità di adattamento al fluire di questo fiume carsico che scorre dentro di noi e periodicamente riaffiora. Probabilmente, dopo l’iniziale curiosità, tutti siamo rimasti affascinati ma passivi dinanzi al “messianico avvento” dell’irruzione del digitale nelle nostre vite, preferendo cavalcare senza limite le nostre nuove emozioni invece che governarle. E oggi la società registra un radicamento nel virtuale che genera impoverimento di linguaggio e accorciamento del pensiero, atrofizza la nostra autocritica e ci spoglia della nostra identità. Nella postmodernità ha messo radici la fede nei social: una religione laica in cui le masse si affidano all’”ultimo Dio” (Internet) che ci porta nel mondo di Aladino: un clic del mouse sulla tastiera del computer, o una “carezza” al touch screen di un dispositivo mobile, et voilà, si entra nel “villaggio globale” profetizzato da Marshall McLuhan.
Una visione che, da un lato, ci consente, almeno potenzialmente, di accrescere i saperi, la partecipazione, conquistare nuove e più affascinanti forme di socializzazione e dall’altro aumenta la nostra bulimia consumistica. Non ci accorgiamo che siamo sotto gli effetti di una forma mistica: rinchiusi come siamo nel recinto dell’individualismo dove l’io prevale sul noi.
Ormai non riusciamo a renderci conto che viviamo in una società sotto assedio: in cui lo strapotere delle nuove élite organizzate, impegnate a difendere le logiche del mercato, hanno contribuito a rompere i legami che la tenevano unita. Un compito agevolato anche dalla crisi dei corpi sociali intermedi, a cominciare dai partiti politici e dal sindacato, nonché dall’autoreferenzialità dell’associazionismo che in passato è stato un vero punto di riferimento del cittadino.
Non ci accorgiamo, infatti, di essere vittime della solitudine, illudendoci di esorcizzarla facendoci sedurre dalla pubblicità, dai modelli televisivi e dagli amici della rete che con una semplice azione di “delete”, improvvisamente, annegano nella liquidità del web. Il digitale con i suoi strumenti ha contaminato anche il mondo dell’informazione, così diverso dal cosiddetto “giornalismo romantico”: quando gli addetti alle redazioni e i corrispondenti si accostavo alle fonti scarpinando con la maglietta madida di sudore e i più fortunati avevano la possibilità di spostarsi in sella alla Vespa di papà.
È vero che nell’era digitale tutti siamo diventati giornalisti, politologi, e, finanche, giudici severi: accusiamo, condanniamo, assolviamo dopo processi mediatici che spesso portano alla distruzione della dignità umana, ma non è così che rendiamo meno violenta l’attuale società. Moderazione dunque, e basta con un giornalismo strillone e partigiano che, dall’alba al tramonto (ma anche la notte), avvelena il clima politico costringendo il telespettatore a scegliere se diventare guelfo o ghibellino. E nel rispetto del sacrosanto diritto di cronaca e critica, diventa improcrastinabile porre al centro del lavoro la dignità delle persone. Le parole, i sussurri provenienti degli ambienti investigativi e le illazioni raccolte in maniera irresponsabile non contribuiscono alla formazione della prova, né davanti ai veri giudici, né dinanzi al “tribunale del popolo” che, da dietro le tastiere, si erge a organo supremo di valutazione dei comportamenti delle persone.
Antonio Latella -giornalista e sociologo (presidente Associazione Sociologi Italiani)