Toh, si riparla del ponte sullo Stretto
di Antonio Latella
L’idea di un collegamento stabile tra Calabria e Sicilia è tornata ad alimentare le illusioni degli abitanti di quest’area strategica del Mezzogiorno. Ad ipotizzare la realizzazione della grandiosa opera, ancora una volta, è stata la politica che da sempre la utilizza come un Cavallo di Troia per ingannare quanti vedono nel ponte una grande occasione di sviluppo.
Un’ipocrisia che nasconde gli interessi della classe dirigente delle aree sviluppate del Paese che temono di vedere spostato l’interesse nazionale e mondiale dal Nord al Sud della Penisola.
C’è da dire che una seria riflessione sull’utilità del Ponte, nei giorni scorsi, l’hanno avviata gli imprenditori siciliani e calabresi della Confindustria che, in un dossier, ne hanno spiegato gli effetti positivi sull’economia e l’occupazione dell’intero Mezzogiorno. Ma la politica dominante improvvisamente è diventata sorda e afona.
<<== Natale Mazzuca – Unindustria Calabria
Non sembra una forzatura chiedersi se tra i 187 grandi progetti all’esame del Governo Conte compaia o meno il Ponte ed altre grandi infrastrutture per le zone marginali del Paese. Capiamo che nel Governo, costretto a “tirare a campare”, non si vuole scontentare la componente contraria alla realizzazione delle grandi opere (per esempio la Torino – Lione). Ma non tenere conto degli interessi complessivi del Paese è un atto di pura follia.
La presenza del Ponte, ne siamo certi, invoglierebbe milioni di persone a preferire le località balneari siciliane e calabresi rispetto, se non a tutte, ad alcune tradizionali mete dell’Adriatico e del Tirreno. ll grande collegamento diventerebbe anche un catalizzatore di investimenti internazionali e un luogo di grande attrazione turistica. Forse anche per questo, quando stava per diventare realtà, è stato fatto “crollare” prima dell’inizio dei lavori. Una decisione politica, sostenuta da potenti lobbies che in questo Paese decidono cosa bisogna fare o non fare, che in questo caso ha prodotto un miliardario spreco di risorse economiche oltre che umane.
La mancata realizzazione del manufatto stabile tra le due sponde dello Stretto è stato un atto politico che ha visto protagonisti sia il Parlamento (2011) sia il Governo Monti (2012) mentre la pietra tombale è stata posata 15 aprile 2013 quando il Presidente del Consiglio dei Ministri dell’epoca, con un decreto, ha posto in liquidazione, con la nomina di un commissario, la società Stretto di Messina S.p.A.
Anche questa decisione fa parte dei misteri dell’Italia Repubblicana: nessuna responsabilità e nessuno sarà chiamato a pagare. E come spesso accade quando a vincere sono le lobbies occulte, i protagonisti di quella stagione sono stati messi da parte. Ricordiamo Pietro Ciucci e non solo lui, ma anche il senatore Nino Calarco.
Il deficit infrastrutturale, in particolare, nel settore dei trasporti e delle reti telematiche, rappresenta un ostacolo alla crescita socio -economica di interi territori. Ecco perché gli industriali siculo -calabri sottolineano che “la decisione di realizzare un attraversamento stabile nello Stretto di Messina è vitale per l’economia, strategica per gli investimenti pubblici e privati, che sono alla base della crescita economica e dell’occupazione”. Ed aggiungono: “La dotazione infrastrutturale nel settore dei trasporti è la spina dorsale dello sviluppo, fondamentale per rimuovere i vincoli della crescita”.
Nulla è cambiato dall’epoca della “Freccia del Sud”, della valigia di cartone, della fuga dei migliori cervelli. Oggi i nuovi convogli – che nel centro nord sfruttano le caratteristiche strutturali dell’alta velocità- da Milano e Torino impiegano ancora troppe ore per raggiungere Reggio Calabria. I treni ci sono, ma c’è anche l’inadeguatezza della linea ferrata. Ma c’è di più. Un’alta percentuale di viaggiatori che prendono posto sulle frecce Rosse o Bianche o su Italo da Sapri fino a Reggio soffre maledettamente il mal di treno. Immaginiamo una Ferrari costretta a percorrere una vecchia provinciale il cui tracciato risale al regno Borbonico.
Eppure questa mendace novità viene spacciata come una grande conquista, una rivoluzione del trasporto pubblico, un grande regalo agli italiani del Mezzogiorno. Ipocrisia di un sistema fondato sugli inganni, sulla corruzione, sulle diseguaglianze e sulle promesse.
Al Mezzogiorno, solo piccoli interventi di maquillage, mentre le grandi opere di ingegneria sociale, propedeutiche allo sviluppo del territorio, in prevalenza, rimangono delle incompiute o, nel migliore dei casi, finite a metà (l’A3 docet!).
La cantierizzazione rimane sulla carta, mentre, ed è storia recentissima, la decisione di far ripartire i lavori del tratto della SS 106 che porta in Puglia, si è trasformata in occasione per indossare il doppio petto, per le comparsate televisive, i post sui social e i titoloni sui giornali.
Fumo negli occhi: un vecchio trucco per impedire la rivolta dei poveri. I quali, ammaliati dai populisti di turno, concedono il consenso elettorale a chi riesce meglio nell’arte di demonizzare gli avversari, i governanti in carica. Non basta denunciare le ingiustizie, farsi paladini dei bisogni del cittadino pur sapendo che si tratta di propaganda, di populismo e, soprattutto, di onesta intellettuale.
Destra, sinistra, centro, movimenti, liste civiche: protagonisti della commedia degli inganni. E così cambiano gli schieramenti, ma il Mezzogiorno non cambia volto. E come dice il nostro amico Otello Profazio: “Qui si campa d’aria”.
Il Mezzogiorno oggi è interessato sia alla diminuzione delle nascite sia all’ emigrazione: fenomeni che entro due/tre decenni potrebbero dare vita a preoccupanti forme di desertificazione. Secondo lo Svimez, il Sud è alle prese con una “Trappola Demografica”.
Dal 2000 ad oggi -riportano nel loro dossier gli imprenditori calabresi e siciliani- “hanno lasciato il Mezzogiorno oltre due milioni di residenti: la metà giovani fino a 34 anni, quasi un quinto laureati. Il meridione rischia di spopolarsi e questo crollo demografico ha un costo, stimato a oltre un terzo del Pil. Parallelamente alla fuga dal Mezzogiorno cresce il gap occupazionale tra il Sud e il Centro – Nord, che nell’ultimo decennio è passato dal 19,6 al 21,6%. In totale il Sud si ritrova 3 milioni di posti di lavoro in meno rispetto al resto d’Italia. Analogamente – si legge ancora nel dossier – la qualità del lavoro peggiora da Roma in giù. Al Sud aumenta la precarietà che si riduce invece nel Centro -Nord, ma cresce il part-time (+ 1,2%), in particolare involontario, che nel meridione raggiunge l’80% rispetto al 58% del Centro -Nord”.
La mancanza di infrastrutture di base e la presenza della ‘ndrangheta, diciamocelo senza infingimenti, sono solo alcuni dei tanti alibi per mantenere lo status quo di un Paese a due velocità. Tutto ciò fa comodo alla politica dominante alla quale spetterebbe il dovere di eliminare gli ostacoli che impediscono lo sviluppo di determinate aree dall’atavica arretratezza. Eppure queste realtà geografiche, ricche di storia, di tradizioni e di incomparabile bellezza, già prima dell’Unità d’Italia furono destinate a rimanere un grande serbatoio di braccia, funzionali alla ricchezza delle regioni nordiche.
La convinzione che per ogni cantiere che si apra trarrebbe vantaggio solo la malavita organizzata (il che è maledettamente vero, ma al “magna magna”, direttamente o in modo indiretto, partecipano tutti) è un atto di sfiducia, un’accusa nei confronti dello Stato: incapace di garantire legalità e giustizia, di difendere la libertà di impresa e di esercitare la forza per garantire la democrazia.
Gli italiani del Mezzogiorno sono stanchi dell’immobilismo della “paura”: repertorio di quelle forze politiche e sociali che da un lato condannano e dall’altro magari fanno affari con l’antistato.
I santuari della ‘ndrangheta, già prima della globalizzazione, sono stati trasferiti al Nord dove operano i colletti bianchi della finanza e dove vengono prese le grandi e inappellabili decisioni rispetto alle quali, la manovalanza delle “locali” deve solo obbedire.
A condannare il Sud contribuiscono anche gli stereotipi negativi, le narrazioni che le forze indigene non hanno la forza, e forse neanche la volontà, di cancellare ricorrendo a nuovi paradigmi socio-culturali. I fenomeni sociali hanno un’origine e una fine. E non è certo utopia sperare in un’Italia libera dal condizionamento mafioso. L’origine del fenomeno è conosciuta, ma la fine non arriva per quel sottile confine tra politica e ‘ndrangheta, tra mafia e antimafia.
Anche di fronte alla drammatica eredità lasciata dal coronavirus, il Paese si è ulteriormente diviso tra chi governa e chi invece aspira a governare. Altro che unità come invoca il Presidente Mattarella. Dopo i morti per la pandemia e i gravissimi danni socio-economici stiamo assistendo al festival di “chi la spara più grossa” con uno spezzatino di interventi tampone che stanno provocando proteste, delusioni in quasi tutti i segmenti della vita sociale ed economica.
Si fa a gara per polverizzare le risorse attualmente disponibili: strategia che fa da collante al precario equilibrio della maggioranza. Che Iddio li perdoni. Così facendo si sprecheranno anche le risorse che, prima o poi, giungeranno dall’Unione Europea.
Il Sud – non ci stanchiamo di ricordare – necessita di grandi opere in grado di modernizzalo e renderlo competitivo nel contesto nazionale e internazionale. Risorse che non vanno spese per le realizzazioni di altre cattedrali nel deserto che, soprattutto nel Mezzogiorno, rimangono delle ferite inguaribili. Dagli stati generali di Villa Pamphilj non sono emerse grandi novità, ma alcuni spifferi, come la proposta di una “Diagonale del Mediterraneo, linea ferrata ad alta velocita da Brindisi a Napoli”, evidenziano come Calabria e Sicilia saranno ancora una volta tagliate fuori dai collegamenti veloci su rotaia.
Ancora una volta si rischia una guerra tra poveri.
È vero: oggi, mancano le risorse ( o sono ancora sulla carta) e le promesse non spengono i focolai di malcontento che in autunno potrebbero diventare incendi devastanti. Basta dire la verità e gli italiani capiranno.
Un discorso a parte merita la politica europea che continua a considerare la solidarietà un optional e non tiene conto degli effetti devastanti che sta producendo questo invisibile e potente nemico chiamato Covid-19. Quante travi nell’altrui occhio…
Antonio Latella – giornalista e sociologo