RIBELLARSI NON E’ UN REATO, MA UN SACROSANTO DIRITTO

RAFFA 18 OTTOBRE 2013Siamo al punto di non ritorno. Il rapporto Svimez   confermala lenta agonia di una regioneche, nell’ambito della grave crisi che investe il Mezzogiorno,tutti gli indicatori di sviluppo la classificano all’ultimo posto del Paese.L’aumento della disoccupazione, la perdita di nuovi posti di lavoro con il fronte dei disoccupati che continua ad ingrossarsi, l’indice di povertà della famigliesuperiore di molto rispetto alla media nazionale, il 27[%] di laureati che lascia la nostra terra, l’occupazione maschile e femminile una ventina di punti in più rispetto al Centro – Nord,confermano come nostri territori difficilmente potranno salvarsi dal baratro. Unadrammatica situazione che non può essere affrontata con le solite analisi a cui non seguono comportamenti ed azioni in grado di invertire la tendenza.

Questa terra, innanzitutto, ha bisogno di un nuovo agire   in grado di lasciarsi alle spalle le divisioni che, fino ad oggi, hanno fatto emergere strategie consunte, primogeniture, lotte tra e all’interno degli schieramenti politici, protagonismo di facciata che non risparmiano piccoli e grandi segmenti del territorio.

Di fronte all’emergenza attuale, occorre progettare   un vero “patto di sviluppo”   che     coinvolga   le forze politiche, sociali, imprenditoriali, il mondo   della scuola e le università ed   assieme dare vita ad un nuova sinergia   in grado di archiviare il passato. La nuova strada da intraprendere dovrà essere liberata dalla politica assistenzialista degli interventi a pioggia che, nel breve periodo, producono nuove povertà ed ulteriori squilibri.     Non immagino tavoli pletorici, in cui ognuno dei partecipanti dia sfogo a virtuosismi oratori propinando ricette in cui l’ingrediente principale è la fantasia.

L’idea è   di   costituire una regia interistituzionale, allargata al mondo produttivo e sindacale, che, tenendo conto delle istanze del territorio, predisponga una strategia capace di superare la generale situazione di sottosviluppo e programmare   il futuro dell’intera Calabria. Basta con le enunciazioni di principio che indicano incerti percorsi e invitano a rivoluzioni general generiche   che, come sempre accade,   spetta agli altri mettere in atto. Sono d’accordo, però, con quanti continuano a dire   che     il Sud e la Calabria cambieranno   passo solo con una rivoluzione culturale. La stessa, però, deve avvenire su più fronti: politico, amministrativo, produttivo, sociale. Altrimenti nulla è destinato a cambiare, con i problemi che si trasformano   in fantasmi che aleggiano nell’ambito territoriale, pronti a svanire alla prima promessa di un Governo nazionale le cui strategie nordcentriche, tanto care alla Lega, bruciano, ogni giorno che passa, le residue speranze del Mezzogiorno.   Se invece di parlarsi addosso la classe dirigenziale di questa terra fosse in grado di farsi sentire a Roma, in sede parlamentare e governativa, assumendosi la responsabilità di canalizzare il dissenso, probabilmente lo Stato   si convincerebbe ad attivare politiche reali ( non già forme di assistenza) finalizzate   alla valorizzazione   delle risorse locali: dall’agricoltura al turismo, dai beni culturali alle attività artigianali soprattutto di nicchia, dalla salvaguardia dell’ambiente   al coinvolgimento delle nostre tre   università.

L’autocritica è un valore, non già un momento di debolezza umana e politica.   Senza infingimenti dobbiamo ammettere le nostre incapacità, passate e presenti, di creare servizi collettivi: inadeguatezza tollerata dai partiti   e dalle forze governative per motivi di consenso. E se in passato nei momenti critici, soprattutto sul fronte della disoccupazione giovanile, scattava la solidarietà familiare, oggi, questa   sorta di ammortizzatore incomincia ad esaurire quegli effetti   che     nel secolo scorso   hanno garantito la   coesione sociale nelle nostre comunità rurali e urbane.   La Calabria, terra di nomadismo di braccia e cervelli, di fronte alle condizioni imposte dall’integrazione europea e dalla globalizzazione, è diventata ancora più subalterna al Centro   – Nord le cui imprese trovano qui da noi dei consistenti sbocchi di mercato. Un siffatto ruolo, soprattutto quando diminuiscono le risorse destinate al consumo ( per l’aumento dell’Iva, delle tariffe e dei tributi comunali, per l’asfissiante pressione fiscale   destinata a salire nonostante le affannose   assicurazioni del Governo Letta), nel breve e medio periodo,   provocherà problemi   anche alle regioni   del Nord, sempre meno competitive in Europa, incapaci di smaltire la produzione di beni. Ed allora, d’accordo con economisti e sociologi,   dobbiamo convincerci che la crescita del Paese si decide nel Mezzogiorno, dunque anche in Calabria.

Ecco perché dobbiamo essere consapevoli dell’importante ruolo   che dovrà svolgere la classe dirigente di questa terra: sia nel superamento del gap con le altre aree del Paese, sia nell’aiutare la crescita dell’economia locale e di riflesso quella nazionale. E per far questo dobbiamo lavorare per riavvicinare la gente alla politica, soprattutto i giovani, alle prese col senso di disaffezione nei confronti dello Stato. Ribellarsi non è certo un reato, bensì il sacrosanto diritto di pretendere dallo Stato, nel rispetto della Costituzione, di trattare i calabresi come cittadini e non come sudditi. Ma il rispetto bisogna meritarselo. E’ questo vale per i cittadini, per gli imprenditori, per le forze economiche e sociali e, soprattutto, per la classe dirigente   che ha l’obbligo di liberarsi dal fardello   del qualunquismo, anticamera   della subalternità e   delle logiche centraliste   che mirano, in barba allo sviluppo delle aree marginali del Paese,   a conservare ed aumentare il potere.


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