Dalla Post-verità all’over-verità

di Marino D’Amore

Il concetto di post-verità si è imposto prepotentemente nella letteratura comunicativo-giornalistica, e nell’uso comune, a seguito della Brexit e, più recentemente, delle presidenziali americane vinte da Donald Trump: si tratta di una derivazione dell’inglese post-truth, parola dell’anno per il 2016 per gli Oxford Dictionaries. Non sorprende che la sua diffusione si avvenuta nella contingenza di due eventi di rilievo in ambito anglofono che ne hanno catalizzato la visibilità e l’utilizzo conseguente.Il suo significato definisce, e al tempo stesso contestualizza, lo scenario in cui nascono e si diffondono le fake news, ossia circostanze in cui dati di fatto sono ritenuti meno credibili e influenti nel convincere e costruire la pubblica opinione rispetto agli appelli all’emotività, ai pregiudizi e alle convinzioni personali, all’interno di dinamiche relative al confirmation bias.

La prima attestazione della comparsa del termine post-truth risale al 1992. In quell’anno Steve Tesich, in un articolo apparso sulla rivista “The Nation”, scriveva a proposito della guerra del Golfo Persico: «we, as a free people, have freely decided that we want to live in some post-truth world» (noi, come popolo libero, abbiamo liberamente deciso che vogliamo vivere in una sorta di mondo post-verità.).

La post-verità sembra rappresentare la cifra distintiva della società contemporanea. Una falsa notizia legata al denaro versato dalla Gran Bretagna alla comunità europea può influenzare le sorti del voto riguardo al suo affrancamento dalla UE attraverso una narrazione svincolata da dati obiettivi ma legata a un’emozionalità retorica che coinvolge variegati ambiti comunicativi e sociali. Quello della post-verità, tuttavia, non appare come un fenomeno del tutto nuovo: si pensi, nel passato e nel presente, all’utilizzo abituale delle fake news e della propaganda politica che demonizza l’avversario, strumenti retorico-comunicativi che mirano a gratificare l’emozionalità stereotipica delle masse. Si può affermare che la post-verità rappresenta un’evoluzione di questi ultimi che si lega a doppio filo con la capacità invasiva della Rete.

La globalizzazione e la viralizzazione della post-verità, unita alla delegittimazione e alla moltiplicazione delle fonti, raggiunge un pubblico acritico, deresponsabilizzato, che soddisfa il proprio appetito stereotipico, la accoglie fideisticamente senza verificarla, anche disponendo di mezzi e possibilità finalizzati allo scopo.

Internet, attraverso la sua prepotente forza di diffusione, ha esacerbato il concetto di superamento della verità che, di fatto, neutralizza la sua importanza, relegandola all’ambito della contingenza. Una contingenza che preconizza il suo carattere fluido e provvisorio: la post-verità, infatti, spesso finisce per diventare la verità dei post nei social network, pulpiti digitali postmoderni che costruiscono postulati valoriali, credenze e opinioni in ambito comunicativo, sociale e politico.

L’utilizzo del termine post-verità è controverso e apre al dibattito. Da un punto di vista semantico tale criticità si concentra sul prefisso post: la sua accezione relativa a un “dopo” oscura quella di “oltre” che esplica in maniera maggiormente esaustiva il concetto di superamento attraverso la speculare funzionalizzazione di annullamento.

Secondo il mio modesto parere ritengo che il superamento fisiologico sopracitato agisca sul concetto stesso di post-verità, processo catalizzato proprio dal web. Ora ci troviamo nella stagione dell’over-verità o verità funzionale, quella che offusca e fagocita la verità stessa, mutando la sua forma secondo le circostanze e i relativi scopi, obbedendo alle dinamiche della fluidità baumiana.

Marino d’Amore – Sociologo della comunicazione Università Niccolò Cusano – Sociologo specialista e Portavoce nazionale A.S.I – Associazione Sociologi Italiani


Lascia un commento

Anti - Spam *

Cerca

Archivio