I MINORI, IL GIORNALISMO E LA CARTA DI TREVISO

Cyberbullismo LatellaAveva deciso di “investire” sul figlio di otto anni per consolidare e, ovviamente, massimizzare i futuri vantaggi materiali dell’attività criminale. Una circostanza che inorgogliva l’uomo il quale non avrebbe perso l’occasione per confidare agli amici le spiccate attitudini di apprendista del ragazzino. Il fatto è riportato dalle cronache di un’operazione di polizia giudiziaria che ha smantellato in Calabria un’organizzazione di narcotrafficanti, forse, controllata dal Grande fratello ‘ndranghetista. La realtà geografica in cui è ambientata la vicenda soffre del male atavico della fragilità del tessuto socio-culturale, di arretratezza economica e rappresenta il crocevia di etnie e culture diverse di cui sono portatori gli immigrati che operano, in regime di sfruttamento, nel settore agricolo. Un siffatto episodio non è nuovo nel contesto della geografica mafiosa di questa parte del Mezzogiorno.Fin qui rimaniamo nell’ambito di una delle tante storie in cui il protagonismo della ‘ndrangheta ruba il futuro alle giovani generazioni, figli di una società le cui basi morali sono talmente arretrate da farci riscoprire Edward C. Banfield e la sua teoria del familismo amorale.   Quello che sorprende e, al tempo stesso, indigna è il confezionamento e la pubblicazione della vicenda da parte dai tradizionali organi d’informazione e dai new media. Corredare un pezzo con notizie che portano all’identificazione di un minore non solo è un reato penale, ma anche un pessimo esempio di giornalismo che diventa la negazione della nostra civiltà giuridica.

Non ci sono giustificazioni che reggono: nella vicenda ravvisiamo sia la violazione di norme penali, che deontologiche.  Ed allora, l’antico auspicio di Bertold Brecht “Ci sarà pure un giudice a Berlino” diventa quanto mai attuale. Il giornalismo è in crisi, probabilmente, senza futuro. Per questo, forse, ci si affida al sensazionalismo, alle marchette, alle notizie all’orecchio, alla trascrizione degli atti giudiziari, ai mattinali pur di catturare l’attenzione di lettori e telespettatori (sempre meno numerosi) e non importa se vengono violate norme penali o deontologiche.  Certo ai giornalisti la notizia viene fornita dalle fonti: con atti o nel corso di una delle tante conferenze stampa che seguono operazioni di polizia giudiziaria legate a piccole o grandi attività dell’antistato. E in una terra dove lo spaccio di droga è all’ordine del giorno, il coinvolgimento di un minore conferisce rilevanza sociale alla notizia che diventa il grimaldello che apre le porte di tutte le redazioni. Il resto fa parte delle narrazioni – il ladro di polli elevato al rango di picciotto, il delinquente di periferia diventa boss e capo locale – farcite con dichiarazioni di politici, giudizi di rappresentanti delle istituzioni, di tuttologi, di folclore antimafia e di una società civile che condanna e assolve.

Ne viene fuori una babele di voci che porta ossigeno alla società dell’odio di cui noi tutti siamo attori e spettatori. Odio alimentato da linguaggi sempre più ermetici, rissosi, scurrili e sempre meno rispettosi degli altri. I media, protesi dei nostri sensi, inaridiscono i nostri sentimenti e i nostri valori che lasciano il posto alla malapianta del razzismo, della xenofobia annullando quanto ci circonda per far prevalere forme esasperate di individualismo. I linguaggi della politica, in passato vera propria arte oratoria, oggi sono caratterizzati dalla demonizzazione dell’avversario, dagli attacchi personali, dalla ricerca di pieni poteri per far soccombere il nemico. Una fuga dalla civiltà. Il copione del giornalismo lascia spazio alla rissosità, ai processi mediatici, al gossip, dalla sindrome dell’avvoltoio presente in tutte quelle realtà dove si registrano fatti di cronaca per propinarli ad un pubblico sempre più bulimico delle altrui sofferenze. Sul bambino si è scatenata la solita bagarre oratoria di quanti traggono visibilità dalle gesta delle forze dell’antistato. La ‘ndrangheta non è una narrazione, ma il grande male della Calabria che, dopo anni di sottovalutazione, ha contagiato altre realtà geografiche del Paese conquistando sempre maggiori spazi nel campo dell’economia e dalla finanza. Nell’ultima regione dell’Europa è rimasta la manovalanza, mentre la mente opera indisturbata a migliaia di chilometri di distanza.L’incertezza del futuro pesa come un macigno sulla coscienza di quanti non hanno osservato le regole di riservatezza e di tutela di un minore il cui papà pare ne avesse programmato il futuro. Ancora una volta lo Stato incassa una sconfitta e la disfatta riguarda anche la scuola e i servizi sociali, statali e comunali, le cui funzioni sono diventate talmente burocratizzate da far venir meno la capacità di intercettare anche le più semplici ed evidenti situazioni di disagio.

ANTONIO LATELLA – SOCIOLOGO ( PRESIDENTE ASSOCIAZIONE SOCIOLOGI ITALIANI)


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