Lo spopolamento sardo: la falsa speranza di un futuro incerto
di Francesco Oggianu Pirari
Viviamo in un’epoca di grandi stravolgimenti politici e demografici, dove il concetto di emigrazione talvolta si sovrappone a quello di migrazione, generando nuovi contesti e abitudini di vita cui le popolazioni residenti devono necessariamente omologarsi per sopravvivere.
Le nazioni non sono più autoctone, ma immerse in un alveo globalizzante inevitabile che le conduce a rivedere tradizioni e culture, creandone di volta in volta sempre di nuove. In questo panorama globalizzato di culture dinamiche e mai statiche, alcuni Paesi vivono un drastico processo di spopolamento e desertificazione demografica. Tra questi vi è l’Italia, da anni immersa in un interminabile esodo negativo che porta i residenti all’abbandono delle aree interne, rurali e dei confini nazionali.
Secondo gli ultimi dati Istat 2019, dal 2014 ad oggi la popolazione italiana è scesa al minimo storico di 55 milioni di residenti, con una tendenza di 677000 italiani in meno ogni anno, pari a una città grande come Palermo.
Numeri solo parzialmente contenuti grazie alla crescita dei cittadini stranieri residenti. Le rilevazioni dell’Istat affermano che tale spopolamento è soprattutto causato dall’alta emigrazione di cittadini italiani (+ 1,9 %), in particolare giovani, verso l’estero. In altre parole, l’Italia si presenta da decenni come un Paese che calza troppo stretto per i giovani laureati, ricercatori e scienziati, che attraverso la cosiddetta fuga di cervelli cercano altrove lavoro, benessere, opportunità e welfare trasferendosi in nazioni più riconoscenti. Basti pensare che dal 2008 al 2018 il trend dei laureati in fuga è cresciuto dal 25 al 31 %, pari a più di 400000 giovani in totale. E’ come vedere andare via una speranza, in attesa di abbracciare un futuro migliore che, in Italia, non arriverà.
A soffrire maggiormente questa desertificazione demografica sono le zone interne del Paese, quelle più emarginate e isolate, che tendono a scomparire e diradarsi nel nulla. Si tratta di zone d’Italia popolate per lo più da anziani, paesi fantasma, piccoli comuni, zone montuose, rurali e collinari, a volte dimenticate proprio da chi dovrebbe prendersene cura.
La Sardegna, per le sue caratteristiche, è una di quelle Regioni che più soffre della crescente desertificazione demografica italiana. La Sardegna è un’isola, ma non soltanto in termini geografici: è un’isola oramai isolata anche in termini sociali, produttivi, infrastrutturali e lavorativi. A volte dimenticata dai governi, altre volte ricordata solo per le sue qualità turistiche e paesaggistiche, la Sardegna soffre oggigiorno di uno spopolamento e sradicamento culturale che pare non avere tregua, capace di inficiare seriamente l’economia locale.
Al fine di non rischiare di apparire riduzionisti, per analizzare l’odierna questione sarda è doveroso contestualizzarla sotto differenti profili, quali quello storico, sociale e culturale. Dopo oltre 70 anni di Autonomia speciale, infatti, ci si interroga perché non si sia raggiunta mai un’accettabile e condivisa condizione di benessere economico e sociale, quando a seguito degli anni sessanta ce ne erano tutte le possibilità per farlo, ma anzi si è assistito a un peggioramento delle problematiche di tipo infrastrutturale, che al giorno d’oggi penalizzano fortemente lavoratori, imprese e studenti, nonché semplici cittadini, traducendosi in un’inevitabile e conseguente defezione demografica.
In Sardegna non esiste una sola una forma di spopolamento, in quanto la Regione è soggetta a più fenomeni demografici di rilievo. La prima forma di spopolamento è interna e concerne le zone montuose, quelle collinari e dei piccoli comuni, comportando lo spostamento e la progressiva concentrazione degli abitanti dalle zone rurali alle grandi città.
Si tratta della prima forma di deterritorializzazione sarda, attraverso cui un flusso crescente di agricoltori è sradicato, a volte per necessità, dalla propria comunità rurale di origine, per introdursi all’interno delle periferie urbane.
E’ un processo di esodo interno iniziato già a seguito dell’industrializzazione e del boom economico degli anni sessanta. Se, però, quarant’anni fa c’erano le nuove generazioni a subentrare, e quindi era possibile, almeno in parte, un ricambio generazionale, adesso ciò non avviene più a causa dell’affermazione della seconda forma di spopolamento. Quest’ultima, infatti, porta i giovani a trasferirsi in un’altra regione, o addirittura all’estero, e abbandonare la propria terra a se stessa, in linea con le tendenze nazionali. La fuga e lo spopolamento giovanile appare un movimento inarrestabile, che è andato aumentando con l’avvento della globalizzazione e della digitalizzazione del mercato lavorativo.
Sono 3500 i sardi che ogni anno lasciano l’isola, secondo i dati Demolstat. Dal 1995 ad oggi il dato è ancora più allarmante: gli emigrati sardi all’estero sono stati 40500 in totale, con oltre 27000 giovani trasferitisi definitivamente. Un recente studio di Ricerca Centro Sardegna del 2019 afferma che per i prossimi anni il 30 % dei giovani ha già messo in conto di abbandonare la Regione e andare o in altre Regioni italiane o all’estero. I giovani sembrano, in definitiva, più interessati al proprio futuro che alla crisi demografica della Regione, e tale percentuale è destinata ad aumentare nei prossimi anni. Secondo altri dati IDMS, peraltro, dal 1951 al 2019, la percentuale di comuni sardi in calo demografico è stata di circa il 60 %, di cui una trentina ha meno di 500 abitanti ed è a rischio scomparsa.
Stretta tra queste due forme di deterritorializzazione, la Sardegna è andata incontro nel corso degli anni a uno spopolamento inarrestabile che tuttora continua, con enormi effetti non soltanto per quanto concerne l’habitat demografico sardo, ma anche quello economico e di cura idrogeologica del territorio, sempre più abbandonato a se stesso per mancanza di competenze professionali e specialistiche. Ma per comprendere le ragioni di tali forme di emigrazione dei residenti dalle zone interne alla costa, nonché dell’inarrestabile fuga dei giovani all’estero, è doveroso analizzare, più che il fenomeno in sé, le cause che ne sono alla base.
La Sardegna è una Regione che soffre di importanti carenze infrastrutturali e industriali mai risolte, vittime di politiche talvolta lassiste e poco curanti del bene pubblico. Se nella parte litoranea la situazione appare sostenibile grazie al turismo, così come nelle grandi città, la carenza infrastrutturale si evince soprattutto nelle zone interne, quelle montuose e collinari. In questo caso i collegamenti tra piccoli paesini e comuni mancano spesso di manutenzione e ammodernamento, complicando le principali vie di comunicazione e, di conseguenza, gli spostamenti degli abitanti. A questa assenza infrastrutturale di tipo stradale, vanno aggiunte le problematiche di una rete ferroviaria antiquata, rimasta aggiornata in alcuni casi a oltre 40 anni fa, dove i collegamenti sono svolti ancora su monorotaia, l’alta velocità è un miraggio o i binari mancano del tutto. Al di là dello spopolamento dell’isola, pertanto, è un simile stato di cose che provoca un considerevole isolamento sociale delle varie comunità che hanno deciso di rimanere e che porta le nuove generazioni ad allontanarsi ulteriormente. Ciò che manca in Sardegna, quindi, non è da leggersi soltanto in termini demografici, ma anche e soprattutto sociali.
La deterritorializzazione si presenta paradossalmente come il male minore a fronte di una totale assenza di sinergia sociale che condurrà, inevitabilmente, alla disgregazione del sentirsi comunità e, dunque, dell’orgoglio di essere sardi.
Chi paga le conseguenze di questa situazione, oltre i giovani, sono le aziende, che si ritrovano ogni giorno a lottare contro burocrazia, infrastrutture e mancanza di fondi. La scarsità di strade e collegamenti ferroviari incide parecchio sui costi di esercizio degli autocarri che, unito al deficit infrastrutturale, costa all’intero sistema economico sardo centinaia di milioni di euro ogni anno, a causa soprattutto dell’enorme sistema assicurativo che le stesse aziende sono obbligate a sottoscrivere per prevenire i danni (secondo i dati elaborati nel 2018 da Confartigianato Sardegna, su base Istat). Per avere un’idea delle conseguenze, basti pensare ai servizi di autotrasportatori che viaggiano con il freno a mano tirato a causa di un parco mezzi vetusto, il crollo della domanda interna, i costi di esercizio record, l’abusivismo e la concorrenza sleale dei vettori stranieri.
In un simile quadro di fragilità economica, il problema non è dunque la fuga dei giovani, quanto le cause che la producono. Il fatto negativo è che, differentemente da altre regioni, in cui vi è un movimento continuo tra chi emigra e chi, invece, arriva, in Sardegna non è così. Nell’isola non vuole venire nessuno, perché allo stato attuale essa non rappresenta più un’attrattiva né per i lavoratori con bassi profili professionali, né per i profili più alti e specializzati. Rispetto alla grande emigrazione della seconda metà del XX secolo, la situazione appare persino peggiorata perché non c’è più nemmeno un’idea programmatica di futuro.
E’ una Regione che, in altre parole, non offre più alcuna opportunità ai giovani, alla crescita e allo sviluppo. Per molti la Sardegna, se non fosse per il suo forte impatto turistico litoraneo, è una Regione destinata a scomparire proprio come stanno facendo i suoi piccoli comuni rurali interni.
L’analisi sociologica delle crisi di ieri e di oggi a proposito della desertificazione demografica, determina inevitabili problematiche economiche anche all’interno dei settori che hanno da sempre fatto da traino per il sostentamento locale, come la pastorizia. Oggigiorno la mancanza di manodopera e la concorrenza spietata delle multinazionali stanno mettendo in ginocchio anche questo settore. Nelle campagne e nei piccoli centri rurali, per le varie insufficienze infrastrutturali, si è generata una carenza di sinergia tra i vari enti pubblici. Tale carenza, unita alla deterritorializzazione, ha causato una crescente difficoltà dei pastori sardi che, a poco a poco, si sono trovati di fronte un mercato sempre più competitivo che li ha messi letteralmente in ginocchio, come ha dimostrato la recente protesta del latte versato per le strade.
La protesta dei pastori sardi, nello specifico, è nata da una constatazione di fatto: il costo di produzione del latte di capra e di pecora, nonché dei prodotti caseari, è nettamente superiore rispetto ai ricavi.
Per ogni litro di latte pagato a 60 centesimi dall’industria casearia, non si coprono neanche i costi di allevamento e di alimentazione degli ovini, il ché spinge ogni anno, come denuncia Coldiretti, alla chiusura di buona parte dei 12000 allevamenti della Regione
Il crollo è stato causato dal calo della domanda e da pesanti oscillazioni del mercato caseario, soprattutto a proposito del Pecorino Romano Dop.
La crisi della pastorizia, pertanto, non è altro che la punta dell’iceberg di una situazione sarda che, proprio a causa dello spopolamento, è oramai divenuta insostenibile. La deterritorializzazione, la mancanza di un ricambio generazionale, la concorrenza spietata delle multinazionali e, soprattutto, del mercato globale ha così portato la comunità pastorale sarda a disgregarsi e, con essa, anche a distruggere i prodotti un tempo considerati di alto valore per la sussistenza locale, come il latte di pecora, a causa della logica illogica del mercato sfrenato. Il profitto ha preso il posto della qualità, a discapito della coesione sociale e della speranza per un futuro in cui la gestione della situazione socioeconomica, già vulnerabile, sarà resa ancora più critica dalla crisi demografica. La pastorizia sarda, caratterizzata da metodi contadini tradizionali e una cura del prodotto qualitativa, se viene privata, a causa dei bassi investimenti sociali ed economici, degli strumenti e delle dinamiche che le potrebbero permettere di competere a un livello maggiore, soffrirà sempre di più della competitività di un mercato che sarà inevitabilmente globalizzato.
Gli interventi per risollevare un simile territorio, già molto fragile di per sé, non possono essere né palliativi né esclusivamente economici, bensì devono essere inquadrati nella logica di generare una nuova coesione territoriale, attualmente disgregata dallo sradicamento demografico. Per riacquisire competitività è necessario richiamare le risorse demografiche che hanno abbandonato la terra sarda. Per farlo è opportuno cogliere la multifunzionalità territoriale sia presente che futura, all’interno di un quadro complessivo che miri a ridurre lo spopolamento con la creazione di nuove opportunità, fonti di reddito, opere di riammordernamento infrastrutturale e attrattività per gli investitori sia nazionali che internazionali.
Non si può parlare di risollevamento di una Regione se non si ricrea coesione tra le diverse comunità rurali e urbane esistenti, attraverso nuove opportunità socioculturali e lavorative. Poiché è proprio la mancanza di infrastrutture e opportunità che conduce il popolo sardo, presente e futuro, a emigrare altrove, desertificando la propria terra natia, tra senso di rabbia e ansia per un futuro incerto, di cui al momento non si riesce a trovare soluzione, né a porre rimedio.
Dott. Francesco Oggianu Pirari –sociologo