UNA FOTO CHE MINA LA FIDUCIA NEI CONFRONTI DELL’ARMA DEI CARABINIERI
L’uccisione del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega è un dolore che colpisce l’intero Paese. Anche quanti, in questo momento di commozione nazionale, ingrossano le legioni di imbecilli che usano i social come medium di vigliaccheria. Uccidere un servitore dello Stato, da sempre, rappresenta una ferita difficile da rimarginare: sia nell’ambito familiare ed amicale della vittima, sia all’interno di una società che respinge qualsiasi tipo di violenza. Per questo restiamo inamovibili sul fronte della giustizia ripudiando altre forme non previste nell’ordinamento che regola la vita della nostra democrazia. Siamo turbati per la bestiale esecuzione di un giovane al quale, in una notte d’estate, una mano assassina ha cancellato i sogni dei suoi trent’anni e della giovane con la quale si era unito in matrimonio appena 40 giorni prima. Lacrime sincere per la morte di Mario. Richiesta di condanna esemplare non solo per l’esecutore materiale del delitto, ma anche per tutti gli altri attori di una vicenda che sembra abbia ancora molte cose da chiarire. Ma anche preoccupazione per la foto che ritrae Cristian Gabriel Natale Hjorth, 18 anni, uno dei due fermati per il delitto, scattata nella caserma dei carabinieri dove era stato programmato l’interrogatorio. L’immagine ci riporta a realtà geografiche dove la civiltà giuridica è lontana anni luce dalla nostra. Scene da Guantanamo o di uno dei tanti paesi dove il reo, prima di un processo e della condanna, rischia la tortura. Quella benda davanti agli occhi, la testa china e le manette che incrociano i polsi dietro la schiena sono immagini sbiadite della storia patria e che ci riportano ai tempi in cui la giustizia veniva sostituita dalla vendetta.
Nei nostri quarant’anni di giornalismo siamo stati testimoni di efferati delitti di ‘ndrangheta e dell’uccisione di tanti servitori dello Stato. E mai, durante la nostra lunga ed assidua frequentazione delle caserme di carabinieri, polizia, guardia di finanza e Dia, abbiamo avuto modo di segnare sul nostro taccuino episodi di tale gravità. Eppure sospettati come mandanti ed esecutori di centinaia di fatti di sangue, secondo le cronache giudiziarie, venivano indicati boss, picciotti e/o sanguinosi killer. Abbiamo sempre rispettato, a volte fatto anche il tifo, per l’Arma Benemerita, ma dopo il caso Cucchi, ed ora di fronte alla foto pubblicata dai più importanti quotidiani del Paese, non possiamo non esprimere sincera preoccupazione per quell’immagine che sta facendo il giro del mondo. E’nostra convinzione che l’episodio sia estraneo al modus operandi di un corpo di polizia nei confronti del quale il Paese ha un immenso debito di riconoscenza. Un comportamento irresponsabile, ne siamo certi, di singoli carabinieri. Non si esclude riconducibile al linguaggio di odio e anarchia che sta interessando il Paese i cui protagonisti, in prevalenza, sono i rappresentanti del mondo della politica. Il consiglio è quello di abbassare i toni dello scontro: costi qualche migliaio di voti in meno e la conseguente perdita di poltrone. Da quello che continuiamo ad ascoltare dai mezzi dell’informazione il lupo perse solo il pelo…
Dopo quest’ episodio l’Arma ha l’obbligo di fare chiarezza per riguadagnarsi la fiducia del Paese. Se ci sono mele marce, vanno subito isolate dal resto di un corpo di polizia che si è sempre segnalato per correttezza e lealtà nei confronti della Repubblica e delle sue Istituzioni democratiche. Espulsione subito, in attesa dell’accertamento delle responsabilità. Attenzione però a non fare di ogni erba un fascio. In questo momento, pensiamo all’autore dello scatto e alla divulgazione della foto. Perché l’ha fatto? Per incoscienza, interesse o perché non ha condiviso quel metodo? Per questo l’opinione pubblica pretende di conoscere l’esatta dinamica di una vicenda per la quale il Paese piange un figlio del Sud.
Antonio Latella, giornalista e sociologo