La politica da rigenerare

di Giampaolo Latella

Nelle ultime settimane si è alzato il tenore dello scontro nella politica italiana. La crisi del coronavirus, con il conseguente lockdown del Paese, ha fatto vivere un breve idillio nel mese di marzo, nel quale era stata ventilata da alcune parti, addirittura, la possibilità di un governo di unità nazionale.

Un esecutivo del quale avrebbero dovuto far parte più o meno tutti i gruppi parlamentari e che sarebbe stato presieduto dall’ex presidente della BCE, Mario Draghi. In realtà il clima di concordia, all’epoca reso necessario dalla drammaticità della situazione sanitaria, è durato poco. E oggi ci si trova dinanzi a un conflitto “al calor bianco” che – ed è questa la particolarità – si sviluppa su diversi fronti, investendo in pieno le istituzioni.

Appare abbastanza evidente l’esistenza di un fronte di presidenti di Regione, i quali sono di colore politico differente rispetto alla maggioranza parlamentare, che ha assunto una posizione apertamente conflittuale verso il governo nazionale. L’impressione è che, per così dire, l'”antipatia” sia ampiamente ricambiata. I sindaci, a loro volta, spesso scavalcano le ordinanze regionali riconoscendo valore esclusivamente ai decreti emanati da Roma.

L’aver portato il confronto politico su questo piano, con livelli di governo differenti che si fanno la guerra, è una novità assai pericolosa per la tenuta istituzionale del Paese, già messa a dura prova dalla babele generata dalle riforme costituzionali del passato. A cominciare da quella del Titolo V Parte II della Carta, che dal 2001 in avanti ha reso eccessive, ai confini dell’ipertrofia, le prerogative delle Regioni.

Ad aumentare la confusione ha contribuito la prassi, assunta in questi mesi dal Presidente del Consiglio, di emanare provvedimenti per la gestione dell’emergenza sotto forma di decreti: gli ormai celebri DPCM, che sono atti amministrativi monocratici dell’inquilino di Palazzo Chigi.

E’ vero che la “copertura” di tali atti è da ravvisarsi in due decreti legge, uno dei quali peraltro già convertito dalle Camere. Ma è innegabile che un maggiore coinvolgimento del Parlamento sarebbe stato più in linea con lo spirito della Costituzione che – come richiamato dalla presidente della Consulta Marta Cartabia – resta “la bussola” dei governanti anche in questa fase di emergenza.

Nel nostro ordinamento l’unica deroga alle ordinarie procedure costituzionali è ammessa in seguito alla dichiarazione dello stato di guerra, e per quanto il coronavirus abbia causato la morte di decine di migliaia di persone, certamente non può essere paragonato a un nemico in un conflitto bellico.

Le ragioni di opportunità di un maggiore coinvolgimento delle Camere si ravvisano anche nella genesi dell’attuale governo, nato come esaltazione del ruolo del Parlamento quale architrave delle istituzioni italiane, in risposta alle dissennate richieste di “pieni poteri” da parte di chi, oggi, crollato nel gradimento dei cittadini, si avventura in discutibili operazioni di propaganda come l’occupazione del Parlamento stesso.

Sullo sfondo si staglia il problema che, dalla Tangentopoli del 1992, ha attraversato tutta la Seconda Repubblica per sfociare pienamente nella Terza: lo scadimento della politica del Paese, con la cancellazione dei partiti tradizionali che, pur tra mille contraddizioni e zone d’ombra, assicuravano un indispensabile filtro nella selezione della classe dirigente italiana.

La mancata conoscenza della più essenziale grammatica delle istituzioni, il degrado di un pensiero politico sempre più sciatto e superficiale, la confusione dei ruoli politici con quelli di governo sono gli effetti più evidenti di questo processo di degenerazione di una delle più nobili delle attività umane.

Un’inversione di tendenza sarà possibile soltanto restituendo centralità e valore alla più importante istituzione di uno Stato: la scuola, dalla quale occorre ripartire per costruire uno spirito di cittadinanza autentico, per promuovere la consapevolezza che i saperi rappresentano la strada maestra verso la realizzazione individuale e collettiva, e infine per diffondere una cultura identitaria fondata sulla conoscenza della storia.


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