Cos’è il neoliberismo
di Patrizio Paolinelli
Se qualcuno è interessato a sapere come è nata e come si è affermata la dottrina neoliberista una lettura da fare è senz’altro il libro di Marco D’Eramo, “Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi”, (Feltrinelli, Milano, 252 pagg., 19,00 euro).
Iniziamo col chiarire il significato del titolo: il dominio si distingue dal potere perché è una condizione senza possibilità di negoziazione. Una condizione spesso interiorizzata dagli sconfitti come un dato naturale: è così e non può essere altrimenti. “Guerra invisibile” sta invece a significare che i dominatori hanno portato avanti per decenni una battaglia culturale di cui i dominati si sono accorti troppo tardi, quando ormai la situazione politico-economica era irreversibilmente trasformata a loro svantaggio. Infine, con la formula i “potenti contro i sudditi” D’Eramo riprende Aristotele e ci avvisa che a fare le rivoluzioni non sono solo i sudditi contro i potenti, ma anche i potenti contro i sudditi. Questi ultimi talvolta si ribellano contro la disuguaglianza (il proletariato parigino del 1789), mentre i primi si ribellano contro l’uguaglianza (nel 411 a.C. una congiura oligarchia abbatte la democrazia ateniese). I potenti perseguono la disuguaglianza perché si percepiscono come una categoria che merita di occupare il vertice della piramide sociale, mentre chi sta sotto merita di stare in basso. E col neoliberismo la condizione di chi sta in basso non è quella più quella del cittadino, ma del suddito. Cambiamento che richiama le forme del potere feudale.
La sommaria analisi del titolo del libro di D’Eramo ci ha già condotto al cuore dei problemi della nostra società. Una società che involve di anno in anno sotto la spinta del neoliberismo. Una società in cui oggi una decina di capitalisti possiede all’incirca la metà della ricchezza mondiale e in cui persino chi ha la fortuna di avere un lavoro fisso rischia di trovarsi in povertà. “Dominio” spiega in maniera chiara, analitica e con fonti di prima mano come si è potuti arrivare a una situazione così irrazionale.
D’Eramo ricostruisce, tappa dopo tappa, come e perché si è affermato il neoliberismo. Iniziamo dal perché. Negli anni ’60 del secolo scorso il capitalismo statunitense è scosso dai movimenti di contestazione: università in subbuglio, rivolte razziali, proteste in ogni dove, sconfitta in Vietnam, sindacati sul piede di guerra, critica alla logica del profitto, modi di vivere alternativi e così via. Si trattava di un terremoto sociale che metteva in discussione la capacità del capitalismo di dirigere la società. Bisognava correre ai ripari. Ma come?
A compiere le prime mosse negli anni ’60 del ‘900 è la frangia più retriva del potere economico statunitense. Una frangia composta da ricchissime famiglie e magnati del Midwest. Iniziano in solitudine creando e finanziando una serie di fondazioni. Le quali godranno di un’immensa fortuna passando da circa 2mila nel 1959 a oltre 86mila nel 2015. Ed è proprio dalle fondazioni che partirà la controffensiva della rivoluzione conservatrice. Una rivoluzione che permetterà all’élite economica di recuperare il consenso perduto nella società statunitense e poi nel resto dell’occidente. Allo scopo le fondazioni reclutano economisti, intellettuali, scrittori, conferenzieri, docenti, ricercatori e predicatori. Tutti uniti da una fede incrollabile nel liberismo più estremo. Prende così corpo una nutritissima “classe di servizio” che scatena una vera e propria guerra culturale attraverso la produzione di una quantità impressionante di pubblicazioni, di molte delle quali D’Eramo dà conto nel corso del suo libro.
Gli obbiettivi di così tanta produzione intellettuale sono chiari sin da subito: 1) costruire una teoria economica funzionale agli interessi dei dominatori e in grado di legittimarne il potere; 2) impregnare le istituzioni culturali nazionali e internazionali di tale teoria in modo da farla diventare la principale chiave di lettura dei comportamenti umani; 3) occupare le posizioni strategiche all’interno dei governi, delle istituzioni economiche nazionali e internazionali; 4) in virtù di questa colonizzazione neutralizzare ogni tipo di contestazione al primato del mercato sulla società. Da tempo questi obiettivi sono stati raggiunti. A questo punto ci si chiederà cosa ne è della democrazia. In proposito i neoliberisti non difettano di chiarezza: il mercato è più importante della democrazia e la dittatura è preferibile alla democrazia se questa mette in discussione le politiche neoliberiste (come avvenne nel Cile di Pinochet).
La teoria neoliberista viene costruita passo dopo passo, anno dopo anno, successo dopo successo man mano che i movimenti di protesta nati tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso perdono colpi. E qui iniziano le sorprese. La più importante di tutte, e che fa di “Dominio” una lettura imprescindibile, è questa: i neoliberisti reagiscono alla contestazione della sinistra statunitense utilizzando a piene mani idee, tattiche e strategie della sinistra. Si rendono cioè conto dell’importanza della politica e fanno propri concetti come ideologia, capitalismo, classe, intellettuali, egemonia, conflitto e altri ancora. Ma soprattutto comprendono immediatamente l’importanza strategica dell’ideologia per la mobilitazione e il controllo della società.
Impressionante è l’apertura del libro. Nel primo paragrafo troviamo citati alcuni passi di un manuale antiguerriglia dei marines statunitensi che persino nel linguaggio richiamano l’Althusser degli apparati ideologici di stato. Ma cosa c’entrano i marines col marxista Althusser? C’entrano perché entrambi riconoscono l’importanza delle narrazioni ideologiche per spingere gli esseri umani all’azione. E per controllare l’agire di una società facendola passare da anticapitalista a ipercapitalista, da progressista a conservatrice i neoliberisti si rendono conto che occorre costruire una grande narrazione (proprio negli anni in cui Lyotard dava per spacciate le grandi narrazioni).
Il neoliberismo è infatti una grande narrazione e i suoi teorici non fanno alcun mistero di produrre idee, racconti, schemi di pensiero, valori, credenze, categorie, linguaggi, immagini dell’uomo e del mondo col preciso scopo di sconfiggere le visioni della vita fondate sulla solidarietà. Non basta. Il modo di organizzarsi dei neoliberisti ricalca per diversi aspetti quello della sinistra: penetrare all’interno delle istituzioni (in particolare nell’università e nell’amministrazione della giustizia), crearne di parallele (fondazioni, centri studi, istituti culturali, think tank, università private ecc.) Mentre il loro modo di muoversi è quello di veri e propri militanti di partito al servizio della rivoluzione conservatrice. Militanti intenti a perseguire senza alcun tentennamento un obiettivo: l’egemonia dell’élite economica sulla società. A ben guardare Gramsci e Lenin hanno fatto scuola tra i loro avversari.
E così mentre nei circoli della sinistra ci si lambiccava il cervello sul vocabolario di Heidegger e si riponevano in soffitta gli strumenti utilizzati per la critica al capitalismo, lo stesso capitalismo li faceva propri e li utilizzava per scatenare una guerra ideologica totale. In molti ricordiamo che per anni buona parte dell’intellighenzia liberal si è baloccata con favole quali, per esempio, il tramonto delle ideologie. Nel frattempo il neoliberismo metteva in piedi la più efficiente macchina ideologica che si sia mai vista nella storia della modernità. Mai vista perché ad essa non ci si può opporre, se è vero come è vero che oggi è più facile ipotizzare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Il successo dell’ideologia neoliberale è arrivato al punto di impedire all’immaginario individuale e collettivo di pensare qualsiasi cosa oltre il perimetro recintato dai neoliberisti. In questo senso il controllo del linguaggio si è rivelato decisivo e ad esso D’Eramo dedica illuminanti riflessioni.
Ma quali sono i caposaldi teorici del neoliberismo? In breve: la società non esiste; esiste solo l’individuo; neanche la disoccupazione esiste (se si perde il lavoro è razionale godersi il tempo libero); la giustizia sociale è un’espressione vuota; non c’è alternativa al primato dell’impresa privata sulla società; la concorrenza è una legge di natura; gli esseri umani sono solo dei razionali calcolatori che badano al proprio utile (la madre dona affetto ai figli per avere un utile psicologico); i lavoratori sono imprenditori di se stessi (se guadagnano poco è perché hanno sbagliato a investire il loro capitale umano); tutto si compra e tutto si vende (bambini da adottare compresi e dove il bambino bianco vale più di quello di colore); il livello d’inquinamento di un fiume va deciso in base a quanto ci guadagna o ci rimette l’azienda inquinante; le leggi vanno fatte rispettare minimizzando il costo per lo Stato (perciò se costa troppo far rispettare una legge conviene lasciar perdere perché altrimenti aumentano le tasse); al centro dell’economia non c’è il mercato ma l’azienda (rompendo così con l’economia classica); le crisi economiche non sono tragedie ma opportunità (per i paperoni naturalmente); lo Stato deve essere minimo (per il cittadino, ma non per le grandi aziende, che al contrario, anche negli Stati Uniti mungono a più non posso le casse pubbliche).
Naturalmente l’elenco è molto più lungo. Tuttavia, quanto riportato è sufficiente per dimostrare che la teoria neoliberale non ha niente di scientifico. Alla fin fine tale teoria consiste in una lunga serie di idee blindate da dimostrazioni (operazione tautologica che si può efficacemente utilizzare per qualsiasi idea uno abbia in testa, e proprio per questo motivo è metodologicamente sbagliata). Tuttavia, seppure su principi del tutto arbitrari i neoliberisti hanno costruito cattedrali di parole e di formule matematiche con cui da decenni condizionano e dirigono le politiche dei governi occidentali.
Depurata delle sue tautologie cosa resta della dottrina neoliberista? Resta quel che è: un discorso politico finalizzato a redistribuire la ricchezza a favore dell’élite economica. Resta un’ideologia che esprime una visione dell’essere umano di una povertà sconcertante. Un essere umano desocializzato, inconsapevole dei suoi reali interessi e in competizione col suo prossimo. Niente di più conveniente per un’élite economica che invece è compatta, ben organizzata e solidale nella difesa dei propri interessi di classe.