Il caso Weinstein tra la Waterloo del giornalismo e il lavoro servile
di Patrizio Paolinelli
All’improvviso le luci di Hollywood sono letteralmente esplose e la più importante fabbrica dei sogni dell’Occidente si è rivelata al mondo come una tenebrosa casa degli orrori per tante, tantissime donne che lavorano nel celeberrimo quartiere di Los Angeles.
<< === prof. Patrizio Paolinelli
A fare da detonatore è stato il caso del molestatore seriale Harvey Weinstein, potentissimo produttore cinematografico statunitense, fondatore di una macchina da Oscar come la Miramax e in altri tempi definito “Dio” da Meryl Streep. Il caso è esploso grazie a un’inchiesta del New Yorker condotta per oltre un anno da Ronan Farrow (figlio di Mia Farrow e Woody Allen). Dall’inchiesta è emerso che per decenni Weinstein ha molestato attrici, impiegate e collaboratrici. Da parte del magnate sono seguite scuse contrite, qualche smentita e il momentaneo ritiro dall’attività. Lo scoop di Ronan Farrow non si è fermato al cinema e ha varcato i confini della città degli angeli generando un effetto domino in diverse nazioni e settori produttivi: il cinema appunto, ma poi la televisione, il mondo dell’alta tecnologia, quello della politica. Il sexgate parla anche italiano. L’attrice Asia Argento ha accusato Weinstein di averla stuprata nel 1997 in un hotel di Cannes, poi è scoppiato il caso del regista Fausto Brizzi e le molestie hanno lambito anche il mondo dello sport.
Tornando negli USA lo scandalo si è esteso a macchia d’olio nel mondo dei media e un discreto numero di dirigenti maschi sono stati denunciati. Nomi che dicono poco al grande pubblico, ma dietro i quali ci sono i grandi burattinai di quanto tutti noi vediamo su ogni tipo di schermo. Harvey Weinstein è uno di questi. Ma nella lunga lista possiamo segnalare John Lasseter, fondatore della Pixar e direttore creativo dell’animazione Disney. Il quale si è preso sei mesi di congedo dopo aver essersi scusato pubblicamente per i suoi abbracci un po’ troppo calorosi, “abbracci indesiderati” come lui stesso li ha definiti. Anche diversi divi del pantheon hollywoodiano ne sono usciti con l’immagine seriamente incrinata per non dire devastata. Rivelazione dopo rivelazione è venuto fuori che allungare le mani su donne (attrici e non) che gravitano nell’ambiente dello spettacolo è una pratica diffusa e sono fioccate denunce nei confronti di star del calibro di Ben Affleck, Dustin Hoffman, Sylvester Stallone e altri ancora, mentre Kevin Spacey accusato di molestie sessuali da un altro attore si è scusato e ha rivelato di essere gay. Certo, non mancavano precedenti terrificanti come quello di Bill Cosby, geniale uomo di spettacolo accusato da decine di donne di averle stuprate. Allo stesso tempo alcuni libri quali “Hollywood Babilonia” (1959), “Hollywood Babilonia II” (1984) di Kenneth Anger e “Sul sofà del produttore. Il rito del «Pedaggio sessuale» nella storia di Hollywood” (1990) di Selwyn Ford avevano acceso i fari sugli eccessi, gli abusi, le debolezze di tanti personaggi hollywoodiani a partire dall’alba dei grandi Studios. Ma fino a ieri i casi che emergevano erano di volta in volta presentati dalla stampa come un problema soggettivo e non come un problema sociale all’interno della numerosa comunità dello spettacolo. Mentre i libri alla fin fine hanno avuto più l’effetto di alimentare il mito di Hollywood che di dare il via a inchieste giornalistiche e giudiziarie.
Dinanzi ai sistematici ricatti sessuali subiti dalle donne nella mecca del cinema internazionale dai suoi esordi a oggi la prima cosa che salta in mente è che si tratta del segreto di Pulcinella. Lo stesso Ronan Farrow ha sostenuto che Weinstein ha potuto molestare indisturbato per anni perché protetto da una vera e propria “congiura del silenzio”. D’altra parte, senza andare in California, chiunque abbia anche solo sfiorato il mondo dello spettacolo di casa nostra si rende immediatamente conto di quante pressioni sgradite debbono subire le donne che circolano in quell’ambiente. Ambiente nel quale per molti è considerato del tutto normale che per fare carriera una donna debba andare a letto con qualcuno che conta. E pensare che Ed Wood nel 1966 scrisse un libro (pubblicato nel 1998 e in Italia nel 2000) dal provocatorio titolo “Hollywood: la corsa dei topi. Istruzioni ad uso di aspiranti divi“. Si tratta di un vero e proprio vademecum per riuscire a sfondare nel mondo del cinema. Ma si tratta anche di un manuale di autodifesa. Scrive Wood: “Posso dirvi che sono molto poche le persone che ottengono la loro prima occasione a Hollywood, New York e in qualche altro posto del mondo senza che capiti loro di essere inseguite intorno a un tavolo o due (o anche tre o quattro) da qualche produttore sudicione. Questo vale non solo per le ragazze, ma anche per i ragazzi. E non parlo di donne produttore; ce ne sono molto poche. … Da qualsiasi luogo veniate, da una grande città o da una piccola, o da qualsiasi posto del mondo, badate di portarvi le scarpe da tennis, perché sarà più facile catturarvi se avete i tacchi alti”.
Molte donne non sono riuscite a correre abbastanza in fretta eppure il caso Weinstein sembra indicare la rottura di un globale muro di omertà. Per questo in tanti fingono di cascare dalle nuvole. Che lo facciano i politici, ad esempio i Clinton e gli Obama, può essere comprensibile anche se difficilmente giustificabile. Ma la stampa? Bisognava aspettare il 2017 per sapere quel che tutti, al di qua e al di là dell’Atlantico, sapevano da sempre? Possibile che la cosa sia sfuggita ai giornalisti che si occupano di costume, spettacolo, moda, cultura? Per fortuna non a tutti. Difatti in passato diversi cronisti avevano provato, senza riuscirci, a rivelare le malefatte di Weinstein. Nel 2004 ci provò una giornalista che all’epoca lavorava per il New York Times, Sharon Waxman. Ma la sua indagine venne insabbiata forse per timore di perdere importanti inserzionisti o forse per l’intervento di un paio di noti attori. Comunque sia non venne pubblicata. Lo stesso Ronan Farrow si è vista rifiutata la sua inchiesta da parte del colosso radiotelevisivo NBC prima di pubblicarla sul New Yorker. E se non fosse una catastrofe per l’informazione mainstream ci sarebbe da ridere nell’apprendere che, pochi giorni prima dell’esplosione dello scandalo, Harvey Weinstein sia stato insignito del titolo di “Uomo verità” dai giornalisti del Los Angeles Press Club. Quantomeno la scoperta che il New York Times abbia insabbiato un’inchiesta sgradita ai potenti dovrebbe costituire una notizia-bomba, un vero e proprio Watergate alla rovescia e dunque un serio motivo di riflessione per tutta la stampa visto che la testata statunitense è indicata come un modello da seguire. Al momento così non è. Non resta che sperare in qualche sussulto deontologico.
Sul piano dell’informazione la vicenda nata con lo scandalo Weinstein purtroppo conferma che la stampa deve rendere conto a poteri più forti, in primo luogo quello economico, e che dunque la sua libertà è limitata e il suo ruolo di cane da guardia della democrazia dipende dalle situazioni. Parole queste, libertà e democrazia, che vengono ripetute ogni giorno innumerevoli volte sui media per convincere il grande pubblico di vivere in una realtà che nei fatti è diversa, ma intanto i fatti sono sostituiti da una realtà mediatica che diventa più vera della realtà fattuale. E così delle donne impegnate nel mondo dello spettacolo la fabbrica del consenso mostra quasi esclusivamente i sorrisi, la vita mondana, le gioie del successo. Finché un giorno accade l’irreparabile, o meglio qualcosa molto complicato da riparare come l’emersione di un violento e generalizzato machismo nel mondo dei media. Naturalmente c’è chi parla di una nuova inquisizione, chi soffia sul fuoco di un probabile complotto politico, chi ipotizza regolamenti di conti tra élite del cinema e qualche filisteo prova persino a sostenere che in fondo è grazie alla stampa che il caso Weinstein è venuto fuori. Mi è persino capitato di leggere l’articolo di una corrispondente italiana da New York in cui sosteneva di essere stata più volte abbracciata da John Lasseter senza mai percepire secondi fini. Anche il pressappochismo aiuta a rimettere insieme i cocci del mito hollywoodiano. Mentre l’informazione mainstream gestisce con grande professionalità la memoria e l’oblio del grande pubblico. E in direzione dell’oblio si muovono le preoccupazioni di Joseph Nye, politologo di Harvard a teorico del soft power, la strategia morbida di penetrazione dello stile di vita statunitense su tutto il pianeta. Nye in una breve ma molto chiara intervista rilasciata a Francesco Semprini il 14 novembre scorso e pubblicata su La Stampa di Torino ha dichiarato che lo scandalo degli abusi danneggia soprattutto Hollywood, ma se dovesse perdurare potrebbe mettere a rischio l’efficacia di un’arma strategica come il soft power. Il messaggio implicito non lascia spazio a dubbi, soprattutto se si tiene conto che Hollywood è integrata col Pentagono a tutela degli interessi statunitensi nel mondo tramite quello che Jean-Michel Valantin ha definito il “cinema di sicurezza nazionale”.
Tralasciando la stampa di destra impegnata a colpevolizzare le vittime, il dibattito pubblico innescato dallo scandalo Weinstein si è concentrato su aspetti importanti. Ad esempio l’onda lunga del patriarcato, il rapporto uomo donna, quello tra sesso e potere e così via. In poche parole ci si è interrogati quasi esclusivamente sulla natura culturale del fenomeno molestie sessuali. Il che è senz’altro importante, anzi decisivo. Ma da quanto ho letto e ascoltato un elemento centrale è passato in secondo piano. E cioè il fatto che le donne molestate, abusate e violentate cercavano lavoro o stavano lavorando. Occorre allora porsi la seguente domanda: qual è il modello occupazionale imperante nel mondo dello spettacolo visto che le molestie nei confronti delle donne sono una routine? E’ presto detto. Il lavoro è a chiamata e temporaneo, il contratto è individuale e una volta concluso ci si ritrova a spasso, le ferie retribuite non esistono e l’assistenza sanitaria è a proprie spese così come i contributi per la pensione. Bastano queste poche pennellate per immaginare in quale gorgo di ricatti, compromessi e autosfruttamento precipitino tante aspiranti dive e divi.
Certo per chi diventa star del piccolo o del grande schermo la fortuna economica è assicurata. Ma spesso il prezzo è alto. E a proposito di prezzo, cari lettori, ora vi rivelo un altro segreto di Pulcinella che, chissà, tra una ventina d’anni potrebbe assurgere alle cronache internazionali grazie all’inchiesta di qualche giornalista statunitense permettendogli forse – come già si vocifera per Ronan Farrow – di vincere il Premio Pulitzer. Il segreto è il seguente. Abbiamo tutti notato che da molti anni praticamente la quasi totalità dei film destinati al grande pubblico e le serie televisive di prima serata contemplano inderogabilmente diverse scene di attrici senza veli e più o meno lunghe sequenze porno-soft. Le attrici che sono indisponibili a girarle semplicemente non lavorano e la loro carriera è compromessa o quantomeno molto rallentata. D’altra parte c’è un esercito di attrici disoccupate pronte a tutto pur di avere una parte. Attendiamo il prossimo scoop internazionale.
Cosa ricorda il modello occupazionale fondato sulla tournée, sul contratto personale attore-produttore e sul piegare la testa dinanzi a qualsiasi vessazione, molestie sessuali comprese? Ricorda le politiche di deregolamentazione del lavoro in atto da una trentina d’anni a questa parte in tutto l’Occidente. Ricorda il trionfo del neoliberismo, ovvero l’affermarsi di una nuova edizione del lavoro servile che nel caso del grande schermo convive con l’alta tecnologia degli effetti speciali. E forse non è un caso che Ronald Reagan provenisse dal mondo del cinema. In fondo, per quanto concerne il lavoro, la sua politica non ha fatto che riprodurre su larga scala il sistema occupazionale hollywoodiano. Sistema in cui chi cerca lavoro è letteralmente in balia di chi lo offre. Una vera e propria condizione di sudditanza medioevale che fa strame dei diritti più elementari conquistati nel corso della modernità. Uma Thurman ha rivelato le molestie subite da Weinstein dopo anni e come lei tante altre attrici. Perché hanno aspettato così tanto tempo? Perché se lo avessero denunciato subito la loro carriera si sarebbe bruscamente interrotta e in altri casi neanche iniziata. Arrivati a questo punto resta un interrogativo: finiranno le molestie sulle donne nel mondo dello spettacolo? Nell’immediato sicuramente molti maschi si terranno le mani in tasca. Ma finché i rapporti di forza tra domanda e offerta di lavoro saranno così squilibrati c’è da dubitare che l’autocontrollo reggerà a lungo.
Patrizio Paolinelli, via Po cultura, inserto del quotidiano Conquiste del Lavoro, 9 dicembre 2017.