LA GRANDE VOGLIA DI RIBELLIONE DELLA SOCIETA’ ITALIANA
Nella società italiana c’è grande voglia di ribellione. Contestare è diventata la valvola di sfogo di un popolo che non riesce più a sopportare il peso della crisi economica e sociale.I cittadini sentono la necessità di diventare protagonisti,delusi, come sono,da quantinei consessi elettivi – dal Parlamento al più piccolo dei comuni – li rappresentano. La crisi non è soltanto economica, ma riguarda anche la politica: principale responsabile dell’attuale situazione in cui versa il Paese. E la crisi genera il malcontento, altrimenti non avrebbe attecchito il Movimento 5 stelle di Grillo o le speranze che milioni di nostri connazionali, appartenenti a versanti politici trasversali, riservano a MatteoRenzi.In questa logica di malcontento s’incastona il movimento dei “Forconi”. Una protestache continua ad allargarsi a macchia d’oliononostante negli ultimigiorni sia scomparsa dall’apertura dei TG che preferiscono esaltare le gesta politico – governative come, ad esempio, la cancellazione (si fa per dire) dei finanziamenti ai partiti da applicarsi però entro il 2017.
La strategia di protesta dei “Forconi” (o “Movimento 9 dicembre”) non è condivisibile nella pratica, soprattutto quando limita la libertà di altri cittadini ( la circolazione di persone e merci, l’interruzione di pubblici servizi, impedire lo svolgimento di attività imprenditoriali o commerciali), ma in linea di principio la maggioranza degli italiani la condivide. Anzi, la gente spera che tale protesta, unita alle tante altre di cui giornalmente sono protagoniste numerose categorie di lavoratori, possa contribuire alla svolta che tutti auspicano in Italia, ma in pochi, men che meno la politica, lavorano perché ciò avvenga. Il sistema regge perché possiede uno strumento, l’informazione, che narcotizza l’opinione pubblica attraverso false promesse di chi mente sulla reale situazione del Paese quasi a voler far credere che, qui da noi, non esista la disperazione. E mentre il dibattito politico è impegnato da mesi sulla riforma elettorale, sull’avvento del nuovo messia del PD, sulle disgrazie del Cavaliere, sulle bacchettate del Presidente Napolitano, sull’ostinato ottimismo di Enrico Letta, sulla politica dei due forni ( o più) di Casini, sulla salvezza della democrazia grazie alla nascita N.C.D. gli italiani diventano sempre più poveri. A spingerli nel baratro è l’eccessiva pressione fiscale, l’aumento delle tariffe di servizi essenziali , i balzelli comunali e da un sistema bancario figlio di quel capitalismo finanziario che oggi governa il mondo. Dal Veneto a Pantelleria, da Ventimiglia a Lecce, dal Piemonte alla Calabria, passando per il centro e le due isole maggiori, l’Italia è una polveriera sociale pronta ad esplodere. Il popolo è pessimista sul futuro, cittadino com’è dell’attuale società dell’incertezza in cui le conquiste sociali di oltre un secolo di lotte vengono ghigliottinate dalla logica della grande finanza di cui la politica è serva fedele. I tanti fatti di disperazione di massaie, immigrati, cassintegrati, piccoli imprenditori sembrano appartenere ad altre realtà geografiche del pianeta e non già all’Italia che, fino a un decennio fa, veniva indicata tra le prime dieci potenze industriali del mondo. L’occidentalizzazione è un modello che non possiamo più permetterci. Ma i sacrifici vanno equamente ripartiti: niente privilegi di classe, franchigie per le élites politiche, burocratiche, governative, per parlamentari, consiglieri regionali o grandi manager pubblici o privati. Nella gente comune – è questa la forza che sorregge la protesta – c’è ancora il sentimento dell’indignazione, soprattutto quando, nelle grandi città o nei paesini più sperduti del Sud, si vede gente che fruga nei cassonetti dell’immondizia, che spera di trovare un vecchio paltò dietro una delle porte delle tante chiese, di fronte alla ressa all’entrata delle mense dell’associazionismo laico e confessionale per un pasto caldo a cui fa ricorso anche chi fino a qualche anno fa veniva classificato come appartenente alla piccola borghesia. La crisi è uniforme: non ci sono aree geografiche privilegiate. Crisi che, paradossalmente, si avverte maggiormente al Nord e in quelle realtà tecnologicamente avanzate in cui il modello di società è più individualista rispetto a quella del Mezzogiorno. Qui, nonostante povertà e sottosviluppo, la coesione sociale è assicurata della solidarietà familiare che raffredda piccole e grandi tensioni. Ciò non significa rassegnazione. Ma ci chiediamo fino a quando questo sistema sarà in grado esorcizzare vecchie e nuove povertà che aumentano con i tagli allo stato sociale. Sbaglia chi, oggi, ritiene che la protesta sia la sorgente del male per la nostra democrazia. Chi si ribella alle ingiustizie sociali, che sono l’essenza dell’attuale dittatura del capitalismo finanziario e di tutte le sue articolazioni e subalternità ( come quella della politica), rafforza le fondamenta del nostro Stato democratico che non è messo in pericolo da chi rivendica giustizia sociale, ma da quanti vogliono consolidare i loro privilegi.
Sarebbe davvero interessante conoscere i risultati di un semplice sondaggio in cui ( ma con un campione qualitativamente e quantitativamente rappresentativo) si chiedesse agli italiani di cosa sono più stanchi o si vergognano: della gente che protesta o di quanto, quotidianamente, avviene nel palazzi della politica?