Il sociologo come figura professionale, una riflessione sulla sua definizione
Su chi sia il sociologo se ne sentono e leggono d’ogni sorta: a partire da alcune definizioni accettabili per distorsione idealistica fino a giungere in altre che nascono già discutibili e dalle quali ci si sente di prendere le distanze rifiutando la deriva della stigmatizzazione. Si potrebbe aprire un dibattito solo su quali rappresentazioni siano più giuste e quali siano da depennare completamente, ma la sociologia ci insegna a superare ogni sorta di dicotomia e ad applicare con approccio integrato i concetti adeguati per l’ambito nel quale si sta compiendo ricerca sociale, cercando di fornire una spiegazione approfondita e completa di bibliografia ma che non abbia la pretesa di esaustività.
La riflessione che segue è il risultato di una personale elaborazione sul ruolo del sociologo, nata da una semplice discussione con alcuni professionisti, ai quali va il mio ringraziamento per la possibilità di fare questa piccola constatazione che vuole essere d’incoraggiamento per coloro che si appassionano a questa disciplina. L’esperienza della triennale a Padova ancora in corso, mi ha portata a credere fortemente che la ricerca sociale sia il vero cuore pulsante del sociologo nelle quali sono inscritte le metodologie quantitative e qualitative, da quelle classiche di cui ci parlano saggiamente P.Corbetta e M.Cardano a quelle innovative cui la scienza sociale prende spunto da altre discipline e che, nei limiti, le adatta al contesto. La ricerca è esperire, il toccare con mano realtà finora inspiegabili che sfidano le attese del senso comune (Gambetta, varie opere). Nel senso comune sono sedimentati alcuni stereotipi che cristallizzano la realtà sociale così come viene percepita e incastrano ogni azione priva di conoscenza approfondita; è compito del sociologo mettere in discussione tali luoghi comuni – non a caso, definiti “comuni”: dal latino communis, che partecipa a una carica insieme, quasi a dire accettati socialmente-.
La sociologia è quindi disciplina empirica centrata e aperta (La Mendola, 2009): un insieme di saperi accreditati da una comunità scientifica che si completano assieme alle caratteristiche uniche e personali dell’attore sociale in veste di sociologo, il quale sviluppa in modo processuale la propria immaginazione sociologica. Wright Mills (1959) definiva l’immaginazione sociologica come ciò che permette a chi la possiede di vedere e valutare il grande contesto dei fatti storici nei suoi riflessi della vita interiore e sul comportamento esteriore di una serie di categorie umane. […] Riconduce in tal modo il disagio personale dei singoli a turbamenti oggettivi della società e trasforma la pubblica indifferenza in interesse per i problemi pubblici.
Io penso che essa non sia altro che una capacità sviluppata con tanta pratica ed esperienza, con passione negli studi e tenacia, che si intreccia nel sapersi interessare di tutto e con la voglia di approfondire implicando concetti propri della disciplina e una quantità ingente di tempo. Il percorso accademico è certamente la strada da intraprendere per chi volesse imparare –nel senso di inscrivere- il mestiere di sociologo sino a giungere all’indossare l’habitus dello scienziato sociale. Un percorso, quello dell’università, fatto di esperienze che concorrono alla professionalizzazione del ruolo –dai laboratori sociologici alle feste tra studenti nei campus- che allenano l’occhio fino a rilevare veri e propri fenomeni e poi problemi nel tessuto sociale (alcuni esempi: pari opportunità, economia sommersa, indagini nella gestione della famiglie, indagini nelle carceri, indagini nell’istruzione e così via), mettendo in discussione le altre discipline, oltre che se stessa.
Pur ricordando sempre che una laurea comprensiva del rituale conclusivo con la proclamazione, è capitale culturale istituzionalizzato, un simbolo e assieme un rito di passaggio, sì necessario ma che non debba sistematicamente accreditare un attore sociale come competente e professionista: ecco che in questo senso, ritengo che la definizione debba essere un orientamento e non una coercizione.
Il ruolo di sociologo soffre inoltre di una mancanza di riconoscimento sociale che incide fortemente sull’identità di, oserei dire, chiunque si laurei in Sociologia (classe L-40 e classe LM-88): chi non si è sentito comparare in modo tendenzialmente discriminatorio ai colleghi psicologi? Penso che un’istituzionalizzazione sia necessaria tanto quanto lo sia la società per gli individui e solo continuando a produrre conoscenza e mantenendo una rete comunicativa trasversale inter-accademica sarà possibile auspicare alla trasformazione di valori, pratiche e orientamenti in costruzioni solide e generalmente accettate passando dalla laurea al mercato del lavoro.
Nel frattempo se qualcuno mi chiede chi è il sociologo, mi piace l’idea di condividere ciò che diceva Bufalino, ossia che il sociologo è colui che va alla partita di calcio per guardare gli spettatori; e a questo proposito, con un po’ di ironica provocazione, rimando all’inizio del testo. Giocare con la Sociologia è il primo passo per farla propria.
La ricerca è entusiasticamente aperta
Jessica Levorato, studentessa di Scienze Sociologiche