‘NDRANGHETA, SOCIETA’ CIVILE E GIORNALISMO DI TRASCRIZIONE
La ‘ndrangheta è un fenomeno globale di cui non si può negare l’esistenza. La sua struttura territoriale non si limita alla sola Calabria, ma riguarda l’intero territorio nazionale – dalla Lombardia alla Val d’Aosta, passando per il Lazio e la Liguria –, l’Europa e il Sudamerica. La ‘ndrangheta è una holding con un fatturato annuo di diversi miliardi di euro. Bastano questi pochi dati per dimostrare che il fenomeno è presente nel mondo dell’imprenditoria, della finanza, della politica, dell’amministrazione pubblica, della burocrazia e in altri settori della vita organizzata.
In questa sede ci interessa poco esaminare le cause ( che sono parecchie, così come non sono poche le responsabilità, anche dello Stato, che ne hanno spinto la crescita) e le tappe della metamorfosi dell’organizzazione che, nel giro di mezzo secolo o poco più, è passata dalla pastorizia al contrabbando del tabacco, dai sequestri di persona all’imprenditoria del cemento, dalle estorsioni al traffico di droga, fino all’alta finanza.
I processi di questa trasformazione oggi sono governati da menti raffinate: da figli, parenti, nipoti dei vecchi capi bastone, laureatisi in economia, legge o medicina, che ormai vivono ed operano a Milano e non più in Calabria, dove è radicato il cosiddetto braccio esecutivo. A fronteggiare questo fenomeno troviamo solo lo Stato con i suoi apparati repressivi. La sola forza però non basta a debellare un’organizzazione presente a macchia di leopardo nel tessuto sociale di una terra, la Calabria, sempre al centro dell’assistenzialismo governativo, finalizzato a garantire quel consenso elettorale dal quale ha sempre tratto forza il sistema di corruttele.
Premessa doverosa quanto importante: che ci aiuta a sgombrare il campo da equivoci e critiche.
Contro la ‘ndrangheta e i suoi effetti degenerativi, sono i calabresi che hanno lasciato solo lo Stato. In questa terra dalle mille contraddizioni ( non lo diciamo noi, ma da anni lo ripetono i rappresentanti della giurisdizione penale) manca la società civile, intesa in senso ampio: quella che opera in silenzio, lontano da telecamere e flash dei fotografi. Sul piano dei propositi e delle parole il suo rendimento è davvero lodevole. Ma dopo l’evento di turno, rimane ben poco: probabilmente ci si sente gratificati dalle belle parole, dalle frasi ad effetto che conquistano i titoli d’apertura dei tg delle tivù locali e le prime pagine dei giornali regionali. E l’associazionismo antimafia? Lodevole anch’esso. Però poco incisivo, se consideriamo lo scarso contributo fornito alla causa del cambiamento. Probabilmente si sbaglia strategia. L’antimafia è un fronte comune e non già avamposti isolati rispetto ad un’azione compatta da attuare contro tutti i fenomeni degenerativi che non è solo quello della ‘ndrangheta. Sfilate, dibattiti sotto le stelle, osservatori, sagre, kermesse di vario genere, sensazionali coreografie (spesso organizzate con il patrocinio e il sostegno finanziario delle istituzioni locali) dimostrano di non bastare per far germogliare il seme della legalità. L’impegno antimafia non può essere un fatto estemporaneo, ma il mezzo per contribuire a cambiare il nostro modo di essere cittadini, cancellando tutti quei comportamenti, individuali e collettivi, che assicurano ossigeno alle forze dell’antistato e al sistema dell’illegalità.
Si muore di mafia e si vive di antimafia, scriveva nei giorni scorsi il cronista di un autorevole quotidiano regionale. Forse non è così, ma il dubbio fa parte della natura dell’uomo. In Calabria sono presenti alcune centinaia di associazioni antimafia (una cinquantina solo tra Reggio e la sua provincia) tutte attive: molte delle quali ricevono contributi pubblici e finanche beni confiscati alla criminalità organizzata. Lo ripetiamo: la loro attività è lodevole, ma poco incisiva per somigliare agli omologhi movimenti che in Sicilia hanno avuto un ruolo importante nella guerra tra lo Stato e Cosa Nostra. Forse c’è troppa autoreferenzialità, troppa estemporaneità, troppo apparire.
Adesso, non ci resta che spostarci sul versante dell’informazione e della funzione che dovrebbe svolgere ( e secondo noi non lo fa) nel formare un’opinione pubblica antimafia. Il linguaggio dei giornali e delle televisioni (iniziando da quella pubblica) è diseducativo: troppa enfasi nel riportare fatti in cui gli attori principali sono gli affiliati alla malavita organizzata. Le gesta di delinquenti, indicati come boss, sembrano pagine che rievocano epiche imprese. E’ vero: fa vendere più copie la notizia di un presunto capo ‘ndrangheta che ottiene gli arresti ospedalieri rispetto a cento notizie di fatti positivi, quasi sempre prive di cittadinanza giornalistica o nascoste in pagine interne e liquidate in poche righe. Come non essere d’accordo con l’on Luciano Violante che, nel suo libro “Politica e menzogna”, parla di giornalismo della trascrizione.
Ed allora, non ci resta che affermare, a malincuore, che la parola ‘ndrangheta è il grimaldello che apre le porte alla notorietà, al carrierismo: anticamera del qualunquismo grande alleato delle forze dell’antistato e dell’illegalità diffusa.