Domani è domenica e avrei dovuto riposarmi. L’incongruenza cognitiva ai tempi del coronavirus
L’emergenza coronavirus ha sconvolto i nostri ritmi di vita, si è costretti a casa, non si può andare a lavorare, i ragazzi non possono andare a scuola, non si può uscire per mangiare una pizza con gli amici, non si può andare a messa, non si può andare a vedere la partita di calcio. Tutte le nostre abitudini sono state scombinate ed il rischio è quello di perdere i riferimenti temporali consolidati nel tempo.
Secondo il sociologo Domenico De Masi: “un grande e prezioso esperimento sociologico…”. Sicuramente ne avremmo fatto tutti a meno di questo esperimento, ma è indubitabile che dal punto di vista scientifico avrà una valenza importante, sia dal punto di vista sociologico, ma anche e soprattutto dal punto di vista della profilassi. Di questa emergenza sociale si è detto tanto e forse non tutto, io ho voluto affrontarla dal punto di vista della variabile tempo. La tematica del tempo è una delle più trasversali, complesse e ampie del pensiero sociologico, tant’è che si parla di Sociologie del tempo. Il tempo ha un valore notevole nelle scienze sociali ed è fondamentale come quadro di riferimento per la spiegazione e il raffronto degli eventi.
Tutti siamo convinti di organizzare il tempo a nostro piacimento, ma già Emile Durkheim scriveva: “Non è il mio tempo che è organizzato così, ma il tempo qual’è oggettivamente pensato da tutti gli uomini di una stessa civiltà…tutte le cose che vengono classificate nel tempo derivano dalla vita sociale. Le divisioni in giorni, settimane, mesi, anni, corrispondono alla periodicità dei riti, delle feste e delle cerimonie pubbliche. Un calendario esprime il ritmo delle attività collettive, oltre a garantirne la regolarità”. Per il sociologo francese il tempo è pienamente un prodotto sociale e un ordinatore delle attività collettive, il cui mancato rispetto porta anche all’applicazione di sanzioni. Con Durkheim si passa dalla dimensione soggettiva del tempo a quella oggettiva, dalla percezione del tempo sul piano della coscienza al suo potere impersonale sul singolo e sul gruppo. Alla capacità di scandire la vita collettiva.
Il sociologo Norbert Elias, seppur in antitesi con la scuola francese rappresentata da Durkheim, considera la nozione tempo come il frutto di un lungo processo di apprendimento collettivo, evolutosi nei secoli, piuttosto che un’entità autonoma. In quanto simboli collettivi, le concezioni del tempo esprimono quindi il grado di complessità sociale raggiunto. Così nelle società arcaiche vennero utilizzati concetti temporali “a basso livello di sintesi concettuale”: il sonno si ricollega alla notte, la luna ai mesi, il raccolto si identifica con l’anno, il più delle volte è l’orologio fisiologico a funzionare da riferimento temporale per le attività collettive.
Nelle società industriali, invece, il tempo è scansionato più rigidamente in funzione delle diverse esigenze del tempo di lavoro (Simonetta Tabboni). Così è innegabile che molte delle nostre attività quotidiane si susseguano ad intervalli cadenzati, regolari, routinarie ed in qualche modo tranquillizzanti e de-responsabilizzanti sotto il profilo della decisione. Basti pensare alle scadenze fiscali: il fatto di doverle pagare entro una determinata data ci libera dal pensiero di dover riorganizzare la nostra giornata in funzione dell’adempimento di questo obbligo. La regolarità dei ritmi quotidiani dell’occidente è figlio dei ritmi della rivoluzione industriale, sapientemente anticipati dall’organizzazione temporale dei padri benedettini (Zerubavel). Secondo Eviatar Zerubavel ogni nostra azione, dal mangiare all’atto del digiuno, l’avere rapporti sessuali durante il primo appuntamento o dopo il ventesimo, bere alcool a 40 anni anziché a 14, ha un significato completamente differente. In altre parole il tempo “spiega” ogni nostro atto o situazione. Z. ci fa notare come modelli regolari fisio-bio-temporali ci forniscono la capacità di riconoscere l’ora dalla posizione del sole in cielo, o la stagione dalla temperatura o dal colore delle foglie, allo stesso modo anche la vita sociale viene regolata da una “mappa temporale”: così sappiamo che se c’è in giro poca gente sarà un giorno di festa, che un particolare programma televisivo va in onda solo di martedì, che l’incontro al bar con gli amici è solo di domenica mattina e via dicendo. Harold Garfinkel ha dimostrato che la nostra vita quotidiana non sarebbe possibile se non avessimo interiorizzato un certo ordine interpretativo, di cui non siamo consapevoli perché tendiamo a darlo per scontato. A confermare ciò l’elemento sorpresa: Z. ci dice che la sorpresa indica l’esistenza di alcune aspettative precedenti riguardo al profilo temporale di situazioni ed eventi sociali (in Calabria una tempesta di neve ad agosto, per esempio). Aspettative indicative della regolarità temporale della vita sociale. Dato che possiamo contare su di una regolarità temporale, costruiamo aspettative sul nostro ambiente sociale. Così, molto semplicemente, saremmo sorpresi dal trovare chiuso il negozio di alimentari alle 11 di un giorno feriale, se accendessimo la tv alle 20 e non trovassimo il telegiornale.
Un esempio lucido di quella che viene definita “incongruenza cognitiva” è rappresentato nel testo “I disoccupati di Marienthal” di Marie Jahoda, Paul F. Lazarsfeld e Hans Zeisel. In esso vengono rappresentati gli effetti destabilizzanti della disoccupazione sulla struttura e sulla vita sociale di un’intera comunità. I risultati di questo lavoro e di altri simili sulla disoccupazione lambiscono marginalmente il tema di cui tratto. Qui è importante evidenziare il significato che il tempo assunse in quella dimensione. I lavoratori di Marienthal, aggregato industriale nei pressi di Vienna, nel 1930, dopo la chiusura della fabbrica tessile, “senza lavoro e senza contatti con il mondo esterno, persero gli incentivi materiali e morali a servirsi del loro tempo”. Non più sottoposti ai ritmi della fabbrica, diventarono apatici, “scivolando da una vita ordinata ad una sregolata e vuota” – niente era più urgente e nessuno aveva più fretta, la maggior parte non portava più l’orologio e solo un terzo lo aveva in casa. In una comunità di 1500 anime cresciuta intorno alla fabbrica, il cui l’orologio ha scandito i ritmi di vita dei suoi abitanti, gli unici riferimenti temporali rimasti erano quelli di alzarsi al mattino, pranzare ed andare a dormire la sera! Nel tempo intercorrente tra questi intervalli pochi sapevano quello che fosse successo, nessun uomo, tante donne si: “tutto quello che capita, avviene come se non fosse intenzionale”. Tutto risulta banale in considerazione del fatto che il tempo libero era non più limitato, ma infinito. “La consapevolezza (scrivono gli autori) che il tempo libero è limitato spinge un uomo a farne un uso ben ponderato (programmato). Se invece sente che è illimitato ogni sforzo per usarlo in modo ragionevole appare superfluo” – “Quel che si potrebbe fare al mattino può essere fatto il pomeriggio e di colpo la giornata è passata senza che lo si sia fatto per niente!”. Come accennato, le donne invece sapevano benissimo come impiegavano il loro tempo, tra: il cucinare, pulire la casa, rammendare, occuparsi dei figli e del bilancio familiare, in un periodo di crisi il tempo libero addirittura era diminuito, più di quando non erano impegnate con il lavoro. Questo le portò ancor di più a rimpiangere il lavoro perso, malgrado l’ulteriore carico di lavoro e non puramente per ragioni finanziarie. Il lavoro allargava i loro contatti sociali e le rendeva più indipendenti, ma nelle interviste non c’è traccia della perdita del senso del tempo come avvenuto per gli uomini. Ovviamente mutarono anche i ritmi del villaggio nel complesso: le domeniche e le vacanze non venivano più identificate e apprezzate nella misura in cui ci si poteva riposare dalla fatica, erano giorni normali di noia tra i tanti. “Gli abitanti di Marienthal erano tornati a vivere il tempo in modo primitivo, meno diversificato, meno astratto. Una vita più povera di attività aveva fatto sviluppare una divisione del tempo altrettanto povera”. Con la disoccupazione il senso del tempo delle persone coinvolte è stato completamente distrutto, perdendo il suo valore di elemento ordinatore delle attività collettive, per dirla alla Durkheim.
E se Durkheim divide il tempo tra sacro e profano, Zerubavel individua il tempo come principio di differenziazione e perciò tra i fondamenti del vivere sociale. Basti pensare ai “turni”, secondo Z. la simultaneità dei tempi deve essere decisamente evitata e convertita in una regolazione dell’accesso non simultaneo, essenziale alla organizzazione sociale e alla prevenzione del caos. Dalla organizzazione in turni deriva la istituzione della “coda”, che ci permette di ottenere l’accesso, in modo ordinato, a merci e servizi. Dentro i ritmi imposti dal lavoro industriale si inserisce poi il tempo libero, spesso e mal volentieri costretto tra le esigenze del primo. in tal senso Chesnaux scriveva. “il tempo personale ha perso il senso del disponibile e dell’imprevisto”. Il tempo favorisce dunque anche la separazione tra sfera del pubblico e sfera del privato e per mantenere un minimo di privacy bisogna programmare! Lalive d’Epinay addirittura ritiene che si corre il rischio di rinchiudere la vita quotidiana nel recinto concettuale, angusto, della routine ed in ogni caso parte della esperienza temporale contemporanea è filiazione diretta dello strapotere di una programmazione anticipata del quotidiano (Zoll) che va ad inficiare la qualità della vita. La programmazione comporta degli accordi giurisdizionali su come e che cosa l’individuo deve essere e dove (Goffman).
Z., per salvaguardare la privacy, introduce il concetto di “territorialità”, una “riserva” dove poter essere inaccessibili. Di conseguenza, ogni violazione di questa esigenza, come telefonare alla gente di notte, è considerata un’inaccettabile violazione dello spazio personale, come lo stare o il sedere troppo vicino (nel periodo del coronavirus soprattutto!). In effetti poi ci sono anche categorie di persone: detenuti, soldati, pazienti in ospedale, medici, che sono sempre socialmente accessibili.
Il tempo privato viene definito da Z. “sociofugo” nel senso che è deliberatamente designato per scoraggiare il contatto umano (la notte è sociofuga), mentre il tempo pubblico è “sociopeto” (il giorno è sociopeto), ossia configurato per raccogliere gente insieme. È anche vero che la nozione di accessibilità è relativa, in quanto una persona può essere accessibile o meno ad un altro a seconda delle situazioni. Così durante le ore di ufficio, pubbliche, si è inaccessibili agli amici, mentre nelle serate a casa con gli amici, private, si è inaccessibili al datore di lavoro, mentre soltanto gli amici intimi possono accedere a me durante le vacanze, feste, lutti, etc. Altresì essere socialmente accessibili di persona è diverso che esserlo per telefono (fornire il numero di telefono ad altri è indice di accessibilità) e men che meno attraverso i social. Si noti comunque, scrive Z., che la privacy, può essere violata non solo dallo squillo del telefono, ma anche dalla semplice coscienza che il proprio telefono possa squillare da un momento all’altro. Se consideriamo il “preavviso” (Hall), invitare qualcuno con grande anticipo è un gesto di educazione e di rispetto, oltre che funzionale ad assicurarsene la presenza, così come, di converso, un breve preavviso o la frase: “ne ho bisogno subito”, sono la dimostrazione di esercizio di potere sociale o, in altri casi, una dimostrazione di intimità. Anche non rispettare gli orari: arrivare in ritardo o farsi attendere oltre un tempo lecito, l’andarsene troppo presto o lo stare troppo a lungo è dimostrazione di potere sociale.
In sostanza viviamo nel continuo contrasto tra la voglia di vivere al di fuori degli schemi, di ritrovare la spontaneità e l’istintività nel nostro agire e l’esigenza di essere rassicurati dalla normalità della routine. Molte delle nostre attività quotidiane sono programmate in modo rigido. Solitamente noi non mangiamo necessariamente quando siamo affamati ma, piuttosto, durante tempi già preordinatamente assegnati: l’ora di colazione, pranzo e cena sono predeterminate (anche variabili a seconda del territorio e delle esigenze lavorative) piuttosto che sviluppate dalla necessità fisiologica di nutrirsi; andiamo a letto quando è tardi e non quando si è stanchi e non puliamo la casa quando è sporca, ma durante ben specifici giorni della settimana. In altre parole la periodicità organica, dettata dalla natura, è stata sostituita dalla periodicità meccanica, dettata dall’orologio. Georg Simmel a tal proposito intravede tra le determinanti dello stile di vita, la dimensione, aggiungo io rassicurante, della ritmicità, considerata come uno schema generale dell’esistenza. “Grazie all’alternanza del moto di ascesa e di declino”, vengono soddisfatte, secondo Simmel, le esigenze di “varietà e di uniformità, di cambiamento e stabilità”. La regolarità dei ritmi, nonostante la diversità dei singoli elementi che compongono la serie, scrive il sociologo tedesco: “porta serenità, uniformità, unitarietà nel carattere”. E a pensarci bene non tutti hanno la libertà di scegliere i propri ritmi. Sempre secondo Simmel, l’indipendenza dai ritmi è un privilegio dell’élite: “è unicamente ai vertici delle attività culturali, scientifiche, politiche, artistiche e commerciali che si produce una rapida caduta della regolarità dei ritmi”.
Nella nostra società, industriale e post industriale, in un quadro così esposto di regolarità dei ritmi quotidiani, l’imprevisto rappresenta una minaccia da rimuovere. L’esistenza umana trova nel lavoro la sua prima finalità, il tempo non lavorativo deve risultare, per così dire “immobile” (Barbara Sichtermann). In questa accezione razionalizzata il tempo quotidiano diventa organico ad una biografia rigorosamente concepita come “carriera” – una sequenza ordinata di gradini in un progetto di vita orientato alla mobilità ascendente, in cui ogni passo, stabilito sulla base di un progetto, è preventivamente analizzato nei suoi possibili esiti (Berger). In tal senso, costretti come siamo, nella modernità, a sottometterci all’obbligo continuo della scelta tra opzioni diverse, possiamo paradossalmente sentirci padroni del nostro tempo dando spazio al non pre-scelto, al non pre-ordinato (Melucci). Allora, secondo Lalive d’Epinay, la sottolineatura degli aspetti di spontaneità ed immediatezza nelle pratiche quotidiane sarebbe figlia di una sostituzione: dalla ricerca di realizzazione nel tempo di lavoro si sarebbe passati a quella di auto-realizzazione nel tempo di vita. Il bisogno di self-fulfillment avrebbe preso il posto della tradizionale etica dell’auto negazione, creando nuovi stili di vita, improntati alla sperimentazione esistenziale (Yankelovich). Possiamo dunque ipotizzare l’esistenza di un nesso tra il diffondersi (non solo tra le élites) di un atteggiamento di apertura nei confronti della discontinuità temporale e l’interesse verso l’aspetto emozionale dell’esistenza (Carmen Leccardi), traducibile nel godimento della “gioia dell’imprevisto”.
In questi giorni di pandemia, l’imprevisto, la sorpresa coronavirus, sconvolge la nostra “mappa temporale” e ci fa capire quanto importante sia, nella nostra vita, la regolarità della vita sociale. La routine è sconvolta, le vecchie abitudini abbandonate, l’incongruenza cognitiva si fa spazio perché il lunedì è uguale alla domenica, i social sono monotematici, il tempo libero infinito e i riferimenti temporali sono solo fisiologici come quelli dei disoccupati di Marienthal. Allora acquisiamo nuovi comportamenti che possano dare una nuova regolarità ai nostri ritmi quotidiani e fissiamo l’appuntamento del flash mob delle 18.
L’appuntamento diventa importante perché ci comunica che ci siamo, ci tranquillizza il fatto che altre persone suoneranno l’inno di Mameli perché sono vive. Instauriamo nuove forme di relazione: si chiacchiera, si canta e si balla da balconi e finestre. Stabiliamo nuovi stili di vita e ci creiamo nuove aspettative. Sviluppare nuove routine, nuovi ritmi ci dà la possibilità di superare, dal punto di vista sociale, l’imprevisto, sia esso rappresentato da un virus o da un terremoto. Eventi che hanno la capacità di rovesciare i nostri intervalli tranquillizzanti, la nostra stabilità emotiva. Ma per superare questi imprevisti bisogna dimostrare però di aver avviato un processo di maturazione collettiva forte, basato su un’azione individuale seria, responsabile e consapevole. Divenendo consapevoli delle nostre azioni e processi interni, maggiormente possiamo sviluppare un sano distacco emotivo dalle paure, renderle parte della nostra quotidianità evitando che ci destabilizzino.
dott. Davide Franceschiello -sociologo
Presidente Sociologi ASI Calabria