I GIOVANI E L’EMIGRAZIONE, QUALI SONO I RISCHI
L’emigrazione è un fenomeno millenario che si verifica ogni volta che un individuo o una comunità di persone insoddisfatte delle condizioni economiche e sociali del proprio luogo di origine si spostano in un altro contesto geografico per trovare condizioni di vita per loro più favorevoli. L’Italia fu prima un paese di emigrazione poi, grazie alle migliori condizioni di vita che seguironodopo il secondo conflitto mondiale e l’avvento dell’industrializzazione, si invertì la rotta e divenne paese di immigrazione. Oggi, secondo i dati ISTAT del 2011, infatti, gli stranieri in Italia raggiungono la soglia dei quattro milioni e mezzo circa, pari al 7,5[%] del totale della popolazione. Un aspetto molto positivo che però si contrappone ad un dato molto più preoccupante che riguarda invece una nuova emigrazione italiana meglio conosciuta come fuga di cervelli o, come si dice in inglese, ‘Brain Drain’. Sono migliaia di ragazzi istruiti, in gran parte universitari o ricercatori che non vedendo un futuro lavorativo in Italia o una minima presa di considerazione reale scelgono di fare le valigie e partire in paesi dove l’indice di investimento in ricerca e sviluppo è molto più alto che da noi. Sempresecondoi dati dell’ISTAT, nel 2010 i dati confermano la cronica debolezza dell’Italia in questo campo, con una spesa nella ricerca e sviluppo molto bassa.
Tale spesa rappresenta infatti l’8[%] del totale sul PIL dei 27 Paesi UE a fronte di un PIL pari al 12,6[%] del totale europeo, laddove la Germania contribuisce agli investimenti in R& S per il 28,3[%], la Francia per il 18[%] ed il Regno Unito per il 12,5[%]. Per non parlare del rapporto tra spesa R& S rispetto al PIL che deve essere, secondo le strategie europee 2020, alla soglia del 3[%] con l’Italia ultima in graduatoria con un 1,3[%]. Può un Paese come il nostro nell’era della globalizzazione competere con questi risultati? Ancora per poco si, ma nel lungo periodo, se non si inverte la rotta, l’unica soluzione che ci aspetta è quella di rimanere dietro gli altri e aspettare, guardare, sopportare che le loro decisioni politico-economiche influenzino le nostre regole e le nostre vite. Oggi la sfida non la vince chi ha più capitale immobilizzato e mi riferisco ai grandi capannoni o alle grandi industrie. Quelle ormai si delocalizzano in Cina, in India, in Sud America: la produzione si è spostata li. Oggi le sfide si vincono con l’istruzione con il Know-how (conoscenza), con il capitale umano, con i giovani. In tutta l’Europa, soprattutto quella del Nord, hanno intuito che sono le strategie migliori a vincere nella competizione e queste le possono affrontare solo chi ha la capacità di individuarle. Non è un caso che molti manager italiani, visto le loro buone capacità, vengono sostenuti e attratti ad andare fuori dall’Italia. Secondo i dati emersi dall’indagine di AstraRicerche (per Manageritalia e Kilpatrick) sul fenomeno della ‘fuga dei cervelli’ tra i manager. “Riceviamo tantissime richieste di manager italiani da portare all’estero – dice Spagna – a riprova della buona fama che i nostri manager hanno a livello internazionale, ma anche delle sempre minori opportunità che l’Italia offre. Ormai anche noi lavoriamo quasi solo per mandare manager all’estero, mentre per rilanciare l’economia e il Paese tanti di quei manager che sono oggi all’estero dovremmo riportarli in patria nelle nostre aziende. Magari favorendo anche un maggior ingresso di manager esteri”. È per questo che l’emigrazione dei cervelli italiani è così dilagante. I nostri professionisti, i nostri giovani, le nostre risorse più preziose hanno capito che l’Italia è più attenta ai propri lobbisti piuttosto che alla volontà di creare le opportunità per loro. Mentre gli altri redistribuiscono ricchezza, noi redistribuiamo povertà non solo materiale ma anche culturale. Chi rimane in Italia è svilito e molti non hanno più voglia di impegnarsi perché forse il loro prossimo punto di arrivo sarà un lavoro poco gratificante e, forse, ‘non retrinuito’. Quindi, la soluzione è sempre partire.
Questa è una delle grandi piaghe del nostro Paese, la partenza, l’emigrazione della conoscenza, della professionalità che se ne vanno per creare ricchezza altrove lasciandoci un pesante debito, un buco insostituibile, un sentiero verso l’arretratezza che sono le peggiori vie intraprese anche rispetto la povertà materiale. Quanti giovani in Italia non lavoravano e poi emigrando hanno trovato migliori collocazioni? Tanti. L’Europa non è più terreno per l’incontro dei popoli europei dove a predominare è lo scambio fra cultura e la sua convergenza, ma è diventata, per usare un gergo economico, un’allocazione ottimale di fattori produttivi che però non crea una convergenza tra paesi meno deboli e più deboli, ma un inasprimento della forza a sfavore di questi ultimi di cui, purtroppo, fa parte anche l’Italia. Dunque oggi riparlare di emigrazione non vuol dire solo crisi di lavoro, non solo come crisi sociale ma anche depauperamento delle proprie capacità d’innovazione, di decisione e di partecipazione. L’Europa rappresenta una grande opportunità per tutti gli europei. Dobbiamo solo cambiare alcune regole, rispetto alle quali non entro nel merito, e cambiare la tendenza di questo fenomeno così importante è possibile. Certamente ci vuole la volontà di tutti. Io spero che quel capitale umano che è andato via ritorni al più presto e lavori nel nostro Paese per renderlo quello che merita di essere. Ricominciamo dal processo di convergenza e riprendiamoci i nostri professionisti, la loro dignità, la loro forza per dimostrare, ancora e sempre, che l’Italia può essere certamente un paese fatto di valorizzazione e opportunità.