L’idioma dei social network. Più che il medium poté il messaggio

di Patrizio Paolinelli

Nel 2015 Facebook ha registrato nel mondo un miliardo e 320 milioni di utenti. Segue Google Plus con 500 milioni, Instagram con 300 milioni e Twitter con 288 milioni. A questi risultati si può aggiungere il record di WhatsApp, che in solo giorno, il 1° febbraio 2016, ha contato un miliardo di utenti attivi nell’intero pianeta. Dinanzi a tali performance è quasi un luogo comune affermare che il successo dei social network e della messaggistica istantanea sta modificando il nostro modo di comunicare.

Prof. Patrizio Paolinelli ====^

Tendenza che trova conferma nella crisi generalizzata della carta stampata. Osservando i dati che riguardano il nostro Paese una recente indagine ha infatti rilevato che tra le prime cinque fonti di informazione degli italiani i quotidiani tradizionali sono assenti (Dodicesimo Rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione, 2015). Nell’insieme questa dinamica sembrerebbe dar ragione ad alcuni guru dei new media, secondo i quali i cambiamenti nel modo di comunicare tra le persone sono tali da modificare radicalmente il nostro modo di essere e di pensare. Ma è proprio così? Non del tutto.

A meno che non si voglia trasformare in un dogma la fortunata formula di McLuhan “Il medium è il messaggio“. Formula che pur avendo indubbi meriti euristici presenta due criticità. La prima è costituita non tanto dall’irrilevanza dell’oggetto di cui si discute così come accade nei litigiosi talk show quanto da ciò che il rumore della lite oscura, ossia l’oggetto stesso del dibattito.

<<== Marshal McLuhan

La cui irrilevanza costituisce l’obiettivo latente della spettacolarizzazione dell’informazione. La seconda criticità consiste nel subordinare all’apparato cognitivo tutte le altre qualità che contraddistinguono gli esseri umani nella loro veste di soggetti e oggetti della comunicazione: emozioni, desideri, volontà, spiritualità. Detto in altre parole i pur radicali mutamenti introdotti dai diversi medium nel modo di produrre, recepire e trasmettere messaggi – come ad esempio la comunicazione in tempo reale sui social network – non elimina affatto il problema dei contenuti dei messaggi stessi. Che io sia razzista a voce, sulla carta stampata, in Tv o su Twitter non cambia la sostanza del discorso pur avendo utilizzato medium differenti.

Sul piano dell’infosfera uno stop all’homo cognitivus che si staglia grazie alla formula “Il medium è il messaggio” giunge proprio dal Rapporto Censis-Ucsi sopra menzionato: nonostante il passo di carica del Web 2.0 la Tv resta la regina dei mediacontinuando ad avere una quota di spettatori che coincide sostanzialmente con la totalità della popolazione italiana, il 96,7%. Il che significa che ancora oggi è la Tv a determinare l’agenda degli argomenti da discutere nella sfera pubblica. E non basta la convergenza delle tecnologie mediatiche ad assicurare ad esempio un’informazione più libera e veritiera. La tanto efficiente quanto scandalosa manipolazione dell’opinione pubblica da parte degli “indipendenti” Tg occidentali pare più che sufficiente a ridimensionare l’esclusività del medium sul messaggio.

La domanda da porsi allora è: i social network fanno parte di un medium (Internet) autonomo rispetto a quello televisivo?

Il linguaggio dei social è stringato e diretto esattamente come il compulsivo ritmo di immagini televisive, proprio perché entrambi i codici devono fare i conti con l’istantaneità del tempo reale. E in questa circostanza il medium è davvero il messaggio perché comporta la riconfigurazione di un apparato cognitivo che deve adattarsi a una comunicazione ultrarapida nettamente differente da quella tipografica tipica del libro, della rivista, del quotidiano. Ma la comunicazione non si esaurisce certo nella grammatica delle immagini televisive o nel contratto lessico del Web 2.0. E in questo senso Umberto Eco, pur riconoscendo aspetti positivi dei social network, ha parlato di “legioni di imbecilli” che su Facebook fanno opinione quanto e più di un premio Nobel: “La televisione aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità”.

Intendendo con ciò il trionfo della superficialità sull’approfondimento. Tuttavia la superficialità, e per essere più precisi la superficialità del linguaggio pubblicitario, sembra essere la cifra della comunicazione d’oggi. Si tratta di un fenomeno trasversale a tutti i media. E così come la pubblicità offre al grande pubblico un linguaggio, un modo d’essere e di vivere allo stesso modo Facebook soddisfa nelle persone la voglia di apparire, di far parte di una tribù e di accrescere l’autostima. Insomma, più che il medium poté il messaggio. Questo perché gli esseri umani per loro natura attribuiscono un senso a ciò che fanno: dall’acquisto di prodotti per ridurre il girovita, anche se non ne hanno bisogno, a prese di posizione sulla politica internazionale, anche se ne sanno poco o nulla.

Un caso esemplare di attribuzione di senso tramite la superficialità è recentemente offerto dalle performance in rete di Martina Dell’Ombra. Si tratta di una giovane video-blogger venuta dal nulla che registra centinaia di migliaia di visualizzazioni su YouTube mentre su Facebook piace a 118.378 persone. I motivi del suo exploit sono dati da quel che dice e da come lo dice. Sul piano dei contenuti Martina Dell’Ombra spazia praticamente per ogni dove. Non c’è tema all’ordine del giorno del dibattito pubblico su cui non esprima un parere: dai problemi della scuola a quelli dell’immigrazione, dalle vicende politiche alle polemiche sul Gay pride e così via. Le sue opinioni sono un campionario di banalità piccolo-borghesi alimentate da decenni d’informazione mainstream: paura nei confronti degli immigrati, elogio dell’apparenza, superiorità della nostra civiltà. In un video propone addirittura di dividere Roma in due aree: la zona sud abbandonata agli immigrati e quella nord destinata ai nativi.

Un esodo interno necessario perché Roma sud è “svantaggiosa” per diversi motivi. Ad esempio, la metro di Roma nord “è più figa” di quella di Roma sud, zona povera della città invasa da stranieri e in cui si vedono in giro persone malvestite che per di più puzzano. Certo, gli stranieri sono presenti anche a Roma nord. Ma stanno “rintanati nei loro negozietti” e non occupano la capitale. Non basta. A Roma sud ci sono le prostitute di strada, mentre a Roma nord “Le prostitute si chiamano escort e sono persone rispettabilissime che potete trovare su Facebook, su Twitter eccetera, che magari spesso a volte lavorano anche in televisione e tutto. Cioè, comunque una cosa più de classe diversa”.

Perorazioni di questo tipo trasmesse con un italiano incerto la giovane video-blogger ne dispensa a iosa senza ricorrere alla rabbia gridata dei leghisti. Martina Dell’Ombra dispensa i suoi consigli con un tono da svampita ottenendo un tale successo di pubblico da destare l’attenzione della Tv. Sky TG24 le ha infatti dedicato una lunga intervista in quanto fenomeno del Web e presentandola col suo cognome per esteso, Dell’Ombra de Broggi de Sassi. In quell’occasione Martina ha ribadito col tono disarmante dell’oca giuliva il suo interesse per la politica senza trascurare l’importanza dei fatti di costume. Ma c’è una sorpresa. E che sorpresa. Martina Dell’Ombra de Broggi de Sassi è una finzione, un personaggio costruito ad arte. In realtà la video-blogger è un’attrice teatrale siciliana il cui vero nome è Federica Caccioli.Insomma, l’attrice ha preso in giro l’intera infosfera e un’armata mediatica come Sky TG24 c’è cascata in pieno confermando sia la superficialità di molta informazione televisiva sia l’ingenuità di tanti frequentatori dei social network. La celebrità raggiunta da Martina Dell’Ombra dimostra che l’inganno, la genericità e la cultura piccolo-borghese dilaganti nella società dello spettacolo permettono sempre meno di distinguere tra dramma e farsa pur essendo tutti noi perennemente connessi grazie alle tecnologie digitali. I libri sono un buon antidoto per discernere il vero dal falso e tuttavia né la Tv né il Web 2.0 vanno demonizzati. Semmai maggiormente democratizzati.

Per gentile concessione dell’autore, in precedenza pubblicato su “Via Po cultura”


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