The elephant man: alcune considerazioni sul concetto di stigma

di Davide Costa

Vede, la gente ha paura di quello che non riesce a capire… E… Ed è difficile anche per me capire

(Joseph Merrick).

Un film, una storia, un volto… E’ questo il caso di una pellicola del 1980, The Elephant Man, diretto da David Lynch; si tratta di un adattamento cinematografico di due opere letterarie:The Elephant Man: A Study in Human Dignity di Ashley Montagu e The Elephant Man and Other Reminiscences di  Frederick Treves.

Poiché è si tratta di una produzione cinematografica datata è bene rammentare, se pur brevemente, la trama: Joseph Merrick è un uomo affetto dalla sindrome di Proteo, pertanto il suo corpo è pieno di malformazioni, in particolare è il suo viso ad essere  deforme, tanto da circolare  con un sacco, cucito ad un cappello, con un foro per poter guardare, temendo la reazione degli altri alla vista di tanta “bruttezza”; così viene apostrofato come l’uomo elefante. E’impiegato come fenomeno da circo da Bytes, un uomo senza scrupoli che più e più volte lo maltratta verbalmente e fisicamente. La vita di Joseph cambia grazie al suo incontro con il dottor Frederick Treves che non solo lo visiterà ma inizierà ad ospitarlo nell’ospedale presso il quale lavora. L’aspetto di Merrick inizia a terrorizzare il personale, e al contempo ad attirare l’interesse dei più curiosi. La sua presenza nel nosocomio porta il direttore dello stesso, Mr. Francis Carr Gomm, ad essere contrariato, in principio alla sua presenza, tant’è che dopo un breve colloquio lo considera un soggetto da inviare in una struttura psichiatrica; tutto cambia quando Joseph inizia non solo a parlare ma addirittura a recitare ad alta voce il 23esimo salmo della Bibbia; questo episodio spinge il direttore a ritornare sui suoi passi, decidendo di appoggiare Treves nel suo processo di cura. Merrick desta l’interesse dalla regina, di attrici, di moltissimi personaggi illustri. Inizia a riscattare la sua persona, dimostrando, che oltre alla propria immagine, c’è molto di più. L’idillio va in frantumi con il ritorno di Bytes che, non solo lo rapisce, ma lo porta con il suo circo,  in Europa. I maltrattamenti persistono, finché  gli altri membri del circo non lo fanno fuggire. Ritornato a Londra le sue condizioni di salute si aggravano, ma, dopo una serata in teatro e dopo aver ringraziato il suo ormai amico Treves che lo aveva cercato disperatamente, decide per la prima volta di stendersi in posizione supina, posizione che per via delle sue gravi deformità comporta la sua morte. Suicidandosi, così, saluta quella terra che lo aveva tanto angustiato quanto acclamato, per congiungersi con la sua mai dimenticata defunta madre,  Mary Jane.

Il film ci porta immediatamente nel vivo della “teoria dello stigma” di Goffman. Ma che cos’è uno stigma? La terminologia, così come il suo primo significato, risale all’antica Grecia, in cui stigma designava la pratica di incidere, con una lama rovente, il corpo degli indesiderati: schiavi, traditori o un soggetto autore di una qualsiasi colpa. In particolare, Merrick, che ricordiamo essere un personaggio realmente esistito, appartiene alla prima tipologia di stigma, ovvero relativa alle deformità fisiche(Goffman 1963). Questo significa che “Noi normali sviluppiamo certe concezioni, non sappiamo se oggettivamente fondate o no, riguardo alla sfera di vita in cui un particolare stigma squalifica subito una persona”(Goffman, 2003, p.66). Questa squalifica, porta uno stigmatizzato come Merrick, a vivere una sfera relazionale completamente perturbata; il capitale sociale, ossia l’insieme delle relazioni di cui un soggetto gode, viene completamente ridotto per non dire annullato, e con esso, si riduce la sua eccezionale azione terapeutica per soggetti con qualsiasi tipologia di patologia come Joseph, ormai da molto tempo accertata: Berkman e Syme(1979) hanno dimostrato come tra chi ha un basso capitale sociale è il doppio rispetto a chi ha un social network elevato.

A ciò si aggiunge poi il fatto di portare lo stigmatizzato ad essere considerato altro, Merrick urla, non a caso: “No! Io… non sono un elefante! Io non sono un animale, sono un essere umano! Un uomo… un uomo!”; ciò perché i normali  sono quelli che “non si discostano per qualche caratteristica negativa dai comportamenti che, nel caso specifico, ci aspettiamo da loro […] Per definizione, crediamo naturalmente che la persona con uno stigma non sia proprio umana […] Mettiamo in piedi una teoria dello stigma, una ideologia atta a spiegare la sua inferiorità.” (Goffman, 2003, p.15).

Lo stigma, così, comporta una frattura, spesso irreparabile fra lo stigmatizzato e la società, infatti nonostante Merrick abbia i suoi momenti di gloria e di accettazione, comunque crea sgomento, perché viola la sacralità dei canoni corporei, e di conseguenza lo stigma “non riguarda tanto un insieme di individui concreti che si possono dividere in due gruppetti, lo stigmatizzato e il normale, quanto piuttosto un processo sociale a due, assai complesso, in cui ciascun individuo partecipa in ambedue i ruoli, almeno per quello che riguarda certe connessioni e durante certi periodi della vita. Il normale e lo stigmatizzato non sono persone, ma piuttosto prospettive”(Goffman, 2003, p.170).

Lo stigma, poi, trova “terreno fertile” soprattutto in società reificate, proprio come quella in cui vive Merrick, ovvero la società vittoriana, in cui il sistema di interazione sociale era particolarmente rigido, e quindi con una scarsa attitudine non solo alla mobilità sociale, ma soprattutto con un elevato  atteggiamento ghettizzante, tanto da rendere il familiare non familiare grazie soprattutto ad una visione prettamente organicista e meccanicista, e quindi di tipo biomedico. Una società, che potremmo anche definire come governata dalle eteronomie, ossia realità sociali in cui la “differenza viene definita dall’altro e, a sua volta, l’identità che di essa emerge non è quella secondo la quale la disabilità costituisce un atto differenziatore, ma l’assenza di elementi identitari rispetto all’altro. È un’identità eteronoma e in negativo; è un’identità escludente e marginalizzante. È una non- identità. È l’identità dell’insufficienza, della carenza e della mancanza di autonomia”(Ferreira, 2007).

Accanto a Merrick vi è un altro personaggio interessante, ovvero il dottor Frederick Treves, che potremmo definire, con l’approccio di Goffman, come un saggio(Goffman 1983), ovvero “colui che deriva la sua “saggezza” dal lavorare in un ambiente che si occupa specialmente dei bisogni di chi ha uno stigma particolare o dei provvedimenti che la società prende in loro favore”(ivi pag.31). Questo personaggio verrà ammonito dalla capo- infermiera Madre Shead,  dal momento che a suo dire, Merrick continua ad essere trattato come un fenomeno da baraccone da un lato, e dall’altro è ipertutelato dall’ospedale dalla classe sociale più abbiente. Madre Shead, coglie pienamente il concetto del “culto dello stigmatizzato(…)-che-si sviluppa quando il “saggio” reagisce in modo abnorme alla stigmatofobia del “normale”(Maturo, 2007,p.60); si tratta di un portamento che induce alla conseguenza tale per cui “chi ha uno stigma onorario-il saggio-mette talvolta a disagio sia lo stigmatizzato che il normale. Infatti con quel loro essere sempre pronti a portare un fardello che non è veramente il loro, è frequente che si pongano di fronte agli altri in un atteggiamento eccessivamente moralistico”(Goffman, 1983, p.33). Degno di nota è il suo atteggiamento nei confronti di Merrick che sembra gettare le basi, nonostante i tempi non fossero ancora maturi, per un approccio alla malattia improntato sull’identità sociale e morale, sulla percezione soggettiva e culturale del paziente, ossia ricorre ai  principi della Narrative Based Medicine(Medicina basata sulla narrazione).

Merrik, infine, si suicida, decide di abbandonare la società che nonostante lo abbia angustiato, tanto da affermare che “Io sono felice ogni ora del giorno,(…). Anche se sapessi che morirei domani. La mia vita è bella, perché so di essere amato… Io sono fortunato!”.

Nell’ultima scena del film, con la madre di Merrick,  lo accoglie nell’universo, recitando la poesia di  Alfred Tennyson “Niente muore”:

Mai.

Oh, mai.

Niente morirà mai.

L’ acqua scorre.

Il vento soffia.

La nuvola fugge.

Il cuore batte…

Niente muore

Davide Costa, sociologo e segretario regionale dell’Associazione Sociologi Italiani

Riferimenti bibliografici

Berkman L., Syme L., (1979), Social Networks, Host Resistance, and Mortality:  A Nine Year Follow-Up Study of Alameda Country Residents, “American Journal of Epidemiology”, n.109.

Goffman E., (1983), Stigma, L’identità negata, Giuffrè Ed., Milano.

ID., (2003), Espressione e identità. Giochi, ruoli, teatralità, Il Mulino, Bologna.

Sitografia

https://genius.com/Alfred-lord-tennyson-nothing-will-die-annotated

https://www.mymovies.it/film/1980/the-elephant-man/poster/

http://distribuzione.ilcinemaritrovato.it/elephant-man


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