‘NDRANGHETA, SOCIETA’ CIVILE E GIORNALISMO DI TRASCRIZIONE

Latella foto per il sito 21 settembre 2014La ‘ndrangheta è un fenomeno globale di cui non si può negare l’esistenza.   La sua struttura territoriale non si limita alla sola   Calabria, ma riguarda l’intero territorio nazionale – dalla Lombardia alla Val d’Aosta, passando per il Lazio e la Liguria –, l’Europa e il Sudamerica. La ‘ndrangheta è una holding con un fatturato annuo di diversi   miliardi di euro.   Bastano questi pochi dati per dimostrare che il   fenomeno   è presente nel mondo dell’imprenditoria, della finanza, della politica, dell’amministrazione pubblica, della burocrazia e in altri settori della vita organizzata.

In questa sede ci interessa poco   esaminare   le cause ( che sono parecchie, così come non   sono poche le responsabilità, anche dello Stato, che ne hanno spinto   la crescita)   e le tappe della metamorfosi dell’organizzazione   che, nel giro di mezzo secolo o poco più, è passata dalla pastorizia al   contrabbando del tabacco, dai sequestri di persona all’imprenditoria del cemento, dalle estorsioni al traffico di droga, fino all’alta finanza.

I processi di questa trasformazione oggi sono governati   da menti raffinate:   da figli, parenti, nipoti dei vecchi capi bastone, laureatisi in   economia, legge o medicina,   che ormai vivono ed operano a Milano   e non più in Calabria, dove è radicato il cosiddetto braccio esecutivo.   A fronteggiare questo fenomeno troviamo   solo   lo Stato con i suoi apparati repressivi. La sola forza però non basta   a debellare un’organizzazione   presente   a macchia di leopardo nel tessuto sociale   di una terra, la Calabria,   sempre al centro dell’assistenzialismo governativo, finalizzato   a garantire   quel consenso elettorale   dal quale ha sempre tratto forza il sistema di corruttele.

Premessa doverosa quanto importante: che ci aiuta   a sgombrare il campo da equivoci e critiche.

Contro la ‘ndrangheta e i suoi effetti degenerativi, sono i calabresi che hanno lasciato solo lo Stato.   In questa terra dalle mille contraddizioni ( non lo diciamo noi, ma da anni lo ripetono i rappresentanti della giurisdizione penale) manca la società civile, intesa in senso ampio: quella che opera in silenzio, lontano da telecamere e flash dei fotografi.   Sul piano dei propositi e delle parole il suo   rendimento è davvero   lodevole.     Ma dopo l’evento   di turno, rimane ben poco:   probabilmente ci   si sente gratificati dalle belle parole, dalle frasi ad effetto   che conquistano     i titoli d’apertura dei tg delle tivù locali e   le prime pagine   dei giornali regionali. E l’associazionismo antimafia? Lodevole anch’esso. Però   poco incisivo, se consideriamo lo scarso contributo fornito alla causa del cambiamento.   Probabilmente si sbaglia strategia.   L’antimafia è un fronte comune e non già avamposti isolati rispetto ad un’azione compatta da attuare   contro tutti   i fenomeni degenerativi   che non è solo quello della ‘ndrangheta.   Sfilate, dibattiti sotto le stelle, osservatori, sagre, kermesse di vario genere, sensazionali coreografie (spesso organizzate con il patrocinio   e   il sostegno   finanziario delle istituzioni locali) dimostrano di non bastare per far germogliare   il   seme della legalità.   L’impegno antimafia non può essere un fatto estemporaneo, ma il mezzo per contribuire a cambiare il nostro modo di essere cittadini, cancellando tutti quei comportamenti, individuali e collettivi, che assicurano ossigeno alle forze dell’antistato e al sistema dell’illegalità.

  Si muore di mafia e si vive di antimafia, scriveva nei giorni scorsi il cronista di un   autorevole quotidiano regionale.   Forse non è così, ma il dubbio fa parte della natura dell’uomo.   In Calabria sono presenti alcune centinaia di associazioni antimafia (una cinquantina   solo tra Reggio e la sua provincia) tutte attive: molte delle quali ricevono contributi pubblici e finanche beni confiscati alla criminalità organizzata.   Lo ripetiamo: la loro attività è lodevole, ma poco incisiva per somigliare agli omologhi movimenti che in Sicilia hanno avuto un ruolo importante nella guerra tra lo Stato e Cosa Nostra. Forse c’è troppa autoreferenzialità, troppa estemporaneità, troppo apparire.

Adesso,   non ci resta che spostarci sul versante dell’informazione e della funzione che dovrebbe svolgere ( e secondo noi non lo fa) nel formare un’opinione pubblica antimafia.   Il linguaggio dei giornali e delle televisioni (iniziando da quella pubblica) è diseducativo: troppa enfasi   nel   riportare fatti in cui gli attori principali sono gli affiliati alla malavita organizzata.   Le gesta di delinquenti, indicati come boss, sembrano pagine che rievocano epiche imprese.   E’ vero: fa vendere più   copie la notizia di un presunto capo ‘ndrangheta   che ottiene gli arresti ospedalieri rispetto a cento notizie di fatti positivi, quasi sempre prive di cittadinanza giornalistica o nascoste in pagine interne e liquidate in poche righe.   Come non essere d’accordo con l’on Luciano Violante che, nel suo libro “Politica e menzogna”,   parla di giornalismo della trascrizione.

Ed allora, non ci resta che affermare,   a malincuore,   che la parola ‘ndrangheta è il grimaldello   che apre le porte alla notorietà, al carrierismo: anticamera del qualunquismo grande alleato delle forze dell’antistato e dell’illegalità diffusa.


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