Educare alla morte: compito di ogni famiglia

 

 

SIMONETTA VERNOCCHI 13 aprile 2019

Colgo l’occasione del Natale, festa della vita e della luce, per parlare di morte: non c’è nulla di così certo quando si nasce del fatto che prima o poi moriremo.Parlare di morte però è impopolare, o meglio, parlare della propria morte lo è, e della morte per malattia, quando capita i presenti fanno gli scongiuri, salvo poi divorare ogni genere di documento, film, notizia che spettacolarizzi la morte o l’uccisione.

Ho letto in questi giorni la lettera che l’arcivescovo di Milano Mario Delpini ha scritto e dedicato a tutti i medici: «Stimato e caro dottore,….».

DELPINIQuesto documento che l’arcivescovo intendeva inviare a tutti i medici della diocesi ambrosiana in occasione della memoria liturgica di San Luca, santo patrono dei medici, oltre a ribadire l’importanza del servizio che gli stessi sono tenuti a svolgere, li esorta a dedicarsi a sé stessi, per evitare di venire sopraffatti dalla fatica e dal carico emotivo che questo compito comporta.

Mi sono detta: un punto di vista un po’ differente dalla solita retorica della vocazione medica. Entrando nel dettaglio Delpini sottolinea come «le attese di pazienti e dei loro familiari che talora diventano pretese irrealistiche contribuiscono a generare un senso di fallimento….l’organizzazione del servizio sanitario che esaspera procedure e protocolli», «la preoccupazione a far quadrare i conti» o a «garantire ai proprietari delle case di cura il profitto sperato».. Bene sicuramente l’arcivescovo ha ragione, ormai diamo per scontato che ad occuparsi della morte debbano essere i sanitari come se la morte fosse un problema di fallimento della scienza medica.

Siamo in 7 miliardi sul pianeta e senza essere veggenti, potremmo dire che entro 100 anni avremo 7 miliardi di morti e forse anche qualcuno in più: tutti frutto del potenziale fallimento delle cure mediche? Se deve essere un compito esclusivamente medico, quello di educare alla morte, allora servono più risorse, così non ce la possiamo fare.

MedicoMEDICIAlcuni dati: i medici sono sempre meno, in special modo quelli che si occupano di malati gravi e dell’urgenza, dei cronici e della routine, sempre più suicidi tra i medici, per la tensione delle denunce e per malpractice presunta. Molte le morti premature di medici che si sono curati male.

L’arcivescovo ha ragione: i medici dovranno trovare la propria motivazione vocazionale, dovranno dedicarsi agli aspetti comunicativi della professione, coltivando la capacità di relazione. Il problema non sono i medici. Il problema è ben più radicato. Ognuno di noi teme la morte, esorcizza il momento della propria fine nei modi più differenti.

Quanti hanno educato i propri figli a questo aspetto della vita doloroso ma inevitabile? Chi ha messo in conto questo aspetto nella pianificazione del proprio futuro?

L’educazione alla morte deve far parte della educazione e non demanderei alla scuola o ad altri un compito proprio della famiglia. Sì, i medici potranno imparare, comunicare, formarsi….ma il compito di accompagnare la persona giunta al termine del proprio cammino non può essere solo un compito medico. Aiutare nel bilancio di vita chi disperato si trova impreparato ad andarsene spetta davvero ai sanitari?  E sostenere nel lutto la famiglia?

Personalmente lo vedo come un compito dei genitori quando educano i propri figli, della famiglia in toto di fronte ad un anziano o un malato, della Chiesa o per chi vede una vita oltre la morte, forse in parte anche della scuola. La sociologia, la psicologia e la filosofia devono avere come obiettivo anche quello di educare alla morte.

Le persone dovrebbero imparare nel corso della vita ad accogliere la fine come parte del proprio percorso terreno.

Questo è il mio augurio per il 2020.

dott/ssa Simonetta Vernocchi – medico e antropologa

 

 


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