LA PROFESSIONE DEL SOCIOLOGO: UNA PROVOCAZIONE SEMISERIA
La storia della professionalità sociologica assomiglia a quella di un ‘malato’ cronico – per gli iettatori, forse già in vicino al decesso – a favore del quale tante sono state le occasioni di anamnesi della sua condizione, senza mai arrivare ad una compiuta diagnosi e, quindi, a delle valide ‘indicazioni terapeutiche’ per uscire da una pericolosa situazione di impasse.
<< ==Prof. Everardo Minardi
E’ paradossale che proprio chi lavora con e sulle relazioni umane si sia dimostrato incapace di cogliere il nuovo, ovvero la parte sana del ‘malato’ costituita dalle esperienze professionali di coloro – non accademici – hanno dato nuova vita alla conoscenza sociologica consentendole di fecondare il fertile terreno della propria quotidianità lavorativa, nel mentre proprio quella conoscenza si rivelava utile o quanto meno orientante l’azione professionale volta alla risoluzione di problemi pratici. Problemi sociali e significativi, quindi, ricchi di senso per le persone e per i gruppi umani osservati e a favore dei quali il sociologo professionista opera.
L’impermeabilità del mondo accademico (purtroppo ancora l’unico – in mancanza di una riconosciuta e aggregante comunità tra pari di tipo professionale – soggetto dotato di nominale autorevolezza per sollecitare un cambiamento istituzionale) è stata ed è tuttora tale che non sarebbe affatto sbagliato parlare di un tipo di errore decisionale identificato con il termine di avversione alla perdita.
A tal riguardo, le scienze cognitive ci dicono che commettiamo questo errore perché rinunciare a qualcosa di apparentemente vantaggioso per un vantaggio futuro soltanto ipotetico, lo consideriamo irrazionale. Il vantaggio (facoltà e cattedre di discipline sociologiche ancora in essere, qualche iscritto ai Corsi di Laurea ancora attivi nel Paese) sembra superare lo svantaggio (messa in discussione dei confini disciplinari, dilatazione della concezione di professionalità sociologica non sono in senso accademico, perdita di una presunta ‘purezza’ disciplinare, ecc.). Un’inadeguata valutazione dei vantaggi e degli svantaggi non consente ancora di superare i meccanismi automatici di avversione alla perdita, pericolosamente ostacolando la percezione dell’urgenza della condizione del nostro ‘malato’. Eppure, non sono mancate delle occasioni significative di presa di coscienza.
Nel 2012 presso l’Università degli Studi di Trento, infatti, in occasione del cinquantesimo anniversario della rinomata Facoltà di Sociologia si tenne un convegno organizzato dall’A.I.S. dal titolo “Sociologia, professioni e mondo del lavoro”. Un evento, come ci riferisce Annamaria Perino “orientato a riflettere sul ruolo della sociologia e del sociologo nella attuale società, che ha visto la partecipazione di oltre 150 persone provenienti da tutta Italia e si è articolato in quattro differenti sessioni”. Dal convegno sarebbero dovute emergere “prospettive interessanti che, se opportunamente utilizzate, (porrebbero) contribuire a far riconoscere lo status del sociologo e a meglio indirizzare la formazione, in stretta connessione con il mondo del lavoro” (2012).
Anche nel 2012, l’anamnesi fu abbastanza limpida. Affidandoci alle parole della Perino, abbiamo conferma che, attualmente, “quella del sociologo appare come una professione evanescente, dai contorni poco definiti (si sa che il sociologo si occupa della società ma non si sa esattamente cosa faccia per essa), tant’è che non è raro che esso venga confuso con altri professionisti (lo psicologo, ad esempio). Il mancato riconoscimento della sua identità professionale porta, spesso, a rendere invisibile il sociologo; non giocano a suo favore neanche i pregiudizi e gli attacchi che giungono da parte dell’opinione pubblica.
L’offerta formativa destinata ai sociologi risulta essere, al contempo, molto diversificata e troppo generalista. La laurea in sociologia non sembra garantire lo svolgimento di una professione specifica e, raramente, crea collegamenti con il mondo del lavoro; l’Università non orienta gli studenti agli sbocchi occupazionali, non riesce ad indicare loro quali sono i settori sui quali è opportuno investire. Si sottolinea, altresì, la necessità di attribuire nuovamente importanza alla base metodologica; la formazione dovrebbe orientare alla comprensione dei problemi e alla ricerca delle possibili risposte.
Alla luce di quanto esposto (mancato riconoscimento del ruolo professionale, indebolimento della formazione, scarsa comunicazione tra Università e imprese) appare chiaro che il mercato del lavoro possa riservare solo piccole nicchie alla professione sociologica (pubblica amministrazione, sanità, ricerca, servizi sociali) e che sia, pertanto, necessario, da una parte, potenziare il dialogo tra Università e mondo del lavoro (al fine di comprendere quali sono le necessità di quest’ultimo, senza tuttavia affannarsi a rincorrerlo) e, dall’altra, valorizzare ciò che di positivo c’è, senza farsi eccessive illusioni circa l’espansione della professione. (…)
I processi di modernizzazione del lavoro e i cambiamenti organizzativi che stanno caratterizzando sia l’ambito pubblico sia quello privato portano inevitabilmente a ricollocare i diversi professionisti, chiedendo loro di lavorare in un’ottica interdisciplinare, talvolta cedendo ad ibridazioni con altre professioni. Da più parti si richiama la concorrenza delle scienze economiche, evidenziando la difficoltà della sociologia ad essere al passo con i cambiamenti, di riuscire a leggere e denominare i fenomeni sociali” (ivi).
Incredibilmente, anche il predetto ‘nuovo’ – quella che abbiamo anche definito la ‘parte sana’ del malato – sembrava illuminare le coscienze se, a dispetto del “quadro d’insieme (che) non sembra attribuire un ruolo di spicco al sapere sociologico e al sociologo, non si può ignorare il fatto che i professionisti chiamati a raccontare la propria esperienza hanno portato una visione ottimistica, spesso sottolineando la gratificazione e la soddisfazione derivante dall’attività professionale svolta. Ciò che si lamenta è la scarsa collaborazione tra sociologia accademica e sociologia professionale; l’alleanza tra i due ambiti dovrebbe consentire e di riequilibrare il rapporto tra area teorica e area operativa del sapere sociologico e di costruire sinergie in grado di ridare vigore alla disciplina e alla professione” (ivi).
Cosa ne è stato, poi, del richiamo a contribuire al miglioramento dell’immagine del sociologo e della Sociologia? Dell’auspicio a collaborare per promuovere l’individuazione di strategie, strumenti e modalità operative che permettano al sociologo di riconquistare il ruolo che dovrebbe essergli proprio? Non molto a quanto pare. L’università sembra essere ripiombata nella propria ‘patologica’ letargia (a parte qualche sporadico risveglio, come nel caso controverso dell’elaborazione della norma UNI) e le associazioni professionali si sono mosse finora in ordine sparso, confermando quella frammentarietà che fa eco a quanto già accade in altri contesti societari italiani. In linea generale, ancora desta poca curiosità il modo in cui i sociologi si adattano creativamente nel mondo del lavoro. Una mancanza grave, soprattutto, da parte dell’accademia se è vero che “chiedersi come lavorano i sociologi, quali sono i loro metodi e i loro obiettivi, come si confrontano con i loro pubblici, significa anche mettersi in grado di rispondere ai giovani che ci chiedono perché dovrebbero studiare la Sociologia e ai datori di lavoro che dovrebbero avvalersi delle loro prestazioni” (Luciano A., 2013:136-137).
Dobbiamo allora arrenderci ad una ‘prognosi’ la quale, man mano che si susseguono le occasioni di anamnesi più o meno articolate di quelle espresse nel corso della prestigiosa sessione trentina, suona come una conferma del tragico e definito epilogo per il sociologo e la Sociologia? Noi del Laboratorio di Sociologia Pratica, Applicata e Clinica crediamo di no. Siamo coscienti che per evitare il ‘non detto’, che lascia spazio all’errore e ai bias cognitivi, sia necessario esplorare l’esperienza del nostro ‘malato’ attraverso una richiesta di narrazione – da qui la nostra campagna di ‘story-telling’ – che fornisca più materiale affinché il processo decisionale che dovrebbe consentire l’adozione di un’efficace ‘terapia’ sia all’altezza, per poter scongiurare che l’evitabile diventi inevitabile…
NEWSLETTER #8
giugno – settembre 2020
www.sociologiaclinica.it
Sociologiaonweb e il suo direttore ringraziano il prof. Minardi per l’autorizzazione a pubblicare l’interessantissimo editoriale.
Riferimenti
Luciano A., 2013, “Professione sociologo: c’è un futuro per i laureati in Sociologia?”, in Sociologia italiana, Associazione Italiana di Sociologia, n.1/2013, Egea, Milano;
Perino A., 2012, “La professione del sociologo. L’Ateneo ospita il convegno “Sociologia, professioni e mondo del lavoro” a 50 anni dalla fondazione della Facoltà di Sociologia,
https://periodicounitn.unitn.it/periodicounitn.unitn.it/132/la-professione-del-sociologo.html;
Perino A., Savonardo L., 2017, Sociologia, professioni e mondo del lavoro, Egea, Milano.