Pandemia e dilemmi dell’economia

di Patrizio Paolinelli

Emergenza sanitaria e emergenza economica sono sempre andate di pari passo. Storicamente l’una non si dà senza l’altra. L’abbiamo imparato a nostre spese noi contemporanei, colpiti come siamo da un anno a questa parte dal Covid-19. Un dramma mondiale che non ha risparmiato nessun angolo del mondo.

<<= prof. Patrizio Paolinelli

Come chiamare con una sola parola l’intreccio tra emergenza sanitaria e emergenza economica? La risposta ci giunge direttamente dal titolo di un piccolo tascabile scritto dal sociologo Tonino Perna: “Pandeconomia. Le alternative possibili”, (Castelvecchi, Roma, 2020, 69 pagg., 8,00 euro). Ma, innanzitutto, che cosa si intende con pandeconomia? Molto semplice: si tratta della “trasformazione dell’economia dei singoli Paesi come del mercato mondiale al tempo della pandemia”.

Se la definizione è netta, le cose diventano assai più complicate quando si entra nel merito. Ossia quando si cerca la via d’uscita dalla destabilizzazione del sistema economico provocata dal Coronavirus: caduta del Pil, aumento esponenziale del debito pubblico, crollo del mercato internazionale, ulteriore impoverimento di chi vive di precariato e lavori informali. Bisogna riconoscere che Perna affronta l’argomento con rigore e allo stesso tempo in maniera molto chiara. Perciò il suo intervento ha il merito di parlare a tutti, addetti e non addetti ai lavori.

Pandeconomia” si divide in tre agili capitoli: “Breve storia della pandeconomia”, dove a volo d’uccello sono presentate alcune epidemie che hanno investito l’Europa nei secoli scorsi; “La pandeconomia al tempo del Coronavirus”, dove in rapida successione sono affrontati in termini critici gli effetti economici, sociali, politici, emotivi e ambientali scatenati dal Covid-19; infine, “Oltre la pandeconomia: gli scenari possibili”, dove sono ipotizzate le alternative che la stessa pandemia ha messo in moto.

Perna avvia la propria riflessione partendo dal concetto di catastrofe elaborato dal matematico René Thom. Il quale considera la catastrofe (un terremoto, una guerra, un’epidemia) come un punto di svolta, ossia come l’interruzione improvvisa di una continuità, di un processo strutturalmente stabile. Calando la catastrofe pandemica dei nostri giorni nella realtà sociale, le elaborazioni teoriche a cui fare riferimento sono, secondo Perna, quelle di due economisti: Walther Rathenau e John Maynard Keynes.

Rathenau fu il primo economista del ‘900 a occuparsi delle conseguenze economiche della guerra. Conseguenze che si ripresentano pari pari oggi con l’esplosione della pandemia. Esse sono: la messa in discussione della globalizzazione, l’inevitabile processo di deglobalizzazione, la rivalutazione del mercato interno, il rafforzamento delle istituzioni statali, l’accelerazione dei processi sociali. A ben vedere si tratta di una serie di fattori che già premevano sulle società ben prima della pandemia. Ma a cui la pandemia ha dato una spinta impressionante.

L’altro economista che ha offerto un importante contributo nell’analisi sull’economia di guerra è stato John Maynard Keynes. Il quale spiegò che lo sforzo bellico dovevano pagarlo tutte le fasce sociali. Ma per le classi lavoratrici era necessario prevedere un “salario differito”, ossia la restituzione di una parte di quanto tali classi avevano versato una volta terminato il conflitto. In tutta evidenza si tratta di una soluzione le cui intenzioni erano quelle di conciliare la ripresa dell’economia con la giustizia sociale dopo la catastrofe bellica.

La pandemia in corso non è una guerra, né, come lo stesso Perna precisa, l’attuale emergenza economica può essere definita un’economia di guerra. Eppure ha innescato effetti simili a quelli di una guerra. Per diversi aspetti la società non sarà più come prima e tuttavia il rischio maggiore è che sia peggio di prima. Proprio per evitare questa involuzione la conciliazione tra economia e giustizia sociale proposta da Keynes all’indomani del Secondo conflitto mondiale vale anche per l’oggi visti gli ottimi risultati che diede allora. E tale conciliazione costituisce l’aspetto principale della riflessione di Tonino Perna. È vero: la pandemia in corso rappresenta un punto di svolta nella storia, “Ma senza una redistribuzione dei redditi, senza giustizia sociale, la guerra contro il Coronavirus la vinceranno ancora una volta gli speculatori di Borsa, i rentiers, i privilegiati di questo modo di produzione”. Uno snodo decisivo del libro che ne spiega il sottotitolo: “Le alternative possibili”.

Quali sono le alternative di cui parla Perna? Possono riassumersi in una parola: equonomy. Che cos’è? “Si definisce equonomy un’economia che ritrova l’equilibrio nel nome dell’equità”. Su cosa si fonda? Sulla valorizzazione dei cambiamenti positivi emersi durante l’anno del Covid. Tali cambiamenti sono: il maggior uso dello smart working; il recupero dell’economia di prossimità (piccola agricoltura, piccoli negozi, vita di quartiere); il riequilibrio tra città e campagna; la riscoperta della solidarietà; il rilancio della cooperazione internazionale; infine, l’importanza di riconsiderare l’economia fondamentale secondo quanto sostenuto dalla scuola di Manchester (cioè il ritorno all’economia dei beni essenziali come il cibo, l’acqua, la casa, l’elettricità). Da questo insieme di cambiamenti è possibile secondo Perna un’altraeconomia, “che, in prima istanza come mero esercizio teorico, ma non sganciato dalla realtà, chiamiamo equonomy. L’equonomy come un modo di produzione che punta a un rinnovato equilibrio tra l’attività umana e il patrimonio naturale che abbiamo ereditato.”

Ora, non solo sul piano teorico l’equonomy è una prospettiva desiderabile. Ci chiediamo però quanto sia realizzabile su larga scala. Intanto presenta qualche intrinseco elemento di debolezza. Per esempio, chi l’ha detto che l’incremento massiccio dello smart working sia solo un fatto positivo? Indubbiamente dà luogo a delle positività (riduzione del traffico automobilistico e del pendolarismo), ma anche a delle negatività (rischi di isolamento sociale, di indebolimento dei legami tra lavoratori e sindacati, di indistinzione tra vita lavorativa e vita privata e così via). Tralasciamo gli altri punti che secondo Perna caratterizzerebbero un nuovo modo di produzione perché il nocciolo della questione non risiede nelle criticità dei singoli fattori che compongono l’equonomy, ma nel pensare di superare il neoliberismo con delle buone idee e delle buone pratiche.

Il neoliberismo non ha conquistato il potere perché rappresenta una teoria migliore di un’altra, ma perché è più violenta di ogni altra (comprese quelle che rientrano nell’alveo del liberismo). E poi con la pandemia i neoliberisti non si sono fatti da parte. Sono più che mai saldamente al potere. Un potere totale, che controlla tutto: parlamenti, governi, Unione Europea, mass-media, università, tecnologia, finanza, industria, risorse statali e chi più ne ha più ne metta. Sarà l’élite economica a gestire il dopo-Coronavirus. E non lo farà certo nell’interesse dei lavoratori e dei cittadini. In poche parole, il futuro dell’equonomy si gioca sulla sua capacità di passare da movimento di idee e di pratiche a forza politica.


Lascia un commento

Anti - Spam *

Cerca

Archivio